Frine, la bellezza sotto accusa

Su Frine di Tespie, la più celebre cortigiana del IV secolo a.C., gli antichi tramandano notizie biografiche talmente romanzesche e romanzate da mettere in difficoltà nel distinguere la realtà dalla finzione. Come per altre figure femminili appartenenti al 𝑑𝑒𝑚𝑖-𝑚𝑜𝑛𝑑𝑒 ellenico, anche Frine fu trascurata dagli scrittori del suo tempo, tranne che dai commediografi, attenti osservatori dei fatti d’attualità, soprattutto se “scandalistici”; ma sarebbe divenuta oggetto dell’incuriosita e a tratti morbosa attenzione di poeti, storici e dossografi ellenistici e romani (Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 129). Fra i moderni c’è chi è persino giunto al punto di dubitare della storicità di questa donna affascinante e inquietante (Rᴏsᴇɴᴍᴇʏᴇʀ 2001, 245) e chi, invece, ha espresso con troppa radicalità una posizione ipercritica nei confronti di alcuni dati tradizionali (Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995). Per ricostruire la figura di Frine occorre valutare con la massima cautela le fonti pervenute – il cui gran numero testimonia la vastissima fama della cortigiana –, considerando che queste ultime si collocano per lo più fra il I e il IV secolo d.C.: esse non sono solo più tarde rispetto ai fatti riportati, ma presumibilmente rispecchiano una tendenza abbastanza tipica degli eruditi antichi all’aneddotica e al sensazionalismo.

Dall’orazione 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 (ἐν τῷ κατὰ Φρύνης) di Aristogitone (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591e = F 7 Tur) e da Plutarco (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a) si ricava che il vero nome di Frine era Μνησαρέτη («Colei che ricorda la virtù»). Stando ad Alceta il Periegeta (Aʟᴋ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 405 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b) il padre di lei si chiamava Epicle. Queste informazioni ricondurrebbero a un’origine libera, se non addirittura nobile, della famiglia, che, verosimilmente, al pari di altri γένη aristocratici tespiesi, dovette affrontare varie traversie al tempo in cui Tebe, in seguito alla clamorosa vittoria sui Lacedemoni a Leuttra (371), conquistava una stupefacente, seppur effimera, egemonia sull’intera Grecia continentale. A detta di Pausania (IX 14, 2-4), alcuni Tespiesi, preoccupati per le antiche tensioni con Tebe e per le conseguenze del recente successo, avrebbero deciso di abbandonare la propria città: si è ipotizzato che questo fosse anche il caso della famiglia di Mnesarete, che emigrò ad Atene, città tradizionalmente disponibile ad accogliere stranieri, anche se fortemente restia a concedere loro i diritti di cittadinanza (Tᴜᴘʟɪɴ 1986, 321-341; Cᴏʀsᴏ 1997-1998, 66).

William Russell Flint, Frine e la serva. Acquerello su lino, 1900-1920 c.

Restano avvolti nell’oblio i primi anni di permanenza ad Atene di Mnesarete; l’unico, forse tendenzioso, riferimento all’adolescenza della profuga tespiese è identificabile in un frammento dalla 𝑁𝑒𝑒𝑟𝑎 del comico Timocle (F 25 Kassel-Austin), in cui uno sfortunato amante della donna ricorda i tempi in cui quest’ultima non era ancora insuperbita dalla ricchezza che in seguito avrebbe conquistato. Presumibilmente messa in scena quando l’ἑταίρα era ormai ricca e famosa, la commedia timoclea rievoca il periodo in cui la giovane tespiese, oppressa dalla povertà e costretta a umili lavori, non esitava ad approfittare con spregiudicatezza dell’aiuto economico di quanti fossero attratti dalla sua bellezza. A quanto pare, fin da allora la ragazza aveva assunto il nomignolo di Φρύνη («ranocchietta»), che secondo gli antichi interpreti sarebbe stato dovuto al colorito pallido-olivastro del suo incarnato (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a), anche se sembra più probabile che si sia trattato di un dispregiativo intenzionalmente assunto in funzione antifrastica, quasi a sottolineare – per contrasto – l’eccezionale avvenenza della giovane donna.

Benché fosse una straniera, profuga e priva di mezzi, Mnesarete era una donna libera e godeva dello statuto di μέτοικος, condizione che le consentiva di acquisire una considerevole posizione economica, a differenza delle cittadine ateniesi: come avrebbe potuto conquistarsi fama e prestigio in una πόλις in apparenza accogliente, ma di fatto saldamente ancorata a rigidi principi di selezione e di esclusione?

All’epoca, benché esistesse una certa differenza tra ἑταίρα e πόρνη (Kᴜʀᴋᴇ 1999, 175-219; MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 11-18), entrambe queste figure professionali erano diventate ormai anche personaggi letterari tipizzati, fatti oggetto di aneddoti faceti, componimenti satirici e battute comiche osé, soprattutto per via della natura essenzialmente carnale della loro professione. Incontinenza verso il vino e il sesso, avidità, slealtà, doppiezza e impudenza erano le caratteristiche più comuni della maschera della “cortigiana/prostituta”, frutto dell’approccio aspramente misogino della cultura ellenica, ma anche della volontà dei commediografi e dei retori di screditare i propri avversari politici o personali. Allora come oggi, la vita privata di un personaggio pubblico rappresentava il suo punto debole, il bersaglio polemico a cui mirare per distruggerne la credibilità e comprometterne la carriera. Paradossalmente, però, la frequentazione di donne di “malaffare” era autorizzata e quasi promossa dalla πόλις, praticata dagli uomini di ogni ceto sociale secondo le proprie disponibilità, sebbene costituisse, in ogni caso, motivo di scandalo e di biasimo, perché sintomo della mancanza di moderazione e della conseguente depravazione morale (il comico Filemone di Siracusa, per esempio, invitava i giovani ateniesi a frequentare i bordelli istituiti da Solone, in cui era possibile appagare le proprie esigenze sessuali in tutta sicurezza e alla cifra irrisoria di un obolo, corrispondente a 1/6 di una dracma: Pʜɪʟᴇᴍ. F 3 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 25, 569d-f).

Queste donne, da parte loro, suscitavano al tempo stesso desiderio e disprezzo, attrazione e ripulsa, venerazione e ostilità; le più belle e le più scaltre non di rado intrecciavano 𝑙𝑖𝑎𝑖𝑠𝑜𝑛𝑠 𝑑𝑎𝑛𝑔𝑒𝑟𝑒𝑢𝑠𝑒𝑠 con uomini di spicco del loro tempo, violando l’assoluto anonimato che caratterizzava la donna greca e conquistandosi così un viatico per l’eternità. E questo fu anche il caso di Mnesarete/Frine.

Sul suo conto, una delle fonti principali è rappresentata da Ateneo di Naucrati, che le ha dedicato un’ampia sezione del libro XIII dei suoi 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑠𝑡𝑎𝑒 (58, 590c-60, 591f). Lo scrittore egizio di epoca imperiale (II-III secolo) si è avvalso di diverse opere di eruditi, tra le quali quella di Ermippo di Smirne († 𝑝𝑜𝑠𝑡 208/4 a.C.; si vd. Bᴏʟʟᴀɴsᴇᴇ 1999), il Περὶ τῶν Ἀθήνησιν ἑταίρων di Apollodoro di Atene (II sec. a.C.), il Περὶ τῶν ἐν τῇ μέσῃ κωμῳδίᾳ κωμῳδουμένων ποιητῶν di Erodico di Babilonia (vissuto al più tardi all’inizio del I secolo a.C., cfr. Gᴜᴅᴇᴍᴀɴɴ 1912) e il Περὶ τῶν ἑταίρων di Callistrato (attivo nella prima metà del II sec. a.C.; 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 348 F 1), e le ha integrate con aneddoti di autori contemporanei ai fatti, e cioè retori (Iperide, Aristogitone, ecc.) e poeti comici (Timocle, Posidippo, ecc.; cfr. Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941).

Sull’aspetto della cortigiana, Ateneo riporta che «Frine era più bella nelle parti che non si vedono; di conseguenza, non era neanche facile vederla nuda» (ἦν δὲ ὄντως μᾶλλον ἡ Φρύνη καλὴ ἐν τοῖς μὴ βλεπομένοις. διόπερ οὐδὲ ῥᾳδίως ἦν αὐτὴν ἰδεῖν γυμνήν). Per accrescere il proprio fascino e solleticare fantasia e curiosità dei potenziali amanti, aveva l’abitudine di indossare «una tunichetta attillata» (ἐχέσαρκον χιτώνιον) e di rado «frequentava i bagni pubblici» (τοῖς δημοσίοις οὐκ ἐχρῆτο βαλανείοις). Accadde, però, una volta che, in occasione delle feste di Poseidone a Eleusi (τῇ δὲ τῶν Ἐλευσινίων πανηγύρει καὶ τῇ τῶν Ποσειδωνίων), Frine, «sotto gli occhi di tutti i Greci riuniti, deposto il mantello e sciolte le chiome, scese in mare» e ne riemerse, simile ad Afrodite, davanti agli astanti attoniti (Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 1999, 54). Quella coreografica e provocatoria immersione ispirò il famoso ζώγραφος Apelle, che dipinse l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐴𝑛𝑎𝑑𝑖𝑜𝑚𝑒𝑛𝑒 («Afrodite che sorge dalle acque»), quadro nel quale la dea è colta nuda, in atto di strizzarsi le chiome bagnate (Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1990, 158-163; Bᴇᴀᴢʟᴇʏ, Asʜᴍᴏʀᴇ 1932, 63-66). L’opera, esposta a Coo, fu celebrata già dagli epigrammi descrittivi di epoca ellenistica (p. es., Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 172 = F 45 Gow-Page; Lᴇᴏɴ. XVI 182 = F 23 Gow-Page) e nel 30 Augusto la acquistò per consacrarla al tempio di Cesare, concedendo in cambio la cancellazione di un tributo di 100 talenti che i Coi dovevano a Roma (cfr. Sᴛʀᴀʙ. XIV 2, 19; Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXV 91-92).

Afrodite Anadiomene. Mosaico, II-III sec. d.C. Antakya, Museo Archeologico ‘Hatay’.

Alla particolare avvenenza di Frine-Mnesarete si riferisce persino un aneddoto riportato dal medico Galeno: «Costei (𝑠𝑐. Frine), una volta a un banchetto, in cui sorse l’idea di fare il gioco che ciascuno a turno comandasse ai convitati ciò che voleva, vide lì delle donne imbellettate con ancusa, biacca e rossetto; fece portare dell’acqua e ordinò che, attingendola con le mani, la portassero così una sola volta al viso e subito dopo la detergessero con un asciugamano; e lei per prima fece questo. Mentre a tutte le altre la faccia si riempì di macchie e si poteva notare una somiglianza con gli spettri, lei apparve più bella, perché sola era senza trucco e bella al naturale, senza aver bisogno di nessun artificio fallace» (Gᴀʟᴇɴ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. 10, 6 Barigazzi = I 26 Kaibel). L’episodio è incluso nell’ampia argomentazione che Galeno utilizza per sostenere l’importanza dell’arte medica: egli illustra come la cosmesi sia affine alla medicina, poiché, mentre quest’ultima persegue il fine di preservare la salute delle persone, la prima conferisca una parvenza di salute a chiunque ne faccia ricorso; tuttavia, benché entrambe siano arti “utili”, la cosmesi appartiene alla categoria del falso e dell’imitazione (una riflessione di chiaro stampo platonico).

A dispetto del nome Mnesarete, che, come si è detto, significa «Colei che ricorda la virtù», Frine è presentata dalla tradizione come tutt’altro che un esempio di specchiata virtù, e anzi spesso si insiste sulla sua incontenibile avidità: un frammento del 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑖𝑔𝑖𝑎𝑛𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖 di Apollodoro di Atene (Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 244 F 212 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591c) testimonia che esistevano due etere di nome Frine, «delle quali l’una era soprannominata “Pianto e riso” (Kλαυσίγελως), l’altra “Pesciolino” (Σαπέρδιον)». Nella fattispecie, “Pianto e riso” lascerebbe intuire che la bella e capricciosa cortigiana vendesse a caro prezzo i propri favori ed è molto probabile che da questo soprannome sia sorto l’aneddoto, riportato da Plinio il Vecchio (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXIV 70), del gruppo statuario di Prassitele che raffigurava una matrona piangente e una etera ridente – naturalmente con le fattezze di Frine. Erodico Crateteo nel sesto libro dei 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑔𝑔𝑖 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑑𝑖𝑒 «sostiene che l’una, detta presso i retori “Sesto” (Σηστὸς), era così chiamata perché passava al setaccio (ἀποσήθειν) e spogliava di tutto quelli che andavano con lei; l’altra era chiamata invece “la Tespiese” (Θεσπική)» (Hᴇʀᴏᴅ. F 7, p. 126 Düring = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591c). Sempre che si sia trattato della stessa persona, essendo Frine un “nome di battaglia” gettonatissimo tra le professioniste anche di generazioni differenti, per alcuni interpreti questo di Erodico sarebbe un riferimento al “setaccio”, in relazione alla rapacità dell’etera, mentre secondo altri un modo per canzonare una coppia di accompagnatrici, Frine e Sinope, chiamate rispettivamente “Sesto” e “Abido”, dal nome delle due città che si fronteggiavano sui Dardanelli.

L’ingordigia di Mnesarete-Frine è ripresa dall’assimilazione comica che ne fa il poeta Anassila nel F 22 Kassel-Austin, vv. 18-19: «Ma ecco Frine, non lontano, a far la parte di Cariddi: / ghermito il nocchiero, l’ha divorato con la nave e tutto il resto» (in Aᴛʜᴇɴ. XIII 6, 558c). La 𝑁𝑒𝑜𝑡𝑡𝑖𝑠 (𝑃𝑜𝑙𝑙𝑎𝑠𝑡𝑟𝑒𝑙𝑙𝑎) è forse il soprannome, o il nome proprio, di un’etera: il passo presenta una rassegna di cortigiane, difficile dire se figure reali note al pubblico o figure fittizie con tipici nomi di battaglia, paragonate a celebri mostri mitologici. Il parallelo si fonda appunto sul luogo comune della pericolosità delle etere, ritenute creature avide, infide e rovinose per i loro amanti, che nacque con la “Commedia di mezzo”, in cui presero forma i tipi della “etera cattiva” e della “etera buona”, destinati a notevole fortuna nel teatro successivo (cfr. Nᴇssᴇʟʀᴀᴛʜ 1990, 322-324); il parallelismo con i mostri si spinge, dunque, sino alla comica evocazione di alcune famose leggende – e qui, nel caso, di Frine è ripreso l’episodio odissiaco dell’incontro con Cariddi! –, ma, a differenza degli antichi eroi, i frequentatori delle cortigiane in genere hanno sempre la peggio (si vd. Hᴀᴡʟᴇʏ 2007, 165).

Anche Macone, commediografo corinzio o sicionio del III secolo, vissuto ad Alessandria in Egitto, tramanda in alcuni trimetri giambici un episodio che ha per protagonista Frine-Mnesarete alle prese con un corteggiatore spilorcio: «Merico stava dietro a Frine, la Tespiese, / ma, quando lei gli domandò una mina, / quello sbottò: “Ma è troppo! Non eri tu che stamattina presto / andasti con uno straniero per due monete d’oro?”. “Bene: dunque, aspetta anche tu – fece lei – fin quando / avrò voglia di scopare! Allora accetterò anche così poco!» (Mᴀᴄʜᴏ 𝐶ℎ𝑟. F 18, vv. 49-54 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 45, 583b-c). L’ἑταίρα chiede al non altrimenti noto Merico la tipica parcella delle professioniste d’alto bordo, 1 mina, equivalente nel sistema attico a 100 dracme (pari a circa 400 g d’argento; cfr. Gᴏᴡ 1965, 120). La controproposta del cliente è molto inferiore, anche se non misera (40 dracme: cfr. Gᴏᴡ 1965, 135), ma equivalente, secondo la donna, a concedersi gratis, come, a modo suo, ella fa presente con la sua risposta pronta. D’altronde, le tariffe più comuni per il noleggio di una auleutride, per i servizi di una πόρνη o per la compagnia di una cortigiana erano piuttosto contenute, più o meno da 2 oboli a 5 dracme (cfr. Sᴀʟʟᴇs 1983, 87; Dᴀᴠɪᴅsᴏɴ 1997, 194-200). La fama professionale di Frine è variamente attestata anche nella letteratura latina: Lucilio in un frammento allude in modo oscuro al trattamento che la cortigiana riservava ai suoi clienti con le parole 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑠 𝑖𝑙𝑙𝑎 𝑢𝑏𝑖 𝑎𝑚𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒𝑚 𝑖𝑚𝑝𝑟𝑜𝑏𝑖𝑢𝑠 𝑞𝑢𝑒𝑚… (Lᴜᴄɪʟ. F 263 Marx; cfr. anche Vᴀʟ. Mᴀx. IV 3, ext. 3: 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑒 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑖𝑠 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑡𝑢𝑚).

La tradizione aneddotica antica riporta anche che la giovane Mnesarete posò come modella di nudo per vari artisti, tra i quali lo scultore Prassitele, attivo tra il 375 e il 330, con il quale pare intrattenesse anche una relazione amorosa (sull’artista e la sua statuaria, si vd. Cᴏʀsᴏ 1988; Cᴏʀsᴏ 1990; Sᴛᴇᴡᴀʀᴛ 1990, I, 176-180; 277-281; II, 492-510; e Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1974, 83; 131; Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1990, 84-89; Rɪᴅɢᴡᴀʏ 1990, 90-93; Aᴊᴏᴏᴛɪᴀɴ 1996; Bɪᴇʙᴇʀ 1961, 15-23; Rɪᴄʜᴛᴇʀ 1970, 199-206; Bᴇᴀᴢʟᴇʏ-Asʜᴍᴏʟᴇ 1932, 54-59; Rɪᴢᴢᴏ 1932; Lɪᴘᴘᴏʟᴅ 1954). Con ogni verosimiglianza fu proprio l’incontro con questo maestro dell’arte plastica a imprimere una “svolta” nella carriera di Mnesarete. Si racconta che l’etera «a un corteggiatore spilorcio che faceva mostra di vezzeggiarla con un nomignolo, dicendole: “Tu sei la Piccola Afrodite di Prassitele!”, ella ribatté: “E tu sei l’Eros di Fidia!”» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 49, 585f). In questo caso, il nome del famoso scultore Prassitele potrebbe suonare come “l’Esattore” (Πραξιτέλης, come πρᾶξις τελῶν, “riscossione di tributi”): il corteggiatore dunque vezzeggia Frine solo in apparenza, alludendo invece alla sua rapacità, mentre lei risponde a tono, poiché il nome di Fidia potrebbe suonare come il “Tirchione” (Φειδίας, dal verbo φείδομαι, “risparmiare”).

All’𝑎𝑘𝑚𝑒́ di Prassitele nell’Olimpiade CIV, corrispondente al quadriennio 364-361 a.C. (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXIV 50), andrebbe ascritta la realizzazione della celeberrima 𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, una statua davvero innovativa per il tempo, essendo la prima immagine di nudo femminile di tutta l’arte plastica greca, di cui Frine sarebbe stata la modella. Esiste tuttavia una diversa tradizione, recepita da Clemente Alessandrino (Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 53, 5-6), nonché, sulla scia di quest’ultimo, da Arnobio (Aʀɴ. 𝐴𝑑𝑣. 𝑛𝑎𝑡. 6, 13), secondo la quale lo scultore avrebbe scolpito la famosa statua avvalendosi dei lineamenti di un’altra etera da lui amata, di nome Cratine. Questa notizia, che contrasta con l’abbondante e perfino tediosa aneddotica sulla presunta storia d’amore tra Prassitele e Frine, ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare che l’artista avesse davvero utilizzato, per l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, il volto di Cratine e il corpo di Frine (cfr. Cᴏʀsᴏ 1990, 83; Cᴏʀsᴏ 1997a, 93). Questa tradizione deriverebbe dal Περὶ Κνίδου di un certo Posidippo (Pᴏsɪᴅɪᴘ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 447 F 1), noto solo attraverso Clemente Alessandrino (cfr. Mᴇᴛᴛᴇ 1953); pertanto, si dubita della storicità di Cratine (cfr. Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941, 902; Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 134-135).

Afrodite Cnidia. Statua, marmo bianco, copia romana da un originale del IV secolo a.C. ca di Prassitele. Roma, Musei Vaticani, Museo Pio-Clementino.

L’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 fu commissionata a Prassitele dai cittadini dell’isola di Cnido, dove pare che la nudità della dea avesse una specifica giustificazione cultuale, mentre in altre località greche – e soprattutto ad Atene – era giudicato a dir poco scandaloso che una dea fosse rappresentata senza veli. Lo scultore dovette verosimilmente incontrare non poche difficoltà nella ricerca di una modella per la “sua” 𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒, che dal punto di vista ateniese costituiva un inquietante, se non addirittura “sovversivo” momento di rottura con un’antica e consolidata tradizione. Non è difficile credere che per il corpo nudo e seducente della dea si sia prestata una straniera, ambiziosa e spregiudicata, quale appunto era la giovane Mnesarete. I committenti di Prassitele mandarono ad Atene dei delegati per acquistare l’opera in bottega; giunta a Cnido l’immagine fu posta come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 nel santuario di Afrodite Euplea («Che assicura una prospera navigazione»).

Cnido, città della Caria, affacciata sul Golfo di Coo, sorgeva sull’estremità meridionale della penisola di Triopion, tra Alicarnasso e Rodi; era stata membro della Lega dorica ed era rinomata per la sua scuola medica, per l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 di Prassitele (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 20-21) e il suo santuario (Pᴀᴜs. I 1, 3), nonché per il portico di Sostrato (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 83). Tra la fine del VI e gli inizi del V secolo la città era caduta sotto il controllo persiano, per poi entrare nella Lega di Delo e, infine, trovarsi sotto il dominio tolemaico nel III secolo.

Il simulacro della dea scolpito da Prassitele compare anche su alcune monete locali di età imperiale: ciò ne permise l’identificazione, fin dal 1728, in un tipo scultoreo noto come “Afrodite Belvedere”, documentato non meno da 192 riproduzioni, che ne fanno la statua più copiata dell’antichità (Sᴇᴀᴍᴀɴ 2004). La dea è rappresentata nuda, mentre ha appena terminato il bagno e sta prendendo il peplo deposto su una brocca posata a terra alla sua sinistra; e, come sorpresa da uno sguardo indiscreto, è scolpita in atto di coprirsi le grazie con un lembo della veste (Cʟᴏsᴜɪᴛ 1978; Dᴇʟɪᴠᴏʀʀɪᴀs 1984, 49-52, n. 391-408; Hᴀᴠᴇʟᴏᴄᴋ 1995; Zᴀɴᴋᴇʀ 2004, 144-145; 151-152).

Quello del bagno è un motivo ricorrente nel culto di Afrodite e, secondo la credenza antica, aveva la funzione di rendere nuovamente pura la dea, rigenerandola. Anche la nudità doveva esprimere lo stato di primordiale candore così riacquistato. Insomma, Afrodite si offriva pertanto come paradigma agli umani che dovevano superare l’amore volgare e innalzarsi alla sua dimensione ultraterrena; di conseguenza, Prassitele con la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 avrebbe interpretato proprio questa esigenza. D’altronde, una vicinanza dello scultore a Platone si arguisce innanzitutto dal fatto che suo zio Focione era stato allievo presso l’Accademia, e perciò l’artista dovette aver presente il metodo indicato dal filosofo per giungere alla contemplazione e alla definizione della bellezza; in secondo luogo, lo stesso Prassitele espresse in un epigramma la propria concezione dell’amore, inteso come sentimento presente nella vita interiore del soggetto ed emanato da archetipo assoluto (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591a = Pʀᴀxɪᴛ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 204); infine, due epigrammi che celebrano la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 sono attribuiti niente meno che a Platone stesso (Pʟᴀᴛ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 160-161).

Gli scavi archeologici condotti 𝑖𝑛 𝑠𝑖𝑡𝑢 hanno portato alla luce, sul terrazzamento più alto e occidentale dell’abitato, i resti di un tempio dalla pianta a 𝑡ℎ𝑜̀𝑙𝑜𝑠, luogo nel quale doveva essere verosimilmente collocata l’opera prassitelica: l’edificio mediante due aperture, sulla fronte e sul retro del muro circolare posto tra la statua e il colonnato esterno, consentiva una fruizione visiva completa del corpo della dea al centro della cella (Lᴏᴠᴇ 1970; 1972a; 1972b). L’ubicazione della statua a Cnido si arguisce anche da un epigramma di Antipatro di Sidone (Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 167 = F 44 Gow-Page, v. 1), in cui si afferma che questa Afrodite si ergeva «sopra Cnido rocciosa» (ἀνὰ κραναὰν Κνίδον), con ciò suggerendo che si trovava nell’area più elevata della città; Luciano di Samosata (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 11-17) racconta di un gruppetto di amici che, approdato a Cnido, visita la città e si reca al santuario per ammirare l’opera di Prassitele; il tempietto in cui è collocata era rotondo e chiuso da un unico muro, con porte di fronte e sul retro.

Da Plinio il Vecchio (𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 20-21), tra l’altro, si apprende che «non solo su tutte le statue di Prassitele, ma anche nel mondo intero primeggia la sua Venere, che soltanto per ammirarla molti si recarono a Cnido per mare» (𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑜𝑚𝑛𝑖𝑎 𝑒𝑠𝑡 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑙𝑢𝑚 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑖𝑠, 𝑢𝑒𝑟𝑢𝑚 𝑖𝑛 𝑡𝑜𝑡𝑜 𝑜𝑟𝑏𝑒 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑎𝑟𝑢𝑚 𝑉𝑒𝑛𝑢𝑠, 𝑞𝑢𝑎𝑚 𝑢𝑡 𝑢𝑖𝑑𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡, 𝑚𝑢𝑙𝑡𝑖 𝑛𝑎𝑢𝑖𝑔𝑎𝑢𝑒𝑟𝑢𝑛𝑡 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑢𝑚, XXXVI 20; cfr. VII 127). Si potrebbe dire che la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 diede origine a una sorta di turismo di massa, fenomeno di cui si ha testimonianza fino al IV secolo d.C. (Aᴜsᴏɴ. 𝐸𝑝. 55). Il legame di Afrodite con il mare a Cnido, per cui l’epiclesi di Εὐπλοία, è documentato fin da un episodio “miracoloso” risalente all’alto arcaismo: dei murici nelle loro conchiglie bivalve, sacri alla dea, avrebbero bloccato una nave che portava l’ordine del tiranno Periandro di evirare dei giovani nobili (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. IX 80; cfr. Hᴅᴛ. III 24, 2-4; 49, 2). Inoltre, era opinione comune che la dea garantisse un dolce arrivo nel porto cnidio a chiunque si recasse a vedere l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 di Prassitele (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 11).

I Cnidi, grati allo scultore per la fama arrecata alla città, gli avrebbero conferito la piena cittadinanza (Cᴇᴅʀᴇɴ. 𝐶𝑜𝑚𝑝. ℎ𝑖𝑠𝑡. 322b). Plinio aggiunge che la bellezza dell’opera era tale che Nicomede, re di Bitinia, volle impossessarsi della preziosa statua e si offrì di saldare 𝑡𝑜𝑡𝑢𝑚 𝑎𝑒𝑠 𝑎𝑙𝑖𝑒𝑛𝑢𝑚, 𝑞𝑢𝑜𝑑 𝑒𝑟𝑎𝑡 𝑖𝑛𝑔𝑒𝑛𝑠, 𝑐𝑖𝑢𝑖𝑡𝑎𝑡𝑖𝑠, ma i Cnidi, nonostante fossero afflitti da una grave crisi economica, rifiutarono l’offerta, preferendo affrontare qualsiasi privazione, perché 𝑖𝑙𝑙𝑜 𝑒𝑛𝑖𝑚 𝑠𝑖𝑔𝑛𝑜 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎𝑢𝑖𝑡 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑢𝑚. Se si poteva proporre l’acquisto della 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 e il rifiuto era dovuto alla fama arrecata dalla statua, è molto probabile che si sia trattato di una statua votiva, sia perché essa è ritenuta un ἀνάθημα in un epigramma di Luciano (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 164, v. 1), sia perché fu appunto oggetto della richiesta di acquisto da parte del re di Bitinia: probabilmente fu il primo con questo nome a richiedere la statua, intorno al 260, per impreziosire la sua nuova capitale Nicomedia. Insomma, tutto ciò depone contro l’eventualità che fosse un simulacro di culto.

Per comprendere la vicenda di Prassitele, Frine e la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, è opportuno soffermarsi sul significato della nudità femminile nell’arte greca antica, in particolare in connessione al culto di Afrodite. Influenzata dai modelli iconografici delle omologhe mediorientali (Inanna e Išthar), la rappresentazione di nudi femminili aveva fatto una timida comparsa in Grecia già in età arcaica, soprattutto nei culti legati alla fertilità, nella letteratura patetica ed erotica, ma anche nei gesti apotropaici. Siccome la nudità era concepita come condizione di vulnerabilità, debolezza e inferiorità, gli artisti più antichi rappresentavano nudi i fedeli servitori degli dèi: sono così scolpiti i cosiddetti κοῦροι, utilizzati sia come segnacoli funerari sia come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 nei santuari (Bᴏɴꜰᴀɴᴛᴇ 1989, 551). Sul piano magico-cultuale, la raffigurazione della nudità femminile incarnava il potere erotico delle dee, ma costituiva un tabù: sono noti i miti che raccontano episodi di voyeurismo punito, spesso con la menomazione o la morte dell’indiscreto osservatore.

Ora, l’immagine della dea nuda, esposta allo sguardo dei fedeli, era qualcosa di davvero unico, un gesto che non a caso fu percepito da subito come una sorta di affronto al divino, più che alla morale, e in qualche modo un nuovo approccio all’eros nella rappresentazione plastica. Negli intenti dello scultore, l’idea che la statua fosse l’eco in terra della bellezza di Afrodite, alla cui visione erano finalmente ammessi i mortali, doveva suscitare il desiderio di superare i limiti della condizione umana e di “appropriarsi” di quella divina. Nel già menzionato epigramma di Antipatro di Sidone (Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 167, v. 2) si dice che l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 fosse «capace di incendiare le pietre, benché di pietra anch’essa» (ὡς φλέξει καὶ λίθος εὖσα λίθον).

In relazione a questo potere soprannaturale delle statue divine, la storia a cui Plinio (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 21) accenna al termine della sua digressione sulla 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 è quella del tentato rapporto sessuale fra un giovane e la statua, tentativo di cui il simulacro stesso portava traccia sul marmo (𝑒𝑖𝑢𝑠𝑞𝑢𝑒 𝑐𝑢𝑝𝑖𝑑𝑖𝑡𝑎𝑡𝑖𝑠 𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑐𝑒𝑚 𝑚𝑎𝑐𝑢𝑙𝑎𝑚). Questa vicenda scabrosa divenne famosa in epoca ellenistica e imperiale, prendendo a circolare fra i generi letterari più disparati. Valerio Massimo fa eco alla notazione pliniana: «Prassitele, scolpita nel marmo la sposa di questi [𝑠𝑐. Vulcano], la collocò nel tempio dei Cnidi: era talmente bella che non riuscì a proteggersi dall’assalto di un maniaco sessuale» (Vᴀʟ. Mᴀx. VIII 11 ext. 4). L’amore per figure scolpite o dipinte (“agalmatofilia” o “pigmalionismo”; cfr. Lɪɢʜᴛ 1969², 502-504) potrebbe avere il suo archetipo nel ben noto mito di Pigmalione, il re di Cipro che si invaghì di una statua d’avorio raffigurante una donna, e la sposò quando per grazia di Afrodite questa prese vita (Oᴠɪᴅ. 𝑀𝑒𝑡. X 243ss.).

Afrodite Cnidia. Testa, marmo, copia romana da un originale prassitelico di IV sec. a.C., dal Palatino. Roma, Museo del Palatino.

In una lunga sezione sugli “amori impossibili” suscitati da dipinti e sculture trasmessa da Ateneo, Clearco racconta che un certo Cleisofo di Selimbria, «innamoratosi di una statua di marmo pario, a Samo, si chiuse a chiave nel tempio convinto di potersi congiungere con questa; giacché dunque non gli fu possibile, a causa della freddezza e della resistenza opposta dal marmo, subito desistette dal suo desiderio, e avvicinato a sé quel brandello di carne, con esso si congiunse» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 605f = Cʟᴇᴀʀ. F. 26 Wehrli). Clearco narra l’aneddoto con dettagli ignoti alle fonti più antiche, come il nome e la provenienza del protagonista, che peraltro è ignoto e ignoti sono anche il tempio di Samo e la statua. Nel finale Cleisofo si produce in un inedito rapporto sessuale (ἐπλησίασεν) con un brandello di carne (τὸ σαρκίον), preso forse da un animale sacrificale (secondo Aʀɴᴏᴛᴛ 1996, 150, sulla scorta di Sᴏʀ. 𝐺𝑦𝑛. I 18, 1-3, in esso andrebbe riconosciuto un equivoco dettaglio dell’anatomia sessuale femminile).

Ateneo, inoltre, riferisce che un accenno all’episodio di Cleisofo di Selimbria compare anche in due poeti della “Commedia nuova”, ne 𝐼𝑙 𝑑𝑖𝑝𝑖𝑛𝑡𝑜 (Γραφή) di Alessi e in un passo di Filemone, autori entrambi vissuti tra IV e III secolo (rispettivamente Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 605f = Aʟᴇxɪs 𝑃𝐶𝐺 F 41 = 𝐶𝐴𝐹 II 312, F 40; e Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 606a = Pʜɪʟᴇᴍ. 𝑃𝐶𝐺 F 127 = 𝐶𝐴𝐹 II 521, F 139). A quanto pare, le statue femminili non erano le uniche ad aver indotto in “tentazione” qualche giovane impressionabile. L’abile mano di Prassitele aveva modellato anche un 𝐸𝑟𝑜𝑠 nudo, esposto in un tempio di Paro e, come riporta Plinio, «se ne innamorò infatti Alceta di Rodi, che lasciò anche lui sulla statua una traccia del suo amore», così com’era accaduto per la Venere di Cnido (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 39a). Questi e altri episodi di “agalmatofilia” (per cui si vd. Pᴏsɪᴅɪᴘ. FGrHist. 447 F 2 = Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 57.3 = Aʀɴ. 𝐴𝑑𝑣. 𝑛𝑎𝑡. 6, 22; Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 13-16; 𝐼𝑚𝑎𝑔. 4; Pʜɪʟᴏsᴛʀ. 𝐴𝑝. IV 40, Tᴢ. 𝐻𝑖𝑠𝑡. VIII, 375-387) presentano dei tratti in comune: al centro della vicenda c’è sempre un giovane uomo di buona famiglia (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. VII 127, 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑐𝑖𝑝𝑢𝑒 𝑢𝑒𝑠𝑎𝑛𝑜 𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒 𝑐𝑢𝑖𝑢𝑠𝑑𝑎𝑚 𝑖𝑢𝑢𝑒𝑛𝑖𝑠 𝑖𝑛𝑠𝑖𝑔𝑛𝑖) che, invaghitosi della statua, dopo aver corrotto gli inservienti del tempio, si industria di possedere il simulacro divino con pratiche magiche o giocose; quindi, si rinchiude di notte nel sacello e, dopo aver tentato l’accoppiamento con l’immagine, se non riesce a guarire dalla passione, all’alba, si getta in mare togliendosi la vita. Pare che questi racconti facessero parte di una narratologia attraverso la quale le diverse città del mondo antico tentavano di rendere famosi i propri santuari, inserendoli in una sorta di circuito turistico o devozionale.

Lo scalpore e l’ammirazione suscitati dall’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 e dal suo rivoluzionario verismo dovettero produrre fondamentali ripercussioni sulla notorietà di Mnesarete e, verosimilmente, anche sul suo “potere contrattuale”. I contemporanei dovevano essere disposti a pagare forti somme per un incontro con l’ἑταίρα, le cui sembianze erano state immortalate dal celebre Prassitele. In breve tempo, questa donna riuscì a conquistarsi fama e ricchezze, tali da consentirle di avviare quel processo di “autocelebrazione” che, a quanto pare, caratterizzò tutta la sua vita; d’altronde, l’impressione che si ricava dall’esame delle fonti antiche è che il “mito” di Frine sia stato costruito, ancor prima che dai biografi e dai poeti, dall’ἑταίρα medesima, grazie a un abile impiego di frasi provocatorie, destinate a suscitare scalpore, ovvero mediante il ricorso a scenografiche quanto rare e studiate apparizioni pubbliche (cfr. Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 136-137).

A quanto pare, Mnesarete non rinunciava a esporsi con dichiarazioni scandalose: nel suo studio 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 il grammatico Callistrato, contemporaneo di Aristarco di Samotracia, riporta che «Frine divenne ricchissima e promise che avrebbe cinto di mura la città di Tebe, se i suoi abitanti vi avessero apposto un’iscrizione che cita: “Alessandro abbatté queste mura, l’etera Frine le riedificò” (᾽Αλέξανδρος μὲν κατέσκαψεν, ἀνέστησεν δὲ Φρύνη ἡ ἑταίρα)» (Cᴀʟʟɪsᴛʀ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 348 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591d). L’aspetto più interessante dell’aneddoto risiede proprio nella dichiarazione scandalosa della cortigiana, un’evidente provocazione, che non va tuttavia letta come un’estemporanea battuta umoristica: nella supposta correlazione tra la cortigiana e il suo regale contemporaneo, in realtà, andrebbe ravvisato quel violento spirito antimacedone di certi politici ateniesi. Una frase “politica” – una sorta di slogan! –, ma anche un’esplicita sfida al moralismo dei benpensanti, per i quali era inconcepibile che il nome di un’etera fosse inciso su un edificio pubblico. Nel passo di Callistrato il verbo ὑπισχνεῖτο (da ὑπισχνέομαι), che alla lettera è un imperfetto, ha valore iterativo e perciò alluderebbe al fatto che Frine abbia più volte avanzato la proposta, probabilmente con atteggiamento esibizionistico-pubblicitario, volto ad accrescere la propria autorappresentazione, piuttosto che con la reale speranza che l’offerta sarebbe stata accolta dai Tebani. E anche se ciò non fosse stato così, di certo non ne avrebbe sminuito il valore. Come in analoghi episodi di «narratives of benefaction», anche in questo caso il testo della presunta iscrizione giustappone il nome di Alessandro all’inizio del periodo e quello di Frine alla fine, come in una sorta di iperbato, alludendo a un’equipollenza tra il sovrano macedone e la ricca etera. La presunzione che una cortigiana potesse mettersi al pari di un re andava al di là della consueta liceità e un simile atto di autocelebrazione era visto come capace di sovvertire l’ordine precostituito (MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 155-161).

Se si deve credere all’aneddoto, Frine pensava e agiva con spregiudicatezza: prevaricato il limite del genere (una donna che presume di mettersi alla pari con un uomo) e quello politico (l’esponente di un ceto inferiore, una profuga diseredata, che osa paragonarsi perfino a un re!), la scaltra ἑταίρα voleva marcare la propria superiorità tanto sulle concorrenti quanto sulle umili πόρναι da «due oboli». Sul piano sociale, l’uscita di Frine indicherebbe una presa di distanza da quante fossero inferiori a lei, le cui pratiche e la cui reputazione mettevano costantemente a rischio la sua fama e il suo 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑠. Offrirsi di ricostruire le mura di una grande città di tasca propria era forse il modo più chiaro e diretto possibile per sottolineare il divario che la separava dalle mere πόρναι δίδραχμοι. Ma c’è anche un particolare malizioso nelle sue parole. La traduzione rende ἀνέστησεν nel suo significato più letterale, cioè «riedificò, rimise in piedi»; siccome la 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎 𝑎𝑔𝑒𝑛𝑠 è nientemeno che una cortigiana, è possibile che la frase celasse un doppio senso osceno, «fece erigere, rese erette» (cfr. Hᴇɴᴅᴇʀsᴏɴ 1991, 108-130). Benché sia solo un’ipotesi, tuttavia, non è oziosa, dato che le fonti illustrano come fosse piuttosto comune che tanto le ἑταῖραι quanto le πόρναι avessero nomi eroticamente significativi (cfr. MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 59-78). E siccome queste professioniste erano sovente obiettivo degli strali dei commediografi, quanto a Frine, è possibile che l’ἑταίρα intendesse, in questo caso, fare umorismo su se stessa, un umorismo che con la sua eleganza e raffinatezza avrebbe attirato le attenzioni di un sempre maggior numero di potenziali clienti (MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 79-105).

Probabilmente, frutto del calcolo esibizionistico di questa etera era anche l’uso di commissionare numerose statue a Prassitele da dedicare in luoghi “strategici” della grecità. A questo proposito, Pausania (Pᴀᴜs. I 20, 1-2) riferisce un succoso aneddoto a dimostrazione dell’arguzia di cui Mnesarete-Frine si serviva per soggiogare i propri spasimanti. L’etera pregò l’artista di donarle la sua opera più bella e lui acconsentì senza però dirle quale fosse, a suo giudizio, la migliore. Così l’etera mandò un servo da Prassitele ad annunciargli che un incendio aveva irrimediabilmente danneggiato alcune sue opere, e l’artefice, preso dal panico, cominciò a gridare che era rovinato se aveva perso le statue del 𝑆𝑎𝑡𝑖𝑟𝑜 e dell’𝐸𝑟𝑜𝑠. Sopraggiunse Frine stessa per tranquillizzare l’amante e spiegargli che si era trattato solo di un espediente per estorcergli l’informazione desiderata: così ella scelse l’𝐸𝑟𝑜𝑠, forse in precedenza posto ai piedi della scena del teatro di Dioniso ad Atene, e lo consacrò come offerta votiva a Tespie (Pᴀᴜs. IX 27, 1; Cᴀʟʟɪsᴛʀ². 𝑆𝑡𝑎𝑡. 𝑑𝑒𝑠𝑐𝑟𝑖𝑝𝑡. 3, 1; cfr. Fᴜʀᴛᴡᴀɴɢʟᴇʀ 1964, 318-319; Rɪᴄʜᴛᴇʀ 1970, 202). La città, devota al dio e fiera di aver dato i natali a una donna così illustre e pia, fece collocare accanto all’𝐸𝑟𝑜𝑠 un ritratto di Frine, opera dello stesso Prassitele (Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753f; cfr. anche Pᴀᴜs. IX 27, 5; Aʟᴄɪᴘʜʀ. IV 1, 1). La statua del dio godé di grande fama nell’antichità e l’𝐴𝑛𝑡ℎ𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑎 𝑃𝑎𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎 conserva ben cinque epigrammi a essa dedicati, in cui è immancabilmente nominata Frine (Lᴇᴏɴ. F 89 Gow-Page = 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 206; Tᴜʟʟ¹. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. VI 260; XVI 205; Iᴜʟ². 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 203; Pʀᴀxɪᴛ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 204; cfr. Cᴏʀsᴏ 1988, 41-42).

Quanto agli abitanti di Tespie, per onorare l’insigne concittadina del prezioso dono ricevuto, a immagine di Frine «fecero realizzare una statua dorata e la dedicarono a Delfi, ponendola su una colonna di marmo pentelico, opera dello stesso Prassitele» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b-c). Non è possibile dubitare dell’esistenza del monumento, dato che Plutarco afferma di averla vista coi propri occhi (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a; 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753e-f); anche Dione di Prusa conferma di averla adocchiata su una colonna (D. Cʜʀ. 𝑂𝑟. XXXVII 28; ma anche Lɪʙ. XXV 40; cfr. Jᴀᴄǫᴜᴇᴍɪɴ 1999, 166-167; 169). Si può solo immaginare quale e quanto scandalo quella statua potesse suscitare, soprattutto se si considera che non era consuetudine esporre le immagini di etere e prostitute nei luoghi sacri: per di più l’intraprendente Tespiese stava baldanzosamente «in piedi, tutta d’oro, insieme con re e regine» (Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753e).

Quando il cinico Cratete (Cʀᴀᴛ¹. T V H 28 Giannantoni, così in Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎 Dɪᴏɢ. VI 60, secondo cui si trattava di Diogene di Sinope) «contemplò la statua, sentenziò che si trattava di un’offerta innalzata all’incontinenza dei Greci (τῆς τῶν ῾Ελλήνων ἀκρασίας ἀνάθημα)»: un’uscita divenuta presto proverbiale! La versione di Ateneo (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b) lascia intendere che la statua sarebbe stata eretta a spese dei Tespiesi, mentre in quella di Claudio Eliano (Aᴇʟ. 𝑉𝐻 IX 32) essa sarebbe stata pagata dai «più dissoluti fra i Greci». Sono varianti che, in ultima analisi, portano a una sola, concreta conclusione: committente della costosa statua fu la stessa Frine, grazie alle ingenti ricchezze accumulate in molti anni di lucrosa attività, anche se non è da escludere che l’ardita operazione sia avvenuta con il beneplacito degli aristocratici di Tespie, i quali avrebbero permesso alla donna di far incidere sul basamento questa orgogliosa iscrizione: «Frine, figlia di Epicle, tespiese» (a proposito di questa epigrafe Tᴏᴅɪsᴄᴏ 2020, 212-215, ha espresso alcune perplessità). Verosimilmente, la statua di Delfi rappresenterebbe una fase avanzata della carriera di Mnesarete – con ogni probabilità dopo la terza Guerra sacra (356-346) –, un periodo in cui l’ἑταίρα, ormai forte del proprio potere economico, ma anche dell’appoggio (più o meno dichiarato) dell’aristocrazia tespiese, tendeva a lanciare messaggi “forti” contro nemici, antichi e recenti, della sua stessa patria. A tal proposito, è interessante la notizia dello storiografo macedone Alceta il Periegeta (Aʟᴋ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 405 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b; cfr. Jᴀᴄǫᴜᴇᴍɪɴ 1999, 264): quest’ultimo, nel secondo libro del suo Περὶ τῶν ἐν Δελφοῖς ἀναθημάτων (𝑆𝑢𝑖 𝑚𝑜𝑛𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑣𝑜𝑡𝑖𝑣𝑖 𝑎 𝐷𝑒𝑙𝑓𝑖), afferma che la statua di Frine sarebbe stata collocata tra quella di Archidamo, re di Sparta (tradizionale nemica dei Beoti), e quella di Filippo II, figlio di Aminta e re di Macedonia (cfr. anche Pᴀᴜs. X 15, 1). Un simile “schiaffo morale” non poteva sfuggire a un Macedone come Alceta: dopo essere riuscito a fatica a ottenere la legittimazione in seno all’anfizionia delfica, ora Filippo era costretto a veder troneggiare, accanto alla propria immagine, quella di una cortigiana, per di più originaria della Beozia e, ancor peggio, legata ai circoli antimacedoni di Atene (si vd. Cᴏʀsᴏ 1988, 177-122; Cᴏʀsᴏ 1990, 14-15; 16-56; 139-142; Cᴏʀsᴏ 1997, 123-150; Kᴇᴇsʟɪɴɢ 2005, 68; Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 138-139).

Jose Frappa, Frine. Olio su tela, 1903. Paris, Musée d’Orsay.

Se le cose stanno davvero così, si potrebbe supporre che lo sfacciato esibizionismo di Mnesarete-Frine potrebbe aver contribuito a montare intorno a lei una sempre maggiore ostilità fra gli stessi Ateniesi, attirandole disprezzo e odio inveterato; non si può perciò escludere che proprio il risentimento di una parte della cittadinanza di cui era ospite sia stata fra le cause che le fecero correre il rischio di essere messa a morte.

Secondo una tradizione che risale a Idomeneo di Lampsaco (Iᴅᴏᴍ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 338 F 14) e a Ermippo di Smirne (Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46), Frine fu assolta grazie all’appassionata difesa di Iperide, dichiarato esponente della fazione antimacedone e nientemeno che uno dei suoi tanti amanti: in maniera forse un po’ troppo tendenziosa e non senza intenti calunniosi, Iperide è passato alla storia come un uomo «incline ai piaceri di Afrodite» (πρὸς τὰ ἀφροδίσια καταφερής) e si racconta che, per assecondare la propria libidine in santa pace, avesse perfino cacciato di casa suo figlio Glaucippo, introducendovi Mirrina, «la più costosa fra le etere» (τὴν πολυτελεστάτην ἑταίραν); a dire il vero, sembra che l’oratore mantenesse al Pireo un’altra cortigiana, Aristagora, e in una sua tenuta a Eleusi un’altra ancora, una ragazza tebana di nome Fila, che avrebbe riscattato per 20 mine (equivalenti a 2000 dracme: una somma davvero considerevole!), divenuta custode del suo patrimonio. Nonostante avesse trasferito in casa propria la suddetta Mirrina, Iperide nel suo 𝐼𝑛 𝑑𝑖𝑓𝑒𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 avrebbe ammesso «di essere innamorato di questa donna e di non essersi mai allontano da questo amore» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 590c-d; cfr. Pʟᴜᴛ. 𝑋 𝑜𝑟𝑎𝑡. 849d). Il discorso pronunciato dal politico ateniese in difesa dell’ἑταίρα purtroppo è andato perduto, ma se ne conserva qualche frammento (Hʏᴘ. LX F 171-180 Jensen), a cui va aggiunta una messe di notizie trasmesse da autori posteriori, propensi a romanzare la vicenda con dettagli pittoreschi: occorre perciò cautela nel vaglio delle fonti.

Il processo contro Frine, collocabile approssimativamente tra il 350 e il 335 a.C. (Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941, 904), ebbe grande risonanza non solo per via dei personaggi coinvolti, ma anche per alcuni piccanti risvolti, su cui l’aneddotica di epoca successiva si sofferma con esibito compiacimento e forse con l’aggiunta di qualche suggestivo dettaglio. A intentare la causa fu un certo Eutia, un oscuro personaggio descritto come un rancoroso e frustrato ex amante di Frine (Aʟᴄɪᴘʜʀ. 𝐸𝑝. IV 4). È opinione comune che il discorso d’accusa sia stato pronunciato da questo Eutia, ma che sia stato scritto dall’oratore e storico Anassimene di Lampsaco (Aɴᴀxɪᴍ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 72 T 17a-b = Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Εὐθίας Dindorf = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e; cfr. pp. 320-321 Baiter Sauppe). Ora, anche ammesso che l’accusatore fosse stato davvero un amante della donna, come pare insinuare lo stesso Iperide (Hʏᴘ. LX F 172 Jensen), è impensabile che Frine fosse citata in giudizio per una banale questione di gelosia e che lei e il suo difensore fossero, all’epoca del processo, praticamente estranei. A dire il vero, dagli sparuti frammenti iperidei (Hʏᴘ. LX F 171-180 Jensen) si evince che il politico ateniese intrattenesse da tempo una relazione con l’etera e che per questo motivo fosse addirittura sospettabile di complicità. Si potrebbe presumere, invero, che il processo intentato da Eutia non fosse altro che un pretesto da parte degli avversari di Iperide per colpire il retore stesso, la cui presenza doveva risultare scomoda e ingombrante non solo per gli esponenti della fazione filomacedone, ma anche per altri che mal sopportavano la sua intransigenza. Chiunque essi fossero, i nemici del retore si guardarono bene dall’esporsi in prima persona: perciò avrebbero fatto ricorso a un loro 𝑜𝑢𝑡𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟 come Eutia, che godeva fama di essere un «sicofante», cioè un accusatore di professione e un prestanome nei processi (Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Εὐθίας Dindorf = Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46b = Hʏᴘ. LX F 176 Jensen; Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995, 305-306).

Il fatto che a Frine fosse stata mossa l’accusa di empietà (γραφὴ ἀσεβείας), crimine per cui era prevista la pena capitale, ha posto alcuni problemi. Si è ipotizzato che l’imputazione fosse un’altra: per esempio, estorsione o tradimento (γραφὴ εἰσαγγελίας), cui, per il suo carattere estremamente generico, era possibile fare ricorso con maggiore ampiezza rispetto all’accusa di empietà (Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995, 310-312). Per esempio, in una delle 𝐿𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑖𝑔𝑖𝑎𝑛𝑒 di Alcifrone l’etera Bacchide avverte l’amica Mirrina di non chiedere denaro a Eutia, perché, se fosse stata citata in giudizio, sarebbe stata accusata «di aver dato fuoco agli arsenali e di sovvertire le leggi» (Aʟᴄɪᴘʜʀ. 𝐸𝑝. IV 4, 5). Ora, commettere reati di questo tipo era considerato come attentare alla patria e perciò si era perseguiti per εἰσαγγελία. A quanto pare lo stesso procedimento era stato intentato per lo scandalo della mutilazione delle Erme nel 415 (Aɴᴅᴏᴄ. I 11-12; Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑙𝑐. 22, 4), secondo quanto era stato stabilito nel 432 dal decreto di Diopite contro «quelli che non credono agli dèi o che insegnano dottrine sugli argomenti celesti» (Pʟᴜᴛ. 𝑃𝑒𝑟. 32, 2, τοὺς τὰ θεῖα μὴ νομίζοντας ἢ λόγους περὶ τῶν μεταρσίων διδάσκοντας; cfr. Hᴀɴsᴇɴ 1975; MᴀᴄDᴏᴡᴇʟʟ 1978, 183-186; 197-201; Hᴀʀʀɪsᴏɴ 1998, II, 50-59).

Quel poco che si sa circa il discorso di Eutia induce a credere che l’accusa di empietà potesse fondarsi anche su argomenti piuttosto vaghi e pretestuosi. In sostanza, come riassume un l’𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑢𝑠 𝑆𝑒𝑔𝑢𝑒𝑟𝑖𝑎𝑛𝑢𝑠, ovvero Τέχνη τοῦ πολιτικοῦ λόγου (𝐿’𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑡𝑖𝑐𝑜), i capi d’imputazione rivolti a Frine erano i seguenti (I 455 Spengel = Eᴜᴛʜ. F 2 Baiter-Sauppe; cfr. 𝑂𝑟𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝐴𝑡𝑡𝑖𝑐𝑖 58, 2, 320 Sauppe): aver fatto baldoria (ἐκώμασεν) in modo licenzioso e indecente nel Liceo; aver organizzato promiscui θίασοι orgiastici fra uomini e donne (θιάσους ἀνδρῶν καὶ γυναικῶν συνήγαγεν); aver introdotto in città una divinità straniera (καινὸν εἰσήγαγε θεόν), un certo Isodaite, al quale si diceva rendessero onore «le donne pubbliche e per nulla virtuose» (Hʏᴘ. LX F 177 Jensen = Hsᴄʜ, 𝑠.𝑣. Ἰσοδαίτης Schmidt; Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Ἰσοδαίτης Dindorf; cfr. Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝐸 389a). Stando a un frammento dell’Ἐφεσία (𝐿𝑎 𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝐸𝑓𝑒𝑠𝑜) del comico Posidippo (Pᴏsɪᴅɪᴘ. ᴄᴏᴍ. F 13 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e-f), la fonte cronologicamente più vicina ai fatti, l’accusa a carico di Frine sembra essere stata di natura economica, per una truffa ai danni dei clienti (v. 4, βλάπτειν δοκοῦσα τοὺς βίους μείζους βλάβας); ma c’è chi ha voluto emendare quel τοὺς βίους con τοὺς νέους, per cui il verso anziché riferire: «Accusata di fare danni abbastanza gravi ai patrimoni», suonerebbe: «Accusata di fare danni abbastanza gravi ai giovani», cioè di corrompere la gioventù; ciò non è del tutto inverosimile, dato che il luogo dei presunti bagordi dell’etera era il Liceo, dove si trovava uno dei γυμνασία più frequentati della città (Sᴇᴍᴇɴᴏᴠ 1935, 275). Comunque stessero le cose, dalla tradizione sembra che si trattasse di maldicenze contro una donna dai costumi trasgressivi, più plateali che realmente offensivi nei confronti delle pubbliche istituzioni. E quindi, perché tanto rancore nei riguardi di Mnesarete? Qualsiasi fossero le reali argomentazioni addotte da Eutia, è ragionevole supporre che l’intenzione di eliminare l’etera fosse dovuta a ragioni ben diverse: forse ella aveva suscitato le invidie dei più tradizionalisti per lo stile di vita spregiudicato e per alcuni atteggiamenti eccessivi, come la sfacciata ostentazione della propria ricchezza – uno “schiaffo morale” per le cittadine ateniesi di buona famiglia! Ma, come si è visto, forse incurante dell’invidia e delle critiche, Frine si era industriata in ogni modo per attirare maggiori attenzioni su di sé, senza risparmiarsi gesti, dichiarazioni e provocazioni eclatanti (cfr. Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 1999, 49-55).

Il dibattimento fu molto controverso e, secondo la tradizione accolta da Ateneo, Iperide, «poiché con la sua orazione non otteneva nessun risultato, temendo che i giudici votassero la condanna, accompagnata Frine in un punto bene in vista, le stracciò la tunichetta in modo da denudarle il seno, e declamò la perorazione finale con l’ausilio della visione che lei offriva: riuscì dunque a ottenere che i giudici, pieni di superstizioso timore, indulgessero a pietà e non mandassero a morte la sacerdotessa e ancella di Afrodite» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 590e = Hʏᴘ. LX F 178 Jensen). La difesa ebbe successo, ma suscitò molte polemiche, per cui «in seguito a tali fatti si stabilì un decreto in base al quale nessun retore che prendesse la difesa di qualcuno ricorresse a lamenti né che l’imputato – uomo o donna che fosse – fosse giudicato mettendosi in mostra» (μετὰ ταῦτα ψήφισμα μηδένα οἰκτίζεσθαι τῶν λεγόντων ὑπέρ τινος μηδὲ βλεπόμενον τὸν κατηγορούμενον ἢ τὴν κατηγορουμένην κρίνεσθαι). Quanto riportato dall’erudito di Naucrati, attingendo al biografo ellenistico Ermippo di Smirne (Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46a), è forse il resoconto più dettagliato sulla vicenda, ma non di certo l’unico. Mentre lo Pseudo-Plutarco (Pʟᴜᴛ. 𝑋 𝑜𝑟𝑎𝑡. 849d) descrive l’episodio con lievi differenze rispetto ad Ateneo, il particolare della svestizione di Frine è riferito da altri autori con alcune varianti: secondo Quintiliano (Qᴜɪɴᴛ. II 15, 9), sarebbe stato denudato tutto il corpo dell’imputata, mentre per Sesto Empirico (Sᴇxᴛ. Eᴍᴘ. 𝑀𝑎𝑡ℎ. 2, 4) sarebbe stata la stessa etera a prendere l’iniziativa e, lacerata la veste, a petto nudo, si sarebbe gettata ai piedi dei giudici. In ogni caso, sembra che la storia della denudazione sia sorta da una ipotiposi retorica (forse la patetica scena dell’accusata che si stracciava tragicamente le vesti scoprendo il seno); presa per vera da biografi, poeti ed eruditi di epoca successiva, si tratterebbe di una versione “vulgata” di forte impatto (cfr. Cᴀsᴛᴇʟʟᴀɴᴇᴛᴀ 2013, 107-113).

Jean-Léon Gérôme, Frine davanti l’Areopago. Olio su tela, 1861.

Nel III secolo a.C. le peripezie giudiziarie di Frine erano talmente popolari da ispirare anche la salace parodia di Eronda: nel suo mimiambo, Πορνοβοσκός (𝐼𝑙 𝑙𝑒𝑛𝑜𝑛𝑒), il protagonista Battaro svolge il proprio monologo contro alcuni giovinastri accusati di violenza su una delle sue ragazze, Mirtale; l’improvvisato oratore, nella perorazione finale, chiama a sé la prostituta e la invita a denudarsi davanti alla corte per comprovare la verità delle sue imputazioni (Hᴇʀᴏɴᴅ. 2, 65ss.). Ha tutta l’aria di essere un riecheggiamento in chiave parodica del processo a Frine: qui però la celeberrima etera è abbassata al livello di una volgare prostituta di infima condizione, mentre Battaro, trasformato in un Iperide da bordello, mostra nuda la sua protetta non solo per avallare le proprie argomentazioni, ma anche, e molto probabilmente, per eccitare i bassi istinti dei giurati.  

Tuttavia, la fonte più antica pervenuta, il già citato frammento del commediografo macedone Posidippo (c. 316- 𝑝𝑜𝑠𝑡 279 a.C.), ridimensiona decisamente l’accaduto (Pᴏsɪᴅɪᴘ. ᴄᴏᴍ. F 13 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e-f):

Un tempo Frine fu di gran lunga la più celebre

di noi etere. E anche se sei troppo giovane per quei tempi,

avrai senz’altro sentito parlare del suo processo.

Accusata di far danni abbastanza gravi ai patrimoni,

ella per la sua vita conquistò l’Eliea […]

e, stringendo le mani a ciascuno dei giudici,

a stento salvò la pelle con le lacrime.

Con ogni probabilità, la versione di Posidippo potrebbe essere la più attendibile, dato che, da buon comico, non si sarebbe certo risparmiato di bersagliare l’etera, se l’episodio della denudazione si fosse verificata. Inoltre, nel frammento dell’Ἐφεσία non si fa alcuna menzione dell’accusa di empietà. Invece, quello che più colpisce della versione di Ermippo-Ateneo è l’enfasi posta sulla «pietà» (οἶκτος) e sul «superstizioso timore» (δεισιδαιμονῆσαι) suscitati nei giurati dalla vista epifanica (ἐκ τῆς ὄψεως αὐτῆς) della bellezza di Frine, incarnazione vivente della dea Afrodite, di cui l’etera è detta essere «sacerdotessa e ancella» (ὑποφῆτιν καὶ ζάκορον).

Comunque siano andate le cose, il processo con il quale i nemici suoi e di Iperide volevano toglierla di mezzo, paradossalmente, si risolse in una definitiva consacrazione del fascino di Frine.

***

Bibliografia:

A. Aᴊᴏᴏᴛɪᴀɴ, 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠, in O. Pᴀʟᴀɢɪᴀ, J.J. Pᴏʟʟɪᴛᴛ (eds.), 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑙 𝑆𝑡𝑦𝑙𝑒𝑠 𝑖𝑛 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘 𝑆𝑐𝑢𝑙𝑝𝑡𝑢𝑟𝑒, Cambridge 1996, 91-129.

G. Bᴀʀᴛᴏʟɪɴɪ, 𝐼𝑝𝑒𝑟𝑖𝑑𝑒, Padova 1977.

J.D. Bᴇᴀᴢʟᴇʏ, B. Asʜᴍᴏʀᴇ, 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘 𝑆𝑐𝑢𝑙𝑝𝑡𝑢𝑟𝑒 𝑎𝑛𝑑 𝑃𝑎𝑖𝑛𝑡𝑖𝑛𝑔 𝑡𝑜 𝑡ℎ𝑒 𝐸𝑛𝑑 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝐻𝑒𝑙𝑙𝑒𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐 𝑃𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑, London 1932.

M. Bɪᴇʙᴇʀ, 𝑇ℎ𝑒 𝑆𝑐𝑢𝑙𝑝𝑡𝑢𝑟𝑒 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝐻𝑒𝑙𝑙𝑒𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐 𝐴𝑔𝑒, New York 1961 [link].

J. Bᴏʟʟᴀɴsᴇᴇ, 𝐻𝑒𝑟𝑚𝑖𝑝𝑝𝑜𝑠 𝑜𝑓 𝑆𝑚𝑦𝑟𝑛𝑎 𝑎𝑛𝑑 ℎ𝑖𝑠 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑐𝑎𝑙 𝑊𝑟𝑖𝑡𝑖𝑛𝑔𝑠: 𝐴 𝑅𝑒𝑎𝑝𝑝𝑟𝑎𝑖𝑠𝑎𝑙, Leuven 1999.

L. Bᴏɴꜰᴀɴᴛᴇ, 𝑁𝑢𝑑𝑖𝑡𝑦 𝑎𝑠 𝑎 𝐶𝑜𝑠𝑡𝑢𝑚𝑒 𝑖𝑛 𝐶𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐𝑎𝑙 𝐴𝑟𝑡, AJA 93 (1989), 543-570 [link].

S. Cᴀsᴛᴇʟʟᴀɴᴇᴛᴀ, 𝐼𝑙 𝑠𝑒𝑛𝑜 𝑠𝑣𝑒𝑙𝑎𝑡𝑜 ad misericordiam: 𝑒𝑠𝑒𝑔𝑒𝑠𝑖 𝑒 𝑓𝑜𝑟𝑡𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑖 𝑢𝑛’𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒 𝑜𝑚𝑒𝑟𝑖𝑐𝑎, Bari 2013 [link].

E. Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ, 𝐿𝑒 𝑠𝑔𝑢𝑎𝑙𝑑𝑟𝑖𝑛𝑒 𝑖𝑚𝑝𝑒𝑛𝑖𝑡𝑒𝑛𝑡𝑖. 𝐹𝑒𝑚𝑚𝑖𝑛𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎̀ ‘𝑖𝑟𝑟𝑒𝑔𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒’ 𝑖𝑛 𝐺𝑟𝑒𝑐𝑖𝑎 𝑒 𝑎 𝑅𝑜𝑚𝑎, Milano 1999.

Iᴅ., 𝐸𝑠𝑖𝑏𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖𝑠𝑚𝑜 𝑜 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑎𝑔𝑎𝑛𝑑𝑎 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑡𝑖𝑐𝑎? 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 𝑡𝑟𝑎 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑒 𝑎𝑛𝑒𝑑𝑑𝑜𝑡𝑖𝑐𝑎, in U. Bᴜʟᴛʀɪɢʜɪɴɪ, E. Dɪᴍᴀᴜʀᴏ (eds.), 𝐷𝑜𝑛𝑛𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑎𝑛𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑔𝑟𝑒𝑐𝑎, Lanciano 2014, 129-151 [link].

L. Cʟᴏsᴜɪᴛ, 𝐿’𝐴𝑝ℎ𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑒: 𝑒́𝑡𝑢𝑑𝑒𝑠 𝑡𝑦𝑝𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑞𝑢𝑒 𝑑𝑒𝑠 𝑝𝑟𝑖𝑛𝑐𝑖𝑝𝑎𝑙𝑒𝑠 𝑟𝑒́𝑝𝑙𝑖𝑞𝑢𝑒𝑠 𝑎𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑒𝑠 𝑑𝑒 𝑙’𝐴𝑝ℎ𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑒 𝑑𝑒 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒́𝑙𝑒, Martigny 1978.

E.E. Cᴏʜᴇɴ, 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑖𝑎𝑛 𝑃𝑟𝑜𝑠𝑡𝑖𝑡𝑢𝑡𝑖𝑜𝑛. 𝑇ℎ𝑒 𝐵𝑢𝑠𝑖𝑛𝑒𝑠𝑠 𝑜𝑓 𝑆𝑒𝑥, Oxford 2015.

C.R. Cᴏᴏᴘᴇʀ, 𝐻𝑦𝑝𝑒𝑟𝑖𝑑𝑒𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝑇𝑟𝑖𝑎𝑙 𝑜𝑓 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒, Phoenix 49 (1995), 303-318 [link].

A. Cᴏʀsᴏ, 𝑃𝑟𝑎𝑠𝑠𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒: 𝑓𝑜𝑛𝑡𝑖 𝑒𝑝𝑖𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑒 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑖𝑒, 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑒 𝑜𝑝𝑒𝑟𝑒, I, Roma 1988 [link].

Iᴅ., 𝑃𝑟𝑎𝑠𝑠𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒: 𝑓𝑜𝑛𝑡𝑖 𝑒𝑝𝑖𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑒 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑖𝑒, 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑒 𝑜𝑝𝑒𝑟𝑒, II, Roma 1990.

Iᴅ., 𝑇ℎ𝑒 𝑀𝑜𝑛𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡 𝑜𝑓 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒 𝑎𝑡 𝐷𝑒𝑙𝑝ℎ𝑖, NAC 26 (1997), 123-160.

Iᴅ., 𝑇ℎ𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎𝑛 𝐴𝑝ℎ𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒, in I. Jᴇɴᴋɪɴs, G.B. Wᴀʏᴡᴇʟʟ (eds), 𝑆𝑐𝑢𝑙𝑝𝑡𝑜𝑟𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝑆𝑐𝑢𝑙𝑝𝑡𝑢𝑟𝑒 𝑜𝑓 𝐶𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑎𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝐷𝑜𝑑𝑒𝑐𝑎𝑛𝑒𝑠𝑒, London 1997b, 91-98 [link].

Iᴅ., 𝑇ℎ𝑒 𝐴𝑟𝑡 𝑜𝑓 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠: 𝑇ℎ𝑒 𝐷𝑒𝑣𝑒𝑙𝑜𝑝𝑚𝑒𝑛𝑡 𝑜𝑓 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠’ 𝑊𝑜𝑟𝑘𝑠ℎ𝑜𝑝 𝑎𝑛𝑑 𝐼𝑡𝑠 𝐶𝑢𝑙𝑡𝑢𝑟𝑎𝑙 𝑇𝑟𝑎𝑑𝑖𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑈𝑛𝑡𝑖𝑙 𝑡ℎ𝑒 𝑆𝑐𝑢𝑙𝑝𝑡𝑜𝑟’𝑠 𝐴𝑐𝑚𝑒 (364-1 𝐵𝐶), Roma 2004.

J.N. Dᴀᴠɪᴅsᴏɴ, 𝐶𝑜𝑢𝑟𝑡𝑒𝑠𝑎𝑛 𝑎𝑛𝑑 𝐹𝑖𝑠ℎ𝑐𝑎𝑘𝑒𝑠: 𝑡ℎ𝑒 𝐶𝑜𝑛𝑠𝑢𝑚𝑖𝑛𝑔 𝑃𝑎𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑠 𝑜𝑓 𝐶𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐𝑎𝑙 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑠, London 1997.

A. Dᴇʟɪᴠᴏʀʀɪᴀs, 𝐿𝑒𝑥𝑖𝑐𝑜𝑛 𝐼𝑐𝑜𝑛𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑐𝑢𝑚 𝑀𝑦𝑡ℎ𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑎𝑒 𝐶𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐𝑎𝑒, Zürich 1984.

P. Dɪᴍᴀᴋɪs, 𝑂𝑟𝑎𝑡𝑒𝑢𝑟𝑠 𝑒𝑡 ℎ𝑒́𝑡𝑎𝑖̈𝑟𝑒𝑠 𝑑𝑎𝑛𝑠 𝑙’𝐴𝑡ℎ𝑒̀𝑛𝑒𝑠 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑞𝑢𝑒, in 𝐸́𝑟𝑜𝑠 𝑒𝑡 𝑑𝑟𝑜𝑖𝑡 𝑒𝑛 𝐺𝑟𝑒̀𝑐𝑒 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑞𝑢𝑒, Paris 1988, 43-54.

J. Eɴɢᴇʟs, 𝑆𝑡𝑢𝑑𝑖𝑒𝑛 𝑧𝑢𝑟 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑡𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑒 𝑑𝑒𝑠 𝐻𝑦𝑝𝑒𝑟𝑒𝑖𝑑𝑒𝑠: 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛 𝑖𝑛 𝑑𝑒𝑟 𝐸𝑝𝑜𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑒𝑟 𝑙𝑦𝑘𝑢𝑟𝑔𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝑅𝑒𝑓𝑜𝑟𝑚𝑒𝑛 𝑢𝑛𝑑 𝑑𝑒𝑠 𝑚𝑎𝑘𝑒𝑑𝑜𝑛𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝑈𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎𝑙𝑟𝑒𝑖𝑐ℎ𝑒𝑠, München 1993².

M. Fᴀɴᴛᴜᴢᴢɪ, R. Hᴜɴᴛᴇʀ, 𝑀𝑢𝑠𝑒 𝑒 𝑚𝑜𝑑𝑒𝑙𝑙𝑖, Roma-Bari 2002.

A. Fᴜʀᴛᴡᴀɴɢʟᴇʀ, 𝑀𝑎𝑠𝑡𝑒𝑟𝑝𝑖𝑒𝑐𝑒𝑠 𝑜𝑓 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘 𝑆𝑐𝑢𝑙𝑝𝑡𝑢𝑟𝑒. 𝐴 𝑆𝑒𝑟𝑖𝑒𝑠 𝑜𝑓 𝐸𝑠𝑠𝑎𝑦𝑠 𝑜𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑦 𝑜𝑓 𝐴𝑟𝑡, Chicago 1964.

K. Gɪʟʜᴜʟʏ, 𝑇ℎ𝑒 𝐹𝑒𝑚𝑖𝑛𝑖𝑛𝑒 𝑀𝑎𝑡𝑟𝑖𝑥 𝑜𝑓 𝑆𝑒𝑥 𝑎𝑛𝑑 𝐺𝑒𝑛𝑑𝑒𝑟 𝑖𝑛 𝐶𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐𝑎𝑙 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑠, Cambridge 2009.

A.S.F. Gᴏᴡ (ed.), 𝑀𝑎𝑐ℎ𝑜𝑛: 𝑇ℎ𝑒 𝐹𝑟𝑎𝑔𝑚𝑒𝑛𝑡𝑠, Cambridge 1965.

A. Gᴜᴅᴇᴍᴀɴɴ, 𝑠.𝑣. 𝐻𝑒𝑟𝑜𝑑𝑖𝑘𝑜𝑠¹, 𝑅𝐸 8.1 (1912), 973-978.

M.H. Hᴀɴsᴇɴ, 𝐸𝑖𝑠𝑎𝑛𝑔𝑒𝑙𝑖𝑎: 𝑇ℎ𝑒 𝑆𝑜𝑣𝑒𝑟𝑒𝑖𝑔𝑛𝑡𝑦 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝑃𝑒𝑜𝑝𝑙𝑒’𝑠 𝐶𝑜𝑢𝑟𝑡 𝑖𝑛 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑠 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝐹𝑜𝑢𝑟𝑡ℎ 𝐶𝑒𝑛𝑡𝑢𝑟𝑦 𝐵.𝐶. 𝑎𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝐼𝑚𝑝𝑒𝑎𝑐ℎ𝑚𝑒𝑛𝑡 𝑜𝑓 𝐺𝑒𝑛𝑒𝑟𝑎𝑙𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝑃𝑜𝑙𝑖𝑡𝑖𝑐𝑖𝑎𝑛𝑠, Odense 1975.

A.R.W. Hᴀʀʀɪsᴏɴ, 𝑇ℎ𝑒 𝐿𝑎𝑤 𝑜𝑓 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑠: 𝑃𝑟𝑜𝑐𝑒𝑑𝑢𝑟𝑒, II, Oxford 1998.

C. Hᴀᴠᴇʟᴏᴄᴋ, 𝑇ℎ𝑒 𝐴𝑝ℎ𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝑜𝑓 𝐾𝑛𝑖𝑑𝑜𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝐻𝑒𝑟 𝑆𝑢𝑐𝑐𝑒𝑠𝑠𝑜𝑟𝑠: 𝐴 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑐𝑎𝑙 𝑅𝑒𝑣𝑖𝑒𝑤 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝐹𝑒𝑚𝑎𝑙𝑒 𝑁𝑢𝑑𝑒 𝑖𝑛 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘 𝐴𝑟𝑡, Ann Arbor 1995.

R. Hᴀᴡʟᴇʏ, 𝐴𝑛𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡 𝐶𝑜𝑙𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑜𝑓 𝑊𝑜𝑚𝑒𝑛 𝑆𝑎𝑦𝑖𝑛𝑔𝑠: 𝐹𝑜𝑟𝑚 𝑎𝑛𝑑 𝐹𝑢𝑛𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛𝑠, BICS 50 (2007), 161-169.

J. Hᴇɴᴅᴇʀsᴏɴ, 𝑇ℎ𝑒 𝑀𝑎𝑐𝑢𝑙𝑎𝑡𝑒 𝑀𝑢𝑠𝑒: 𝑂𝑏𝑠𝑐𝑒𝑛𝑒 𝐿𝑎𝑛𝑔𝑢𝑎𝑔𝑒 𝑖𝑛 𝐴𝑡𝑡𝑖𝑐 𝐶𝑜𝑚𝑒𝑑𝑦, New York 1991².

A. Jᴀᴄǫᴜᴇᴍɪɴ, 𝑂𝑓𝑓𝑟𝑎𝑛𝑑𝑒𝑠 𝑚𝑜𝑛𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑙𝑒𝑠 𝑎̀ 𝑑𝑒𝑙𝑝ℎ𝑒𝑠, Paris 1999.

K. Kᴀᴘᴘᴀʀɪs, 𝑃𝑟𝑜𝑠𝑡𝑖𝑡𝑢𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝐴𝑛𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘 𝑊𝑜𝑟𝑙𝑑, Leiden-Boston 2017.

C. Kᴇᴇsʟɪɴɢ, 𝐻𝑒𝑎𝑣𝑒𝑛𝑙𝑦 𝐵𝑜𝑑𝑖𝑒𝑠: 𝑀𝑜𝑛𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑠 𝑡𝑜 𝑃𝑟𝑜𝑠𝑡𝑖𝑡𝑢𝑡𝑒𝑠 𝑖𝑛 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘 𝑆𝑎𝑛𝑐𝑡𝑢𝑎𝑟𝑖𝑒𝑠, in C.A. Fᴀʀᴀᴏɴᴇ, L.K. MᴄCʟᴜʀᴇ (eds.), 𝑃𝑟𝑜𝑠𝑡𝑖𝑡𝑢𝑡𝑒𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝐶𝑜𝑢𝑟𝑡𝑒𝑠𝑎𝑛𝑠 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝐴𝑛𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡 𝑊𝑜𝑟𝑙𝑑, Madison 2005, 59-76.

F.G. Kᴇɴʏᴏɴ (ed.), 𝐻𝑦𝑝𝑒𝑟𝑖𝑑𝑖𝑠: 𝑜𝑟𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒𝑠 𝑒𝑡 𝑓𝑟𝑎𝑔𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎, Oxford 1906.

L. Kᴜʀᴋᴇ, 𝐶𝑜𝑖𝑛𝑠, 𝐵𝑜𝑑𝑖𝑒𝑠, 𝐺𝑎𝑚𝑒𝑠, 𝑎𝑛𝑑 𝐺𝑜𝑙𝑑: 𝑇ℎ𝑒 𝑃𝑜𝑙𝑖𝑡𝑖𝑐𝑠 𝑜𝑓 𝑀𝑒𝑎𝑛𝑖𝑛𝑔 𝑖𝑛 𝐴𝑟𝑐ℎ𝑎𝑖𝑐 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑐𝑒, Princeton 1999.

G. Lɪᴘᴘᴏʟᴅ, 𝑍𝑢𝑟 𝑔𝑟𝑖𝑒𝑐ℎ𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐾𝑢̈𝑛𝑠𝑡𝑙𝑒𝑟𝑔𝑒𝑠𝑐ℎ𝑖𝑐ℎ𝑡𝑒 3. 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠 𝑢𝑛𝑑 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒̀, JDAI 38-39 (1923-1924), 155-158.

Iᴅ., 𝑠.𝑣. 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠⁵, 𝑅𝐸 22, 2 (1954), 1788-1808.

I.C. Lᴏᴠᴇ, 𝑃𝑟𝑒𝑙𝑖𝑚𝑖𝑛𝑎𝑟𝑦 𝑅𝑒𝑝𝑜𝑟𝑡𝑠 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝐸𝑥𝑐𝑎𝑣𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑠 𝑎𝑡 𝐾𝑛𝑖𝑑𝑜𝑠, 1969, AJA 74 (1970), 149-155.

Iᴅ., 𝐴 𝑃𝑟𝑒𝑙𝑖𝑚𝑖𝑛𝑎𝑟𝑦 𝑅𝑒𝑝𝑜𝑟𝑡 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝐸𝑥𝑐𝑎𝑣𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑠 𝑎𝑡 𝐾𝑛𝑖𝑑𝑜𝑠, 1970, AJA 76 (1972a), 61-76.

Iᴅ., 𝐴 𝑃𝑟𝑒𝑙𝑖𝑚𝑖𝑛𝑎𝑟𝑦 𝑅𝑒𝑝𝑜𝑟𝑡 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝐸𝑥𝑐𝑎𝑣𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑠 𝑎𝑡 𝐾𝑛𝑖𝑑𝑜𝑠, 1971, AJA 76 (1972b), 393-405.

D.M. MᴀᴄDᴏᴡᴇʟʟ, 𝑇ℎ𝑒 𝐿𝑎𝑤 𝑖𝑛 𝐶𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐𝑎𝑙 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑠, Ithaca-New York 1978.

L.K. MᴄCʟᴜʀᴇ, 𝐶𝑜𝑢𝑟𝑡𝑒𝑠𝑎𝑛𝑠 𝑎𝑡 𝑇𝑎𝑏𝑙𝑒: 𝐺𝑒𝑛𝑑𝑒𝑟 𝑎𝑛𝑑 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘 𝐿𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑦 𝐶𝑢𝑙𝑡𝑢𝑟𝑒 𝑖𝑛 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑎𝑒𝑢𝑠, New York 2003.

H.J. Mᴇᴛᴛᴇ, 𝑠.𝑣. 𝑃𝑜𝑠𝑒𝑖𝑑𝑖𝑝𝑝𝑜𝑠³⁽⁴⁾, 𝑅𝐸 22.1 (1953), 446.

H.G. ᴠᴀɴ Nᴇssᴇʟʀᴀᴛʜ, 𝐷𝑖𝑒 𝑎𝑡𝑡𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒 𝑚𝑖𝑡𝑡𝑙𝑒𝑟𝑒 𝐾𝑜𝑚𝑜̈𝑑𝑖𝑒, 𝑖ℎ𝑟𝑒 𝑆𝑡𝑒𝑙𝑙𝑢𝑛𝑔 𝑖𝑛 𝑑𝑒𝑟 𝑎𝑛𝑡𝑖𝑘𝑒𝑛 𝐿𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑘𝑟𝑖𝑡𝑖𝑘 𝑢𝑛𝑑 𝐿𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑔𝑒𝑠𝑐ℎ𝑖𝑐ℎ𝑡𝑒, Berlin 1990.

J.J. Pᴏʟʟɪᴛᴛ, 𝑇ℎ𝑒 𝐴𝑛𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡 𝑉𝑖𝑒𝑤 𝑜𝑓 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘 𝐴𝑟𝑡: 𝐶𝑟𝑖𝑡𝑖𝑐𝑖𝑠𝑚, 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑦, 𝑎𝑛𝑑 𝑇𝑒𝑟𝑚𝑖𝑛𝑜𝑙𝑜𝑔𝑦, New Haven-London 1974.

Iᴅ., 𝑇ℎ𝑒 𝐴𝑟𝑡 𝑜𝑓 𝐴𝑛𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑐𝑒: 𝑆𝑜𝑢𝑟𝑐𝑒𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝐷𝑜𝑐𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑠, Cambridge 1990.

A. Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ, 𝑠.𝑣. 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒, 𝑅𝐸 20, 1 (1941), 898-907.

G.M.A. Rɪᴄʜᴛᴇʀ, 𝑇ℎ𝑒 𝑆𝑐𝑢𝑙𝑝𝑡𝑢𝑟𝑒 𝑎𝑛𝑑 𝑆𝑐𝑢𝑙𝑝𝑡𝑜𝑟𝑠 𝑜𝑓 𝑡ℎ𝑒 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘𝑠, New Haven 1970.

B.S. Rɪᴅɢᴡᴀʏ, 𝐴𝑛𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘 𝑊𝑜𝑚𝑒𝑛 𝑎𝑛𝑑 𝐴𝑟𝑡: 𝑇ℎ𝑒 𝑀𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎𝑙 𝐸𝑣𝑖𝑑𝑒𝑛𝑐𝑒, AJA 91 (1987), 399-409.

Iᴅ., 𝐻𝑒𝑙𝑙𝑒𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐 𝑆𝑐𝑢𝑙𝑝𝑡𝑢𝑟𝑒 𝐼: 𝑇ℎ𝑒 𝑆𝑡𝑦𝑙𝑒𝑠 𝑜𝑓 𝑐𝑎. 331-200 𝐵.𝐶., Madison 1990.

G.E. Rɪᴢᴢᴏ, 𝑃𝑟𝑎𝑠𝑠𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒, Milano 1932.

R. Rᴏʙᴇʀᴛ, 𝐴𝑟𝑠 𝑅𝑒𝑔𝑒𝑛𝑑𝑎 𝐴𝑚𝑜𝑟𝑒: 𝑆𝑒́𝑑𝑢𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑒́𝑟𝑜𝑡𝑖𝑞𝑢𝑒 𝑒𝑡 𝑝𝑙𝑎𝑖𝑠𝑖𝑟 𝑒𝑠𝑡ℎ𝑒́𝑡𝑖𝑞𝑢𝑒 𝑑𝑒 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒̀𝑙𝑒 𝑎̀ 𝑂𝑣𝑖𝑑𝑒, MEFRA 104 (1992), 372-437.

C. Sᴀʟʟᴇs, 𝐼 𝑏𝑎𝑠𝑠𝑖𝑓𝑜𝑛𝑑𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙’𝑎𝑛𝑡𝑖𝑐ℎ𝑖𝑡𝑎̀, Milano 1983.

W. Sᴄʜᴜʟʟᴇʀ, 𝐷𝑖𝑒 𝑊𝑒𝑙𝑡 𝑑𝑒𝑟 𝐻𝑒𝑡𝑎̈𝑟𝑒𝑛: 𝑏𝑒𝑟𝑢̈ℎ𝑚𝑡𝑒 𝐹𝑟𝑎𝑢𝑒𝑛 𝑧𝑤𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐿𝑒𝑔𝑒𝑛𝑑𝑒 𝑢𝑛𝑑 𝑊𝑖𝑟𝑘𝑙𝑖𝑐ℎ𝑘𝑒𝑖𝑡, Stuttgart 2008.

C. Sᴇᴀᴍᴀɴ, 𝑅𝑒𝑡𝑟𝑖𝑣𝑖𝑛𝑔 𝑡ℎ𝑒 𝑂𝑟𝑖𝑔𝑖𝑛𝑎𝑙 𝐴𝑝ℎ𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝑜𝑓 𝐾𝑛𝑖𝑑𝑜𝑠, RendLinc 9 (2004), 531-594.

A. Sᴇᴍᴇɴᴏᴠ, 𝐻𝑦𝑝𝑒𝑟𝑒𝑖𝑑𝑒𝑠 𝑢𝑛𝑑 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒, Klio 28 (1935), 271-279.

A.F. Sᴛᴇᴡᴀʀᴛ, 𝐺𝑟𝑒𝑒𝑘 𝑆𝑐𝑢𝑙𝑝𝑡𝑢𝑟𝑒: 𝐴𝑛 𝐸𝑥𝑝𝑙𝑜𝑟𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛, 2 voll., New Haven 1990.

L. Tᴏᴅɪsᴄᴏ, 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 𝑎 𝐷𝑒𝑙𝑓𝑖. 𝑈𝑛𝑎 𝑝𝑜𝑠𝑡𝑖𝑙𝑙𝑎, QdS 91 (2020), 209-218.

K. Tʀᴀᴍᴘᴇᴅᴀᴄʜ, 𝐺𝑒𝑓𝑎̈ℎ𝑟𝑙𝑖𝑐ℎ𝑒 𝐹𝑟𝑎𝑢𝑒𝑛. 𝑍𝑢 𝑎𝑡ℎ𝑒𝑛𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐴𝑠𝑒𝑏𝑖𝑒-𝑃𝑟𝑜𝑧𝑒𝑠𝑠𝑒𝑛 𝑖𝑚 4. 𝐽ℎ. 𝑣. 𝐶ℎ𝑟, in R. ᴠᴏɴ ᴅᴇɴ Hᴏꜰꜰ, S. Sᴄʜᴍɪᴅᴛ (eds.), 𝐾𝑜𝑛𝑠𝑡𝑟𝑢𝑘𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒𝑛 𝑣𝑜𝑛 𝑊𝑖𝑟𝑘𝑙𝑖𝑐ℎ𝑘𝑒𝑖𝑡. 𝐵𝑖𝑙𝑑𝑒𝑟 𝑖𝑚 𝐺𝑟𝑖𝑒𝑐ℎ𝑒𝑛𝑙𝑎𝑛𝑑 𝑑𝑒𝑠 5. 𝑢𝑛𝑑 4. 𝐽𝑎ℎ𝑟ℎ𝑢𝑛𝑑𝑒𝑟𝑡𝑠 𝑣. 𝐶ℎ𝑟., Stuttgart 2001, 137-155.

D. Wʜɪᴛᴇʜᴇᴀᴅ (ed.), 𝐻𝑦𝑝𝑒𝑟𝑒𝑖𝑑𝑒𝑠: 𝑇ℎ𝑒 𝐹𝑜𝑟𝑒𝑛𝑠𝑖𝑐 𝑆𝑝𝑒𝑒𝑐ℎ𝑒𝑠, New York 2000.

G. Zᴀɴᴋᴇʀ, 𝑅𝑒𝑎𝑙𝑖𝑠𝑚 𝑖𝑛 𝐴𝑙𝑒𝑥𝑎𝑛𝑑𝑟𝑖𝑎𝑛 𝑃𝑜𝑒𝑡𝑟𝑦: 𝑎 𝐿𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑒 𝑎𝑛𝑑 𝑖𝑡𝑠 𝐴𝑢𝑑𝑖𝑒𝑛𝑐𝑒, London 1987.

Iᴅ., 𝑀𝑜𝑑𝑒𝑠 𝑜𝑓 𝑉𝑖𝑒𝑤𝑖𝑛𝑔 𝑖𝑛 𝐻𝑒𝑙𝑙𝑒𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐 𝑃𝑜𝑒𝑡𝑟𝑦 𝑎𝑛𝑑 𝐴𝑟𝑡, London 2004.

Il “Far West” dei Greci

di D. MUSTI, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, 179-198.

La colonizzazione greca di età arcaica presenta caratteri del tutto nuovi rispetto alle frequentazioni di regioni del Mediterraneo orientale o occidentale di epoca micenea. È la stessa più antica tradizione storiografica a dare una chiara nozione della novità che compete alle fondazioni greche del secolo VIII e seguenti. Antioco di Siracusa o non conosce fondazioni micenee o almeno non stabilisce un rapporto di continuità tra le presunte colonie micenee e la storia delle città d’Italia e di Sicilia di cui parla. Un’anticipazione delle città coloniali all’epoca micenea (per Crotone, come per Metaponto, per Siri o per Taranto) è solo opera della storiografia più tarda: verosimilmente già di Eforo, certamente di Timeo e seguaci.

Lo storico moderno ha il dovere di raccogliere l’invito della storiografia greca più vicina a fatti e tradizioni di fondazione delle póleis coloniali, a cogliere lo stacco storico che quelle fondazioni rappresentano rispetto al passato, il valore di evento d’ordine politico-militare, che rompe, con la sua forza innovativa, la continuità di un fatto di lunga durata, routinier, quale la conversazione ininterrotta (e assai composita) fra le diverse rive del Mediterraneo, che i Greci riassumevano sotto la vaga formula dell’emporía (l’andar per mare, comunque probabilmente soprattutto per commerciare): insomma, quel sommesso, secolare scambio di uomini e cose fra le rive del Mediterraneo, che per i Greci, come per ogni uomo di buon senso, è appena lo sfondo ovvio di contatti, che non costituiscono di per sé né un evento politico né lo sbocco chiaramente individuabile di un processo socio-economico[1].

Tempio dorico greco di Era, a Selinunte (presso Castelvetrano, TP), noto anche come “Tempio E”.

La discussione sulla colonizzazione greca è rimasta a lungo impantanata nella fase alternativa tra l’interpretazione delle fondazioni come colonie commerciali e quella che ne fa colonie agrarie e di popolamento[2]. Di fronte al fenomeno coloniale converrà porsi diversi ordini di problemi: 1) le condizioni demografiche, socio-economiche e politiche, della madrepatria; 2) il fondamentale atteggiamento psicologico dei Greci di fronte al fatto della migrazione; 3) l’articolarsi e il rapportarsi delle diverse esigenze economiche, che sono inevitabilmente compresenti – benché in misura diversa nei diversi contesti – in tutte le colonie, e le nuove situazioni complessive che ne emergono; 4) il costituirsi di autentiche “aree di colonizzazione”, specie di entità macro-territoriali, al confronto con questa o quella pólis; 5) i rapporti con l’ambiente e con la popolazione locale; 6) i rapporti con la madrepatria.

È stato sempre notato come le aree più vitali in epoca micenea, e in particolare quelle che presentano strutture palaziali, non partecipino al moto coloniale dei secoli VIII e VII; si tratta dell’Attica, dell’Argolide, della Beozia (un caso a parte è quello della Messenia, ma in quanto oggetto della conquista spartana). Nella madrepatria sono soprattutto interessate le città dell’Istmo, Corinto e Megara, quelle euboiche dell’Euripo tra Eubea e Beozia/Attica, cioè Calcide ed Eretria, come anche (caso significativo e problematico) le città dell’Acaia; in Asia Minore, Rodi, Lesbo, Mileto e altre (ma queste inviano di forma colonie nel continente antistante e in aree contigue, e il fenomeno ha forse i caratteri dell’espansione, della costituzione di un impero coloniale, più che della migrazione).

Autore ignoto. La cosiddetta ‘Coppa di Nestore’. Kotyle LG II rodia, orientalizzante, dalla necropoli di San Montano a Lacco Ameno (Ischia), 720-710 a.C. ca. Museo Archeologico di Pithecusae.
Il reperto reca inciso su di un lato un’iscrizione retrograda in alfabeto eubolico; trattasi di un epigramma formato da tre versi, che alludono alla famosa coppa descritta in Il., XI 632 (una coppa appartenuta a Nestore, talmente grande che occorrevano quattro uomini per spostarla!):
«Νέστορος [εἰμὶ] εὔποτ[ον] ποτήριον
ὃς δ’ἂν τοῦδε πίησι ποτηρί[ου] αὐτίκα κῆνον
ἵμερος αἱρήσει καλλιστε[φά]νου Ἀφροδίτης».
«Di Nestore io son la coppa bella:
chi berrà da questa coppa subito
desiderio lo prenderà di Afrodite dalla bella corona».
Un ruolo particolare esercitano in Occidente Corinzi e Calcidesi. La loro espansione coloniale non dà luogo a competizione, ma piuttosto a una sorta di distribuzione di aree e a reciproca integrazione. Un carattere effimero, minoritario, da riportare verosimilmente a una minore intesa con le altre città colonizzatrici, ha la colonizzazione eretriese, di cui si conservano sporadici indizi: una presenza a Corcira, presto obliterata dalla colonia corinzia condotta, in sincronia con la fondazione di Siracusa (circa il 733), da Cheresicrate; una a Pitecussa, in cooperazione con i Calcidesi. Non è escluso che la guerra lelantina, che circa la seconda metà dell’VIII secolo (?) vide contrappose le due città dell’Eubea (e alleate, rispettivamente, Calcide con Samo e i Tessali, ed Eretria con Mileto), abbia posto fine all’espansionismo eretriese o all’intesa tra Eretria e Calcide, e provocato la crisi del moto coloniale eretriese, esaltando invece l’intesa tra Corinto e Calcide (che comunque può essere per sé anteriore al conflitto inter-euboico)[3].

Va intanto notato che i Greci che vanno a fondare colonie lontane dalla madrepatria tendono a “riprodurre” il paesaggio, la cornice ambientale e le opportunità strategiche della città di partenza. I Corinzi, che risiedono su un istmo, una striscia di terra che si affaccia su due mari e che perciò gode di almeno due porti, dispongono nella loro più famosa colonia d’Occidente, Siracusa, di due porti (Porto Grande e Laccio), e fondano una colonia sull’istmo della Pallene (Potidea). Se non altrettanto certo, è almeno probabile che un’analoga ricerca di condizioni e opportunità ambientali simili a quelle di partenza sia da leggere nel fatto che gli abitanti di Calcide d’Eubea, che si affaccia su un celebre stretto (l’Euripo), siano presenti nella fondazione di Zancle (Messina), come di Reggio, su più famoso stretto d’Occidente (del resto, in tema di analogie morfologiche, tra madrepatria e colonie, è stata già osservata la somiglianza tra la situazione di Focea e quella della sua colonia Marsiglia).

Isthmós (dalla radice i- di eîmi, «andare», come si addice a una «via» di terra) e porthmós (da póros e peírō, «attraversamento, attraversare», come si addice a un breve percorso di mare) sono due termini indicativi della mentalità dei coloni greci, che puntavano su posizioni strategiche da mettere a frutto camminando o attraversando.

Litra d’argento (0,58 gr.) da Nasso (Sicilia). 520–510 a.C. ca. Dritto – Testa arcaica di Dioniso, rivolta a sinistra; Rovescio – Grappolo d’uva.

Con la menzione della colonizzazione di Pitecussa (Ischia) abbiamo evocato quella che è stata considerata, con immagine pittoresca, l’«alba» della colonizzazione della Magna Grecia[4]. Un’alba che ha naturalmente colori alquanto diversi da quelli del giorno pieno della Magna Grecia, che si direbbe risplenda tra il VII e il VI secolo. La colonia greca di Lacco Ameno, databile a circa il 770 a.C., precede la fondazione di Cuma sul continente: si caratterizza per la scarsità del territorio (ritenuto tuttavia fertile, soprattutto per la produzione di vino) e la presenza di chryseîa, che sembra difficile interpretare come «miniere d’oro» e forse devono intendersi come «officine per la lavorazione dell’oro». A Pitecussa è stato messo in luce un quartiere di fornaci per la lavorazione di metalli, come il ferro proveniente dall’isola d’Elba[5]. È stato posto il problema se si tratti di una vera città o solo di uno scalo, di un emporio. Per Strabone era probabilmente una pólis: se noi ci poniamo il problema di definire diversamente, ciò è forse solo dovuto al fatto che pretendiamo di misurare il carattere di Pitecussa su quelle caratteristiche (territoriali, monumentali, urbanistiche, funzionali), che le altre póleis greche in àmbito coloniale assunsero nel corso del tempo, superando quella condizione di primo insediamento, che in genere solo un paio di secoli dopo appare pienamente superata[6]. Pitecussa è un insediamento gracile: non possiamo applicarle parametri di valutazione che, più o meno consapevolmente, derivano dall’assetto delle póleis «riuscite», quale conseguito nel VI secolo. La discussione su Pitecussa è un tipico caso di hýsteronpróteron storico e filologico.

Ingresso all’Antro della Sibilla, a Cuma.

Stando alla tradizione riflessa in Eusebio (da Eforo?), Cuma fu la prima colonia greca in Italia, fondata circa il 1050 a.C. Una cronologia così alta segnala di per sé quella prospettiva continuistica (che cioè non ammette soluzione di continuità, né differenze di qualità tra “presenze” greche di età micenea e “colonizzazione politica” di epoca arcaica), che si afferma da Eforo a Timeo. In realtà, date attendibili, che ci riportino a una più credibile cronologia di VIII secolo (Cuma fondata poco dopo Pitecussa), mancano per Cuma, come in generale per le colonie calcidesi d’Occidente (Zancle e Reggio sullo stretto tra la Sicilia e l’Italia, o Partenope e la stessa Neapolis), fatta eccezione per quelle colonie calcidesi di Sicilia (Nasso, Leontini, Catania), le cui fondazioni siano messe in una precisa relazione cronologica con la data di fondazione di Siracusa, come riflesso del fatto di essere state in qualche modo coinvolte nelle vicende siracusane. Nella storia, come nella cronologia, delle colonie greche d’Occidente la storiografia siceliota (anzi, essenzialmente, siracusana) appare determinante, e quella di V secolo (Antioco, come rispecchiato, tra l’altro, a quanto sembra, in Tucidide) fornisce indicazioni ad annum: 733 circa per Siracusa, e quindi 734 per la decana riconosciuta delle colonie greche di Sicilia, Nasso; 728/7 per Leontini, Catania (e giù di lì per Megara Iblea, fondazione di Megaresi di Grecia). Fluttuante, nella tradizione, anche la cronologia delle colonie delle altre aree coloniali, tranne che per un’eccezione (Crotone), data la sua presunta quasi-contemporaneità con Siracusa, e per gli eventuali annessi e connessi (Sibari nella tradizione antiochea preesiste – benché non ci sia detto di quanto – a Crotone; Metaponto, nella stessa tradizione, è posteriore alla fondazione di Taranto)[7].

Complessivamente, per le città del mar Ionio abbiamo dunque nella tradizione un doppio ordine di date: 1) quelle raccolte in Eusebio e Girolamo, che si avvicinano al 700 a.C., e 2) una data per Crotone, come una data possibile per Reggio, più alte e più vicine alle date delle fondazioni di Sicilia; si ha l’impressione che proprio in Antioco ci sia la tendenza ad avvicinare, a un livello cronologico piuttosto alto, le date dei processi coloniali in Sicilia e in Magna Grecia; è comunque certo che la tradizione cronografica tarda – che prende probabilmente le mosse da Eforo e seguaci – opera una forte divaricazione tra le fondazioni di Sicilia (di cui addirittura dà date più alte che in Antioco e Tucidide, come è il caso di Nasso, di Megara Iblea e della stessa Siracusa, che risalgono così a poco prima del 750 a.C.) e quelle della costa ionia d’Italia, che tale tradizione cronografica respinge nell’ultimo decennio dell’VIII secolo.

Mappa della Sicilia antica.

I problemi della cronologia si possono affrontare con l’occhio rivolto alle aree verso cui si dirigono i diversi moti coloniali. Pur senza trascurare le innegabili interferenze, e persino l’esistenza di colonie miste, ben note alla tradizione, occorre tenere in conto maggiore che per il passato l’esistenza di mete preferenziali delle diverse imprese coloniali, che tendono spesso a recuperare condizioni simili a quelle di partenza e a costituire aree di una qualche omogeneità, talora interrotte da enclaves ora più ora meno mal tollerate. È innegabile che da Crotone a Sibari a Metaponto si crei un’area achea, che ovviamente non sbocca nella creazione di un’unità territoriale e politica: le póleis restano autonome, ma costituiscono, o riscoprono puntualmente, nel corso del tempo, forme di solidarietà che sono di natura culturale, cultuale, economica e politica in senso lato.

Statere d’argento (8,1 gr.) da Sibari. 550-510 a.C. ca. Legenda – VM in exergo. Toro stante verso sinistra, con testa rivolta a destra. Dewing Coll. 406.

Il concetto stesso di Megálē Hellás, nelle sue diverse accezioni, ricopre comunque e sempre lo spazio occupato dalle colonie achee. Benché certamente non limitata a queste, in queste la nozione ebbe la sua humus fecondatrice[8]. Nel VI secolo le colonie achee tentano di eliminare l’enclave ionia di Siri, una città fondata da esuli di Colofone, che erano sfuggiti alla pressione lida, probabilmente al tempo del re Gige, intorno al 675 a.C. Circa un secolo dopo Siri fu distrutta e acaizzata da Metaponto, Crotone e Sibari. Secondo Antioco, l’aspirazione degli Achei a controllare la ricca Siritide, contendendone il possesso ai Tarentini (coloni di Sparta), risale all’VIII secolo e precede la fondazione della stessa Metaponto. Antioco sembra del resto realisticamente attento a quelle che potremmo chiamare “logiche territoriali”, che orientano l’espansione greca sul sito coloniale: gli Achei di Sibari mandano a chiamare (metapémpontai) altri Achei per occupare Metaponto, perché, occupando strategicamente l’altro punto estremo del territorio conteso (qual è, rispetto a Sibari, Metaponto), essi avrebbero controllato anche l’intermedia Siritide; così, per lo stesso autore furono gli Zanclei a chiamare (metapémpesthai) i loro consanguinei da Calcide, per fondare Reggio (si direbbe, in un’analoga prospettiva strategica di controllo calcidese dei due versanti dello Stretto): in Sicilia i Nassii, secondo Tucidide, nella loro espansione nell’area etnea, colonizzano prima la più lontana Leontini e solo successivamente l’intermedia Catania[9].

Ricostruzione assiometrica e pianta di un’abitazione sicula, nell’insediamento di Thapsos (Sicilia orientale).

Al loro arrivo in Sicilia i Greci trovavano già stanziate varie genti non greche, quale da più antica quale da più recente data, quale per un’estensione maggiore, quale concentrata in una zona più ristretta. Davano all’isola il nome e la facies culturale preminente i Siculi e i Sicani, i primi attestati nella parte orientale e centro-meridionale, i secondi nella parte occidentale. I primi erano stanziati alle spalle del territorio che fu di Zancle, e delle colonie calcidesi dell’area etnea (Nasso, Catania, Leontini), di Siracusa e Camarina, e lambivano certamente il territorio di Gela; loro centri, vivi ancora nel V secolo, erano Menai(non) (= Mineo?), il lago degli dèi Palici (= lago Naftia), e inoltre il sito che sotto il ribelle siculo Ducezio si ridenominò Morgantina. Identificati nella tradizione etnografica ora con gli Itali ora con gli Ausoni ora con i Liguri, e fatti provenire da punti diversi della penisola (da postazioni più settentrionali, al Lazio, o alla Campania e alla punta estrema d’Italia), i Siculi erano considerati dagli antichi – e lo sono dagli archeologi e storici moderni – strettamente imparentati con le popolazioni della penisola. Si tende tuttavia a distinguere tra una facies culturale ausonia, riscontrabile nelle Lipari e nel Milazzese già dal XIII secolo a.C., e una facies probabilmente sicula, documentabile a Pantalica, a Melilli, a Cassibile, solo alla fine, o dopo la fine, dell’età del Bronzo e del II millennio a.C. Ecateo colloca un insediamento a Nola. Io ho proposto, per l’etimologia di Ausoni, almeno come sentito dai Greci, la derivazione dalla radice au- di aúein, «ardere», con riferimento ai fenomeni vulcanici (fumo e fiamme) del Vesuvio e zone attigue. Finora rapporti con la cultura appenninica, tali da giustificare la tradizione di una migrazione, sembrano più forti per la civiltà ausonia che per la civiltà propriamente sicula (posto che si debba veramente distinguere tra le due; le fonti letterarie solo in parte consentono con una distinzione, che resta in certa misura convenzionale e provvisoria, pur se assai suggestiva)[10].

Protome bovina del centro siculo di Castiglione (Ragusa).

Nel corso del Tardo Bronzo, dal XVI/XV al XIII secolo a.C., è d’altronde verificabile nella Sicilia orientale (in particolare a Thapsos) come, e soprattutto, nelle isole Lipari, una presenza notevole di materiale miceneo (a Lipari persino tardo-minoico), che è sicura prova di frequentazioni. Mancano finora prove di veri e propri insediamenti micenei, cioè esempi di edilizia abitativa egea (benché tanto a Pantalica quanto a Thapsos sia dato riscontrare l’esistenza di edifici che per struttura, proporzioni, probabili funzioni fanno pensare a costruzioni di tipo palaziale e perciò in qualche misura di influenza egea)[11]. Quanto ai Sicani, già l’apparentemente comune radice del nome ha suscitato fra gli antichi e fra i moderni la tesi di una fondamentale affinità con i Siculi. Rispetto a questi, tuttavia, i Sicani mostrano minori caratteristiche indoeuropee, e perciò sono considerati o una popolazione pre-indoeuropea proveniente dall’area iberica, via mare o forse anche – il che crea nuove possibilità di interferenze storiche con i Siculi – via terra (salvo, naturalmente, per l’attraversamento dello stretto di Messina), o una popolazione indoeuropea, che ha perduto, col passaggio nell’isola, le sue caratteristiche originarie[12]. Accanto a Siculi e Sicani, gli Elimi, con i loro centri di Segesta, Erice (ed Entella, poi rapidamente oscizzata dal V secolo in poi), e i Fenici (con che Tucidide intendeva anche i Cartaginesi) insediati a Solunto, Panormo, Mozia, nell’area nord-occidentale. Agli Elimi si attribuiva un’origine dai Troiani, nonché da Focesi che avevano partecipato alla guerra di Troia; certo essi presentano connessioni con civiltà orientali, in particolare con l’ambiente cipriota e fenicio (culto di Afrodite Ericina) o siriaco e microasiatico; l’ellenizzazione aveva compiuto, verificabile nel V secolo, ma probabilmente anche prima, passi notevoli (basti pensare al tempio dorico superstite a Segesta, al rapporto di competizione e però anche di interazione con Selinunte, agli stretti rapporti con Atene, che con Segesta stipula un trattato poco prima della metà del V secolo, e in suo aiuto interviene in Sicilia, contro Selinunte e Siracusa, nel 427 e nel 415 a.C.)[13].

Il cosiddetto “Trono Ludovisi”: sul lato frontale spicca il bassorilievo che rappresenta Afrodite Anadyomene, che sta sorgendo dalle acque vestita da un leggerissimo chitone, che lascia intravedere le curve del corpo. Due Horai poste ai lati sorreggono un velo che nasconde la parte inferiore della scena. Il manufatto marmoreo è stato rinvenuto nei pressi del Tempio di Venere Erycina a Roma, e datato al 460-450 a.C. circa. Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps.

Si pone qui un problema di definizione della categoria di ellenizzazione, un po’ più rigorosa di quella che si adotta in generale. Ellenizzazione finisce col significare, nel linguaggio corrente, due cose profondamente diverse fra loro: acculturazione, perciò permeazione di elementi di cultura greca, per lo più consistenti in oggetti archeologici tipicamente “polisemici”, cioè suscettibili delle più diverse interpretazioni storiche; e controllo politico. Si pone l’ulteriore problema, se i Siculi siano stati in questo senso più ellenizzati dei Sicani. Se con ciò s’intende una maggiore infiltrazione di oggetti e di espressioni culturali greche di epoca arcaica, ciò, sembra potersi, allo stato della nostra informazione, affermare per i Siculi; benché nuove scoperte archeologiche

modifichino rapidamente il quadro anche per il territorio sicano. Se però per ellenizzazione s’intende controllo del territorio, è facile affermare il contrario. Basti pensare all’estensione del dominio territoriale all’interno dell’isola e attraverso di essa, da una costa all’altra, delle città greche più impegnate a costruirsi una chōra. Ora, tra il 488 e il 472 il tiranno di Agrigento, Terone, riuscì a costituirsi un dominio continuo, trasversale, e che perciò includeva o attraversava il territorio sicano, tra la sua città ed Imera, sita sulla costa settentrionale. Il territorio selinuntino confina d’altronde con quello segestano, e questo non può non aver comportato una qualche capacità di tenere sotto controllo la popolazione sicana dell’area o delle sue immediate vicinanze. In questa direzione avanzò certo già Falaride nel VI secolo; ma gli scontri che egli dovette affrontare (quando conquistò ad esempio la sicana Uessa) o la minaccia che i Sicani nel VI secolo potettero esercitare su Imera mostrano che ancora per una larga parte del VI secolo i Sicani erano capaci di una resistenza che viene meno nel secolo successivo[14].

Pittore di Edimburgo. Atena nella Gigantomachia. Pittura vascolare da una lekythos attica a sfondo bianco, da Gela. 500 a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

Più complessa, ma anche particolarmente istruttiva, la storia del rapporto di Siracusa e di Gela col proprio hinterland. Siracusa fonda nel 633 Acre (=Palazzolo Acreide) e nel 643 Casmene (probabilmente da identificare con Monte Casale): è evidente che, durante le prime tre generazioni di vita della grande colonia, il problema principale è per essa quello di un controllo del territorio in profondità, in primo luogo della valle dell’Anapo, che è via di penetrazione verso l’interno, ma anche sgradita minaccia dell’interno sulla costa. Nel 598 Siracusa “sfonda” sulla costa occidentale, dando vita a Camarina. Ormai il disegno siracusano appare più chiaramente quello della costituzione di un territorio ampio e continuo, con la conquista di un sito sulla costa occidentale dell’isola, già occupata, verso nord, da Gela (fondata da coloni rodio-cretesi nel 688) e da Selinunte (fondata da Megaresi di Megara Iblea, non senza l’apporto della madrepatria greca, da cui proveniva l’ecista Pammilo) intorno al 628 o al 650[15]; solo successiva alla fondazione di Camarina sembra la nascita di una sottocolonia geloa, Akragas (Agrigento), forse da collegare con fermenti politici interni a Gela, quali si addicono alle vicende delle colonie nel VI secolo, e come sembrerebbe suggerito dalla precoce instaurazione di una tirannide ad Agrigento, con Falaride.

Didracma d’argento (8, 37 gr.) da Agrigento. 480-470 a.C. ca. Dritto: aquila stante, verso sinistra, con attorniata dalla legenda AKRAC; rovescio: un granchio.

Caratteristica della tradizione emmenide (Terone e la sua stirpe) è comunque la provenienza diretta (o presentata come tale) da Rodi, con un certo ridimensionamento della componente culturale cretese[16]. Il rapporto di Siracusa con la popolazione del territorio appare caratteristico: questa viene asservita, ma costituisce uno strato sociale di particolare rilievo, se ha una sua denominazione particolare (Kyllýrioi, o Killi-[Kalli-]kýrioi), perciò un ruolo complessivo ben definito agli occhi della città, ed è inoltre capace di istituire forme di convivenza e alleanza politica con gli strati popolari della stessa Siracusa, con il suo dâmos, che nel V secolo costituisce documentabilmente già un popolo opposto a quello dei gamóroi (proprietari terrieri). Non è da trascurare il fatto che la colonia dorica di Siracusa adottasse, nei confronti della popolazione indigena, quel tipo di rapporto socioeconomico che le città doriche in Grecia realizzano verso le popolazioni del contado.

Ma quanto si estendeva il dominio territoriale di Siracusa, al di là di quei cunei strategici che essa riuscì presto a realizzare, o di quel dominio più compatto ed esteso, ma pur sempre limitato, che essai si era ormai creata all’inizio del VI secolo? Ci aiuta molto la considerazione dei compiti che ancora all’inizio del V secolo dovevano affrontare il tiranno di Gela, Ippocrate, morto nel 491, combattendo contro la sicula Ibla (= Ragusa? Paternò?), e il successore a Gela, Gelone (491-485/4), divenuto poi tiranno di Siracusa (485/4-478). Ippocrate assediò, nell’area etnea, Callipoli, Nasso, Leontini, più a nord Zancle, più a sud Siracusa e (significativo della complessità del rapporto di quest’ultima con gli indigeni) i di lei alleati Siculi. I tentativi di Ippocrate riescono con le città calcidesi, ma sono destinati a fallire contro Siracusa (del resto aiutata, dopo una sconfitta sul fiume Eloro, dai confratelli Corinzi e Corciresi) e contro i Siculi di Ibla. Il tentativo di Ippocrate di costituirsi un dominio continuo trasversale, dalla costa occidentale a quella nord-orientale, fallisce di fronte alla resistenza di indigeni e di parte dei Greci[17].

Apollónion di Ortigia, a Siracusa. Tempio dorico, eretto a partire dalla fine del VI secolo a.C.

Più concentrato su aree di tradizionale competenza siracusana o vicine a Siracusa appare l’impegno analogo, e pur diverso quanto a dimensioni, di Gelone: egli interviene a Siracusa in favore dei gamóroi esuli a Casmene, contro il dâmos e i Kyllýrioi, e, trasferito il centro del suo potere da Gela (che affida al fratello Ierone) a Siracusa, concentra in questa città tutti i Camarinesi, più di metà dei Geloi, e inoltre gli aristocratici di Megara (nonostante i loro sentimenti anti-siracusani) e gli Eubeesi di Sicilia, vendendo in schiavitù la parte più umile della cittadinanza delle città vinte[18]. Qui è all’opera in primo luogo un’idea di sviluppo demografico e urbano del centro-guida, Siracusa, che può avere solo l’effetto di obliterare o indebolire altri centri greci; naturalmente ciò comporta anche una concezione territoriale del dominio di Siracusa, che può costare il sacrificio di altre città greche, in favore dell’unica città. Sembra invece meno perseguito il disegno di un dominio territoriale indifferenziato sui centri siculi, quale aveva accarezzato Ippocrate.

Quando, poco dopo il 580, Pentatlo arriva in Sicilia con un manipolo di Cnidii, egli registra ormai nell’isola il “tutto esaurito”, rispetto alla possibilità di nuovi insediamenti greci, arricchitisi, nel 580, della nuova fondazione di Agrigento. Appellandosi alla sua discendenza da Ippote, a sua volta discendente di Eracle, Pentatlo cerca di insediarsi al Lilibeo e forse ad Erice, sostenendo Selinunte contro Segesta, ma è sconfitto (e ucciso) dagli Elimi e dai “Fenici”; i suoi seguaci occupano però le isole Eolie, fuori del territorio siciliano propriamente detto, scacciandone i pochi occupanti. Lipari diventa il centro cittadino; Iera (=Vulcano), Strongyle (= Stromboli) e Didima (=Salina) costituiscono il territorio agricolo. Moduli di proprietà privata saranno forse esistiti nella città, non certo nelle isole, che sono proprietà comune e più tardi diventano proprietà privata, ma limitata nel tempo (ogni vent’anni i titoli di proprietà si azzerano e si ha una redistribuzione del territorio).

Litra d’argento (0,6 gr.) da Siracusa. 470 a.C. ca. Testa di Aretusa rivolta a destra.

L’esperimento comunistico degli Cnidii a Lipari è sentito e sottolineato dalla tradizione antica come una singolarità. A spiegarla concorrono le condizioni ambientali (un territorio agricolo fisicamente separato dal centro urbano), ma forse anche le particolari tradizioni che caratterizzano gli ambienti dorici nei rapporti di proprietà della terra. Non sembra accettabile la tesi che scorge nel rafforzamento, o addirittura nella prima realizzazione, di una presenza cartaginese in Sicilia, militarmente organizzata, una reazione all’impresa di Pentatlo. Questi fu contrastato infatti da Elimi e “Fenici” (forse, nel linguaggio di Pausania, i Cartaginesi): non risulta che gli altri Greci l’abbiano realmente aiutato[19]. Non si può motivare la nascita di un fatto di tale significato e portata come l’epicrazia cartaginese in Sicilia con un episodio che sin dall’inizio si poneva come un tentativo senza prospettive e senza supporti, che violava un’intesa, oltre che una situazione di fatto, chiara a tutti gli occupanti stranieri della Sicilia. Il modificarsi della presenza cartaginese in Sicilia è da collegarsi in primissimo luogo con mutamenti della politica estera di Cartagine nel suo complesso, cioè con un’impostazione aggressiva verificabile in Africa, come in Sardegna, oltre che nella stessa Sicilia. Il contrasto greco-cartaginese è conseguente alle imprese di Malco (ca. 550), e al costituirsi all’interno del mondo greco – soprattutto ad opera dei tiranni – di nuove concezioni del rapporto con il territorio (il territorio degli indigeni, quello degli altri stranieri di Sicilia, quello degli stessi Greci): ed è realtà della fine del VI e soprattutto del V secolo[20].

Gli sviluppi politici interni alle colonie, tra la fondazione e il VI secolo, costituiscono uno dei capitoli più difficili della storia della grecità coloniale. le stesse origini sociali sono spesso avvolte nel buio: in particolare quelle di Taranto e di Locri Epizefiri, per le quali parte della tradizione parla della partecipazione, diretta o indiretta, di elementi servili: figli di iloti e di donne spartiate (Partenii, cioè figli di parthénoi, di donne legalmente “vergini”) nel primo caso, servi unitisi con le loro padrone nel secondo caso[21]. La presenza di elementi servili è attestata soprattutto nella tradizione più antica. Nella tradizione locale v’è diversità di comportamento delle due città: l’aristocrazia locrese sembra aver perpetuato la tradizione di un’origine ilotica e della nobiltà dei capostipiti femminili delle cento case più nobili; la presenza ilotica nelle origini di Taranto sembra invece complessivamente respinta dalla città[22].

Tempio dei Dioscuri, Agrigento. Ordine dorico, metà V secolo a.C.

I moderni assumono spesso atteggiamenti ipercritici e normalizzatori nei confronti di queste tradizioni; ma bisogna distinguere tra la forma leggendaria e la sostanza storico-sociale del racconto. Le origini socialmente complesse di una colonia, da una mistione di padroni e servi, sono, nella tradizione greca sempre produttrice di paradigmi, ricondotte alle guerre “servili” per eccellenza della storia greca arcaica, le guerre cioè per l’asservimento dei Messeni agli Spartani; guerre che d’altra parte vedono operare insieme o convivere, nel campo dei conquistatori, padroni e servi (a Sparta, gli iloti). Ma, fatta astrazione dai particolari della forma leggendaria, sarebbe difficile negare che un fenomeno così strettamente collegato con gli sviluppi demografici e i relativi contraccolpi sociali ed economici, come quello della colonizzazione, non abbia qualche volta interessato e coinvolto strati sociali inferiori. Se la tradizione non ne parlasse mai, probabilmente dovremmo sospettarlo: ora la tradizione ne parla, per Taranto e per Locri. Ne parla tuttavia solo in parte, ma sta di fatto che nelle tradizioni più antiche è fatto posto al dato scabroso della commistione di servi, mentre sembra avere origini e caratteristiche comuni la tradizione “normalizzatrice”, che espunge dalla storia delle origini delle città quell’imbarazzante presenza.

Così, per Taranto, Antioco attesta la nascita dei Partenii fondatori di Taranto (e dello stesso loro capo, Falanto)[23] dagli iloti (presentati tuttavia come Spartiati declassati per inadempienze di obblighi militari), mentre Eforo riduce gli iloti a comparse del complotto dei Partenii contro gli Spartiati, e soprattutto rende incomprensibile le ragioni della ribellione e del complotto dei Partenii, poiché questi, lungi dall’essere figli di iloti, sarebbero il frutto di unioni promiscue programmate dagli stessi Spartiati, che consentirono forse ai più giovani di unirsi anche con le mogli dei più anziani, per essere poi (incoerentemente) umiliati a un rango sociale inferiore, che li spinge alla rivolta. Al ruolo di Eforo nella storia delle origini di Taranto corrisponde quello di Timeo nella storia delle origini di Locri; questi infatti adduce, contro Aristotele, molti argomenti volti a negare l’origine semiservile dei Locresi; uno di tali argomenti è però palesemente mal posto. In antico, infatti, i Greci non avrebbero avuto schiavi comprati con denaro; ma, appunto, se c’è qualcosa di vero nella tradizione delle origini complesse di Locri, è chiamato in causa uno strato di servitù rurale e non uno di schiavi comprati.

Dai primi due secoli di vita delle colonie trapela qualcosa dell’attività dei legislatori, come Zaleuco di Locri o Caronda di Catania; ma del contenuto reale della loro opera ci impediscono di farci un’idea precisa le molte interferenze e sovrapposizioni (Caronda è legislatore a Catania, ma anche in altre città calcidesi, come Reggio) e soprattutto la manipolazione pitagorica, che di essi ha fatto altrettanto discepoli del maestro venuto in Italia solo intorno al 530 a.C. Trapela anche qualcosa dei rapporti con il territorio e con la popolazione indigena, che furono in diversi casi di sopraffazione, come mostra il cessare, qualche decennio dopo la fondazione greca, della vita di centri indigeni costieri, con eventuale conseguente spostamento degli indigeni più all’interno (ciò si verifica sul sito dell’Incoronata poco a ovest di Metaponto, in vari siti della Sibaritide, da Amendolara a Torre Mordillo a Francavilla Marittima, e nell’area locrese, come a Canale e Ianchina e in siti vicini). Che il modulo dei rapporti servili venisse trapiantato in area coloniale è più inducibile dall’esistenza della schiavitù in Magna Grecia e Sicilia, e dalla concomitante considerazione che di norma tali schiavi non dovevano essere Greci (la norma, in questo àmbito, conosce significative eccezioni, proprio nella politica dei tiranni del V secolo, che praticano consistenti violazioni dei principi greci, abolendo città e privando i loro abitanti della condizione primaria della libertà)[24].

La tradizione greca insiste, come si è detto, sugli aspetti territoriali e perciò agrari del fenomeno coloniale; in tale luce ci appare quindi anche il fenomeno delle sotto-fondazioni. Ma, come per il rapporto tra madrepatria e colonia va tenuto conto della creazione di un’area di tensione commerciale, cioè di una direttrice preferenziale di scambi (così è per esempio tra Corinto e Siracusa), così tra la Grecia propria e le zone coloniali si vanno costituendo aree minori, dove si esprime una determinata produzione artigianale o si fondano rapporti commerciali.

Metopa. Perseo decapita Medusa, assistito da Atena, dal Tempio C (Selinunte). VI secolo a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

I primi due secoli di vita delle colonie occidentali sono anche quelli in cui da un regime sociale tendenzialmente ugualitario, quale si postula (e in taluni casi, per esempio a Megara Iblea, si verifica)[25] per le prime due o tre generazioni di coloni, succede una sempre maggiore stratificazione sociale, e quindi si determina la possibilità di conflitti (stáseis), con seguenti espulsioni o pericolose secessioni di una parte del corpo civico. Di pericolosa secessione deve trattarsi nel caso dei Geloi che (forse alla fine del VII secolo) si rifugiarono a Maktorion (= Monte Bubbonia?), e che furono riportati in patria dall’antenato dei Dinomenidi, Teline, che, per la sua opera di mediatore, ottenne il privilegio della ierophantía (una sorta di sacerdozio legato ai riti misterici “delle dee”, cioè, di Demetra e Core). Da Siracusa, a metà del VII secolo, furono cacciati i cosiddetti Miletidi, che sostarono a Mile prima di partecipare, con gli Zanclei, alla fondazione di Imera (circa il 648 a.C.)[26].

È del tutto comprensibile che in taluni casi il conflitto non sboccasse nella sola espulsione di una parte e affermazione di quella rimasta in patria, ma che cambiassero anche le forme del regime. Le prime tirannidi di Sicilia a noi note sono quella di Panezio a Leontini (a cui può aver dato occasione qualche conflitto sociale determinandosi in relazione al controllo e alla distribuzione delle proprietà nella fertile piana) e quella di Falaride ad Agrigento. C’è una coincidenza complessiva con il quadro cronologico delle tirannidi della Grecia arcaica, che suscita fiducia nella tradizione. La precocità della tirannide di Falaride nella storia della città, fondata appena nel 580 a.C., risulta più accettabile, se si pensa che la stessa fondazione di Agrigento potrebbe riflettere conflitti all’interno della società geloa, che del resto in età arcaica fu turbata dalla stásis sedata da Teline. Queste prime tirannidi siceliote hanno dunque ancora motivazioni simili a quelle delle tirannidi arcaiche in genere: le tirannidi siceliote di fine VI e soprattutto V secolo hanno motivazioni e sbocchi ben più caratteristici[27]. […]


[1] Su questi temi, cfr. gli Atti del convegno Momenti precoloniali nel Mediterraneo antico, Ist. Civiltà fenicia e punica, Roma 1988; D. Musti, Strabone e la Magna Grecia. Città e popoli dell’Italia antica, Padova 1988; Id., in Storia di Roma I, Torino 1988, pp. 39 sgg.

[2] Per il tradizionale (e ormai obsoleto) dibattito sul carattere commerciale, o invece agrario e di popolamento, delle colonie greche, v. A. Gwynn, in «JHS» 38, 1918, pp. 88 sgg.; A.W. Byvanck, in «Mnemosyne» 1936/7, pp. 181 sgg.; A. Blakeway, in «ABSA» 22, 1932/3, pp. 170 sgg.; A.J. Graham, Colony and Mother-City in Ancient Greece, Manchester 1964; Id., in «JHS» 91, 1971, pp. 35 sgg.; D. Asheri, Storia della Sicilia. La Sicilia antica, a c. di E. Gabba – G. Vallet, I 1, 1979, pp. 98 sgg.

[3] Sulla cronologia e il contesto della guerra lelantina, una plausibile ricostruzione in B. d’Agostino, «Dial. di Archeologia» 1, 1967, pp. 20 sgg. Se si accettano le testimonianze di Esiodo, Opere e Giorni, ai vv. 650-662, e di Plutarco, Moralia 152d, sulla morte di Anfidamante di Calcide (per Plutarco avvenuta nel corso della guerra lelantina), se ne ricava un nesso cronologico tra la guerra stessa e la cronologia di Esiodo, che avrebbe partecipato alle gare funebri in onore di Anfidamente.

[4] D. Ridgway, L’alba della Magna Grecia (trad.it.), Milano 1984. Sulla “coppa di Nestore”, cfr. G. Buchner – C.F. Russo, in «RAL» 8, 1955, pp. 216 sgg.; D. Musti, Democrazia e scrittura, in «Scrittura e civiltà» 10, 1986, cit., pp. 21 sgg.

[5] Sui cryseîa di Pitecussa (miniere d’oro o oreficerie?), Strabone, V C. 247. Pitecussa sembra una pólis a tutti gli effetti per Strabone (cfr. ōikisan); ma v. Livio, VIII 22, 6 per un’altra concezione (i Cumani primo <in> insulas Aenariam et Pithecusas egressi, deinde in continentem ausi sedes transferre).

[6] Per es., sull’aspetto di Megara Iblea nel VI sec., v. G.Vallet – F.Villard – P. Auberson, Mégara Hyblaea. 1. Le quartier de l’agora archaïque, École Française de Rome 1976.

[7] Su Tucidide, VI 3-5, cfr. commento di K.J. Dover, in A.W. Gomme – A. Andrewes – K.J. Dover, A Historical Commentary on Thucydides IV, Oxford 1970, pp. 198-210 (sulla provenienza da Antioco e sulle cronologie). Per la vicinanza di Eusebio alle cronologie di Tucidide, J. De Waele, Acragas Graeca I, Rome 1971, p. 83.

[8] D. Musti, L’idea di Megálē Hellás, in «RFIC» 114, 1986, pp. 286-319 (= Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 61-94). V. ora D. Musti, Magna Grecia. Il quadro storico, Roma-Bari 2005, pp. 122 sgg.

[9] Cfr. FGrHist 555 Ff 12 e 9 (per Metaponto e Reggio) e lo stesso Antioco come probabile fonte di Tucidide, VI 3, 2 (v. il mio Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 40-42).

[10] Per la distinzione tra cultura ausonia e cultura sicula, L. Bernabò Brea, La Sicilia prima dei Greci, Milano 1985; G. Voza ne La Sicilia antica I, 1, cit. a n.45, pp. 28 sgg. Sull’etimologia di Ausoni, D. Musti, Ausonia terra 1, in «RCCM» 41, 1999, pp. 167-172; A. Pagliara, ibid., pp. 173-198. Sugli episodi di «seismós kaì pûr» (terremoto ed eruzione vulcanica) e sui fenomeni di maremoto che hanno interessato, in età antica, l’area campana, v. D. Musti, Lo tsunami di Pitecusa (IV secolo a.C.), in «Bollettino della Società Geografica Italiana» ser. XII, 10, 2005, pp. 567-575.

[11] Su Siculi, Sicani, Elimi, cfr. L. Braccesi in La Sicilia antica I, 1 cit., pp. 53 sgg.; E. Manni, Geografia fisica e politica della Sicilia antica, Palermo, 1981; L. Agostiniani, Iscrizioni anelleniche di Sicilia. I. Le iscrizioni elime, Firenze 1977.

[12] Sul rapporto tra Siculi e Sicani e tra i due gruppi (considerati entrambi indoeuropei) e gli Elimi (fondo mediterraneo), cfr. S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, Catania 1945, pp. 11-47.

[13] Sul trattato tra Atene e Segesta, H. Bengtson, Die Staatsverträge des Altertums II, München-Berlin 1962, pp. 41 sg. (per una data 458/7). Cronologie più basse vengono di quando in quando riproposte.

[14] Sul caso di S. Angelo Muxaro, identificabile con Camico, reggia di Cocalo e sede della tomba di Minosse, cfr. G. Rizza e AA.VV., in «Cronache di Archeologia» 18, 1979; sull’ellenizzazione dei centri indigeni della Sicilia occidentale, E. De Miro, in «Kokalos» 8, 1962, pp. 122 sgg.; «Bollettino dell’Arte» 1975, pp. 123 sgg.; Id., in AA.VV., Forme di contatto e processi di trasformazione delle società antiche, Cortona 1981, Pisa-Roma 1983, pp. 335 sgg.

[15] Sul problema della data di fondazione di Megara Iblea: G. Vallet – F. Villard, in «BCH» 76, 1952, pp. 289 sgg.; ibid. 82, 1958, pp. 16 sgg. (in favore di una cronologia 750 circa, anteriore a quella di Siracusa); ora però più disponibili per una data nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., in Megara Hyblaea… Guida agli scavi, a c. di G. Vallet – F. Villard – P. Auberson, École Française de Rome, 1983 (cfr. P. Vannicelli, in «RFIC» 115, 1987, pp. 335 sgg.).

[16] Tucidide è fra i principali e più decisi testimoni della compresenza rodia e cretese a Gela, e un testimone isolato (anche se autorevolissimo) per la fondazione di Agrigento da parte di Gela (VI 4, 4). Pindaro (in partic. Olimpica II, ma cfr. anche III, per l’insistito collegamento col mondo dorico-laconico) e gli scolii mettono in evidenza la provenienza dei fondatori di Agrigento dall’area delle doriche Sporadi meridionali (Rodi, Cos) e dal Peloponneso, con particolare riferimento alla provenienza degli Emmenidi, antenati di Terone, e tendenza a negare la tappa intermedia a Gela.

[17] Sulla campagna di Ippocrate in direzione di Zancle, Erodoto, VII 154, 2 -155, 1. Ippocrate tende a insediare nelle città suoi fiduciari.

[18] Sui sinecismi forzati operati da Gelone, cfr. Erodoto, VII 155, 2- 156; M. Moggi, I sinecismi interstatali greci, Pisa 1976, pp. 100 sgg.

[19] Cfr. Diodoro, V 9; Pausania, X 11, 3-5 (= Antioco, FGrHist 555 F 1). Lo stesso Diodoro, altrove, usa “Fenici” per “Cartaginesi”.

[20] Contro la cronologia alta di G. Maddoli, non sufficientemente motivata, cfr. quanto osservato in «Kokalos» 26/27, 1980/1, pp. 252 sgg., e 30/31, 1984/5, pp. 338 sg. La cronologia alta è ora seguita da S. Bianchetti, Falaride e Pseudo-Falaride. Storia e leggenda, Roma 1987, pp. 24 sg., con varie conseguenze sulla valutazione del senso dell’avanzata di Falaride nell’interno e in direzione di Imera, avanzata che diventerebbe la risposta a una politica di dominio territoriale cartaginese aperta dalla spedizione di Malco. Se un bersaglio immediato c’è, è piuttosto nei Sicani: a Malco (con Orosio, IV 6, 7) si colloca in un periodo di espansione cartaginese in Africa e Sardegna, oltre che in Sicilia, e dopo la battaglia di Alalia (del 540 circa) (cfr. anche H. Bengtson, Storia greca, trad. it., I, p. 221).

[21] Cfr. D. Musti, Sul ruolo storico della servitù ilotica. Servitù e fondazioni coloniali, in «Studi storici» 1985, pp. 587 sgg. (= Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 151 sgg.).

[22] Cfr. Polibio, XII 5-10; e il mio studio su Problemi della storia di Locri Epizefirii, in Atti Convegno Taranto 1976, Napoli 1977, pp. 37-65. Aristotele ha, sulle origini semiservili di Locri e, rispettivamente, di Taranto, posizioni diverse.

[23] Sullo statuto di Falanto, cfr. lo studio cit. in n. 21 (diversamente da G. Maddoli, in «MEFR» 95, 1983, pp. 555 sgg.). Sull’adulterio, Giustino, III 4, 1-11, probabilmente da Eforo.

[24] Va probabilmente ripensata e attenuata la netta contrapposizione, un tempo proposta (cfr. G. Vallet, in «Kokalos» 8, 1962, pp. 30 sgg.), fra l’espansione “pacifica” dei Calcidesi e quella aggressiva dei Siracusani in territorio siculo; la differenza di comportamento è piuttosto tra politica dei tiranni, volta alla costituzione di un compatto dominio territoriale, e politica delle libere póleis (calcidesi – cioè ioniche – o doriche che siano) nei confronti dei Siculi: questa è ispirata al principio dell’autonomia delle città, è anzi suscettibile di una qualche estensione al mondo indigeno. Ducezio non è un tiranno, nello stato siculo che crea; quest’ultimo appare come una realtà policentrica, una syntéleia, con forte coesione sacrale e istituzionale. E l’autonomia da Siracusa sarà garantita dai Cartaginesi ai Siculi, oltre che ad alcune città calcidesi, nel trattato del 405 con Dionisio I (Diodoro, XIII 114). Su Zaleuco, cfr. il mio studio cit. in n. 22, pp. 72-80; su Caronda, cfr. G. Vallet, Rhégion et Zancle, Paris 1958, pp. 313 sgg.; F. Cordano, in «MGR» 6, Roma 1978, pp. 89 sgg.

[25] Sulla storia di Megara Iblea, cfr. n. 6.

[26] Su Teline, Erodoto, VII 153 sg. Sui Miletidi, Tucidide, VI 5, 1; sulla storia e l’archeologia di Imera, N. Bonacasa, Il problema archeologico di Himera, in «ASAA» 43, 1984, pp. 319 sgg.; A. Adriani, N. Bonacasa, N. Allegro e AA.VV., Himera 1-2, Roma 1970-1976 (campagne di scavo 1963-1973), ecc.

[27] Per le fonti sulle tirannidi di Panezio a Leontini, di Terone figlio di Milziade e di Pitagora (Peithagoras) a Selinunte, di Falaride ad Agrigento, cfr. H. Berve, Die Tyrannis bei den Griechen cit., I, pp. 129, 137 e 129-132, rispettivamente. Panezio di Leontini e Terone di Selinunte (rispettivamente VII e VI sec. a.C.) sono comunque titolari di tirannidi effimere, e caratterizzate per giunta nel senso di una spiccata contrapposizione sociale (l’una appoggiata dal popolo contro i possidenti, l’altra agli stessi schiavi).

Tirannidi arcaiche

di D. MUSTI, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 160-176.

È più giusto parlare di passaggio dalle aristocrazie alle tirannidi, che non dall’aristocrazia alla tirannide: a significare che vi furono forme storiche ed esiti storici diversi di tirannidi, a seconda delle diverse situazioni e dei diversi contesti storici. La diversità dei casi, delle forme, degli sviluppi nulla toglie comunque alla legittimità di una considerazione sotto un profilo unitario delle tirannidi arcaiche, cioè di VII-VI secolo. Si potrà certamente distinguere tra le cosiddette tirannidi “istmiche” (di città più o meno gravitanti intorno all’istmo di Corinto: Corinto stessa, Sicione, Megara), altre, pur esse nella madrepatria greca, come quella di Atene o quella, diversa per l’aspetto cronologico e reale, di Argo; e tirannidi di città ioniche o egee, per noi un po’ più evanescenti, come quelle di Mitilene a Lesbo o di Mileto ed Efeso in Asia.

L’origine del termine

Una tradizione di scuola vuole che si cominci dai nomi. “Tiranno” e “tirannide” sono parole presenti nel vocabolario greco già dal VII secolo: Archiloco, nel VII secolo, Alceo, tra VII e VI, Solone e Teognide nel VI ne facevano già uso. Il significato di τύραννος era «signore»; un suo più o meno diretto equivalente in un termine più trasparente alla luce del lessico greco era μόναρχος, «colui che governa da solo». Queste parole indicano un potere personale assoluto, superiore a quello tradizionale dei βασιλεῖς, soprattutto perché non è definito in prerogative (γήρα) concordate dalla comunità e, perciò, non basato sul consenso; eppure, molte volte i tiranni mirarono ad assimilare il loro potere a quello del βασιλεύς e parte della tradizione letteraria antica, compresa la storiografia, obiettivamente li ha assecondati. Il termine τύραννος portava peraltro già in Alceo una nota di condanna, che avrebbe raggiunto il suo valore più negativo negli scrittori del IV secolo, che risentirono sia positivamente di un’ideologia democratica latamente diffusa, sia dell’esperienza negativa delle tirannidi del V e del IV secolo, in particolare di quelle siceliote.
La parola τύραννος non è di origine greca; a lungo si è ritenuta di origine lidia (e gli antichi talora l’hanno, anche per lata assonanza, messa in rapporto con nomi orientali come il toponimo Τύρρα, o con un nome di popolo come Τυρρηνοί, cioè gli Etruschi che certa tradizione voleva provenienti dalla Lidia): forse, più in generale, si dovrebbe parlare di origine microasiatica. Un’origine orientale del nome, dati i precoci rapporti della Grecia – in particolare di quell’area istmica, e più specificamente corinzia, che conobbe precocemente la nuova forma politica – con il mondo asiatico, non comportava una priorità delle tirannidi greche della Ionia. Ciò va detto tanto più chiaramente, quanto più risulta, in particolare dalle indagini di Mazzarino, la complessità del rapporto tra Lidia e regimi politici delle vicine città ioniche (proprio le aristocrazie ioniche ed eoliche erano particolarmente lidizzanti).
Della tirannide appare dunque radice necessaria e sufficiente un’evoluzione interna della stessa πόλις greca; essa può perciò avere ben avuto le sue prime manifestazioni in città della madrepatria greca, come del resto suggeriscono le cronologie fissate dalla tradizione, che smentiscono, anche in questo caso, il pregiudizio molto diffuso dell’assoluta priorità ionica sul terreno delle esperienze politiche greche. Mai, come nel caso delle tirannidi, il problema cronologico appare come fondamentale per la ricostruzione storica: accettarne o respingerne il profilo cronologico tradizionale (più alto di quello suggerito e quasi imposto dalla prospettiva, in questo caso ipercritica, di Beloch) equivale ad avere opinioni radicalmente diverse in ordine al problema della regione in cui la tirannide fece la sua prima comparsa, della diversificazione dei caratteri di quel regime e del suo rapporto con i regimi del passato e del futuro a seconda delle diverse epoche, e così via di seguito. Sarebbe comunque davvero rischioso preporre l’indagine sulla parola τύραννος (o τυραννίς) a quelle cose: il buon ordine logico e storico è sempre quello che fa precedere, o almeno prevalere, le cose rispetto alle parole.

L'antico Δὶολκος sull'Istmo di Corinto
L’antico Δὶολκος sull’Istmo di Corinto.

Il dibattito sulla genesi della tirannide

Ricondotto a un momento dello sviluppo interno della πόλις, il problema della genesi della tirannide consiste in primo luogo nella definizione del giusto rapporto tra tre termini in gioco: la tirannide stessa, l’aristocrazia, la struttura oplitica. Il rischio di vedere opposta la tirannide arcaica ad entrambi gli altri termini sembra minimo: una concezione meramente demagogica del tiranno, benché abbia qualche riscontro nella rappresentazione antica, che fu certo influenzata dalle tirannidi del IV secolo e di epoca ellenistica, non sembra avere molto spazio negli studi moderni. Un recente dibattito ha visto contrapposte una concezione che lega l’avvento della tirannide a quello dell’oplitismo, cioè della tattica propria della falange oplitica, e delle trasformazioni politico-sociali connesse (Andrewes, Salmon), ed una che considera l’avvento della tattica oplitica archeologicamente dimostrabile solo a metà del VII secolo a.C., se non più tardi, quando la tirannide potrebbe essere già affermata (Snodgrass). Il dibattito, per dotto che sia, sembra carente nella sua stessa base di partenza. Con Snodgrass, è giusto ammettere che la tirannide sia un momento della crisi dell’aristocrazia; ed è questo un nesso ben stabilito da Mazzarino nella sua lucida analisi dell’origine storica della tirannide. Il tiranno è un aristocratico che viene in conflitto con i suoi compagni di gruppo sociale. Ma, aggiungeremmo, anche i suoi scopi politici sono soltanto in parte in conflitto con quelli degli altri aristocratici. Se a crisi si dà il significato elementare di trasformazione, o piuttosto – visto che il processo storico è sempre un processo di trasformazione – quello di trasformazione accelerata in un determinato periodo, allora la tirannide è un momento di crisi dell’aristocrazia, che si determina nel seno stesso dell’aristocrazia. Il caso classico è quello del corinzio Cipselo, che nasce da Labda, una donna della dominante aristocrazia bacchiade, e da un uomo del dēmos di Petra, Eezione; e il governo di Cipselo appare, nella stessa tradizione erodotea e ancor più nella tradizione storiografica successiva, come un governo mite, o comunque meno immite di quello del successore Periandro; è solo nel corso della seconda generazione che si accentua la lacerazione tra il tiranno e l’ambiente aristocratico da cui egli proviene. Il nesso originario aristocrazia-tiranno (lasciando per il momento da parte i successivi sviluppi socio-politici ed economici) è dunque innegabile.

L'«Olpe Chigi». Particolare: due falangi oplitiche che si affrontano. Pittura vascolare da un olpe tardo-corinzio a figure nere e policrome. 630 a.C. ca., da Veio. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
L’«Olpe Chigi». Particolare: due falangi oplitiche che si affrontano. Pittura vascolare da un ὄλπη tardo-corinzio a figure nere e policrome. 630 a.C. ca., da Veio. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Sembra invece un esercizio alquanto dispendioso di energie intellettuali quello profuso per stabilire che la prima tirannide greca sia anteriore di qualche anno alla prima testimonianza archeologica dell’uso di una tattica oplitica. Tale sforzo dimostrativo si giustificherebbe solo se si potesse affermare che l’aristocrazia prima del 650 a.C. sia ovunque in Grecia, e in particolare, nella città dell’Istmo, un’aristocrazia equestre. D’altra parte, per la ricostruzione della storia dell’oplitismo, non è in gioco solo il momento della più evoluta organizzazione oplitica, ma anche quello delle sue premesse, che possono essere anteriori di decenni o di secoli (qual è l’arme della gran parte delle aristocrazie dei secoli bui?). E inoltre, le prime rappresentazioni vascolari o scultoree sono da considerare con sicurezza come registrazioni immediate di un’innovazione assoluta? O l’evoluzione nella rappresentazione potrebbe spiegarsi più con un progresso nella tecnica rappresentativa che non con una trasformazione della cosa rappresentata? Ora, una volta considerato l’oplitismo come espressione militare di gran parte delle aristocrazie greche già nell’alto arcaismo, la spinosa questione del prima e del poi, tra tirannide e oplitismo, perde di significato. L’oplitismo sembra infatti esso stesso espressione dell’aristocrazia e insieme di quel che ad essa si appoggia e si subordina, perciò l’espressione militare allargata dell’aristocrazia. La tirannide ora nasce come espressione dell’oplitismo ora viene in conflitto con esso: quest’ultimo è appunto il caso delle generazioni più tarde, all’interno delle tirannidi più arcaiche (Corinto o Sicione), e l’esito normale delle tirannidi più recenti (come quella di Atene).

Mileto. Didymaion, santuario di Apollo in età arcaica (elaborazione grafica da Gruben, 2001).

Sul terreno dello sviluppo delle forme politiche, sembra difficile sottrarsi a una concezione dialettica della genesi della tirannide dall’oplitismo e dalla stessa aristocrazia. Il maggior supporto a questa concezione è proprio nella Politica di Aristotele, là dove il filosofo-storico afferma che i tiranni di epoca arcaica erano generali passati alla politica o (come egli dice) alla demagogia, nel senso lato di politica svolta in favore del dēmos (V 1305a 7 sgg.). Aristotele considera anche il caso di una degenerazione verso la tirannide di una regolare magistratura o carica (come la pritania a Mileto): anche questo un esempio di quell’evoluzione interna dei vecchi regimi che è all’origine della tirannide. Ma ancor più interessante è ciò che il filosofo-storico dice del profilo sociologico della tirannide e che pone immediatamente il problema della sua compatibilità (a nostro avviso esistente) con l’inquadramento cronologico e causale dato alla tirannide da Tucidide. Secondo Aristotele, dunque, «per il fatto che allora non erano grandi le città, ma il popolo abitava nei campi, intento ai lavori (agricoli), i campioni del popolo, quando fossero bravi soldati, aspiravano alla tirannide». Il quadro sociologico e socioeconomico della base della tirannide è perciò quello di una popolazione contadina che si lascia rappresentare da un capo. La rappresentazione è fondamentalmente diversa da quella fornita da molti studiosi, che accentuano l’aspetto mercantile delle tirannidi, in particolare da Ure, che nel 1922 proponeva un’equazione tirannide=mercanti oggi non più in auge. Molto spesso è stata addotta, in sostegno di questa concezione, la testimonianza di Tucidide (I 13), per il quale «divenendo più potente la Grecia e attribuendo al possesso delle ricchezze un valore anche maggiore di prima, per lo più sorgevano tirannidi nelle città, mentre le entrate diventavano maggiori (prima c’erano monarchie ereditarie con prerogative definite), e la Grecia allestiva flotte, e in generale i Greci si dedicavano di più al mare». Il contrasto con Aristotele è solo apparente: Tucidide non dice che i tiranni siano mercanti, o rappresentanti dei mercanti; dal canto suo, Aristotele invece dice che la base sociale delle tirannidi è nelle campagne (e adduce gli esempi di Atene e di Megara). Quel che Tucidide fornisce è dunque un inquadramento in primo luogo cronologico (tra l’inizio del processo di colonizzazione e l’avvio della potenza coloniale corinzia) e di sviluppo economico complessivo, che naturalmente include anche, nei fatti, uno sviluppo commerciale (e d’altra parte è chiaro che all’orizzonte del quadro storico di Tucidide è Corinto, città-paradigma di uno sviluppo mercantile in età arcaica). Aristotele dunque definisce la base sociologica della tirannide, Tucidide ne fornisce l’inquadramento cronologico e storico-economico: a rigore, sono due angolature diverse, non necessariamente due opinioni in contrasto fra loro. Tali considerazioni inducono, da un lato, a non ricercare una formula unica per caratterizzare la tirannide, perché vi sono varianti locali; dall’altro raccomandano invece di non esasperare le differenze, perché una base sociale agraria è quasi ineliminabile, e un contesto di accelerato sviluppo economico è per tutte innegabile.

Corinto. Statere, 555-515 a.C. ca. AR 8,37 g. Dritto - Pegaso in volo, voltato a sinistra; in exergo, una ҁ (koppa)
Corinto. Statere, 555-515 a.C. ca. AR 8,37 g. Dritto: Pegaso in volo, voltato a sinistra; in exergo, una ҁ (koppa).

Paiono dunque in qualche misura giustificate le posizioni di quegli studiosi che si rifiutano di individuare una causa unica nella nascita delle tirannidi. Un empirismo di fondo caratterizza significativamente le impostazioni di studiosi così diversi fra loro come un Andrewes e un Berve. Andrewes nega giustamente che la genesi delle tirannidi sia da ricondurre a conflitti razziali (benché, nel caso di Sicione, sia documentata la posizione anti-dorica di un Clistene, una posizione che tuttavia ha anche una più complessa spiegazione). Per Berve la tirannide, in termini generali, si può ricondurre a spinte individualistiche; e certo questa è una forma di schematico e riduttivo positivismo. Fortunatamente però la ricchissima analisi di Berve, in quella che ormai è ed è destinata a restare come la base filologica indispensabile per qualunque ricerca sulla tirannide nel mondo greco, smentisce la rappresentazione generalizzante della prefazione e dà pieno conto della ricchezza delle motivazioni politiche e socioeconomiche, che sono all’origine delle tirannidi.
Talora la tirannide è stata posta in un rapporto diretto e immediato con lo sviluppo mercantile o ancor più specificamente con quello dell’economia monetaria. In realtà si può affermare una stretta connessione della tirannide con lo sviluppo demografico ed economico della Grecia tra VIII e VII secolo; esso ha come conseguenza un ampliarsi del campo dei bisogni e dei conflitti sociali, a cui le vecchie strutture aristocratiche non rispondono più. La tirannide è quindi certamente espressione di movimenti significativi nell’economia e nella società antica e, in quanto tende a interpretarli e guidarli nelle forme del potere personale (cioè familiare), li sollecita e promuove a sua volta. Ma non è possibile definire una volta per tutte una specifica caratteristica economica della tirannide come tale, e spesso – come è nel punto di vista forse parziale, ma non erroneo, di Aristotele – la sua base sociale è proprio nel contado.
La problematicità dell’equazione tirannide = sviluppo del commercio risulta già dalla considerazione della storia dell’economia di Corinto arcaica. La dinastia dei Bacchiadi regge Corinto fino dalla metà del VII secolo a.C., quando la ceramica proveniente dalla regione ha già conosciuto un secolo di sviluppo (protocorinzio antico e medio: circa 740-650 a.C.) e ha avuto, non più tardi del 700 a.C. (quindi certamente già in periodo bacchiade), una produzione e diffusione di massa. L’esatta definizione del rapporto tra aristocrazia bacchiade e artigianato/commercio corinzio è uno dei problemi centrali, se non addirittura il problema-tipo e la questione paradigmatica, per la rappresentazione del rapporto tra economia, società e politica nella Grecia arcaica.
Appare sempre più difficile, cioè affidata ad un’interpretazione riduttiva, che rischia di essere poco più che casuale, la rappresentazione del rapporto tra aristocrazia e commercio corinzio come un fenomeno puramente parassitario, quasi si tratti solo di prelievo di balzelli su un commercio di transito. L’artigianato e il commercio corinzio comunque c’erano, anche se la grande tradizione storiografica, forse per condizionamento ideologico, tace di essi, come del diretto coinvolgimento degli aristocratici nelle due attività produttive. È difficile tuttavia che non vi fosse una qualche vigilanza dell’aristocrazia sull’attività artigianale o una qualche promozione di essa; e di un’implicazione diretta di un membro dell’aristocrazia bacchiade nel commercio parla una tradizione tarda e discussa, secondo cui un Demarato (padre del futuro re di Roma, Tarquinio Prisco) esercitò il commercio tra la Grecia e l’Etruria, con una sua nave e un suo proprio carico.

Corinto

Quale fu, in questa situazione, la funzione della tirannide? Il periodo della produzione ceramica qualitativamente migliore a Corinto è quello che va sotto il nome di tardo protocorinzio, e questo occupa gli anni 650-630 a.C. circa (seguiti da un pregevole periodo di transizione); successivamente (620-550 a.C. circa) si ha lo sviluppo della ceramica corinzia, di qualità inferiore, ma di diffusione assai vasta; il problema della cronologia della tirannide dei Cipselidi diventa in queste condizioni decisivo anche per la questione del significato del regime sul piano economico. Chi accetta la cronologia tradizionale (inizio al 657 a.C. circa), vede nella tirannide corinzia una forma politica che non crea l’artigianato, e commercio, ma che comunque continua, e porta al perfezionamento e a uno slancio produttivo ulteriore, attività economiche già prima ben presenti. Chi invece abbassa l’avvento di Cipselo al 610 a.C. (come Beloch) o al 620 circa (come Will), e per conseguenza al 540 circa la fine della tirannide, da un lato deve attribuire al periodo dell’aristocrazia bacchiade il momento del più alto sviluppo artigianale, dall’altro deve ammettere che artigianato e commercio corinzio si esauriscano proprio nel periodo della tirannide, che sopravviverebbe alla crisi di quelle attività produttive. Ora, è giusto osservare che a Corinto l’artigianato e il commercio non sono apporto specifico della tirannide: questa nasce anzi dall’interno contadino, e di questo è geneticamente il frutto. Tuttavia, sarebbe espressione di rigido primitivismo negare l’interesse dei Cipselidi, e in particolare di Periandro, all’espansione commerciale, sia in Occidente sia in Oriente: basti pensare alla creazione del Δὶολκος, il “tramvai” dell’Istmo per il trasporto delle imbarcazioni, o allo sviluppo, accanto al porto del Lecheo sul golfo Corinzio, anche di quello di Cencree sul golfo Saronico, o alla fondazione di nuove colonie, da Leucade ad Ambracia e ad Anattorio sul mar Ionio, a Potidea nella Calcidica (Egeo settentrionale).

Corinto. Tempio di Apollo. Ordine dorico, metà VI sec. a.C.
Corinto. Tempio di Apollo. Ordine dorico, metà VI sec. a.C.

E certamente non sarebbe neanche facile dare un’immagine univocamente agraria della politica economica e sociale dei tiranni. Per Sicione si ha ad esempio traccia di provvedimenti volti a scoraggiare l’immigrazione di gente dal contado in città, se davvero nei κατωνακοφόροι (“portatori di κατωνάκη”, cioè di un mantello col bordo in pelle di pecora), si debbono vedere dei contadini, a cui il tiranno imponeva in città una sorta di umiliante “uniforme”, atta a rivelarne la provenienza e la condizione sociale. Su più solide basi pare attestata la tradizione attidografica sulle provvidenze di Pisistrato per la rivitalizzazione dell’agricoltura dell’Attica, che per sé equivaleva a un freno posto a uno sviluppo eccessivo dell’urbanesimo. D’altra parte, che ci sia qualcosa in comune tra la tirannide di Sicione e quella di Atene, sotto questo profilo, risulta dal fatto che l’una e l’altra segnano uno sviluppo del culto di Dioniso; ad Atene si aggiunge l’ingrandimento del santuario di Eleusi. Questo però non significa puro e semplice sviluppo dei culti agrari, o della campagna ai danni della città. Le opere pubbliche realizzate dai tiranni nella città (ad Atene questo aspetto è ben documentabile) significano attenzione alla città e promozione del suo sviluppo materiale e funzionale, che però non è ancora programmatico incremento urbano; quest’ultimo sarà ad Atene piuttosto l’apporto della democrazia.

Periandro di Corinto. Erma, marmo, copia romana da originale greco di IV sec. a.C., opera di Ctesila. Città del Vaticano, Musei Vaticani - Museo Pio-Clementino.
Periandro di Corinto. Erma, marmo, copia romana da originale greco di IV sec. a.C., opera di Ctesila. Città del Vaticano, Musei Vaticani – Museo Pio-Clementino.

Sul piano socio-economico il tiranno tende a esercitare una funzione propulsiva, diffusa su tutte le attività, nella prospettiva di un equilibrio nuovo, che consenta di dare qualche risposta ai bisogni elementari degli strati più poveri, senza però farli entrare ancora nella sfera del potere, che resta personale e, nonostante tutto, fortemente condizionato dal punto di partenza politico delle tirannidi medesime. Come sul terreno sociopolitico il tiranno occupa progressivamente il campo mediano dello spazio sociale, così sul terreno economico egli si pone come fattore propulsivo delle più diverse attività produttive, con incremento anche di quelle meno tradizionali, che possono rispondere all’accresciuto e aggravato bisogno economico complessivo, già per il fatto che costituiscono ulteriori fonti di sostentamento. Il fatto poi che nella tradizione queste attività produttive, proprio perché meno tradizionali, possano essere talora messe in una luce particolare, a scapito di altre, non autorizza lo storico di oggi a stabilire connessioni univoche tra la tirannide e una determinata forma economica.
Ma della quantificazione politica della tirannide può dare una giusta idea, oltre alla considerazione della sua genesi, anche quella dei suoi sbocchi, dei suoi esiti sociopolitici: ci si accorgerà infatti che in molti casi si è operato un indebito trasferimento, verso la fase iniziale di una tirannide, di quelle caratteristiche che essa assume invece solo in una fase avanzata, o addirittura finale, della sua storia, comunque ad opera di un tiranno diverso dal fondatore del regime.
La tirannide non è sempre l’anticamera della democrazia. Lo è là dove tutto il processo politico è spostato in avanti (e ciò è documentabile ad Atene, assai meno a Megara); questo accade naturalmente nelle epoche più avanzate; ma, anche in questo caso, il passaggio dalla tirannide alla democrazia non è né diretto né indolore, ed è quindi compito dello storico mettere in luce quei dati nuovi che la tirannide comporta e che trovano un loro diverso e compiuto sviluppo nella democrazia: formazione di un potere al di fuori e al di sopra della semplice somma dei cittadini; sviluppo della fiscalità; elaborazione e articolazione della stessa idea e forma di città. Tuttavia il verificarsi del fenomeno della tirannide non lascia in nessun caso le cose immutate; anzi, come risultato minimo (che è poi quello più spesso ricorrente), esso produce un’aristocrazia moderata, cioè più temperata rispetto a quella precedente la tirannide. Una via classica è quella dell’allargamento del corpo civico, quale si può ottenere mediante l’ampiamento del numero delle tribù. Il caso più evidente è quello di Sicione: Clistene (circa 610/600-580/570 a.C.) alle tre vecchie tribù dell’aristocrazia dorica (apparentemente deformate nei loro nomi) aggiunge una quarta tribù, che si chiamerà, durante la tirannide, degli Ἀρχέλαοι e più tardi si assesterà su una denominazione Αἰγιαλείς, che recupera al tempo stesso il nome originario di Sicione (Αἰγιάλεια) e il nome di un figlio dell’argivo Adrasto (Egialeo), eroe caro all’aristocrazia dorica di Sicione, il cui culto Clistene aveva appunto sostituito con quello dell’antagonista tebano Melanippo e del dio Dioniso. Con tutto ciò, la forma di governo di Sicione, sessant’anni dopo la fine di Clistene, era oligarchica. E tale resta anche la costituzione di Corinto, benché, dopo la fine dei Cipselidi, in base a un passo di Nicolao di Damasco che parla dell’istituzione di otto probuli e di nove buleuti (per ciascun probulo, quindi settantadue?), si sia potuto ammettere che le cifre otto e (forse) ottanta in questione, in quanto multiple di quattro, presuppongono anche a Corinto una ampliamento delle strutture civiche da tre a quattro tribù (con tutto quel che tale ampliamento comporta, di pur limitate modifiche).

Albero genealogico dei Cipselidi. K.J. Beloch, Griechische Geschichte, I 2, Strasbourg 1916, p. 283, collazionato con H. Berve, Die Tyrannis bei den Griechen, p. 757 [linee tratteggiate]
Albero genealogico dei Cipselidi. K.J. Beloch, Griechische Geschichte, I 2, Strasbourg 1916, p. 283, collazionato con H. Berve, Die Tyrannis bei den Griechen, p. 757 [linee tratteggiate].

Si è tentato di definire in termini sociopolitici la novità della tirannide rispetto all’aristocrazia. Ma tutte le definizioni che prescindono da quel rapporto dialettico tra aristocrazia, oplitismo e tirannide che abbiamo proposto (rapporto nel quale ogni forma successiva è compresa o preannunciata o generata nella precedente e al tempo stesso si colloca fuori di essa, è perciò dentro e fuori della forma politica precedente), finiscono col dare della tirannide un quadro che la fa somigliare molto alla democrazia (sì che non si vede più perché la tirannide non sarebbe dovuta sfociare nella democrazia, o perché, dove ciò è stato, non sia accaduto senza convulsioni storiche). Più volte si legge infatti che la tirannide risulta dall’alleanza tra la classe oplitico-contadina (intesa come totalmente estranea e contrapposta all’aristocrazia) e il proletariato urbano (o anche rurale), nei termini schematici di un’alleanza tra ceto medio e popolo. Ma, a guardar bene, questa è proprio la formula sociopolitica della democrazia classica, la quale non ha mai in Grecia caratteri rivoluzionari, bensì, anche e proprio nella sua forma storicamente più avanzata, è l’esito di un’alleanza tra ceti medi (quelli che proprio la democrazia ha sviluppato e potenziato come tali, cioè quantitativamente e politicamente) e proletariato dei teti, quindi tra medi e piccoli proprietari terrieri ed eventuali imprenditori, da un lato, e braccianti e salariati dall’altro. Ora, la diversità della tirannide rispetto alla democrazia è proprio nel suo conservare (soprattutto nelle prime fasi) gli originari legami con l’aristocrazia oplitica, nonostante tutte le frizioni, gli attriti, i contrasti, i conflitti. Come quel nesso originario è, nonostante tutto, presente, la tirannide, non nella sua genesi, ma nel suo esito sociopolitico complessivo, viene dunque a realizzare una posizione di equilibrio fra i diversi ambienti sociali; e, pur nascendo dalla classe oplitica e dall’aristocrazia, il tiranno viene ad occupare la posizione mediana del campo sociale complessivo, sì che riflette al contempo le sue origini dalla società oplitica e la sua attenzione alle esigenze del popolo minuto. Questo emerge via via più nettamente nel corso del tempo, cioè col passare degli anni o dei decenni di una tirannide, e si coglie probabilmente con più evidenza nella seconda generazione (stando alle fonti, che potrebbero però talora essere un po’ schematiche e che comunque vanno valutate a seconda dell’epoca a cui appartengono). La funzione di equilibrio viene meno, d’altra parte, via via che si va avanti nel tempo e si passa ad un’ulteriore generazione, via via quindi che si accentuano gli aspetti personalistici o le forme di violenza del potere tirannico, caratteristiche che finiscono con l’isolarlo dalla società che esso ha contribuito a creare. Non è dunque un caso che le tirannidi arcaiche non riescano a completare facilmente più di due generazioni di permanenza al potere, e che già alla terza esplodano tutti i conflitti di cui la forma personale del potere ha posto le premesse: quando esse durano più dei cinquanta o settant’anni circa che corrispondono a due generazioni, la cosa è così eccezionale da dover essere notata. Aristotele, attentissimo alla connessione tra aspetti cronologici e sociologico-storici, sottolineava la durata eccezionale di cento anni per gli Ortagoridi di Sicione: il che significa tre generazioni piene, anzi uno spazio che arriva a includere almeno le ἀκμαί di quattro di esse.
La considerazione del profilo storico di alcune tirannidi (Corinto, Sicione, e più avanti Atene, Samo) renderà più evidenti sia i problemi già enunciati sia quelli che ci accingiamo ad affrontare in chiusura.

Sfinge acroteriale. Statua, marmo, VI-V sec. a.C. Corinto, Museo Archeologico.
Sfinge acroteriale. Statua, marmo, VI-V sec. a.C. Corinto, Museo Archeologico.

A instaurare la tirannide a Corinto, la città dell’Istmo, privando del potere politico l’aristocrazia assai esclusiva dei Bacchiadi, è Cipselo, il figlio di Labda, una donna zoppa dello stesso clan dei Bacchiadi, e di un uomo di nome Eezione (< ἀετός = “aquila”), del δῆμος di Petra: che δῆμος sia indicazione di luogo, o di ceto sociale, esso lega al territorio, assai più che al mare, le origini di Eezione. Si pone semmai, proprio per gli aristocratici Bacchiadi, il problema del loro rapporto col mare e col commercio, cioè con i traffici che si svolgono attraverso il territorio di Corinto e attraverso l’Istmo, sia in direzione longitudinale (tra Peloponneso e Grecia “continentale”) sia in direzione trasversale (tra Mar Egeo e Golfo Corinzio, e regioni ulteriori). Erodoto riporta tre oracoli, nel suo ampio resoconto dell’origine della tirannide a Corinto (un racconto di segno fondamentalmente negativo, essendo incluso nel discorso pronunciato dal corinzio Socle circa il 506 a.C., contro l’ipotesi spartana di restaurare ad Atene l’abbattuta tirannide di Ippia: un grande exemplum storico-politico, dunque!).
Il primo degli oracoli, in ordine di tempo, rilasciati ai Bacchiadi (V 92, 3) annunciava, con tono ostile verso il nascituro Cipselo, che un’aquila (ἀετός) avrebbe partorito «un forte e crudele leone, che avrebbe abbattuto molti». Gli altri due erano assai più favorevoli a Eezione e a Cipselo. Quest’ultimo veniva paragonato (V 92, 2) a un macigno che, rotolando dall’alto, sarebbe piombato addosso ad ἄνδρες μούναρχοι (= “uomini tiranni”) e avrebbe punito (o meglio «livellato») Corinto. L’altro oracolo (V 92, 2) esaltava la felicità di Cipselo visitatore del santuario delfico e prometteva a lui e ai suoi figli, ma non alla generazione dei nipoti, il regno sull’illustre Corinto. Sorti forse solo durante, o addirittura dopo, la tirannide dei Cipselidi, questi oracoli riflettono complessivamente una valutazione positiva di Cipselo. Interessante il fatto che ai Bacchiadi venga riservata quella qualifica di “monarchi”, cioè “tiranni”, che altrimenti sembrerebbe più idonea a qualificare il regime dei Cipselidi (Cipselo sembra invece valere come un autentico βασιλεύς, al confronto con i Bacchiadi).
Un riflesso è nel passo di Strabone (VIII 6, 20) in cui la storia arcaica di Corinto, opulenta in virtù del controllo delll’Istmo, è così rappresentata dal geografo: «i Bacchiadi, che furono tiranni (τυραννήσαντες), e numerosi e di stirpe nobile, detennero il potere per circa duecento anni e sfruttarono tranquillamente l’ἐμπόριον; abbattutili, Cipselo prese la tirannide per sé (αὐτὸς ἐτυράννησε) e il suo casato durò fino alla terza generazione…». Cipselo, che nel racconto erodoteo è meno crudele del figlio Periandro, ma pur si macchia di delitti («perseguitò molti Corinzi, molti privò delle ricchezze, moltissimi della vita», V 92, 2), diventa invece un personaggio nettamente positivo rispetto al figlio nella letteratura del IV secolo a.C., cioè sia nella probabile fonte (Eforo) di Nicolao di Damasco, sia nello stesso Aristotele. L’opposizione tra padre e figlio – o persino tra una prima e una seconda fase del governo del padre – , perciò l’idea di un peggioramento progressivo del regime quanto a rapporti con l’aristocrazia, verso una forma più chiaramente tirannica, è così comune a tutta la tradizione. In Erodoto gli aspetti negativi sono ben presenti anche per Cipselo; Nicolao invece parla di un Cipselo valoroso, moderato, generoso verso il popolo, mite giudice nella sua qualità di polemarco, giusto nemico dei Bacchiadi, dei quali uno uccide e gli altri induce all’esilio a Corcira. Forse l’ostilità del giudizio erodoteo riflette troppo da vicino lo scopo del discorso di Socle (una requisitoria contro i mali della tirannide), per essere preso come una disinteressata testimonianza sul giudizio corrente su Cipselo; benché presenti alcuni inequivocabili tratti retorici e forse taluni anacronismi, il ritratto di Nicolao può dunque essere più vicino all’idea corrente su Cipselo e forse alla verità storica.

L’asprezza del conflitto della tirannide con i Bacchiadi ha del resto una sua qualche giustificazione nel carattere esclusivo e statico della dinastia bacchiade medesima, un’oligarchia con caratteristiche abitudini endogamiche, di re discendenti da un ramo eraclide cadetto (Eracle-Antioco-Filante-Ippote-Alete), che avevano regnato a Corinto (Alete-Issione-Agela-Primnide-Bacchide) dal 1074 fino all’891 a.C., per poi prendere, con Bacchide (o Bacchiade), la βασιλεία e detenerla ancora fino al 747 a.C. Successivamente il clan aveva dato vita a una forma “repubblicana”, in cui al vertice della comunità non era più un βασιλεύς, ma un πρύτανις, cioè un “principe”, un magistrato annuale, scelto però sempre all’interno di quella ristretta oligarchia (e il periodo di “rotazione” pritanica sarebbe durato novant’anni, dal 747 al 657). Il conflitto con questa oligarchia non fa dunque probabilmente di Cipselo un nemico dell’aristocrazia in generale; comunque, non ne fa un nemico della “classe oplitica”. È in virtù della sua funzione di polemarco, cioè di “capo militare” (capo di opliti, naturalmente), che egli si mette in luce e può aspirare a rovesciare il precedente regime. Di lui dice Aristotele, quando sottolinea la durata dei Cipselidi (secondi in graduatoria, per questo aspetto, dopo gli Ortagoridi) e attribuisce trent’anni di tirannide a Cipselo, quaranta e mezzo a Periandro, e tre a Psammetico, figlio di Gorgo, fratello di Periandro: «Cipselo fu demagogo e rimase al potere senza guardia del corpo, Periandro fu autenticamente tirannico, ma valido guerriero». Forse è da dubitare alla rappresentazione spiccatamente demagogica, che la letteratura del IV secolo dà delle tirannidi, addirittura nelle loro prime manifestazioni: di questa infatti non è traccia nel quadro che Erodoto fornisce di Cipselo (e un aristocratico come Socle avrebbe avuto ogni ragione di farne menzione). Il peggioramento è evidente con Periandro, che si circonda di trecento guardie del corpo (δορυφόροι), impedisce ai cittadini di acquistare schiavi (li impedisce perciò della loro libertà economica), spoglia dei loro gioielli le donne di Corinto (tutte cose che dunque il padre non faceva), compie nefandezze d’ogni genere, anche verso i suoi familiari (uccide la moglie Melissa, figlia del tiranno di Epidauro, Procle, e poi però commette necrofilia sul suo cadavere; perseguita un figlio; realizza insomma quella solitudine totale che diventerà uno dei topoi del destino umano del tiranno). Socle invero, in Erodoto, ammette che giusto all’inizio Periandro fosse più mite del padre: ma abbiamo visto quale limitazione riceva la condanna di Cipselo in Erodoto dal contesto in cui s’inserisce il racconto, ostile peraltro sia ai Bacchiadi sia al loro nemico ed eversore, Cipselo, e alla discendenza di questo.
Socle, alla fine del VI secolo, è in definitiva il portavoce proprio di quella forma politica che a Corinto era risultata dalla tirannide e poi dal suo abbattimento: non una democrazia (che è in quegli anni l’innovazione politica di Atene), ma un’aristocrazia, certamente però più moderata di quella dei Bacchiadi; un regime per il quale Erodoto (o Socle, in Erodoto) sembra suggerire, come definizione utile, un neologismo (o comunque una parola rara) quale ἰσοκρατία (V 92, 1), una parola che, opponendosi a tirannide, sembra unificare in un più vasto contesto politico sia la forma democratica (che gli Spartani paiono voler abbattere ad Atene, per favorire il rientro di Ippia) sia la forma non democratica, ma certamente anche non tirannica, che ormai nel VI secolo avanzato Corinto conosce (un’aristocrazia allargata e temperata, come abbiamo detto).

Sicione

Anche nella storia della tradizione sulla tirannide degli Ortagoridi nella città peloponnesiaca di Sicione (appena 20 km a nord-ovest di Corinto) si coglie una accentuarsi progressivo della rappresentazione dei caratteri popolari della tirannide. In questo caso addirittura si ha, riflessa in Diodoro (VIII, 24) come in un papiro di Ossirinco (P. Oxy. XI, 1365a 32), una tradizione (che, come tale, sarà del IV secolo a.C.), secondo cui il capostipite della dinastia, Andrea, sarebbe un μάγειρος (“cuoco”) dei sacrifici, cioè un inserviente addetto alle cerimonie sacrificali, che un oracolo annunciava stesse per dare origine a un lungo periodo di tirannide per la sua città. L’uomo, di origine e di animo piccoli, trascurò l’oracolo: ma il figlio Ortagora (come scrive il papiro), illustratosi nel servizio militare prima come guardia territoriale e poi via via fino alla carica suprema di polemarco (sempre dunque in virtù di una carriera oplitica), conquistò il potere. Erodoto (VI 126) ci fornisce la genealogia di Clistene, il più illustre degli Ortagoridi, dicendolo figlio di Aristonimo di Mirone di Andrea. Certo, sia Clistene (evocato in funzione del nipote Clistene ateniese e del discendente Pericle) sia, e a maggior ragione, i suoi antenati cadono fuori del “campo storico” peculiare delle Storie erodotee (circa 570/560-478 a.C.). Perciò, può non essere molto significativo il fatto che Erodoto nulla dica di Andrea: forse anch’egli ne conosceva l’umile condizione o forse il tema è proprio della letteratura più tarda o, quanto meno, è solo da essa particolarmente sviluppato.

Sicione, Rovine di un tempio dorico.
Sicione, Rovine di un tempio dorico.

Comunque, anche nella storia della tirannide di Sicione, c’è un peggioramento del regime politico e dei comportamenti del tiranno, via via che si procede nel tempo. Erodoto non esprime invero giudizi negativi in prima persona su Clistene: ma questa cautela appare dovuta ad una qualche forma di rispetto per gli Alcmeonidi, con cui Clistene si imparentò, dando la figlia Agariste in moglie all’ateniese Megacle circa il 580 a.C. Infatti, indirettamente o implicitamente, il giudizio di Erodoto presenta elementi critici: la Pizia aveva ammonito Clistene a non espellere da Sicione il culto dell’argivo Adrasto, perché questi era (stato) re dei Sicionii, e lui, Clistene, ne era il lapidatore; Clistene ricorre allora a una μηχανή, cioè a un astuto e un po’ perverso “espediente”, introducendo il culto del tebano Melanippo (V 67,2); e in occasione delle riforme delle tribù, ridenominate Ὑᾶται, Όνεάται, Χοιρεᾶται (cioè Suinidi, Asinidi, Porcidi), invece di Illei, Dimani, Panfili, Clistene, secondo Erodoto (V 68, 1), «molto derise i Sicionii», visti nel loro complesso. Ma forse, ancor più degli elementi negativi che connotano esplicitamente Clistene (al confronto con ipotizzabili comportamenti più riguardosi), conta l’implicito suggerimento erodoteo che i predecessori non innovarono, quanto a culti e istituti aristocratici tradizionali, se ad innovare fu Clistene. Se dunque teniamo conto del quadro storico successivo, Andrea non rivestì la tirannide: solo Mirone, Aristonimo, Clistene e un successore vengono in questione per questo regime tirannico di eccezionale durata. Ed è solo con Clistene che i rapporti con l’aristocrazia si deteriorano radicalmente.
Sulla biografia e sul carattere di Clistene di Sicione gli autori più tardi hanno comunque da dire alquanto più di Erodoto. Nicolao di Damasco lo conosce come δόλιος, φοβερός, δραστήριος, cioè come “uomo d’inganni”, “temibile”, “audace”, ma soprattutto come tiranno più violento e più crudele (βιαιότατος… καὶ ὠμότατος) di tutti i suoi predecessori. Il divario fra la prima generazione (o le prime generazioni) e le generazioni successive si accentua, insomma, negli scrittori più tardi, ma è già implicito in Erodoto. […]

***

Bibliografia:

A. Andrewes, The Greek Tyrants, London 1956.
H. Berve, Die Tyrannis bei den Griechen, München 1967.
G. Bockisch, Kypselos un die Bakchiaden, «Klio» 64, 1982, pp. 51-66.
L. Braccesi, Caratteri della tirannide e dinamica sociale, in Storia e civiltà dei Greci 2, Milano 1978.
P. Cartledge, Hoplites and Heroes: Sparta’s Contribution to the Technique of Ancient Warfare, «JHS» 97, 1977, pp. 11-27.
F. Cassola, Erodoto e la tirannide, in F. Brolio (cur.), Xenia. Scritti in onore di P. Treves, Roma 1985, pp. 25-35.
C. Catenacci, Il tiranno e l’eroe. Per un’archeologia del potere nella Grecia antica, Milano 1996.
R. Drews, The First Tyrants in Greece, «Historia» 21, 1972, pp. 129-144.
A. Griffin, Sikyon, Oxford 1982.
P.A.L. Greenhalgh, Early Greek Warfare: Horsemen and Chariots in the Homeric and Archaic Ages, Cambridge 1973.
D. Hegyi, Der Urspring der Aisymneteia, «ACD» 13, 1977, pp. 7-10.
J. Labarbe, L’apparition de la notion de tyrannie dans la Grèce archaïque, «AC» 15, 1971. pp. 471-504.
D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico, Torino 1977.
A. Mastrocinque, Ricerche sulla storia greca arcaica, I: Clistene lapidatore di Sicione, «RIL» 111, 1977, pp. 167-174.
S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente: ricerche di storia greca arcaica, Firenze 1947.
C. Mossé, La tyrannie dans la Grèce antique, Paris 1969.
N. Nuraghi, Tirannidi arcaiche in Sicilia e Magna Grecia da Panezio di Leontini alla caduta dei Dinomenidi, Firenze 1994.
S.I. Oost, Cypselus and the Bacchiad, «CPh» 67, 1972, pp. 10-30.
G. Plass, Die Tyrannis in ihren beiden Perioden bei den alten Griechen, Leipzig 1859.
J. Salmon, Political Hoplites?, «JHS» 97, 1977, pp. 84-101.
A.M. Snodgrass, The Hoplite Reform and History, «JHS» 85, 1965, pp. 110-122.
M. Sordi, Clistene di Sicione e Delfi, «Aevum» 53, 1979, pp. 5-10.
C.G. Starr, The Economic and Social Growth of Early Greece, 800-500 B.C., New York 1977.
P.N. Ure, The Origin of Tyranny, Cambridge 1922.
H. Van Effenterre, La Cité grecque : des origines à la défaite de Marathon, Paris 1985.
E. Will,  Korinthiaka. Recherches sur l’histoire et la civilisation de Corinthe des origines aux guerres médiques, Paris 1955.

L’età della Tirannide

di L. Braccesi, Caratteri della tirannide e dinamica sociale, e sgg. R. Bianchi Bandinelli, Origini e sviluppo della citta. L’Arcaismo. Il medioevo greco. Torino 1993.

 

 

La correlazione fra la genesi della tirannide e l’apertura ad un espansionismo marittimo da parte delle póleis è propria di Tucidide (I.13,1). Per altro, Erodoto (III.122,2) dice di Policrate di Samo – il più famoso dei tiranni della Ionia – che egli sognò il dominio sul mare. In effetti, in contrasto con la chiusa economia latifondista dei regimi oligarchici, l’età della tirannide si caratterizza nel risveglio prepotente di un espansionismo mercantile di carattere transmarino per parte di un nascente ceto medio, che riesce ad acquistare sempre maggior peso politico, opponendo, in una nuova dinamica sociale, beni mobili a proprietà fondiarie. È questa l’età infatti in cui gli Elleni acquisirono il controllo delle grandi rotte commerciali mediterranee e in cui l’esportazione di ceramica greca conosce il suo primo grande fiorire nel Ponto, in Oriente, in Egitto e nei mari occidentali. Ma tale è l’aspetto trionfante delle tirannidi.

L’origine di questo tipo di regime è altresì correlata ai profondi fermenti sociali verificatisi tra il VII e il VI secolo a.C.: le aspettative di rinnovamento di un mondo contadino sempre più soverchiato dall’espansione del latifondo, le aspirazioni alla conquista di uno spazio politico da parte del ceto artigianale urbano, e, infine, le rivendicazioni di un dēmos, ancora informe, ma che sta rapidamente maturando coscienza di sé grazie alla milizia oplitica. Tutti fattori che segnarono il risveglio della pólis e che accentuano il carattere rivoluzionario e dirompente con cui si ebbe la tirannide alle sue origini; la tirannide che non fu altro se non una tappa fondamentale della lotta di popolo, in funzione di scelte democratiche più avanzate, contro lo strapotere di una chiusa oligarchia, che, negava lo spazio politico all’iniziativa imprenditoriale del ceto artigiano e commerciante. Fattori peraltro che occorre valutare con flessibilità di giudizio, prestando attenzione al particolare contesto socio-economico di ogni singola pólis, perché la tirannide – pur al di là delle stesse aspirazioni dei tiranni – non fu un fenomeno supernazionale, ma squisitamente cittadino.

 

Pittaco di Corinto. Busto, marmo, copia romana di I sec. d.C. da originale greco di IV sec. a.C. Paris. Musée du Louvre.

La tirannide, anche se fu signoria dello Stato retto autocraticamente, si appoggiò alle masse popolari, ne interpretò le istanze di rinnovamento sociale e rappresentò un momento rivoluzionario e non involutivo della vita della pólis. Ma proprio per questo suo carattere, dettato dalle contingenze, e al contempo provvisorio e temporaneo, essa fu fenomeno della storia sociale e non della storia costituzionale. Esaurita la sua funzione storica nella lotta contro i monopoli del potere oligarchico, doveva infatti cadere, travolta da nuove e più mature rivendicazioni popolari, per lasciar luogo all’edificio della πόλις democratica. Per questo non resse per più di una o due generazioni, e oltre tutto, nella maggior parte dei casi, degenerando dopo la prima: il che ne accentuò il carattere di assoluta condanna nelle fonti storiche di età successiva. In questa tradizione, definitivamente canonizzata nel pensiero politico del IV secolo a.C., in cui “tirannide” si qualificò – ben al di là del suo originario portato rivoluzionario – come antitesi ai concetti di “democrazia” e “isonomia”; in cui il giudizio di valore è ormai inesorabilmente condizionato, né dissociabile, dalla fiera polemica contro i regimi dispotici orientali o contro i più vicini regimi autoritari sorretti dall’oro macedone.
Ma il termine tyrannís non ebbe in origine valore dispregiativo: indicò “signoria”; e, termine del linguaggio domestico, si affermò sull’onda di rivendicazioni popolari a indicare il nuovo potere – sfuggente a qualsiasi definizione costituzionale – del capo-fazione assurto a guida della polis. Il detentore della tyrannís, il “tiranno”, è appunto nel giudizio popolare il demagogo che guida il plebeo contro il nobile, o il povero contro il ricco, in una dinamica di lotta sociale che mira a una trasformazione profonda della struttura cittadina. Il termine tyrannís, senza alcuna caratterizzazione di sapore politico, compare per la prima volta in un frammento di Archiloco:

 

Οὔ μοι τὰ Γύγεω τοῦ πολυχρύσου μέλει
οὐδ᾽εἶλέ πώ με ζῆλος οὐδ᾽ἀγαίομαι
θεῶν ἔργα, μεγάλης δ᾽οὐκ ἐρέω τυραννίδος…

A me non importano le ricchezze di Gige dal molto oro,
né mai ebbi desiderio, né ambisco
i beni degli dèi, né aspiro ad una grande tirannide
(fr. 19 West).

 

In questo passo, nell’elencare tre distinte ambizioni, la tyrannís non ha nulla in comune con Gige; questi, stando alla nostra testimonianza, non ebbe certo l’appellativo di týrannos: assurdo è quindi congetturare che il titolo, volto a designare i dinasti microasiatici, sia tardivamente giunto in Grecia da Oriente, per cui, gli Elleni, in nota polemica, l’avrebbero recepito in senso spregiativo. Per altro tyrannís e týrannos parrebbero termini estranei alla lingua lidia, mentre più elementi indurrebbero a pensare che fossero penetrati nel lessico greco già da età assai antica: la loro origine “popolare” potrebbe facilmente giustificarne l’estraneità al linguaggio aristocratico dell’épos. Týrannos, seppure senza nota d’investitura carismatica, sarebbe stato originariamente sinonimo di basileús: il termine popolare si sarebbe poi affermato, in antitesi a quest’ultimo, ad indicare con propria significanza politica i nuovi “principi”, perché più consono ad esprimere la fluttuante realtà del momento, perché estraneo al lessico aristocratico.

Per Archiloco, in ogni caso, tyrannís equivale a “signoria” e il termine, ben lungi da accezioni politiche, non ha ancora quella nota dispregiativa che acquisterà in età successiva, allorché tirannide equivarrà a “usurpazione”, soprattutto nella lirica corale e nella poesia tragica. Allora la definizione di týrannos implica allora un giudizio di valore: era tale chi, con atto di violenza politica, arbitrariamente infrangeva lo statuto giuridico della pólis; illegale non era il suo potere dispotico, bensì l’atto di usurpazione che commetteva, il quale giustificava il tirannicidio come un’azione pia e giusta. Týrannos e basileús non sono più, quindi, sinonimi, ma concetti del tutto antitetici: l’uno è il sovrano legittimo, l’altro l’usurpatore. La tirannide fu dunque intesa dal pensiero politico classico come una forma particolare, seppure “cattiva”, di costituzione, inserita, con rigido determinismo, fra oligarchia e democrazia. Tuttavia, pur a prescindere dalla troppo netta distinzione fra un regime ed un altro, incerti sono gli stessi confini della tirannide, delineati dalle fonti. Se da un lato vi era la “tirannide-usurpazione”, dai connotati rivoluzionari, dall’altro c’era la “tirannide elettiva”, dalle caratteristiche riformistiche: i tratti dell’una e dell’altra sono tutt’altro che ben definibili; piuttosto sono viziati, a priori, dall’ideologia e dalla particolare sensibilità partigiana degli autori. Per contenere le pressioni dal basso, l’oligarchia cittadina, cedendo gradualmente alle rivendicazioni popolari e salvare il salvabile, senza perdere il controllo della pólis, si rassegnò a darsi essa stessa un “arbitro” (aisymnḗtēs), un “mediatore” (diallaktḗs), o un legislatore (nomothétēs). Il compito di una figura tale fu quello di assicurare il nuovo assetto della città, accogliendo le istanze delle frange più umili della popolazione e contenerne le spinte più eversive, operando, di fatto, una sorta di “rivoluzione pacifica”.
Istituzionalmente, l’operato di questi “pacificatori” si presenta come una missione temporanea con trasferimento legale di poteri pressoché illimitati ad un singolo individuo, che , talora, in certi casi, poteva anche essere straniero; ma il “salvatore”, beninteso, espletato il suo compito, doveva tornarsene a vita privata. Quindi, senza alcun carattere di violenza politica, la “tirannide elettiva” – come la chiamò Aristotele (Polit. 1280a) – o, se si vuole, una forma di “dittatura” – come ebbe a dire Dionigi di Alicarnasso (Antiq. Rom. V.73). Ciononostante, venne stigmatizzata ugualmente come “usurpatoria” da quegli oligarchi che neppure si rassegnarono a concessioni moderate: per questo, l’esimneta Pittaco fu “tiranno” per Alceo.
In certi casi di tensioni interne poco violente, la situazione di particolare immobilismo politico bastò ad un esimneta per assicurare un graduale trapasso a regimi più democratici, mentre in altri, nonostante un regime “illuminato”, non impedì l’instaurarsi di una tirannide vera e propria.
In tutti i casi, comunque, la tirannide segnò un momento necessario e sufficiente all’evoluzione della politica greca. Molteplici furono le cause di questo fenomeno, le quali vanno di volta in volta rapportate alla realtà socio-economica di ogni singola realtà urbana. Come si è già anticipato, tuttavia, si possono elencare – in un esame globale – almeno tre fattori costanti:

  • crisi agraria e risveglio delle masse contadine oppresse dallo strapotere del latifondo;
  • nascita di un ceto mercantile che oppone beni mobili ad immobili;
  • acquisizione di uno spirito d’appartenenza grazie al nuovo assetto politico.

Il principale fattore di disquilibrio fu dunque la gravissima crisi agraria che investì i piccoli proprietari terrieri, sempre più minacciati dall’espansione fondiaria di pochi nobili, gelosi del proprio potere e sordi ad ogni tipo di concessione o compromesso. Miseria, fame, impossibilità di riscattare i propri debiti, e schiavitù: questi erano gli spettri contro cui doveva rapportarsi quotidianamente l’uomo greco del VI secolo a.C.; qualora ci si appoggiasse a qualche latifondista per ottenere aiuto finanziario – dietro ipoteca – si finiva inesorabilmente per ritrovarsi con i propri averi fagocitati dal suo strapotere: nessuna legge tutelava o garantiva i diritti del singolo. Per altro, l’incertezza del domani e l’instabilità del presente sovrastavano ogni attività imprenditoriale, in una società in cui gli interessi dell’oligarchia erano direttamente contrari a quelli del ceto mercantile, aperto ad un’economia in espansione.
Fra il piccolo mondo contadino e quello commerciale, dunque, si consuma il dramma del rivolgimento. Chiaramente i mercanti rappresentano l’elemento attivo che porta all’ascesa al potere del tiranno. Questi – spesso un transfuga di campo avverso che, con l’adesione delle masse popolari, s’impadronisce a forza delle redini dello Stato – è anzitutto e contemporaneamente il difensore dei contadini e dei liberi commercianti. Gli uni rappresentano il fattore-base su cui poggia l’effettivo potere del tiranno, gli altri l’elemento dinamico che qualifica le sue scelte democratiche e le vedute più aperte. Tutti quanti si riconoscono come un unicum all’interno del nuovo ordinamento oplitico che li accomuna nella milizia civica, e li contrappone – con ugual peso e più matura coscienza di classe – al vecchio sistema strategico nobiliare. Anzi, il nuovo assetto militare della falange degli opliti, che riunisce sul campo, a sostenere il maggior sforzo bellico, quanti sono in grado di portare le armi (ópla parechómenoi), crea la figura del cittadino-soldato, che annulla le barriere anacronistiche dei privilegi sociali risalenti all’epoca dei regimi aristocratici, momento in cui i combattimenti si risolvevano a singolar tenzone e quando il “guerriero” vero e proprio era quello che montava a cavallo.

 

Pittore Amasis. Lotta oplitica (dettaglio). Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, 540 a.C. ca., da Vulci. Paris, Cabinet des médailles.

 

Le póleis che fra il VII e il VI secolo a.C. non furono turbate da forti contrasti sociali, o che comunque riuscirono ad assorbirli, non conobbero regimi tirannici. Ad esempio Sparta, per il suo eccezionale immobilismo costituzionale. Calcide, invece – com’è noto – con una grandiosa emigrazione coloniale promossa dal ricco ceto fondiario locale, riuscì ad emarginare gli strati più poveri della comunità. D’altro canto, Egina, data la sua piccola estensione insulare, non ebbe mai un’oligarchia fondiaria dominante, e perciò, fin dall’età più remota, sviluppò una fiorente economia mercantile, che riuscì ad assicurare alla popolazione un sufficiente benessere.

 

Atene, obolo, 500-480 a.C. ca. AR. 0, 53, Recto: civetta, stante verso destra; sul bordo, l’iscrizione AΘE[NAI].
 

L’introduzione della moneta nelle singole póleis fu un fattore determinante, ed avvenne proprio in quest’epoca. Essa permise l’incremento di più rapidi ed efficienti scambi internazionali: la moneta era l’espressione dei tempi nuovi. Tramite l’intraprendenza dei mercanti, protesi alla conquista dei porti migliori, la piccola bottega divenne una vera e propria “industria” ante litteram, dotata di un programma di produzione in serie che mirava a condizionare la domanda esterna. Tale fu il processo che più visibilmente caratterizza quest’epoca di transizione, allorché la ceramica ellenica incominciò ad inondare tutti i mercati del bacino mediterraneo; ciò fu dovuto al fatto che le stesse città esportatrici erano proprio quelle rette da un tiranno.

Come è stato detto, il tiranno era l’interprete delle aspirazioni e dei bisogni del ceto mercantile e il garante della libertà dei contadini, insomma, era il capo degli opliti; nella maggior parte dei casi era un transfuga di campo avverso che spesso raggiungeva il sommo potere grazie all’esercizio di un’alta magistratura o di un’importante carica militare.
Tuttavia egli avvertiva l’imbarazzo di tradurre in formule giuridiche la realtà nuova del suo potere, e da ciò ne rimaneva inesorabilmente condizionato. Egli era un “monarca illuminato”, ma privo di carisma, che mirava tanto più urgentemente a legittimare il proprio potere, che da vitalizio voleva trasformare in ereditario, quanto più ne avvertiva il carattere transitorio e momentaneo. A nulla però sarebbe valso muoversi sull’infido terreno istituzionale; qualsiasi sovvertimento di costituzione avrebbe infatti sortito l’effetto contrario e indesiderato.
Solo in un caso circoscritto e in un’area del tutto periferica, a Cirene, si assistette in effetti alla trasformazione di una tyrannís in basileía sotto la dinastia dei Battiadi, ma si trattò di una graduale assimilazione, e non di una scelta predeterminata, ed inoltre il fenomeno fu favorito dall’isolamento culturale, da suggestione dei limitrofi monarchi barbari, dall’insolito perdurare di un istituto rivoluzionario ormai stemperatosi di ogni caratteristica eversiva.
Al di fuori della costituzione della pólis, il tiranno deve quindi ricercare la legittimazione del suo potere. E questa anzitutto chiede al diritto divino, quasi a rivendicare, agli occhi del popolo, una sorta di investitura carismatica. Il presentarsi particolarmente religioso e timoroso della divinità (e parimenti l’erigere templi, l’istituire nuove festività, l’inviare vistose offerte ai santuari federali della grecità) è peraltro per parte sua un’accorta politica di instrumentum regni. La politica religiosa del tiranno mira quindi da un lato ad ingraziarsi il favore della popolazione, dall’altro è tesa a disconoscere quelle divinità che nei génē gentilizi hanno assunto un chiuso carattere aristocratico. Quindi le scelte culturali s’indirizzano anzitutto verso quelle divinità panelleniche e poliadi che, a livello etnico o cittadino, hanno decisamente acquisito una spiccata connotazione popolare. E questo ovviamente, da parte del tiranno, sono tanto più onorate se connesse con la località di provenienza della sua famiglia.
Peraltro, i tiranni sottolineano con una politica promozionale di opere pubbliche il carattere duraturo e non provvisorio del proprio potere, oltre che con lo sviluppo di una vera e propria corte, con la promozione di gare pubbliche e agoni poetici, di modo che rinnovano non solo spiritualmente ma anche culturalmente l’anima della pólis.
Per quanto riguarda la politica estera, i tiranni si sentono sodali: si propongono vicendevole soccorso, rinsaldano amicizie ed alleanze con vincoli matrimoniali che tendono a sottolineare il principio dell’ereditarietà dinastica del proprio potere. Di contro avvertono tutto il peso dell’ostilità della vecchia classe aristocratica e di conseguenza, in fatto di politica interna, mirano con ogni sforzo a prevenire sovvertimenti reazionari: livellando le varie componenti sociali, creano una base d’uguaglianza fra tutti i cittadini e, talvolta (come accadde a Sicione anticipando il sistema clistenico di Atene) con provvedimento innovatore, sostituiscono le tribù gentilizie con tribù territoriali. In questo modo essi elevano gli umili e si sforzano di infrangere i presupposti del potere oligarchico: ciò spesso comportò condanne a morte, esili e confische comminati agli oppositori.
La fortuna dei tiranni fu indissolubilmente legata alla politica di promozione sociale che essi seppero instaurare nelle proprie città, accogliendo le rivendicazioni dei ceti che ne avevano favorito l’ascesa. Crisi agraria e disoccupazione erano le piaghe sociali che affliggevano la cittadinanza. Fu cura dei tiranni il miglioramento delle condizioni economiche dei contadini, la liberazione di questi dall’incubo di essere fagocitati dal grande latifondo, l’accogliere di fatto le rivendicazioni di questi e delle masse diseredate volte ad ottenere una più equa ripartizione della terra. Questo fecero senza alcun atto dichiaratamente rivoluzionario nei confronti della grossa proprietà, ma solo procedendo ad un’oculata ripartizione delle terre dai molti banditi politici di parte avversa. Provvedimento che assicurava un triplice obiettivo: colpire l’oligarchia, frantumare il latifondo, soddisfare le rivendicazioni delle masse rurali. Le città rette a tirannide furono così caratterizzate da una ripresa economica agricola con il concentramento di nuove energie in questo settore, con il potenziamento di colture pregiate, quali vigneti ed oliveti, con il dissodamento di terreni per l’innanzi adibiti al pascolo. Peraltro, come in tutti i regimi autoritari, si cercò di precludere alle masse contadine l’accesso alla città e al dibattito politico. E per far sì che i nuovi proprietari restassero più legati alla terra, si arrivò addirittura a distaccare nelle campagne l’amministrazione della giustizia: Periandro istituì tribunali locali disseminati nella campagna corinzia; Pisistrato organizzò dei giudici itineranti per l’Attica; Ortige rese giustizia alle porte di Eritre. Altri, come Clistene di Sicione, costrinsero i contadini ad indossare in permanenza il loro rozzo costume di pelle di montone perché fossero facilmente riconoscibili.
Per quanto riguarda il problema dell’occupazione i dati forniti dalla tradizione sono estremamente controversi: posto indubbio che tutti i tiranni promossero la costruzione di opere pubbliche, mentre la storiografia moderna propende per giustificare tali atti come dettati dal desiderio di dar impiego remunerativo al proletariato urbano, la tradizione antica è unanime nel dichiarare che si sfruttasse la popolazione con prestazioni di lavoro, più o meno forzate, a retribuzione irrisoria.

Al di là della contrapposizione – sostenuta dalla storiografia ottocentesca – fra Dori aristocratici e Ioni democratici, se è vero che la grecità è al contempo celebrazione di un’etica aristocratica e di un’esigenza democratica, in nessun area del mondo greco questa duplice istanza si è avvertita con tanta sofferta intensità come nella Ionia. Di qui, seppur con caratterizzazione del tutto particolare, l’estrema importanza della sua storia nell’età delle tirannidi, periodo che segnò sì la fine dei vecchi regimi aristocratici, ma in cui il trapasso verso forme democratiche più avanzate repentinamente si blocca per l’improvviso asservimento allo straniero, allorché ai tiranni-demagoghi si sostituiscono i tiranni governatori del Grande Re.
Purtroppo i dati pervenuti sono piuttosto esigui, per lo più notizie tradite da eruditi che non consentono la ricostruzione di un quadro unitario, o semplici nomi di tiranni – Pindaro di Efeso, Ortige di Eritre, Anficle e Politecno di Chio – avulsi da qualsiasi memoria di cronachistica locale. Solo di Mileto sul continente e di Lesbo e Samo nell’area insulare si conosce qualcosa di più e si può tentare un’interpretazione delle notizie pervenute.
Per Mileto, si ha la testimonianza di Erodoto che parla di Trasibulo, seppur incidentalmente e in un contesto interessato a riferire un aneddoto su Periandro di Corinto. Da Plutarco (Quæs.Gr. 298c) si conoscono i nomi dei due tiranni che gli successero, Damasenore e Toante. Inoltre, ancora da Erodoto, si apprende di discordie vivaci insorte fra fazioni rivali alla caduta della tirannide, protrattesi per due generazioni e conclusesi con un arbitrato dei Parii, i quali avrebbero rimesso il potere «a quanti avevano meglio coltivati i propri campi» (Erodoto, V.29). Le fazioni in lotta sono per Plutarco le eterie Ploutís e Cheiromácha; gli appartenenti alla prima – a suo dire – sarebbero gli aeinaûtai, «i sempre naviganti»; gli appartenenti alla seconda, stando ad Eraclide Pontico (fr.50 Wehrli), i non meglio identificabili gérgithes. Attraverso questi scarni indizi, seppur con cautela, si può tentare un’interpretazione delle vicende interne di Mileto, certo emblematiche per la storia delle città della Ionia. La tirannide di Trasibulo va posta intorno al primo decennio del VI secolo a.C.: la fine della lunga stasi, protrattasi per due generazioni, nell’ultimo quarto del secolo. Trasibulo, di origini aristocratiche, come parrebbe mostrare il suo ufficio di prýtanis, s’impadronì del potere assai probabilmente nel clima arroventato della guerra che oppose Mileto al re di Lidia, Aliatte, e in cui egli ebbe un ruolo da protagonista.
Prima dell’instaurazione della tirannide, Mileto aveva conosciuto l’evoluzione tradizionale di tutte le città greche, con passaggio del potere politico dal génos reale dei Nelidi all’aristocrazia di sangue che nella pritania riconosceva la massima magistratura civica. Anche qui, almeno esteriormente, si vede coincidere la tirannide con il momento del maggior espansionismo transmarino: tramite le colonie del Ponto Eusino e il parziale controllo dell’emporio di Naucratis in Egitto, Mileto monopolizzò gran parte dei commerci granari del Mediterraneo orientale. Inoltre, come testimoniano cospicui ritrovamenti di vasi milesi, la città esportava nelle regioni danubiane vino e olio, mentre importava schiavi, pellicce pregiate e ambra dai mercati dell’interno e pesce dalle colonie costiere: tutti articoli che, per buona parte, e soprattutto per i prodotti ittici, dovevano essere rivenduti sul mercato internazionale con scopi puramente commerciali.

Mileto, statere, 560-545 a.C. ca. EL 13, 87 gr. Recto: leone accovacciato con testa rivolta a destra.

 

Alla fazione Ploutís appartenevano i ricchi, la cui attività, più ancora che sul latifondo, doveva esplicarsi in campo commerciale: donde il nome di aeinaûtai, «i sempre naviganti». A questa quindi appartenevano i grandi possidenti terrieri che disponevano di navi per collocare sui mercati lontani l’eccedenza dei propri prodotti agricoli; il ricordo della loro agiatezza è legato al mare, perché ovviamente si arricchivano con facili prezzi concorrenziali in campo internazionale, e quindi con cespiti di guadagno in ultima analisi più legati all’attività marinara, che all’attività agricola. Nella Cheiromácha invece s’inclinano oggi a individuare non tanto gli strati inferiori della popolazione, o i liberi caduti in servitù, ma gli esponenti della piccola e media proprietà – stigmatizzati per parte avversa con il nomignolo di gérgithes, riconducibile, assai probabilmente, con nota di dileggio, all’ambiente indigeno pre-greco. Tra l’altro, cheirómaches, «coloro che combattono con le mani», parrebbe essere una denominazione che si attaglia assai bene agli opliti costituenti il nerbo dell’esercito, e quindi ad una classe di possidenti, seppur modesti, ma in grado di procurarsi l’armamento necessario alla guerra. Il contrasto di fondo sarebbe stato quindi fra la grande e la piccola proprietà: quest’ultima si veniva a trovare impotente dinnanzi alla concorrenza di chi sul mercato internazionale poteva collocare i propri prodotti con autonomi mezzi di trasporto. E per giunta gli aeinaûtai, di contro ai cheirómaches, erano destinati ulteriormente ad arricchire divenendo sul mare interlocutori economici di altri popoli, come parrebbe dimostrare l’ovvia constatazione che il commercio milesio va ben oltre il livello di scambio dei prodotti agricoli locali.
Proprio la particolare floridezza economica di Mileto, la ricchezza della sua terra, determina in un certo senso un quadro “alla rovescia” dei tradizionali equilibri di forze che portano all’instaurazione della tirannide; non si ha opposizione fra latifondo e attività marittima, ma monopolio di quest’ultima a vantaggio di pochi: all’antitesi un mondo precocemente cittadino, “oplitico”, che è soffocato dal ceto dominante sia nell’incentivazione della produzione sia nell’intrapresa di una libera attività marinara. La situazione di crisi della piccola proprietà, i cui interessi si saldano a quelli del ceto artigiano e imprenditoriale, porta al sovvertimento sociale che si traduce nella sconfitta dell’oligarchia dominante: le lotte stesse fra génē aristocratici, le preoccupazioni per la guerra contro la Lidia, le tensioni per i contrasti talassocratici con Samo, favoriscono l’atto rivoluzionario.
A Lesbo la città di Mitilene, di gran lunga più florida dell’isola, conosce travagliate vicende sociali che portano Melancro a farsi tiranno negli ultimi decenni del VII secolo a.C. A lui, morto assassinato, succede Mirsilo, che, per l’aristocratico Alceo, è signore ancora più detestabile del precedente. Alla morte di questi, celebrata da Alceo (fr. 332 Voigt) con il primo brindisi funebre delle letterature occidentali, succede Pittaco, che, pur attraverso le avarissime notizie che se ne hanno, appare personalità di grande rilievo. Questi sale al potere in un clima di tanto esasperante contese cittadine da ispirare ad Alceo (fr. 208a Voigt) la metafora, ben nota anche per imitazione oraziana, della nave della pólis che rischia il naufragio. Vive nella prima metà del VI secolo a.C., è contemporaneo di Solone, e come lui è annoverato dalla tradizione fra i sette sapienti. La sua figura si stacca nettamente, e con forte caratterizzazione, da quella dei suoi predecessori: mentre essi furono “tiranni-usurpatori” egli è “tiranno elettivo”, cioè esimneta. La sua azione fu temporanea e durò il tempo necessario ad assicurare la pace all’interno della città. È perciò da pensare che, nel clima di lotte violente che caratterizzò l’instabile presa di potere per parte di due capi-popolo rivoluzionari (Melancro e Mirsilo), la stessa aristocrazia, per scongiurare radicali rivolgimenti, abbia stimato opportuno scendere a compromessi ed offrire concessioni alla parte avversa, esprimendo un moderatore dal proprio seno col compito di assicurare una pacificazione sociale. Il che ovviamente non esclude che, per opposti motivi, Pittaco sia apostrofato come “tiranno” da esponenti oltranzisti dell’aristocrazia, come Alceo (fr. 348 Voigt), o, viceversa, sia esaltato come “re illuminato” nei canti popolari mitilenei; la contraddizione è solo apparente: il poeta lesbio esecra il demagogo ed è ostile a qualsiasi forma di concessione sociale, la tradizione popolare celebra il legislatore che sanzionò in forma duratura le conquiste del dēmos.
A Samo, il ricordo della tirannide è legato al nome di Policrate, la cui azione è suscettibile di un inserimento in un più ampio contesto internazionale. Policrate, avventuriero e signore munifico, conobbe indipendenza e vassallaggio, capeggiò nella sua isola la rivolta contro l’oligarchia terriera e si trovò poi a reprimere un movimento popolare, anticipò nei fasti della sua corte il carattere grandioso delle tarde tirannidi siracusane. Come Trasibulo a Mileto egli proveniva da una famiglia aristocratica che già aveva rivestito le più alte cariche cittadine; la sua pólis, con una nutrita classe marinara ed imprenditoriale, è già rivolta ai grandi commerci internazionali, ma il potere è saldamente in mano agli esponenti di una chiusa oligarchia fondiaria, i cosiddetti geōmóroi. Contro costoro un tale Demotele, che pagò poi con la morte il suo gesto rivoluzionario (Quæs. Gr. 303c304e), aveva tentato di suscitare un moto popolare; ma Policrate, in tempi più maturi, riuscì ad affermare il proprio potere. Certamente, per impadronirsi della città, ebbe l’appoggio di Ligdami di Nasso, ma pare altresì che il suo colpo di stato sia avvenuto senza colpo ferire (Erodoto III.120,3).
E peraltro a lui aristocratico, con l’aiuto dei consanguinei – di cui poi si disfece – e con l’appoggio di una cittadinanza in avanzato processo di trasformazione, non dovette essere difficile impadronirsi del potere. Operò nella seconda metà del VI secolo a.C., quando anche la Grecia continentale conobbe le sue più grandi tirannidi, e la sua isola prospiciente Mileto fu testimone della progressiva avanzata dell’Impero persiano nel mondo microasiatico: dalla conquista dell’Egitto fino all’inglobamento delle città ioniche. In questa età di trapasso, e finché non cadde il suo stesso stato nell’orbita d’influenza persiana, Policrate seppe prosperare e crearsi sul mare un ampio spazio d’azione: creò una flotta di trecento triremi, affermando la sua signoria sulle Cicladi e compiendo azioni piratesche contro le città affacciate sull’Egeo; svolse un ruolo di mediatore fra la grecità continentale e l’Anatolia; strinse un fruttuoso patto d’alleanza con Amasi, faraone d’Egitto.
La tradizionale rivale di Samo era Mileto: entrambe, con interessi competitivi, avevano un fondaco a Naucrati; entrambe avevano preso parte alla Guerra lelantina, l’una dalla parte di Calcide, l’altra dalla parte di Eretria. Policrate mosse guerra a Mileto, ancor prima che cadesse in mano persiana, riuscendo ad affermare il suo controllo sull’immediato entroterra asiano, e coinvolgendo in battaglia navale, dalla quale uscì vittorioso, i Mitilenei, accorsi in aiuto ai Milesii.
Degna di tale uomo fu la sua corte sfarzosa e liberale, cui accorsero ingegni finissimi da ogni parte del mondo ellenico; qui visse Anacreonte e sostò Ibico; qui artigiani illustri elaborarono soluzioni tecniche all’avanguardia per realizzare opere pubbliche destinate a rinnovare l’assetto urbanistico della signoria. Si attirò l’inimicizia di Spartani e Corinzi, ma ben più gravi pericoli, anche se più latenti, dovevano alla lunga minarne il potere: da un lato una fazione popolare rivoluzionaria, formata dai pescatori dell’isola (i mythiētai), che premevano dal basso per un radicale sovvertimento sociale (Anacreonte fr. 21 Gentili); d’altro canto la crescente ingerenza persiana, che, soffocando le città ioniche e minando la talassocrazia egiziana, veniva rapidamente a modificare i tradizionali equilibri di forze nel mondo medio-orientale. Periando ancora una volta agì in modo spregiudicato: per ingraziarsi Cambise, allorché questi muoveva contro l’Egitto, rotta prontamente l’alleanza con il faraone, gli inviò un contingente di armati formato – come dice Erodoto III.44,2 – «da quelli fra i cittadini dei quali soprattutto sospettava che si ribellassero», cioè dai mythiētai. Questi però, invertita la rotta, tornarono a Samo e vi si insediarono per qualche tempo in forma autonoma, sorretti dall’appoggio spartano. Policrate rimase vittima di una morsa di ferro della quale non riuscì a liberarsi: da una parte la rivoluzione del popolo, dall’altra la richiesta persiana, sempre più incalzante, del suo vassallaggio.

Isches. Koûros. Statua colossale, marmo, 570 a.C. c. dall’Heraion di Samo. Samo, Museo Archeologico Nazionale.

 

Nel Peloponneso si trovano regimi tirannici, in particolare nelle grandi città protese ad un espansionismo commerciale marittimi, affacciate sul Golfo di Corinto e sul Golfo Saronico: Corinto, Mègara, Sicione. Ma, a prescindere dall’area dell’Istmo, fattori economici e ragioni d’ordine politico preclusero alle città dell’interno – ai centri della Messenia, dell’Arcadia, dell’Elide e dell’Acaia – un’evoluzione verso forme più avanzate di governo e qualsiasi possibilità di sovvertimento degli arcaici ordinamenti vigenti. Su queste regioni infatti estendeva il suo controllo, in forma diretta o indiretta, la potente Sparta.
Solo Argo, eterna rivale di Sparta, conobbe attorno alla metà del VII secolo profondi rivolgimenti sociali che si legano alla figura di Fidone. Di costui, che fu settimo re della città, si sa ben poco, ma pare verosimile che abbia trasformato l’antico istituto monarchico in una semplice magistratura. Il suo potere, che per tanti aspetti appare in nulla dissimile da quello di un tiranno, si basava sull’appoggio di un ceto medio e precocemente “oplitico”, che gli consentì di operare radicali riforme in campo economico e militare, tali da assicurare alla città, di contro a Sparta, un ruolo di primato nell’egemonia del Peloponneso. Smantellò il potere dell’aristocrazia, legata ad interessi fondiari, e da Nauplia e dagli altri porti dell’Argolide incrementò il commercio con l’Oriente: fu tra i primi o addirittura il primo in Grecia, a batter moneta. Dopo la sua morte, Sparta riprese però il sopravvento sulla regione, mentre le forti tirannidi istmiche, potenziatesi in età successiva, preclusero alla città qualsiasi possibilità di espansione verso nord, mentre Egina, già sua soggetta, riuscì a soppiantarla nei commerci con l’Egeo settentrionale.
I regimi tirannici di Corinto, Sicione e Mègara, si presentano con forte analogia di caratteri distintivi; anzitutto, qui il capo-popolo appare come il tiranno “tipo”: egli è espressione diretta di un ceto imprenditoriale e mercantile che si è aperto all’espansione marittima; mira a creare un vero e proprio impero coloniale politicamente unito alla metropoli; favorisce l’introduzione della moneta per incrementare i traffici; allarga su altre città la propria sfera d’influenza con un’accorta politica matrimoniale. In particolare, sia i Cipselidi di Corinto sia gli Ortagoridi di Sicione dilatarono il campo delle esportazioni delle loro città; entrambi i casati furono interessati ad espandersi in aree lontane per assicurarsi il controllo di importanti distretti minerari per le proprie emissioni monetali; entrambi cercarono di esercitare un controllo sempre più forte sulla vita politica ateniese cercando legami nuziali, gli uni imparentandosi con il génos dei Filaidi, gli altri con quello degli Alcmeonidi. Tra l’altro anche Teagene, tiranno di Mègara, che in contrasto con Pisistrato di Atene rivendicava il controllo di Salamina, si propiziò il favore dell’eteria a lui avversa imparentandosi con Cilone. Caratteri comuni hanno pure i termini di questi regimi: finirono tutti in modo traumatico, esaurita la propria funzione storica, quando il dēmos prese più matura coscienza di sé, ma anche quando incipiente crisi economica e mutati equilibri internazionali le costrinsero a ridimensionare la propria politica espansionistica. Sulle loro ceneri non sorsero però regimi democratici, bensì governi a moderato regime timocratico, favoriti da Sparta e favoriti dalla rapida adesione alla Lega peloponnesiaca cui furono costrette.

A Corinto, dove il potere era nelle mani della potente casata dei Bacchiadi, sostituitasi all’antichissima monarchia, fu Cipselo – ad essi imparentato per parte di madre – a guidare il movimento popolare che portò all’instaurazione della tirannide nella seconda metà del VII secolo a.C. La sua ascesa, vuole la tradizione, pare sia stata predetta dall’oracolo delfico con parole che ne sottolineano l’adesione alla causa cipselide, sono d’auspicio alla potenza della tirannide corinzia e, al contempo, ne rimarcano la breve durata: ὄλβιος οὗτος ἀνὴρ ὃς ἐμὸν δόμον ἐσκαταβαίνει, Κύψελος Ἠετίδης, βασιλεὺς κλειτοῖο Κορίνθου αὐτὸς καὶ παῖδες, παίδων γε μὲν οὐκέτι παῖδες («felice quest’uomo che nella mia casa discende, Cipselo, figlio di Eezione, re della gloriosa Corinto; felice lui e i suoi figli; non più, però, i figli dei figli», Erodoto V. 92ε,2). Egli, come ancora predisse l’oracolo è il macigno che ἐν δὲ πεσεῖται ἀνδράσι μουνάρχοισι, δικαιώσει δὲ Κόρινθον («si abbatterà su coloro che hanno il potere, e castigherà Corinto», Erodoto V. 92β,2). E conformemente alla sentenza oracolare, Cipselo e suo figlio Periandro – che la tradizione annovera fra i Sette Sapienti per le sue disposizioni suntuarie volte a frenare il lusso dei ricchi (Arist. Polit. 1315b; Diog. Laert. I.94-100) – innalzarono Corinto a splendore e potenza mai eguagliati nella sua lunga storia, debellando definitivamente il potere della vecchia aristocrazia. Anche in questo caso vi è una stretta connessione fra il potere tirannico e le organizzazioni militari oplitiche, giacché Cipselo, proprio a capo di queste come polemarco, assunse il potere supremo. La città con due porti, Lecheo e Cencrea, che si affacciavano rispettivamente sul Golfo Corinzio e il Golfo Saronico e collegati tra loro da un díolkos, che consentiva un facile trasbordo delle navi lungo l’Istmo, era scalo primario e punto di transito obbligato per il commercio fra Oriente ed Occidente. E verso Occidente, Corinto aveva già esteso il proprio raggio d’azione con le grandi colonie di Corcira e Siracusa. Anzi, fu proprio la colonizzazione che la trasformò in una città trafficante, protesa ad un espansionismo marittimo: qui l’industria della ceramica, destinata all’esportazione in cambio di materie prime e di schiavi, ebbe ampio sviluppo; qui, con soluzioni tecniche all’avanguardia, si vararono le prime triremi greche.
Tutto ciò portò in seno alla cittadinanza ad una rapida e traumatica trasformazione delle condizioni socio-economiche, e un ceto imprenditoriale rivendicò il monopolio dei commerci e più ampio spazio politico, opponendosi alle vecchie consorterie oligarchiche, detentrici del potere, e favorendo l’insurrezione contro lo strapotere dei Bacchiadi. Non è da escludere che il gesto rivoluzionario sia stato determinato anche da una ragione più contingente: la perdita della colonia di Corcira, affrancatasi dalla madre-patria intorno alla metà del VII secolo a.C. (evento testimoniato da Tucidide I.13,4), e il potenziamento dei porti rivali della Megaride. I due motivi comunque si saldano. Certo è sì che Cipselo prima e Periandro poi proseguono la politica coloniale: risottomettono a forza Corcira ed estendono l’influenza corinzia su Epidamno; vengono fondate sulla costa acarnano-epirota Ambracia, Leucade, Anattorio, Apollonia, nella Penisola Calcidica viene istituita Potidea e Cipsela nel Chersoneso Tracico. Nuovi e vecchi stanziamenti corinzi, per la prima volta nella storia della colonizzazione greca, sono ora legati da precisi vincoli di dipendenza politica nei confronti della madre-patria. All’area dell’espansionismo commerciale della Corinto dei Bacchiadi succede il forte impero coloniale dei Cipselidi: questo si snoda su tutto il fronte della Grecia settentrionale, dall’Epiro alla Macedonia e alla Tracia, in aree che sono poli terminali di importanti vie di penetrazioni in regioni dell’entroterra ricche di giacimenti metalliferi. Da Epidamno, infatti, si raggiungono facilmente i distretti interni dell’Illiria; ai medesimi, si accede anche da Potidea, cui pure si dischiudono le vie d’accesso alle miniere macedoni.
Peraltro l’espansionismo corinzio non si esauriva solo verso Occidente: in Oriente, Periandro fu in relazione d’amicizia con i reami di Lidia e d’Egitto, riscuotendo credito presso i tiranni ionici, ed esercitando il ruolo di mediatore nelle controversie internazionali. Contrastando la potenza di Mègara ed Egina, Periandro tentò di conquistare il controllo del Golfo Saronico. Intrattenne rapporti amichevoli con Atene, peraltro favoriti dalla comune rivalità con Mègara; anzi, cercò di inserirsi nel vivo delle sue lotte politiche e ad esercitavi un certo controllo con una serie di alleanze matrimoniali con il génos dei Filaidi e con gli stessi Pisistratidi. Non è un caso che queste famiglie abbiano coniato le proprie monete con argento corinzio e che entrambe abbiano creato possedimenti personali in are della Grecia interessate proprio dall’espansionismo cipselide. Tutto ciò mostra chiaramente il prestigio e il grado di prosperità e di ineguagliata grandezza raggiunti da Corinto sotto questo illustre casato, allorché le feste Istmie divennero solennità panelleniche.
In politica interna, la tirannide, pur nelle sue caratteristiche fortemente accentratrici, creò le basi per un profondo rinnovamento sociale: i beni dei Bacchiadi e dei loro sostenitori furono confiscati a profitto della pólis, e assai verosimilmente per procedere ad una generale ridistribuzione delle terre; una tassa speciale sulle entrate, introdotta da Cipselo, fu devoluta –a quanto pare – ad opere di pubblica utilità; l’introduzione della moneta incrementò il commercio e ne estese l’area d’azione. Cipselo, che conservò il titolo di re che già fu dei Bacchiadi, di fatto, trasformò l’antico regime oligarchico in un governo autocratico; suo figlio Periandro fu propriamente un τύραννος, come lo intese il pensiero politico classico, ed accentuò il suo carattere dispotico col circondarsi di una guardia del corpo armata. Entrambi tennero una grandiosa vita di corte, che richiamò da ogni parte della Grecia artisti e poeti: fra essi, animatore di cori ditirambici, il celebre Arione. La decadenza iniziò con il terzo Cipselide, Psammetico, nipote di Periandro. Questi fu travolto ben presto, intorno al 540 a.C., da una violenta insurrezione popolare che pose fine alla tirannide. Si ignorano i motivi di tale rivolta, ma è certo che essi sono più immediatamente indagabili nella reazione popolare ad un dispotismo che iniziava a degenerare, e nella strumentalizzazione che di tale malcontento seppero fare i fuoriusciti da parte aristocratica. Non si deve tuttavia sottovalutare un’altra possibile ipotesi che vuole che oltre a ciò vi fossero altri fattori, di carattere economico internazionale: da una parte l’affermarsi della ceramica attica sui mercati mediterranei, che finì con il soppiantare quella corinzia, e dall’altra l’ingerenza di Sparta e della Lega peloponnesiaca sull’area istmica. Tutti elementi che aiutano a comprendere il motivo per cui Corinto, una volta decaduta la tirannide, non evolva in un governo democratico, ma assuma, a seguito delle rivolte interne, la sua forma pacifica sotto un regime moderato e timocratico.