ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Nel 249, dopo soli cinque anni e mezzo di principato, a un esponente del Pretorio e dell’esercito, Marco Giulio Filippo Arabo (c. 204-249), succedette un membro dell’ordine senatorio, Gaio Messio Quinto Decio (c. 201-251). Costui, come i suoi predecessori, perseguì una politica profondamente legata all’ideale della Romanitas (cfr. AE 1973, 235, restitutor sacrorum). Uno dei suoi primi atti fu infatti quell’editto passato alla storia come una delle più feroci persecuzioni contro i cristiani.
Eppure, a ben vedere e seguendo in parte le testimonianze coeve, l’obiettivo era quello di instaurare un buon governo, ripristinare la pax deorum e riportare l’ordine nell’Impero, soprattutto nelle province danubiane. Per far ciò, Decio volle verificare la fedeltà e la lealtà dei cittadini verso quei valori che avevano reso grande Roma. In base al provvedimento, il principe pretese che chiunque sacrificasse agli dèi e al Genius Augusti (compisse cioè una supplicatio) davanti a una commissione istruita ad hoc: performato il rito, secondo le prescrizioni religiose, i controllori avrebbero rilasciato una certificazione comprovante il profondo legame tra il cittadino e le istituzioni.
L’editto, insomma, non fu propriamente un atto contro la Chiesa di Roma, bensì contro tutti coloro che non intendevano più seguire gli ordinamenti tradizionali. Diversi dati archeologici confermano questa tesi, come il fatto che in nessuno dei certificati (libelli) pervenuti si menzioni espressamente la religione cristiana, anche perché l’atto di idolatria era richiesto a tutti. Persino le fonti patristiche, specialmente Eusebio e Lattanzio (Euseb. HE VI 41, 9-10; Lactant. De mort. pers. 4, 2), testimoniano che, nella maggior parte dei casi, la pena prevedeva il carcere temporaneo, mentre in altri si veniva addirittura assolti. È probabile che il positivo riscontro di massa verso i culti tradizionali – ancora molto forte all’epoca – fosse sufficiente a Decio per ottenere la risposta che desiderava.
P.Oxy. 4 658. Certificazione di avvenuto sacrificio in onore degli dèi (libellus Decianus), in data 14 giugno 250, da Ossirinco (od. Bahnasa, Egitto). New Haven, Beinecke Library.
Ciononostante, è pur vero che, sotto il suo brevissimo principato, andarono incontro al martirio figure come Apollonia, Agata e Fabiano, vescovo di Roma. Si è ipotizzato che eliminazione di quest’ultimo, in particolare, si inserisse in problematiche di natura patrimoniale, dal momento che si volle anche intervenire sulle sempre più crescenti e cospicue proprietà ecclesiastiche. D’altronde, Cipriano di Cartagine (Ep. LV 9, 1) riferisce che Decio (tyrannus infestus) sperava che il vescovo romano non avesse successori, ammettendo di preferire lottare contro un qualunque rivale nell’Impero piuttosto che con quel prelato.
Quanto alla Chiesa romana, l’editto deciano provocò un vero e proprio scisma interno: molti furono bollati come lapsi, cioè coloro che, temendo ritorsioni e rappresaglie, avevano fatto atto di adorazione verso gli antichi dèi, e altrettanti furono citati come libellatici, ovvero coloro che, tramite carte false, erano riusciti a certificare l’avvenuto sacrificio alle divinità. Una volta conclusa la “persecuzione”, la notizia di questi comportamenti determinò il problema se fosse o meno lecito riammettere nella comunità cristiana gli autori di quei gesti. Nel 251 il presbitero Novaziano si autoproclamò vescovo di Roma e si oppose fortemente alle posizioni moderate di Cipriano e Cornelio; quando anche quest’ultimo fu eletto vescovo nello stesso anno, fu necessario convocare un Concilio per dirimere la questione, che volse a favore dei moderati.
C. Messio Quinto Traiano Decio. Antoninianus, Roma c. 249-251. AR 3,87 g. Dritto: Imp(erator) C(aesar) M(essius) Q(uintus) Traianus Decius Aug(ustus). Busto radiato, corazzato e voltato a destra.
Appena asceso alla porpora, Decio assunse il cognomen di Traianus, elevò alla dignità di Caesares i figli Erennio Etrusco e Ostiliano, associandoseli al trono, e assegnò alla moglie Erennia Cupressenia Etruscilla il titolo di Augusta. Stando alle fonti, la permanenza dell’imperatore a Roma fu brevissima: è noto che ebbe modo di intervenire sulla manutenzione della viabilità e dotò l’Urbe di nuove opere architettoniche, in particolare un impianto termale (thermae Decianae) che sorse sull’Aventino (Eutrop. IX 4; Zon. XII 20).
Ai confini dell’Impero, nell’area balcanica, si stagliava di nuovo la minaccia di un attacco degli Sciti. Purtroppo, il termine Scita, impiegato genericamente dalle fonti latine, non consente di conoscere il vero nome della stirpe in questione, benché ci sia il sospetto che si trattasse dei Goti, o meglio di una federazione di popoli in armi tra i quali gli stessi Goti, i Borani, i temuti Carpi e gli Urugundi. Chiunque essi fossero, gli Sciti si erano da poco riorganizzati sotto la guida di un comandante abile e deciso, Cniva, e agli inizi del 250 avevano irrotto nel territorio romano attraverso la frontiera.
Incursione dei Goti guidati da Kniva in Thracia (c. 249-251) [creazione di Cristiano64].
Sotto il suo secondo consolato, nella seconda parte dello stesso anno, Decio alla testa dell’esercito giunse in Illyricum: in quei mesi si susseguirono diversi fatti militari, atti di sabotaggio, tradimenti e altri tentativi ostili nei confronti dell’imperatore proprio da parte dei suoi stessi collaboratori, tra i quali anche Treboniano Gallo. Dopo aver sbaragliato le armate di Kniva a Nicopolis, in Moesia inferior (CIL II 4949, Dacicus maximus; AE 1942/3, 55, Germanicus maximus), Decio subì un rovescio nei pressi di Beroea, in Thracia, ma riuscì a salvarsi e a riorganizzare le proprie forze. In quel frangente, il governatore della provincia, Tito Giulio Prisco, tradì il principe e, accordatosi segretamente con il nemico, tentò di farsi imperatore (Dexipp. FGrHist. 100 F 26; Iord. Get. 18, 103; AE 1932, 28), mentre Giulio Valente Liciniano assunse il potere a Roma ([Aur. Vict.] Caes. 29, 3; Epit. Caes. 29, 5): entrambi gli usurpatori furono affrontati ed eliminati. Nella primavera del 251, Decio e suo figlio Erennio (anch’egli Augustus), che in quell’anno condividevano il consolato, accorsero in difesa di Philippopolis, che era stata attaccata dai barbari; l’imperatore, tuttavia, non riuscendo a impedire la distruzione della città, tentò di bloccare la ritirata dei Goti oltre il Danubio. L’astuto Kniva seppe però tendere una trappola all’esercito romano così da affrontarlo su un terreno a lui più favorevole: Giordane narra che «appena iniziato lo scontro, uccisero di una morte crudele il figlio di Decio, trafitto da una freccia. Il padre, visto l’accaduto, per rianimare i suoi soldati, avrebbe detto: “Nessuno si affligga. La perdita di un solo soldato non indebolisce lo Stato!”. Tuttavia, non sostenendo il suo dolore paterno, si gettò tra i nemici, cercando la morte o la vendetta del figlio» (Iord. Get. 18, 103, Venientesque ad conflictum ilico Decii filium sagitta saucium crudeli funere confodiunt. Quod pater animadvertens licet ad confortandos animos militum fertur dixisse: “Nemo tristetur: perditio unius militis non est rei publicae deminutio”, tamen, paterno affectu non ferens, hostes invadit, aut mortem aut ultionem fili exposcens…). Dopo aver eliminato l’erede all’Impero, in estate i Goti riuscirono ad aver ragione anche del principe, attirandolo negli acquitrini nei pressi di Abrittus. Zosimo (I 23, 2-3) riporta le ultime, concitate, fasi della battaglia in cui – a quanto pare – giocò un ruolo decisivo il tradimento di Treboniano Gallo, dux Moesiae: «Insediato Gallo sulle rive del Tanai, egli stesso marciò contro i superstiti; e, siccome le cose procedevano secondo i suoi piani, Gallo, deciso a ribellarsi, inviò messaggeri presso i barbari, invitandoli a partecipare al complotto contro Decio. Accolta con molto piacere la proposta, mentre Gallo era di guardia, i barbari si divisero in tre schiere e disposero il primo contingente di forze in un luogo dinanzi al quale si estendeva una palude. Dopo che Decio ebbe ucciso molti di loro, subentrò la seconda schiera e, quando anche questa fu volta in rotta, comparvero presso gli acquitrini alcuni armati del terzo contingente. Gallo allora fece segno a Decio di attraversare la palude e di lanciarsi contro di loro, e l’imperatore, che non conosceva quei luoghi, si spinse all’attacco sconsideratamente: bloccato dal fango con tutto l’esercito e bersagliato da ogni parte dalle frecce dei barbari, fu ucciso insieme ai suoi, non avendo via di scampo. Questa fu la fine di Decio, dopo aver governato in modo eccellente» (Γάλλον δὴ ἐπιστήσας τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ μετὰ δυνάμεως ἀρκούσης αὐτὸς τοῖς λειπομένοις ἐπῄει. χωρούντων δὲ τῶν πραγμάτων αὐτῷ κατὰ νοῦν, εἰς τὸ νεωτερίζειν ὁ Γάλλος τραπεὶς ἐπικηρυκεύεται πρὸς τοὺς βαρβάρους, κοινωνῆσαι τῆς ἐπιβουλῆς τῆς κατὰ Δεκίου παρακαλῶν. ἀσμενέστατα δὲ τὸ προταθὲν δεξαμένων, ὁ Γάλλος μὲν τῆς ἐπὶ τῇ τοῦ Τανάϊδος ὄχθῃ φυλακῆς εἴχετο, οἱ δὲ βάρβαροι διελόντες αὑτοὺς τριχῇ διέταξαν ἔν τινι τόπῳ τὴν πρώτην μοῖραν, οὗ προβέβλητο τέλμα. τοῦ Δεκίου δὲ τοὺς πολλοὺς αὐτῶν διαφθείραντος, τὸ δεύτερον ἐπεγένετο τάγμα· τραπέντος δὲ καὶ τούτου, ἐκ τοῦ τρίτου τάγματος ὀλίγοι πλησίον τοῦ τέλματος ἐπεφάνησαν. τοῦ δὲ Γάλλου διὰ τοῦ τέλματος ἐπ̓ αὐτοὺς ὁρμῆσαι τῷ Δεκίῳ σημήναντος, ἀγνοίᾳ τῶν τόπων ἀπερισκέπτως ἐπελθών, ἐμπαγείς τε ἅμα τῇ σὺν αὐτῷ δυνάμει τῷ πηλῷ καὶ πανταχόθεν ὑπὸ τῶν βαρβάρων ἀκοντιζόμενος μετὰ τῶν συνόντων αὐτῷ διεφθάρη, διαφυγεῖν οὐδενὸς δυνηθέντος· Δεκίῳ μὲν οὖν ἄριστα βεβασιλευκότι τέλος τοιόνδε συνέβη). Decio fu il primo imperatore a cadere in battaglia contro le popolazioni esterne. Fu allora che Cipriano scrisse che era ormai imminente la fine del mondo (Ad Demetr. 3).
Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, c. 251-252, dal sarcofago detto «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.
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Alla metà del III secolo i rapporti fra l’Impero romano e il Cristianesimo subirono un improvviso peggioramento a causa dell’opera dell’imperatore Decio, sotto il quale si ebbe la prima persecuzione generale e sistematica. Appena giunto al trono alla fine del 249, d’accordo col Senato, e forse con la collaborazione di P. Licinio Valeriano, il futuro imperatore, Decio emanò un editto, nel quale si chiedeva una dimostrazione di lealismo a tutti i singoli membri del corpo cittadino romano, enormemente dilatato dalla costituzione antoniniana de civitate (212). Questa dimostrazione di lealismo doveva consistere in una prova di rispetto del culto tradizionale e del culto imperiale, che ciascuno doveva fornire prestando un atto rituale (incenso, libagione, gustazione della sacra vivanda dei sacrifici) davanti ad una commissione locale appositamente costituita a questo scopo in tutte le parti dell’Impero. Chi prestava l’atto di ossequio era munito di un libellus attestante il compimento dell’atto, e risultava così in regola con l’editto imperiale.
Il giudizio sul gesto di Decio è ora più realistico e benevolo che nei tempi passati, volendosi vedere in esso un tentativo di ricostituzione dell’unità spirituale dell’Impero, quale base dell’unità materiale e garanzia dell’efficacia nella difesa contro i nemici esterni. L’iniziativa era, in fondo, sulla linea tradizionale degli interventi a salvaguardia della sicurezza. Solo che con l’aumento dell’assolutismo imperiale e con il perfezionamento dell’amministrazione, risultò assai maggiore che in passato la capacità di raggiungere capillarmente i singoli attraverso appunto gli organi amministrativi, e l’efficacia dell’editto imperiale fu estesa e pronta, sì che questa persecuzione, pur breve (durò pochi mesi del 250), apparve subito ai contemporanei sia cristiani (Origene, S. Dionigi di Alessandria, S. Cipriano) che pagani (Porfirio) come la prima grande persecuzione del nome cristiano.
Che fosse una persecuzione specifica contro i Cristiani, parve pacifico ai contemporanei. Ciò perché in pratica i cristiani soli dovettero soffrire persecuzione, in quanto la richiesta di lealismo pagano poteva presentarsi come drammatico dilemma soltanto alla coscienza dei cristiani, posti nella necessità di scegliere fra l’apostasia e la rappresaglia. Si credette così a lungo che l’editto di Decio fosse un editto promulgato esplicitamente e nominatamente contro i cristiani. L’antichità non ci ha trasmesso, d’altra parte, il testo dell’editto. Un dotto francese del sec. XVII, il Médon, finse di averlo trovato, e lo pubblicò a Tolosa nel 1664 (Decii imp. edictum adversus Christianos). Era una falsificazione su elementi tratti da fonti antiche, specialmente dagli atti dei martiri. Eppure già prima scrittori ecclesiastici di grande valore, fra i quali il cardinale Cesare Baronio (fine ‘500), avevano cominciato a sospettare, in base a quello che le fonti antiche dicevano circa i libelli, che l’editto di Decio non poteva essere stato emanato specificamente ed esclusivamente contro i Cristiani, ma che doveva essere un editto generale e generico, per tutti i cives Romani. Praticamente si sarà proceduto, è stato supposto, in base alle liste del censo.
Si trattò dunque di un’enorme setacciatura di tutti i cittadini dell’Impero. Molti cristiani non apostatarono e confessarono la fede; si ebbero gloriosi casi di martirio specialmente fra i vescovi, i più colpiti a causa della lotta particolarmente violenta contro il proselitismo: S. Fabiano, il vescovo di Roma, martirizzato il 20 gennaio 250, S. Dionigi di Parigi, S. Saturnino di Tolosa furono tra le vittime più illustri. Ma la grande massa non trovò difficoltà a fare quello che l’imperatore voleva, e non solo i pagani, ma anche i cristiani si adattarono. S. Cipriano parla del lassismo che tanti anni di pace avevano introdotto nella comunità cristiana. Questi cristiani apostati si chiamarono lapsi, distinti in categorie secondo la gravità dell’atto di apostasia (i thurificati, i sacrificati, i semplici libellatici), e il loro trattamento provocò controversie tali da condurre allo scisma di Novaziano. È noto che molti si erano procurati il libellus anche senza far il sacrificio richiesto, per via di favore e di raccomandazione, o con denaro. Certe commissioni addette al controllo dell’atto di culto dovettero fare affari d’oro.
Ritratto di Decio. Marmo, 249 d.C. ca. Roma, Musei capitolini.
Ci si chiede se documenti contemporanei confermano la genericità ed universalità dell’editto di Decio. La risposta è affermativa. Fino al 1893 non si conoscevano esemplari di libelli, ma da tale anno ne sono divenuti noti ben 43, conservati in papiri: in parte sono stati pubblicati dal Leclercq in Cabrol-Leclercq, Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et de Liturgie, IV cc. 317-330 (1916), IX cc. 80-85 (1929) e XIII cc. 1402-1405 (1937), cfr. V cc. 1067-1080 (1922), sui lapsi, e altri sono sparsi nelle pubblicazioni papirologiche (da segnalare i due bellissimi per conservazione in «Michigan Papyri», III, 1936, nr. 157 e 158). Naturalmente questi documenti papiracei riguardano l’Egitto, ma la testimonianza in questo caso serve per il resto dell’Impero. I libelli noti si raccolgono tutti fra le date 12 giugno-14 luglio 250, ma con una caratteristica concentrazione della quasi totalità in una decina di giorni del giugno. Questo conferma che si trattò di un’operazione ufficiale sistematica, sul tipo di censo, proprio com’era stato supposto. Gli interessati, chiamati, si presentavano alla commissione, villaggio per villaggio, già muniti di due copie del libellus, fatte fare da uno scrivano, nella forma di una petizione e dichiarazione, con data. Era lasciato in bianco lo spazio per la dichiarazione di testimonianza della commissione, e per una firma di vidimazione. Infatti questi libelli di solito mostrano traccia, nella scrittura, di tre mani diverse. Compiuto l’atto di omaggio religioso (o non compiuto, ma attestato lo stesso per effetto di favore o di corruzione, come s’è visto sopra), una copia rimaneva agli interessati, e l’altra passava agli atti dell’ufficio della commissione, come è stato dimostrato dal ritrovamento di due libelli identici, di cui uno con le tracce sul margine superiore della colla con la quale era stato posto in blocco con altri.
Nei libelli non c’è alcuna menzione del Cristianesimo, ed è completamente assente la forma di abiura. Si riporta a titolo di esempio il libello nr. 13 del Leclercq (Dictionn. d’Arch. Chrét., IX c. 82), proveniente da Theadelphia, nel demo arsenoitico, e datato 20 giugno 250. È contenuto in un papiro della John Rylands Library di Manchester ed è pubblicato anche in Catalogue of the Greek Papyri in the John Rylands Library, II, 1915, p. 94, nr. 112a (oltre che dal Wessely, in «Patrologia Orientalis», XVIII, fasc. 3, 1924, p. 365, nr. 13).
1. mano: «Alla commissione nominata per sorvegliare i sacrifici, da parte di Aurelia Suelis,
figlia di Taesis, del villaggio di Theadelphia. Sono sempre stata devota ai sacrifici e
alle pratiche pie verso gli dèi,
ed anche ora in vostra presenza, secondo l’editto, ho bruciato l’incenso, ho fatto la libagione,
ho mangiato della sacra vivanda, e vi prego di mettere sotto la vostra firma. Salute a voi.
2. mano: Noi, Aurelio Sereno ed Aurelio Erma, ti abbiamo vista sacrificare.
3. mano: Io, Erma, ho controfirmato.
1. mano: Anno I dell’imperatore Cesare C. Messio Q. Traiano Decio Pio Felice Augusto, il 26 del mese
Payni (= 20 giugno 250)».
Non è affatto detto che Aurelia Suelis fosse cristiana, sebbene lo potesse essere. Un altro libello si riferisce a persona sicuramente non cristiana, e dimostra che la professione del lealismo religioso fu chiesta a tutti. È il libello di una sacerdotessa di Petesuchos, il dio-coccodrillo egiziano. È mutilo alla fine, ma c’è quanto basta per decidere la questione. Si trova presso Leclercq, nel Dictionn. d’Arch. Chrét., IV, c. 320, nr. 3, ed anche in Mitteis-Wilcken, Grundzüge u. Chrestomantie, I 2, Leipzig 1912, p. 152, nr. 125.
2. mano: «(probabilmente è un numero – 433 –, il numero d’ordine del certificato, che era forse la
copia d’archivio: infatti ha tracce di colla, cfr. supra).
1. mano: Alla commissione nominata per sorvegliare i sacrifici, da parte di Aurelia Ammonute,
figlia di Miste, sacerdotessa di Petesuchos, il grandissimo dio eterno, e degli dèi di
Moeri, del quartiere di Moeri (nel Fayum). Per tutto il tempo della mia vita ho
sacrificato agli dèi, e anche ora in vostra presenza, secondo l’editto, ho fatto sacrificio
e libagioni, e ho mangiato la sacra vivanda, e chiedo di darmene atto…».
Se lo stato della comunità cristiana in Egitto a metà del III secolo era tale che una cristiana poteva essere insieme sacerdotessa del dio-coccodrillo, allora la testimonianza potrebbe essere non convincente. Ma le cose non erano certo a questo punto. Aurelia Ammonute era sicuramente pagana. Quindi tutti furono chiamati a prestare l’atto di lealismo. L’editto di Decio fu generale, non specifico contro i cristiani.
di G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 504-511.
Oxford, Balliol College Library. Ms. balliol. 79 (O^), Tertulliano, Apologeticum, con marginalia di William of Malmesbury (XV sec.), f. 1r.
Accanto a […] forme di letteratura a volte popolare, ma non per questo meno interessante anche sul piano della resa stilistica, intorno alla fine del II secolo compaiono anche i primi scrittori latini cristiani sui quali si posseggono informazioni sufficienti perché siano presentati con un’immagine più compiuta. La produzione letteraria che si propone la diffusione delle teorie cristiane e la loro difesa dagli attacchi dei pagani va sotto il nome di apologetica, ed apologisti sono comunemente chiamati questi scrittori che operano tra gli ultimi anni del II e i primi del IV secolo. Anche per queste opere c’è da segnalare un più rapido sviluppo nel mondo orientale, ed un relativo ritardo in quello occidentale: le prime Apologie scritte a Roma sono opera di Giustino, martire nel 165, ma sono scritte in greco, e ancora in greco sono varie altre opere di poco più tarde scritte con le medesime intenzioni in diverse parti dell’Impero. I primi a scrivere in latino sono Minucio Felice e Tertulliano, ai quali spetta il titolo di primi autori latini cristiani. Quale dei due sia più antico è problema pressoché insolubile: di Tertulliano conosciamo bene molte vicende, e possiamo ragionevolmente ricostruirne la cronologia; tutto più incerto è invece per Minucio Felice, e gli argomenti su cui ci si basa per considerarlo più o meno recente di Tertulliano sono prevalentemente soggettivi e reversibili, o interpretabili in maniera diversa, a seconda delle tesi sostenute dagli studiosi. È comunque importante osservare che fin dagli inizi si manifesta – nelle diverse posizioni assunte da Minucio e Tertulliano – quella che sarà una costante all’interno della produzione letteraria cristiana: da un lato (con Minucio) una tendenza conciliante, che cerca di non rompere con il passato classico e di recuperare da esso quanto non sia in stridente contrasto con il messaggio cristiano; dall’altro (con Tertulliano) un atteggiamento di rigorosa intransigenza, che postula una decisiva svolta rispetto al mondo pagano ed ai suoi valori, anche se tale svolta si esprime in una lingua letteraria che risente comunque degli insegnamenti retorici della formazione scolastica (che è comune a pagani e cristiani).
Paris, Bibliothèque Nationale de France. Cod. Par. lat. 1622 (Agobardinus, IX sec.), Tertulliano Opera omnia, f. 1v.
Quinto Settimio Fiorente Tertulliano nacque a Cartagine intorno alla metà del II secolo da genitori pagani; studiò retorica e diritto nelle scuole tradizionali, dove apprese anche il greco, esercitò la professione di avvocato in Africa, e per un certo periodo anche a Roma, prima del rientro in patria e della conversione, che avvenne soltanto in età piuttosto avanzata, probabilmente verso il 195. Fu anche prete, e le sue posizioni religiose si dimostrano molto rigorose, tanto che nel 213 finì con l’aderire ad una delle sette ereticali più note per l’intransigenza e il fanatismo, quella dei Montanisti; negli ultimi anni di vita abbandonò anche questo gruppo, e ne fondò uno nuovo, che si chiamò dei Tertullianisti. Morì dopo il 220, anno a cui risalgono le ultime notizie che abbiamo su di lui.
Di Tertulliano ci sono pervenuti oltre trenta scritti, a orientamento teologico e polemico; polemiche contro i pagani e contro i cristiani che non condividevano le sue tesi. Fra i più notevoli, vanno ricordati l’Ad martyras, con l’esortazione ad un gruppo di cristiani incarcerati e in attesa del martirio; l’Ad nationes, l’Apologeticum e il De testimonio animae, composti tutti e tre nel 197, per difendere il Cristianesimo dagli attacchi dei pagani; il De praescriptione haereticorum, del 200 circa, contro i cristiani che contaminano la loro fede con dottrine filosofiche pagane e propugnano interpretazioni troppo libere del testo biblico; il De anima, scritto intorno al 211, forse l’opera più notevole della maturità di Tertulliano, nella quale sono rielaborate ampiamente anche fonti pagane; l’Ad Scapulam, del 212, indirizzato al governatore dell’Africa proconsolare che conduceva una campagna contro i cristiani. Accanto a queste vanno ricordate opere che affrontano problemi morali e di comportamento del cristiano nella vita quotidiana, offrendo pertanto al lettore anche spunti interessanti sulla società africana tra II e III secolo: De spectaculis, contro la partecipazione agli spettacoli del teatro, dell’anfiteatro e del circo; De cultu feminarum, sui vestiti delle donne, che debbono essere particolarmente discreti; De virginibus velandis, sull’opportunità che le donne non escano di casa a volto scoperto; De pudicitia, contro i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio; De corona, contro il servizio militare, dichiarato incompatibile con l’appartenenza alla fede cristiana; De idololatria, contro tutte le attività economiche che siano in qualche modo connesse con i culti pagani. Altre opere riguardanti argomenti di carattere liturgico e teologico e altre infine sono dedicate a violente polemiche contro avversari religiosi (Adversus Marcionem, Adversus Praxean, ecc.).
Sansone e i leoni. Affresco, 350-400 d.C. Roma, Catacombe di Via Latina.
L’esperienza professionale dell’avvocato, lo spirito battagliero e pronto a trasformare in durissimi attacchi agli avversari ogni opera che nasceva da esigenza difensive, il gusto per l’improperio, per la descrizione sgradevole e pesante, per uno stile «barocco» e nutrito di efficacissima strumentazione retorica sono caratteristiche comune a quasi tutti gli scritti di Tertulliano, a qualunque periodo appartengano. Se ne può ricavare l’impressione di un personaggio arrogante, disposto a sostenere le proprie tesi con qualsiasi tipo di argomentazioni, a volte anche con ragionamenti discutibili e prove chiaramente false. Questa immagine complessivamente non positiva è aggravata da alcune posizioni che, fuori dal loro contesto, risultano del tutto inaccettabili, come la pervicace demonizzazione di tutto ciò che è femminile e la convinzione che la donna sia il più pericoloso strumento di Satana. Simili pregiudiziali antipatie devono essere però superate, se si vuole capire il ruolo e la posizione di un personaggio certamente focoso, ma non privo di coraggio, trascinato spesso da una violenta carica di rigore e di moralismo. In ultima analisi Tertulliano appare una figura tragica, che non riesce ad amare l’umanità, che si compiace di immaginare e di descrivere tutte le disgrazie che prima o poi capiteranno ai suoi nemici; un uomo che non sa trovare un momento di pace e di tranquillità, almeno in questa vita.
Ma accanto a questi limiti ci sono anche la grandezza del teorico e l’acume del pensatore: tralasciando le questioni più strettamente dottrinali, che qui hanno un rilievo secondario, si pensi all’importanza che ha nell’Apologeticum la definizione del rapporto giuridico tra religione e Stato, impostato con la chiarezza e la professionalità di un avvocato romano. Sempre nell’Apologeticum, è famosa l’argomentazione dell’anima naturaliter Christiana, che tanto successo ebbe nei secoli seguenti: l’anima stessa, se non addottrinata in senso contrario, dimostrerebbe il primato del monoteismo con le invocazioni ad un unico dio nei momenti di difficoltà. La sua incapacità di mediare, il suo intransigente integralismo mettono Tertulliano contro tutto il mondo: significativo, in particolare, è in questo senso il De idololatria, che vede piene di paganesimo, e perciò inaccettabili per il buon cristiano, quasi tutte le attività quotidiane. È il problema del rapporto che l’oppositore di un regime, di uno stato di fatto, deve avere con la realtà che lo circonda: fino a che punto possono spingersi la contrapposizione e il rifiuto senza divenire fanatica rinuncia ed esasperato isolamento, che in definitiva privano anche della possibilità di intervenire per modificare una situazione che si ritiene ingiusta?
Anche per le sue qualità di scrittore Tertulliano ha diritto ad un posto di rilievo nel quadro, complessivamente piuttosto povero, della sua età. Assai personale è l’impasto di parole tecniche del gergo avvocatizio e di termini dell’indiscussa dignità letteraria, piena la padronanza su un periodo volutamente irregolare, spezzato, con interrogazioni ed esclamazioni che interrompono frequentemente l’andamento del discorso, con brevi battute ad effetto, con metafore spinte all’estremo proprie di una fantasia visionaria e allucinata. Il suo successo nella cultura africana è confermato dalla sopravvivenza dei Tertullianisti ancora all’epoca di Agostino, e dal fatto che molti dei suoi temi preferiti ritornano con insistenza nella letteratura cristiana dei primi secoli; non piccolo merito di Tertulliano è anche quello di aver ampiamente contribuito a creare una nuova lingua cristiana, capace di esprimere a livello letterario i dogmi di fede e la problematica della prassi quotidiana del credente.
Il buon Pastore. Affresco, III-IV sec. d.C. Roma, Catacombe di S. Callisto.
Anche lui avvocato ed africano (era nato probabilmente a Cirta, la patria di Frontone), Marco Minucio Felice esercitava la sua attività a Roma, dove godeva di condizioni di buona agiatezza economica. Contemporaneo di Tertulliano, secondo alcuni scrisse qualche anno prima di lui, sul finire del II secolo, secondo altri invece la sua opera va collocata nei primi decenni del III secolo, fra la produzione di Tertulliano e quella di Cipriano. Oltre al dialogo Octavius, che ci ha lasciato, Minucio avrebbe scritto un De fato che non ci è pervenuto.
Il dialogo Octavius si svolge sul lido di Ostia, fra tre personaggi: il pagano Cecilio, il cristiano Ottavio e Minucio stesso. Ottavio rimprovera Cecilio per un gesto di adorazione a una statua del dio Serapide, e Cecilio propone di esporre le reciproche ragioni e di nominare Minucio giudice della controversia; ma dopo le due orazioni, quella di Cecilio contro il Cristianesimo e quella di Ottavio a suo favore, non c’è bisogno di un giudizio, perché Cecilio ammette di essere stato sconfitto.
Serapide. Testa, calcite, II-III sec. d.C. ca. Baltimora, Walters Art Museum.
Gli argomenti discussi sono quelli che compaiono anche negli altri apologeti, compreso Tertulliano: il monoteismo è preferibile, anche razionalmente, al politeismo; i cristiani non sono colpevoli dei misfatti che vengono loro imputati, anzi spesso sono proprio i loro accusatori ad essere macchiati di tali colpe; se i pagani comprendessero le istanze di pace e di amore del Cristianesimo non lo avverserebbero, anzi si convertirebbero subito. La differenza fra la trattazione impostata da Minucio e quella di Tertulliano, ad esempio nell’Apologeticum, non potrebbe però essere più evidente: Minucio è scrittore fine e delicato, rifugge dalle grossolanità che Tertulliano invece ama; Minucio fonda la sua argomentazione sulla logica e sul ragionamento pacato, mentre Tertulliano cerca di emozionare e di colpire i sentimenti. Minucio si rivolge ai pagani colti, per convertirli, e cita quindi con abbondanza gli scrittori classici, astenendosi dai riferimenti alla Bibbia; Tertulliano si scaglia contro i pagani per consolidare i cristiani nella loro fede, e tutt’al più può pensare di conquistare al Cristianesimo le future generazioni, che non si siano ancora macchiate del peccato di idolatria. In conclusione, se Tertulliano colpisce il lettore per il suo gusto dell’esasperazione, Minucio Felice appare al contrario un modello di equilibrio e di buon senso.
Questa differenza ha spesso comportato per Minucio accuse di debolezza e di incapacità, di incertezza nella fede, di prevalenza degli interessi letterari su quelli religiosi; ma chi abbia sufficiente sensibilità per cogliere le sfumature ed i mezzi toni, e sufficiente buon gusto per apprezzare un’opera che rifiuta programmaticamente ogni scadimento di livello, ogni concessione al patetico, dovrà apprezzare la serenità e la dignità della discussione. Ciò non toglie, certo, che molta attenzione sia anche riservata all’aspetto letterario: Cicerone è un modello sempre presente nella costruzione del periodo. Alcune scene della cornice che inquadra il dialogo sono pezzi di bravura giustamente apprezzati, come la famosa descrizione dei ragazzi che giocano sulla spiaggia facendo rimbalzare sull’acqua sassi piatti, la passeggiata sull’estremo lembo di sabbia bagnato dalle onde, la sosta sulla scogliera, dove i protagonisti si siedono a parlare della fresca mattina d’autunno, la conclusione con i tre amici che si salutano contenti della bella discussione, e felici di aver appianato le divergenze.
Col suo tono sereno e al tempo stesso malinconico, con la sua composta razionalità, l’Octavius segna la fine del mondo classico e il passaggio al Cristianesimo sulla linea della continuità, non della rottura, come auspicava Tertulliano. È il Cristianesimo dei ceti dirigenti, i quali non vogliono che il cambiamento di religione sia accompagnato da sommovimenti sociali, e sono convinti che debbano comunque sopravvivere la finezza e l’equilibrio costruiti da secoli di civiltà greco-latina; nel progetto di Minucio non c’è spazio per le «stranezze» giudaiche e per gli estremismi dei cristiani radicali. Non si può negare che il suo Cristianesimo sia autentico e sincero, ma certamente nulla ha della carica rivoluzionaria che ne aveva facilitato la sua diffusione fra i ceti subalterni, e che per alcuni intellettuali – Tertulliano è uno di loro – costituiva ancora il fascino principale della nuova religione.
SS. Cornelio e Cipriano. Affresco, III sec. d.C. Roma, Catacombe di S. Callisto.
Tascio Cecilio Cipriano nacque intorno al 200 a Cartagine, si formò nelle scuole di quella città, fu rinomato maestro di retorica fino al 246, quando si convertì e donò tutti i suoi beni ai poveri. Eletto vescovo alla fine del 248, dovette affrontare la durissima persecuzione decretata dall’imperatore Decio nel 250, durante la quale dimostrò grande coraggio e seppe evitare alla comunità cristiana lutti ancora più gravi; non sfuggì, invece, alla persecuzione di Valeriano nel 257-258, quando fu processato e condannato all’esilio, poi richiamato per un secondo processo, che si concluse con la condanna a morte e il martirio, il 14 settembre del 258.
Vari gli scritti di carattere apologetico, come l’Ad Donatum, sulla propria conversione (alcuni toni autobiografici hanno fatto vedere in quest’opera un «precedente» alle Confessioni di Agostino), e l’Ad Demetrianum, sulle colpe dei pagani e le punizioni divine, o il Quod idola dii non sint, della cui autenticità alcuni dubitano. Altri trattati affrontano questioni connesse con la guida della diocesi di Cartagine, come il De lapsis, sulla questione dell’atteggiamento da tenere nei riguardi di quei cristiani che avevano rinnegato la fede durante le persecuzioni, ma si erano poi pentiti e volevano rientrare nella comunità ecclesiastica; il De catholicae ecclesiae unitate, ferma presa di posizione contro tutte le eresie e gli scismi, che Cipriano considera una sciagura maggiore delle stesse persecuzioni contro i Cristiani (l’opera fu inviata a Roma e utilizzata come la più compiuta teorizzazione del primato papale, minacciato in quel periodo dallo scisma di Novaziano); il De habitu virginum, sui comportamenti che debbono tenere le donne che abbiano fatto voto di consacrarsi a Dio. Molto importante è anche l’Epistolario, che comprende 81 lettere, 65 di Cipriano e 16 a lui inviate; da esso possiamo dedurre precise informazioni sulle condizioni di vita nell’Africa proconsolare alla metà del III secolo e sui problemi che le persecuzioni creavano alle comunità cristiane.
Cipriano fu un grande estimatore di Tertulliano, che apprezzava per la severità delle dottrine: in varie opere riprese argomenti e perfino titoli che erano già stati impiegati dal suo più anziano conterraneo ma, a differenza di Tertulliano, non si lasciò mai prendere la mano dal gusto dell’estremismo. La sua funzione di vescovo e gli obblighi che tale investitura gli imponeva nei riguardi di tutti i fedeli, un innato, ammirevole equilibrio, una notevole dose di buon senso gli consentirono sempre le scelte più ragionevoli: così, dopo la persecuzione di Decio, decise di riaccogliere nella Chiesa i rinnegati (lapsi) pentiti, nonostante l’opposizione di quanti avevano rischiato il martirio per non abiurare, ma impose severe penitenze per chi voleva meritare di essere riammesso alla comunione. Questo atteggiamento non va confuso col lassismo o il permessivismo: Cipriano dimostrò pochi anni dopo, col suo stesso martirio, di non essere disposto a cedimenti, e un’analoga fermezza seppe dimostrare in occasione di uno scontro con il vescovo di Roma, Stefano.
La questione riguardava il battesimo impartito agli eretici: per gli Africani esso non era valido e, a parer loro, bisognava ribattezzare tutti quanti avessero ricevuto il sacramento da preti che si trovassero fuori dalla Chiesa; per il papa, invece, quel battesimo era valido purché fosse avvenuto secondo le forme previste dal rito, e non poteva essere rinnovato. Nato da un problema di prassi pastorale, il conflitto investiva però la ben più grossa questione dell’autonomia delle singole sedi vescovili rispetto a quella di Roma, che si appellava al cosiddetto «primato di Pietro», in base al quale il papa si arrogava un’autorità superiore a quella di tutti gli altri vescovi. Cipriano seppe tessere con grande abilità una fitta rete di alleanze, che comprendeva molti vescovi orientali, per arginare quella che allora era avvertita come un’illecita invadenza del papa; ma la persecuzione di Valeriano e la morte interruppero questa sua iniziativa.
Scena di battesimo. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro.
Le sue caratteristiche di scrittore si allontanano molto da quelle dell’amato Tertulliano: Cipriano ha un sicuro possesso delle tecniche della prosa classica, nella quale inserisce citazioni bibliche senza alterare l’elegante costruzione della frase e la solennità grandiosa del periodare; lontano dalle provocazioni e dagli eccessi di Tertulliano, ma meno sfumato e labile di Minucio, ha fornito il modello principale ai grandi prosatori cristiani del secolo successivo. Una Vita Cypriani è stata scritta dal diacono Ponzio, che lo conobbe personalmente: è il primo esempio latino di quelle biografie di vescovi e santi che diverranno molto numerose nei secoli successivi.
Tertulliano, Minucio Felice e Cipriano sono i tre principali scrittori di questo secolo, ma accanto ad essi fiorirono molti altri apologisti, a noi più o meno noti, e la polemica fra le diverse sette del Cristianesimo diede vita a una vasta letteratura di argomento teologico e dottrinale, che qui non può essere trattata in maniera esaustiva e neppure accennata con sufficiente ampiezza. Basterà ricordare Novaziano, un prete di Roma, che nella questione dei lapsi si schierò contro Cipriano. Quando, dopo più di un anno di sede vacante, nel 251 fu eletto papa Cornelio, il quale sul problema dei lapsi condivideva le posizioni di Cipriano, Novaziano, postosi a capo del partito rigorista, si lasciò eleggere a sua volta papa dai suoi seguaci, dando vita ad un’eresia che durerà più di un secolo. La sua opera principale è un De Trinitate (un titolo che avrà molta fortuna nella letteratura successiva), oltre ad un De spectaculis e un De bono pudicitiae chiaramente ispirato a Tertulliano.
Vittorino di Poetovium (oggi Ptuj in Slovenia) è un altro ecclesiastico che ci ha lasciato opere in latino; morì martire nel 304, vittima della persecuzione scatenata da Diocleziano. Scrisse molti commenti biblici, sui quali ci informa Girolamo; di essi abbiamo soltanto un commento all’Apocalisse, la più antica opera di esegesi biblica in lingua latina che ci sia giunta.
Le notizie [circa Commodiano] sono talmente incerte che alcuni studiosi lo collocano addirittura nel V secolo, ma sembra più probabile una datazione alla metà del III secolo, quando scoppiarono le persecuzioni di Decio e di Valeriano, alle quali fanno forse riferimento alcuni suoi versi. Da un altro suo passo si ricava che egli era originario di Gaza in Palestina, da dove però doveva essere partito per recarsi in Occidente, probabilmente in Africa, come dimostrerebbero le somiglianze di contenuto con le opere dei contemporanei apologisti africani del III-IV secolo. Ma anche su questi punti gli studiosi sono in disaccordo, e c’è chi esclude la sua origine orientale, e chi pensa che la sua attività si sia svolta nella Gallia meridionale, o anche a Roma.
[La sua opera principale è costituita dalle] Instructiones in due libri, per complessivi 80 componimenti in esametri, di varia lunghezza, da un minimo di 6 ad un massimo di 48 versi. Il primo libro comprende i carmi contro i pagani e quelli contro gli Ebrei; il secondo le composizioni per i Cristiani, rimproverati per i loro peccati ed esortati ad una vita più devota. I carmi sono degli acrostici: le prime lettere dei singoli versi, lette tutte di seguito, formano il titolo del carme stesso, come ad esempio De infantibus, con il primo verso che comincia per d, il secondo per e, il terzo per i, il quarto per n, e così via. [Segue il] Carmen apologeticum, in 1060 esametri, il cui vero titolo era probabilmente Carmen adversos Iudaeos et Graecos, o Carmen de duobus populis: l’opera è tramandata senza indicazione dell’autore, ma l’attribuzione a Commodiano è ormai ritenuta indiscutibile. Argomento del carme è la storia del mondo, quella dell’Antico Testamento e quella di Roma, vista come scontro fra Dio e il diavolo, fino alla distruzione dell’Impero, all’apocalisse e al giudizio universale.
Fra tanti scrittori in prosa il Cristianesimo delle origini produce un solo ma significativo poeta, Commodiano. Egli è per molti aspetti un poeta strano, una voce anomala nel panorama della poesia latina: è interessato alle fasce meno alte della società, e nelle sue opere rappresenta le credenze e le aspirazioni dei diseredati, le loro passioni forti e senza sfumature, avvalendosi di un latino che risente degli sviluppi del parlato e di una metrica priva ormai di continuità con quella dei classici. Anche nel campo della dottrina cristiana le sue conoscenze sono piuttosto approssimative e grossolane, lontane dalle ricche elaborazioni degli apologisti occidentali e dalle raffinate elucubrazioni di quelli orientali: non si spiega bene il ruolo dello Spirito Santo, pensa che gli dèi pagani siano figli degli angeli e di donne mortali, è convinto che la fine del mondo sarà preceduta da un’età felice sulla terra: saranno rovesciati gli Stati che si fondano sull’ingiustizia e sullo sfruttamento dei deboli, e verrà un regno terreno di Dio, in cui i poveri, i derelitti, i maltrattati vedranno esaudite le loro speranze e riconosciuti i loro diritti. Questa speranza, cosiddetta millenaristica, che credeva in un concreto cambiamento delle condizioni di vita sulla terra, prima e più che nelle ricompense celesti del paradiso, era assai diffusa nel Cristianesimo degli ambienti più umili e rispondeva a precise esigenze sociali.
Toro. Mosaico, inizi III sec. d.C. dalle Catacombe di Hermes. Sousse, Musée Archéologique
Se come teorico Commodiano è quantomeno confuso, anche come polemista mostra qualche limite. Ha l’irruenza e la forza di un Tertulliano, e come lui è capace di trovare improperi popolari e pesanti per i pagani e per i Giudei, ma gli manca la fantasia e la capacità retorica dell’avvocato cartaginese: le ripetizioni sono piuttosto frequenti, le volgarità scontate e poco efficaci. I tratti più incisivi sono il rigoroso moralismo, la profonda convinzione di essere dalla parte giusta, lo scontro con le morenti istituzioni classiche. L’ardore con cui sono presentate le visioni apocalittiche, e le speranze rivoluzionarie in esse riposte, fa sì che Commodiano sia stato definito l’ultimo dei profeti; l’unico che si sia espresso in lingua latina. Riconoscere fino a che punto l’autore si faccia convinto portavoce di istanze popolari e quanto invece egli conceda ad un atteggiamento demagogico è cosa senz’altro difficile; e in questo senso, la lettura di Commodiano lascia sempre incerti e sconcertati: ci si domanda se uno scrittore, comunque un uomo di cultura, potesse condividere certi livelli di primitivismo, o se egli non avesse invece fatto proprie certe rivendicazioni a scopo di provocazione letteraria, religiosa e politica.
Il verso di Commodiano colpisce per la sua anomala prosodia, completamente diversa da quella classica. L’esametro non è più una successione regolare di sillabe brevi e sillabe lunghe, ma una riga composta di un certo numero di sillabe (non più diciassette e non meno di dodici); è l’andamento degli accenti tonici delle parole, non l’alternanza quantitativa, a garantire il ritmo nell’insieme. In questo senso Commodiano anticipa l’evoluzione che dalla metrica quantitativa porterà alla poesia accentuativa propria delle lingue romanze.
Damnatio ad bestias. Mosaico, II-III sec. d.C. da Zliten. Tunis, Musée du Bardo
Questa novità si mescola con un lessico elementare e ripetitivo, con una sintassi semplificata ai limiti del possibile, con una logica sommaria e a volte assurda nella sua partigianeria. Ne risulta, come dicevamo, l’immagine di una figura atipica e stimolante: uno scrittore che non ignora completamente i classici e le tradizioni, ma li riprende in forma banalmente scolastiche o estremamente modificate, involgarite, popolareggianti; un poeta che si presenta come portavoce degli emarginati, con tutte le loro spinte irrazionali, violente, ma anche con una sete di giustizia confortata dalla promessa divina; un polemista che alterna le piccole meschinità dell’invettiva personale contro l’avversario a vasti affreschi cosmici sul ritorno del Cristo e il fuoco che brucerà i malvagi, risparmiando i pochi onesti che ci sono a questo mondo.
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