Omero, il primo aedo

I due più celebri poemi epici del mondo antico, l’Iliade e l’Odissea, appaiono indissolubilmente legati al nome di Omero. Ma gli antichi, in realtà, non sapevano niente di questo personaggio. Infatti, la grande quantità di dati biografici e di aneddoti esistenti su di lui, sottoposta a un più attento esame, si è rivelata per lo più frutto di fantasia. Tali dati, volti ad appagare la curiosità del pubblico nei confronti di un poeta così famoso, si trasmisero nel tempo senza subire sostanziali alterazioni; ma la loro scarsa attendibilità è dimostrata dal fatto che biografie omeriche relativamente recenti, come la Vita falsamente attribuita a Erodoto, o il racconto di una gara poetica che sarebbe avvenuta fra Omero ed Esiodo, hanno utilizzato materiale più antico, risalente almeno al VI secolo a.C. senza apportarvi cambiamenti.

Perfino il nome del poeta era oggetto di interpretazioni diverse: appellandosi alla tradizione che faceva di lui un cantore cieco e girovago – infatti, in età arcaica, la condizione di cecità conferiva a un aedo un’aura sacrale, per il fatto che si attribuiva ai non vedenti capacità profetiche, una forma di conoscenza superiore – il suo nome fu fatto derivare dall’espressione ὁ μὴ ὁρῶν, «colui che non vede», mentre il reale significato di ὅμηρος è «ostaggio», parola che non contiene nessun riferimento né all’attività poetica né alla cecità, sebbene quest’ultima caratteristica fosse considerata tipica, appunto, dei cantori e dei veggenti; ne è un esempio, nell’Odissea, proprio Demòdoco, l’aedo che vive alla corte di Alcinoo, re dei Feaci.

William-Adolphe Bouguereau, Omero e la sua guida. Olio su tela, 1874. Milwaukee, Art Museum.

Studi più recenti hanno ricollegato il nome del poeta al verbo ὀμηρεῖν, «incontrarsi», «andare insieme», alludendo così al carattere agonale della poesia epica, che prevedeva, in particolari solennità, l’incontro di cantori provenienti da varie parti dell’Ellade, per gareggiar fra loro. Tale ipotesi troverebbe conferma in un appellativo di Zeus, Ἁμάριος, così chiamato in quanto protettore di Hamarion, una località dell’Acaia in cui avvenivano le riunioni federali di tutti gli Achei, in occasione di grandi festività religiose.

Pertanto, agli antichi fu ignoto il vero nome di Omero e ignota anche la patria; secondo un celebre epigramma dell’Anthologia Palatina (XVI 295-298), raccolta composta probabilmente nell’XI secolo d.C., ben sette città – Smirne, Chio, Colofone, Itaca, Pilo, Argo e Atene – si contendevano l’onore di aver dato i natali al famoso poeta; ma anche l’accostamento dei nomi risulta però del tutto arbitrario e solo quelli di Smirne e di Chio sembrerebbero offrire una qualche attendibilità: Smirne era infatti colonia degli Eoli, ai quali si sovrapposero poi popoli di stirpe ionica; e ciò spiegherebbe il linguaggio usato nei poemi epici, di base ionica, ma arricchito di molti eolismi; a Chio, invece, esisteva una corporazione di rapsodi a ordinamento gentilizio, gli Omeridi (Ὁμηρίδαι), che si vantavano di discendere direttamente dal poeta; ma la validità di questa affermazione si fonda sulla fragile base rappresentata dalle parole dell’Inno ad Apollo (v. 172), attribuito a Omero, il cui compositore (in realtà, sconosciuto) si definiva «il cieco che abita nella rocciosa Chio» (τυφλὸς ἀνήρ, οἰκεῖ δὲ Χίῳ ἔνι παιπαλοέσσῃ).

Anche le Vite di Omero (ben sette, tutte di età post-classica, fra quelle anonime e quelle attribuite a un preciso autore) non forniscono alcun dato attendibile; si tratta di racconti favolosi, che presentano situazioni assai lontane dai dati che si possono ricavare dai poemi stessi. Nell’Iliade e nell’Odissea, infatti, l’aedo frequenta ambienti aristocratici o addirittura vive nella reggia, mentre le Vite pongono di fronte alla ben diversa figura di un poeta di umili origini, che vive ed esercita la sua arte in mezzo al popolo, in un contesto sociale in cui gli antichi palazzi regali, di cui il cantore era ospite rispettato e gradito, non sono più che un remoto ricordo. Altrettanto incerta è la cronologia che riguarda Omero: le oscillazioni sono talora di centinaia d’anni, dal periodo della guerra di Troia, intorno al 1184 a.C., a molto prima, intorno al 1250, fino a quattro secoli dopo. L’unico dato attendibile potrebbe essere quello fornito da Erodoto (II 53), secondo cui Omero sarebbe vissuto circa quattrocento anni prima dello storico, cioè verso l’850 a.C. e sarebbe stato contemporaneo di Esiodo.

Omero. Statua, marmo, c. II secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La «questione omerica»

Nonostante l’incertezza della sua figura storica, per gli antichi Omero rimase pur sempre un personaggio reale, oggetto della più profonda venerazione o, molto più raramente, di polemica. Quest’ultimo atteggiamento fu proprio dell’età ellenistica, quando Callimaco di Cirene (315/10-244 a.C.) e i suoi seguaci contrapposero una poesia di breve estensione e di grande accuratezza formale alla vasta mole del «poema uno e continuo, di molte migliaia di versi».

I poemi omerici si collocano a cavallo tra oralità e scrittura: da un lato, essi sono il prodotto di una lunga e stratificata produzione orale, durante la quale intere generazioni di aedi elaborarono il materiale narrativo; dall’altro, mostrano i caratteri di un’elaborazione unitaria, che presuppone l’utilizzo di materiale scritto.

Secondo la tradizione classica, il passaggio probabilmente decisivo per la redazione dei poemi omerici fu costituito dall’edizione voluta da Ipparco, figlio di Pisistrato e tiranno di Atene, alla fine del VI secolo a.C.. In occasione dei festival poetici che si svolgevano all’interno delle Panatenee (luglio-agosto, in onore di Atena), i cantori che volevano esibirsi dovevano attenersi alla redazione ufficiale. Il controllo esercitato dal potere politico confermerebbe così la funzione educativa riconosciuta alla poesia epica e l’influenza che la performance dei cantori aveva sulla mentalità collettiva.

Ma le vere e proprie edizioni critiche dei due poemi si ebbero solo a partire dal III secolo a.C. per opera dei filologi alessandrini, che lavoravano nell’ambito di istituzioni culturali come la Biblioteca e il Museo, sorte ad Alessandria d’Egitto per volontà dei sovrani della dinastia Tolemaica. Fra questi studiosi si possono ricordare Zenodoto di Efeso (330-260 a.C.), Aristofane di Bisanzio (257-180 a.C.) e Aristarco di Samotracia (216-144 a.C.), che operarono in un arco di tempo compreso fra il 300 e il 150 a.C. Costoro suddivisero Iliade e Odissea in ventiquattro libri ciascuno, tanti quanti erano le lettere del nuovo alfabeto attico, usando le maiuscole per il primo e le minuscole per il secondo. Il lavoro di questi studiosi fu rigorosamente conservatore, tanto da mantenere nel testo anche parti di dubbia autenticità, che contrassegnarono tuttavia con un segno grafico speciale, l’ὀβελός, «spiedo» (÷).

Benemeriti per la conservazione del testo omerico, i filologi alessandrini contribuirono però a distruggerne definitivamente il carattere originario di poesia destinata alla recitazione. Questa contraddizione fu notata già in età antica, tanto che Cicerone (De oratore III 137) espresse un giudizio favorevole nei confronti della redazione pisistratea, mentre a Giuseppe Flavio (Adv. Apion. I 12) la stesura scritta apparve in contrasto con l’intenzione originaria del poeta, che aveva concepito la propria opera come una serie di canti destinati alla trasmissione orale. Dalla coesistenza di questi due elementi, redazione pisistratea e composizione orale, oltre che dall’incertezza dei dati sulla stesura e sull’autore dei due poemi, nacque e si sviluppò nel tempo la cosiddetta «questione omerica», che rimane, malgrado l’opera di molti studiosi, un problema tuttora insoluto.

Senza addentrarsi troppo nei meandri dell’omerologia, si riassumeranno le linee essenziali di sviluppo della vexata quaestio. In età antica il problema fu affrontato nel III secolo a.C. da due grammatici, Xenone ed Ellanico, detti poi χωρίζοντες («separatisti»), perché attribuirono l’Iliade a Omero e l’Odissea a un aedo più tardo, fondandosi solo sull’analisi interna dei poemi e sulle differenze di contenuto e di stile. Per gli stessi motivi, nel I secolo d.C. l’anonimo autore del trattato Sul sublime propose, con una certa ingenuità, di attribuire l’Iliade all’età giovanile del poeta e l’Odissea alla sua tarda maturità.

Più di mille anni dopo, e precisamente nella seconda metà de XVII secolo, François Hédelin (1604-1676), abate d’Aubignac, in un suo scritto, le Conjectures académiques ou Dissertation sur l’Iliade, pubblicato soltanto nel 1715, sostenne una tesi che fu fin da subito considerata clamorosamente innovativa e rivoluzionaria: Omero non era mai esistito e, poiché in quell’epoca (che egli però non determinò) non esisteva ancora la scrittura, l’Iliade non sarebbe stata altro che una raccolta di canti composti in momenti diversi, riuniti poi nella redazione scritta attribuita a Pisistrato.

Rembrandt van Rijn, Omero. Olio su tela, 1663. Den Haag, Mauritshuis.

A distanza di circa trent’anni, nel 1744, il filosofo italiano Giambattista Vico (1668-1744) dedicò alla questione omerica il III capitolo dei suoi Principii di una Scienza nuova. In esso, sotto il programmatico titolo di Discoverta del vero Omero, negava anch’egli consistenza storica alla figura del celebre poeta, sostenendo che le opere a lui attribuite dovevano essere considerate solo espressione del patrimonio collettivo dei ricordi del popolo greco «nel suo tempo favoloso». Questo aspetto gli appariva più evidente nell’Iliade, mentre l’Odissea era da considerarsi espressione di una civiltà meno antica.

In tempi più recenti, la «critica antiunitaria» trasse origine dagli studi del filologo tedesco Friedrich August Wolf (1759-1824), il quale approfondì gli spunti offerti dai suoi predecessori e, con un’accurata analisi testuale dei due poemi, giunse nei suoi Prolegomena ad Homerum, pubblicati nel 1795, a conclusioni simili a quelle del D’Aubignac. Wolf illustrò con chiarezza di argomentazioni l’impossibilità che i testi omerici fossero opera di un solo poeta e sostenne, al contrario, che canti separati, recitati da aedi, fossero stati definitivamente fissati e riuniti nel VI secolo a.C. Queste teorie ebbero diffusione e fortuna nel corso dell’Ottocento e altri studiosi condivisero l’idea dell’esistenza di un vasto e antico materiale trasmesso oralmente, al quale avrebbero attinto i compositori dell’Iliade e dell’Odissea. In base a tale convinzione, ebbe quindi origine la cosiddetta «teoria del nucleo ampliato», secondo cui la matrice dell’Iliade sarebbe stato un canto dedicato alla contesa fra Achille e Agamennone, mentre l’Odissea si sarebbe sviluppata dal racconto del lungo e travagliato ritorno di Odisseo: entrambi sarebbero stati ampliati nel corso dei secoli dall’opera di generazioni di rapsodi, fino a raggiungere l’ampiezza attuale.

Un altro studioso tedesco, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (1848-1931), avanzò l’ipotesi dell’esistenza di un poeta di lingua ionica, unico autore del nucleo fondamentale dell’Iliade; la sua opera, databile all’VIII secolo a.C., sarebbe stata poi ampliata da altri.

Il primo quarto del Novecento fu caratterizzato da una vivace ripresa delle teorie unitaristiche, secondo le quali non vi sarebbe stato che un solo autore per entrambi i poemi; tuttavia, tali conclusioni appaiono sostenute più da un’entusiastica ammirazione per Omero che da un’attenta analisi critica dei testi, condotta con metodi rigorosi e scientifici.

Una svolta decisiva negli studi omerici arrivò solo nei primi decenni del XX secolo, grazie alle ricerche dell’americano Milman Parry (1902-1935). Attraverso il contributo dato dagli studi di comparatistica e di antropologia culturale sulle modalità di comunicazione orale delle civiltà tribali, e analizzando il linguaggio dell’Iliade, riuscì a dimostrare che l’unità compositiva di base della poesia epica non fosse la singola parola (come sarebbe avvenuto per una civiltà fondata sulla scrittura), bensì gli elementi formulari: la ripetizione di parole o frasi che compaiono molte volte, come epiteti umani e divini, inizio e conclusione di discorsi, modi di interpellare e di rispondere, indicazioni temporali, formule di transizione del discorso.

La tesi di Parry, secondo il quale Omero era un cantore di oral poetry, ebbe il pregio di allargare l’indagine dalla filologia all’antropologia, in quanto egli cercò sostegno alle proprie teorie confrontando l’ἔπος greco con le composizioni di cantori popolari, numerosi e attivi fino alla prima metà del Novecento soprattutto nell’Europa orientale.

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Riferimenti bibliografici:

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Ipponatte, un aristocratico con la maschera da pitocco


Tra “poeta maledetto”, mendicante dei bassifondi, protagonista in prima persona delle squallide avventure narrate in autobiografici e virulenti giambi – secolare cliché critico-letterario – e il poeta colto e raffinato, compositore di elaboratissime parodie e satire per eterie aristocratiche riunite a simposio c’è un vero abisso: proprio la programmatica varietas della poesia ipponattea, il suo polimorfo mimetismo linguistico – destinato a essere assunto a emblema del genere dagli Alessandrini – e il raro dono di ritrarre icasticamente scene e dettagli hanno certamente contribuito a scavarlo. Nativo di Efeso, vissuto negli ultimi decenni del VI secolo perlopiù a Clazomene, dove lo esiliarono sgradito i tiranni Atenagora e Coma, Ipponatte fu autore di una cospicua raccolta di componimenti giambici in almeno due libri, di cui restano circa 180 frammenti (oltre 200 con i dubia), inegualmente divisi tra trimetri giambici, tetrametri giambici, tetrametri trocaici, esametri, epodi.

Pittore Pedieo. Una musicista accompagna un simposiasta ubriaco. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 510 a.C. Paris, Musée du Louvre.

Originale interprete – in chiave giambica – delle istanze di un’aristocrazia antitirannica e minacciata, l’Efesino dedicò i suoi velenosi ritratti d’ambiente a quel δῆμος emergente, che la rivoluzione artigianale e mercantile aveva portato in primo piano, che tiranni – e aspiranti tali – fomentavano e manovravano, talora con l’interessata complicità dell’Impero achemenide (dopo il 546), e che gli antichi γένη aristocratici temevano e detestavano. Proprio il nome del poeta, Ἱππῶναξ, che vale «signore dei cavalli», tradisce un’origine aristocratica: sia il secondo elemento, ἄναξ, sia il riferimento del primo ai cavalli, costoso appannaggio dell’aristocrazia, sono ingredienti caratteristici di nomi nobiliari. A questo proposito, altri fattori confermerebbero l’appartenenza a questa classe sociale. Ci sono infatti frammenti in cui il poeta lamenta la propria povertà e inveisce contro la cecità di Pluto, che non gli ha mai detto (F 36 West, 3-4):

“… δίδωμί τοι μνεας ἀργύρου τριήκοντα

καὶ πόλλ’ ἔτ’ ἄλλα” …

“… Io ti concedo qui trenta mine d’argento

e molto altro ancora”…,

altri in cui supplica Ermes perché gli regali un mantello e dei sandali felpati (F 32 West, 4-6):

δὸς χλαῖναν Ἱππώνακτι καὶ κυπασσίσκον

καὶ σαμβαλίσκα κἀσκερίσκα καὶ χρυσοῦ

στατῆρας ἑξήκοντα τοὐτέρου τοίχου.

Da’ un mantello a Ipponatte e una tunichetta,

sandaletti e pantofoline e sessanta stateri

d’oro puro metti dell’altra parte;

altri in cui si dichiara tormentato dal freddo e dai geloni ai piedi (cfr. F 34 West): tutto questo e il fatto che il suo lessico sia spesso attinto al parlare quotidiano e incline all’oscenità hanno indotto gli studiosi a vedere in Ipponatte la tipica figura del «nobile decaduto», con la mano sempre tesa a elemosinare. Per contro, la critica più recente (Degani) ha messo luce come l’elemento «popolare» e i contenuti volgari vadano ricondotti alle convenzioni del genere giambico. Tra le norme e i ruoli tipici c’è infatti «la maschera» del miserabile intirizzito dal freddo e morto di fame. Se questa precisazione costituisce un salutare correttivo alla vecchia immagine del poeta autobiograficamente pitocco, analogamente al caso di Archiloco, non si deve arrivare a escludere che il riconoscimento di un «io» mimetico-drammatico (per cui il poeta assume la posa del miserabile) riduca a semplici invenzioni fittizie le figurazioni e le vicende che affiorano in diversi frammenti.

Fyodor Bronnikov, Mendicante romano. Olio su tela, 1855. Collezione privata.jpeg

Un mondo di artigiani, commercianti, osti, indovini, prostitute, ladri, truffatori, e soprattutto artisti emergenti, quali gli scultori Bupalo e Atenide, il loro collega Bione, il pittore Mimne, il vasaio Eschilide, il musico e guaritore Cicone, i suoi accoliti Codalo e Babi, l’affamato pitocco Sanno, il crapulone Eurimedontiade e, infine, Arete.

Maestro dell’insulto, dell’escrologia, del violento attacco personale, Ipponatte riempì la propria poesia simposiale di furti, aggressioni, violenze, sesso a volontà, e la propria lingua di immagini colorite, di paragoni animaleschi, di metafore popolari rivisitate, di proverbi e formule magiche, di parole gergali o straniere opportunamente “tradotte” e spiegate, di esilaranti parodie dell’ἔπος, di roboanti neoformazioni. Queste molteplici capacità espressive, il tono divertito e irriverente, l’amore per il paradosso e il rifiuto del páthos fecero di Ipponatte il precursore della commedia e poi della disincantata poesia alessandrina.

D’altronde, come ha assai opportunamente evidenziato Enzo Degani, il tratto fortemente innovativo della produzione ipponattea consiste proprio nell’uso della lingua: la patina dialettale che riveste i suoi componimenti è lo ionico d’Asia, ma il poeta sa far propri elementi linguistici di altre aree geografiche e addirittura di parlate non greche; così si trovano impiegati vocaboli nuovi, numerosi termini altrimenti attestati (hápax legómena), parole composte. Proprio per queste sue caratteristiche la produzione di Ipponatte fu oggetto di frequenti citazioni da parte di grammatici, lessicografi ed eruditi dei secoli successivi, che hanno conservato in questo modo molti suoi frammenti.

Pittore della fonderia. Un fabbro e il suo servo alla fornace. Pittura vascolare a una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. Berlin, Antikensammlung.

Tra le vittime del “biasimo giambico” caddero i fratelli scultori Bupalo e Atenide, che avrebbero realizzato un ritratto caricaturale del poeta e che questi con una serie di violentissime invettive avrebbe indotto al suicidio per impiccagione. Con Bupalo, soprattutto, Ipponatte sarebbe entrato in rivalità per una certa Arete, donna di molto liberi costumi; e come Archiloco nel celebre Epodo di Colonia aveva rievocato a denigrazione di Neobule la propria scappatella con la di lei sorella minore, così Ipponatte raccontava del suo incontro notturno con Arete (F 13-14, 16-17 West):

ἐκ πελλίδος πίνοντες· οὐ γὰρ ἦν αὐτῆι

κύλιξ, ὁ παῖς γὰρ ἐμπεσὼν κατήραξε,

bevendo essi dal secchio: lei non aveva

una coppa, perché il servo, cadutovi sopra, l’aveva frantumata,

ἐκ δὲ τῆς πέλλης

ἔπινον· ἄλλοτ’ αὐτός, ἄλλοτ’ Ἀρήτη

προύπινεν.

                      dal secchio

bevevano: una volta era lui, l’altra Arete

a fare il brindisi.

ἐγὼ δὲ δεξιῶι παρ’ Ἀρήτην

κνεφαῖος ἐλθὼν ‘ρωιδιῶι κατηυλίσθην.

Ed io, giunto da Arete di notte,

mentre un airone volava da destra, vi piantai il campo.

κύψασα γάρ μοι πρὸς τὸ λύχνον Ἀρήτη

Chinatasi infatti su di me, a lume di lucerna, Arete…

Quello ritratto da Ipponatte è uno sgangherato simposio, focalizzato su un «secchio per mungitura» (πελλίς), termine che attirò l’attenzione dei testimoni antichi (Ath. XI 495c-d; Eust. ad Od. V 244, 1531, 53 ss.) e che qui sostituisce la coppa (κύλιξ) di una inusuale simposiasta, probabilmente l’impudica Arete, inopinatamente fracassata da un servo (παῖς) cadutovi sopra; si tratta forse di un giovane amante con cui la donna si sarebbe intrattenuta (?). Clima ebbro, gesti goffi e volgari – forse favoriti da prolungate bevute – costituiscono l’orizzonte privilegiato della poesia ipponattea, vasto repertorio di trovate comiche cui attingeranno i poeti di ogni tempo: il gioco sulla «coppa», anzi sul «secchio», sarà mutuato da Aristofane (Th. 633) e dal giambografo ellenistico Fenice di Colofone (F 4, 3; 5, 1-2 Pow.), mentre il motivo del servo che rompe il calice si diffonderà nella poesia latina, da Mazio (F 11, 2 Blänsdorf), a Orazio (Sat. II 8, 72; 81), a Petronio (52).

Pittore della Forgia. Un’etera urina in uno σκύφος. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 480 a.C. Berlin, Antikensammlung.

Ecco l’arrivo improvviso del poeta, giunto per un’erotica visita notturna, ironicamente propiziata da fausti, omerici auspici: un «airone» (l’ἐρῳδιός, su cui si sofferma il grammatico Erodiano, GG III/1 116, 21-117, 3; III/2 924, 12-19, testimone principale del frammento), che vola da destra, come quello che annunciò il successo, nell’iliadica “Doloneia” (Il. X 274-276), a Odisseo e Diomede; e la notte, che serve a «piantare la tenda» (v. 2) dalla solita Arete, donna rotta a esperienze sessuali di ogni tipo. In questo triviale contesto Ipponatte riprende la nobile equazione fra eros e guerra, che precorre l’immaginario della lirica greca.

La continuazione dell’incontro furtivo – segnalata dalla ripresa del nome della donna – coglie al chiarore di una lucerna la stessa disponibile Arete curva sull’io parlante nella posizione della fellatrix di archilochea memoria (cfr. F 42 West): che il contesto fosse quello di una fellatio pare garantito dal parallelo archilocheo e dalle occorrenze erotiche del verbo κύπτειν («curvarsi», «chinarsi sopra», «mettersi a testa in giù»), tanto realistico. Topica spettatrice di appassionati convegni amorosi diverrà poi la lucerna in commedia (cfr. Aristoph. Ec. 7-13; Adesp. Com. F 724, 1 K.-A.) e soprattutto nella poesia epigrammatica (cfr. AP V 4-5; 7-8; 128; Hor. Sat. II 7, 48; Mart. X 38, 7; XIV 39).

Pur nella grave lacunosità del testo si coglie un’inclinazione a ritrarre per istantanee puntuali, in una progressione di dettagli che costituiscono (o, piuttosto, demoliscono) una figura femminile che certo appare tipizzata nel ruolo della donna incontinente – così nel bere come nell’eros –, ma che doveva riuscire tanto più godibile al gruppo degli ascoltatori partecipi al simposio, in quanto attratta nell’orbita di un «effetto di verità» che il narratore intendeva conseguire, sfruttando nomi, cose, situazioni appartenenti al concreto loro ambito sociale. In altre parole, udendo il nome di Arete il pubblico di Ipponatte doveva riconoscere la deformazione grottesca (la “caricatura”) di un personaggio noto dalla realtà.

Pittore Kleophrades. Incontri galanti tra etere e clienti. Pittura vascolare da un’ὑδρία attica a figure rosse, c. 490 a.C. Berlin, Staatliche Antikensammlungen.

Non meno che nell’episodio dell’incontro notturno con Arete che altrove Ipponatte si rivela un artista della narrativa osée, quasi boccaccesca, ben più portato dello stesso Archiloco all’oscenità spregiudicata. Così nel F 84 West viene rievocato un altro, frettoloso, convegno, scandito da morsi e baci e bruscamente interrotto dal sopraggiungere del rivale Bupalo, che caccia il poeta sul più bello. Nei frammenti riferibili al litigio con l’odiato scultore si avverte tutta la rabbia del poeta (F 120-121 West):

λάβετέ μεο ταἰμάτια, κόψω Βουπάλωι τὸν ὀφθαλμόν.

ἀμφιδέξιος γάρ εἰμι κοὐκ ἁμαρτάνω κόπτων.

Tenetemi il mantello, pesterò l’occhio a Bupalo.

Infatti, sono ambidestro e non sbaglio, se picchio.

Putroppo, la millantata abilità dello sfidante è destinata, di lì a poco, a sgonfiarsi in una malinconica constatazione (F 73 West, 4-5):

οἱ δέ μεο ὀδόντες

ἐν ταῖς γνάθοισι πάντες ‹ἐκ›κεκινέαται.

tutti i denti

mi ballano sulle gengive.

Anche in questo caso, il linguaggio, in apparenza sboccato e plebeo, dell’aggressione ad personam, degno di una rissa da osteria, rivela aristocratiche reminiscenze letterarie; esso ha infatti un precedente illustre nell’epica omerica e riecheggia le parole millantatrici con cui il mendicante Iro sfidò Odisseo, scambiato per un rivale nell’accattonaggio, uscendo poi dallo scontro con le ossa rotte. Anzi, il rapporto di Ipponatte con l’archetipo è così evidente da indurre alcuni studiosi a supporre che l’intento parodistico del passo omerico sia stato suggerito al poeta proprio dall’ascolto recente di una recitazione agonale di rapsodi (Od. XVIII 27-29): … ὃν ἂν κακὰ μητισαίμην / κόπτων ἀμφοτέρῃσι, χαμαὶ δέ κε πάντας ὀδόντας / γναθμῶν ἐξελάσαιμι συὸς ὣς ληϊβοτείρης («… io potrei conciarlo male, / colpendolo con ambo le mani, e fargli cadere tutti i denti / dalle mascelle, come quelli di una scrofa che rovina i raccolti»).

Pittore Epitteto. Lotta fra due pugili. Pittura vascolare dal fondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 520 a.C. ca. London, British Museum.

Talvolta l’invettiva abbandona gli ambiti propriamente letterari per collegarsi alle pratiche di purificazione, che ogni comunità effettua con scadenze regolari. Dai resti del F 92 West si vede ricostruito un rituale magico eseguito con una sferza di fico battuta sui genitali dell’«io» narrante a opera di una donna lidia nello sconfortante scenario di una latrina. Altrove, il poeta mostra l’abitudine di apostrofare l’avversario con l’appellativo infamante di φαρμακός («avvelenatore di città», «liberatore dai mali»), connesso con φάρμακον («veleno», «rimedio», «farmaco»): nelle città ioniche si trattava di un individuo, scelto annualmente, in genere tra le persone più umili ed emarginate (servi, criminali, straccioni, soggetti affetti da deformità, ecc.), che veniva allontanato dalla comunità cittadina nel corso di rituali più o meno violenti, che potevano portare alla morte; la cerimonia apotropaica prevedeva che il malcapitato, dopo essere stato percosso con rami di fico e mazzi di cipolle (σκίλλαι) in una processione lungo le strade della città, fosse da ultimo lapidato o bruciato vivo, o meno crudamente espulso dalla città. In tal modo, si riteneva di allontanare, insieme con il “capro espiatorio”, le sventure che avrebbero potuto abbattersi sulla società intera. Augurare a un cittadino di fare la fine del φαρμακός equivale, insomma, ad assimilarlo a un individuo della peggiore specie, destinato a una fine violenta. Così, infatti, la frasca di fico (κράδη) è un emblema ricorrente in Ipponatte in connessione con il rito del capro espiatorio, a cui si riferisce una serie di frammenti (F 5-10 West), appartenenti forse a componimenti diversi, ma citati insieme dall’erudito Giovanni Tzetze (Tz. Chil. V 728 ss.):

πόλιν καθαίρειν καὶ κράδηισι βάλλεσθαι.

Purificare la città e farsi battere con frasche di fico.

βάλλοντες ἐν χειμῶνι καὶ ῥαπίζοντες

κράδηισι καὶ σκίλληισιν ὥσπερ φαρμακόν.

Battendolo in un prato e con frasche

di fico e di cipolle, come un capro espiatorio.

δεῖ δ’ αὐτὸν ἐς φαρμακὸν ἐκποιήσασθαι.

Bisogna renderlo un capro espiatorio.

κἀφῆι παρέξειν ἰσχάδας τε καὶ μᾶζαν

καὶ τυρόν, οἷον ἐσθίουσι φαρμακοί.

E alla sua mano porgere fichi secchi e focaccia

e cacio, quale mangiano i capri espiatori.

πάλαι γὰρ αὐτοὺς προσδέκονται χάσκοντες

κράδας ἔχοντες ὡς ἔχουσι φαρμακοῖς.

Da molto tempo, infatti, li aspettano a bocca aperta

con frasche di fico, come le hanno per i capri espiatori.

… λιμῶι γένηται ξηρός· ἐν δὲ τῶι θύμωι

φαρμακὸς ἀχθεὶς ἑπτάκις ῥαπισθείη.

… che rinsecchisca per la fame; e nell’anima,

portato via qual capro espiatorio, sette volte lo si sferzi.

Pittore di Pan. Pan che insegue un capraio. Pittura vascolare da un cratere a campana a figure rosse, c. 470 a.C. Boston, Museum of Fine Arts.

Oltre che ritrattista di figure in azione Ipponatte è anche maestro dell’immagine bloccata, con personaggi fissati in tratti fisiognomici che denunciano il vizio che si cela in loro, come nell’epodo dedicato all’ingordo Sanno (F 118 West, 1-9):

ὦ Σάνν’, ἐπειδὴ ῥῖνα θεό[συλιν φύ]εις,

καὶ γαστρὸς οὐ κατακρα[τεῖς,

λαιμᾶι δέ σοι τὸ χεῖλος ὡς ἐρωιδιοῦ

[ ]

τοὖς μοι παράσχες [ ]

σύν τοί τι βουλεῦσαι θέ[λω.

(. . . .)

τοὺς] βρα[χίονας

καὶ τὸ]ν τράχ[ηλον ἔφθισαι,

κα[τεσθίεις δέ·] μ̣ή σε γαστρίη [λάβηι

O Sanno, poiché quel naso empio coltivi

e il ventre non sai dominare,

e il tuo labbro è ingordo come il becco di un airone

. . . .

Porgimi l’orecchio…

Ti voglio dare un consiglio.

. . . .

Nelle braccia

e nel collo sei rovinato,

eppur ti ingozzi: attento che non ti prenda una colica…

Pittore della Gigantomachia di Parigi. Scena simposiale. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. London, British Museum.

La caricatura e la satira possono sfociare nell’invettiva senza mezze misure in quel primo Epodo di Strasburgo (F 115 West) di pur controversa autenticità, che appare tanto violento nell’augurio di un impietoso naufragio a un traditore (un προπεμπτικόν alla rovescia lo definiva Perrotta) quanto letterariamente cosciente nella sottile ripresa di un celebre brano odissiaco (Od. VI 226 ss.):

.[

η[

π.[ ]ν[…]….[

κύμ[ατι] πλα[ζόμ]ενος

κἀν Σαλμυδ[ησσ]ῶ̣ι̣ γυμνὸν εὐφρονέσ[τατα

Θρήϊκες ἀκρό[κ]ομοι

λάβοιεν ‑ ἔνθα πόλλ’ ἀναπλήσαι κακὰ

δούλιον ἄρτον ἔδων ‑

ῥίγει πεπηγότ’ αὐτόν· ἐκ δὲ τοῦ χνόου

φυκία πόλλ’ ἐπέ̣χοι,

κροτέοι δ’ ὀδόντας, ὡς [κ]ύ̣ων ἐπὶ στόμα

κείμενος ἀκρασίηι

ἄκρον παρὰ ῥηγμῖνι κυμαντῷ ˘ x

ταῦτ’ ἐθέλοιμ’ ἂ̣ν ἰδεῖ̣ν,

ὅς μ’ ἠδίκησε, λ̣[ὰ]ξ δ’ ἐπ’ ὁρκίοις ἔβη,

τὸ πρὶν ἑταῖρος [ἐ]ών.

. . . .

. . . .

sbattuto dalle onde

e nudo in Salmidesso con somma gentilezza

i Traci dalle alte chiome

lo accolgano – là patirà molti mali,

mangiando pane da servo –,

lui, intirizzito dal gelo! E fuori dalla schiuma

molte alghe lo ricoprano,

batta i denti, giacendo riverso

come un cane per sfinimento

sul limitare della battigia…

vorrei che vivesse queste pene,

lui, che mi fece torto, che calpestò i giuramenti,

che in passato mi fu compagno.

Pittore delle Sirene. Odisseo e le Sirene. Pittura vascolare da uno στάμνος attico a figure rosse, 480-470 a.C. ca. da Vulci. London, British Museum.

Non stupisce allora se questo poeta, che aveva al suo arco tanto le frecce della finzione plebeo-satirica quanto quelle del lusus letterario, fosse considerato dagli antichi come l’inventore (il πρῶτος εὑρετής) del genere della parodia letteraria, di cui si possiede un esempio negli esametri del F 128 West:

Μοῦσά μοι Εὐρυμεδοντιάδεα τὴν ποντοχάρυβδιν,

τὴν ἐν γαστρὶ μάχαιραν, ὃς ἐσθίει οὐ κατὰ κόσμον,

ἔννεφ’, ὅπως ψηφῖδι ‹κακῇ › κακὸν οἶτον ὀλεῖται

βουλῆι δημοσίηι παρὰ θῖν’ ἁλὸς ἀτρυγέτοιο.

Musa, dell’Eurimedontiade, Cariddi che divora l’oceano,

la lama-in-pancia di quel mangione senza ritegno

dimmi, sì che per malo suffragio di mala morte perisca,

per volontà del popolo, lungo la riva del mare infecondo!

Pittore di Cadmo. Eracle e Dioniso a banchetto. Pittura vascolare da una πελίκη attica a figure rosse, c. fine V sec. a.C. London, British Museum.

Il ritratto grottesco di un ghiottone volgare, dal patronimico e dagli epiteti altisonanti, ma destinato a una misera fine, dà libero sfogo all’invettiva linguistica di Ipponatte, i cui interminabili e mirabolanti composti, ovviamente nuovi di zecca, insegneranno schemi compositivi ben precisi al rutilante lessico comico. Espressa in esametri eroici e chiaramente memore, con la sua risibilmente solenne invocazione alla Musa, l’esquisse di questo misterioso cialtrone rappresenta altresì il primo chiaro esempio di poesia parodica; è proprio per questo che il testimone, Polemone di Ilio (F 45 Preller), cita questi quattro versi. La contaminazione dei celeberrimi incipit dell’Iliade e dell’Odissea introduce solennemente non già l’epica ira di un Pelide, o l’instancabile e variegata mobilità di un Laertiade, ma la «Cariddi che divora l’oceano» (ποντοχάρυβδιν) e il ventre ben fornito di un coltellaccio trincia-tutto (ἐν γαστρὶ μάχαιραν) di un non meglio precisato Eurimedontiade (sotto le cui fattezze qualcuno ha voluto riconoscere l’ombra del solito Bupalo), le cui assunzioni di cibo, di conseguenza, non sono precisamente ispirate al decoro e all’etichetta. L’allure parodicamente solenne dell’invocazione alla Musa è acuita dall’iperbato del verbo, «narrami», che occorre solo nell’incipit del v. 3, dove l’iperbolica descrizione satirica, attraverso lo snodo dell’invocazione, cede il posto alla giambica maledizione. Ed è quanto mai significativo che la rovina dell’ignobile personaggio – espulso come l’ennesimo capro espiatorio – sia auspicata con un voto negativo, chiasticamente accostato a una «mala morte» che esso determina, e con una «deliberazione popolare», quasi a sottolineare come sia per le scelte del popolo che gli odiosi parvenu del popolo precipitano infine nella fame e nella miseria, «lungo la riva del mare infecondo», epico confine e pietra tombale dello sconfinato stomaco dell’Eurimedontiade.

***

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Chi è Elena?

Elena, nell’immaginario comune, è la donna infedele. È colei che non ha esitato ad abbandonare il marito, la casa e la famiglia, per gettarsi in una vicenda d’amore extra-coniugale irrispettosa di tutto e di tutti, al punto da causare una guerra. Non una guerra qualsiasi, ma la progenitrice epica di tutte le guerre, che ha visto contrapposti gli eserciti di tutto il mondo egeo. È facile etichettare così il personaggio di Elena: una donna bellissima, in grado di stregare ogni uomo, ma portatrice anche di guai e di sventure. Purtroppo, o per fortuna, Omero non rende il giudizio così semplice: l’Elena che ha saputo affrontare e violare ogni convenzione etica e tradizionale per fuggire con l’uomo che ama, viene rappresentata a Troia intenta alle stesse attività praticate dalle altre donne che non hanno mai lasciato il focolare; anche lei, come le altre spose d’eroi, tesse la tela. C’è qualcosa di molto stonato rispetto al ritratto di femme fatale che sembrava essere stato delineato fin dall’inizio.

Ma il vero colpo di scena deve ancora arrivare: Elena viene raggiunta da Iris, la dea dell’arcobaleno, messaggera degli dèi, che le annuncia che suo marito, Menelao, re di Sparta, tradito e furibondo, è in procinto di affrontare in duello il suo amante, Paride Alessandro. Lei, Elena, è il trofeo in palio per il vincitore della contesa. Altro che libertà, altro che padrona del proprio destino!

Pittore di Stoccolma 1999. Elena e Paride. Lato A di un cratere a campana apulo a figure rosse, c. 380-370 a.C. da Taranto. Paris, Musée du Louvre.

La donna, a quel punto, si lascia andare a un sentimento davvero imprevedibile per la seduttrice disinibita che il lettore moderno presumeva di conoscere: Ὣς εἰποῦσα θεὰ γλυκὺν ἵμερον ἔμβαλε θυμῷ / ἀνδρός τε προτέρου καὶ ἄστεος ἠδὲ τοκήων· / αὐτίκα δ’ ἀργεννῇσι καλυψαμένη ὀθόνῃσιν / ὁρμᾶτ’ ἐκ θαλάμοιο τέρεν κατὰ δάκρυ χέουσα (Il. III 139-142, «Così dicendo la dea le ispirava nel cuore desiderio struggente / del marito di prima, della sua città, dei suoi genitori; subito, copertasi con un velo di bianchezza splendente, / si slanciò fuori della stanza, versando una tenera lacrima»).

Allora Elena ha una coscienza, si rende conto di quello che ha fatto, capisce, infine, che la libertà – sempre che sia riuscita a ottenerla – impone un prezzo molto alto: la rinuncia alla comodità, alle sicurezze, agli affetti e alle cose care. Certo, ci potrebbe essere il conforto della bellezza di Paride e del suo coraggio, che Elena spera dimostri contro il terribile Menelao. E, invece, Paride fugge, lasciando il suo elmo in mano all’avversario; anzi no, si dilegua, protetto da una provvidenziale nebbia divina! Adesso l’amante aspetta Elena a letto per fare l’amore. Quel letto, unico campo di battaglia dove il suo amato sembra riuscire a sfoggiare talento e ardimento! Ma, allora, chi è Elena? Una donna senza scrupoli e pudore, o una donna in cerca della libertà e della felicità?

Sorge perfino qualche dubbio sul suo matrimonio con il re di Sparta; perché Menelao, il cui nome significa «repressore del popolo» (da μένειν, «restare», «rimanere», e λαός, «popolo»), sembra in grado di apprezzare soltanto la bellezza fisica della sua sposa. Il dubbio, dunque, persiste, e l’aedo iliadico non fa nulla per dissiparlo. Chi è Elena?

Pittore di Brygos. Menelao ed Elena. Pittura vascolare su una λήκυθος attica a figure rosse, c. 480 a.C. da Armento. Berlin, Altes Museum.

L’Encomio di Elena di Gorgia da Leontini (c. 483-380 a.C.) cerca di scagionare totalmente la donna dall’accusa di aver provocato la guerra. Seguendo la struttura di un’orazione giudiziaria (proemio, esordio, esposizione, confutazione, ricapitolazione, epilogo), l’autore assume la difesa della celeberrima eroina; nel corso della trattazione compaiono anche interessanti annotazioni sulla poesia, che viene considerata affine alla retorica per la capacità di coinvolgere emotivamente ascoltatori e lettori. Partendo dal presupposto che Elena aveva agito sotto l’influenza di una forza più grande di lei, la volontà di Afrodite, ovvero la capacità persuasiva del λόγος, il sofista dimostra la completa innocenza del personaggio.

Dopo averla già eletta a personaggio delle Troiane, Euripide di Atene (c. 486-406 a.C.) dedica un intero dramma a Elena. Accusata dalle donne di Troia di essere la causa, con il suo comportamento, della morte dei loro uomini e della distruzione della loro città, nella tragedia del 415 l’eroina si difende, addossando la responsabilità della guerra a Paride e alla madre di lui, Ecuba, colpevole di aver generato l’uomo di cui si era innamorata. La moglie di Priamo reagisce fino a indurre Elena a chiedere il perdono a Menelao. Nella tragedia del 412, invece, Euripide propone un ritratto della regina spartana completamente diverso: nella sua Elena il tragediografo adotta la versione del mito secondo cui la traditrice, quella fuggita con Paride, sarebbe stata solo un fantasma. Elena avrebbe dovuto essere il premio per un concorso di bellezza, che Paride aveva vinto, ma la dea Hera – adirata con lui – aveva dato al Priamide un simulacro, un fantasma appunto, mettendo al sicuro la vera Elena in Egitto. Ma anche qui il fascino della donna aveva creato problemi: il mite e pio re Proteo, al quale la donna era stata affidata dalla dea, muore e il successore, il figlio Teoclimeno, si innamora della regina di Sparta. Ella, tuttavia, fedele a Menelao, non abbandona mai lo spazio sacro della tomba di Proteo, per evitare che Teoclimeno la importuni. Arriva in Egitto Teucro, fratello di Aiace, che, dopo averla riconosciuta, non senza grande stupore, aggiorna la donna sugli ultimi sviluppi della guerra di Troia: la città è stata presa a distrutta e Menelao ha trascinato in patria il fantasma di Elena, convinto che si tratti davvero della sposa infedele. Infine, giunge in Egitto pure Menelao, con al seguito la regina-simulacro, che si dissolve non appena l’Atride incontra la vera sposa. A questo punto i due devono fuggire dall’Egitto senza incorrere nelle ire dello spasimante Teoclimeno: allora, Elena comunica al re egizio la falsa notizia che l’antico sposo è scomparso, ottenendo il permesso di celebrarne in mare i funerali; al largo, l’Atride la attende su una nave, travestito da semplice marinaio. Finalmente i due possono ritornare a Sparta.

Pittore di Menelao. Il tentativo di vendetta di Menelao. Pittura vascolare su un cratere attico a figure rosse, c. 450-440 a.C. da Egnazia. Paris, Musée du Louvre.

Con quest’opera Euripide mostra che tutta la guerra di Troia non è stata altro che un grande inganno, uno scontro sanguinosissimo, che ha provocato la morte di tanti e ha seminato distruzione senza alcuno scopo e senza alcun senso, se non le allucinazioni a cui vanno soggetti gli uomini. Mentre Menelao si batteva con accanimento per difendere il proprio onore, sua moglie, ritenuta a torto infedele, stava in Egitto, dall’altra parte del mondo allora conosciuto.

La versione “alternativa” di Elena che ripara in Egitto è stato ripreso, nel 1928, dal poeta e drammaturgo austriaco Hugo von Hofmannsthal nella sua Elena egizia, libretto di un’opera lirica composta da Richard Strauss. Nato a Vienna nel 1874, von Hofmannsthal fu testimone degli ultimi anni dell’Impero asburgico e poi del suo crollo, della Grande guerra e della nascita dell’Austria repubblicana. Morì nel 1929, prima che la sua nazione fosse fagocitata dal Terzo Reich hitleriano. Von Hofmannsthal fu, con la sua opera, un sostenitore della creazione di una cultura comune a tutta l’Europa, per lo scrittore unico strumento valido a scongiurare lo scatenarsi di un nuovo conflitto mondiale.

Gustave Moreau, Elena in gloria. Acquarello.

La sua Elena egizia si apre con Menelao che, distrutta Troia, riporta a Sparta la propria sposa. Il re è deciso a uccidere la fedifraga per vendicarsi della sua infedeltà, ma una tempesta, scatenata dalla ninfa Etra, che intende salvare la donna, fa affondare la nave; l’Atride salva a nuoto sé stesso ed Elena e approda sull’isola di Etra. Qui Menelao riprende i propri propositi uxoricidi, ma la ninfa interviene ancora, chiamando gli Elfi e chiedendo loro di fare un gran rumore; in questo modo, si ricreano i clamori della battaglia, distraendo il re e inducendolo a credere di essere ancora sotto le mura di Ilio (da notare come Hofmannsthal non esiti a introdurre nel mito greco personaggi della mitologia norrena). Menelao, convinto ancora di essere in guerra, si precipita fuori dal palazzo, dove crede di vedere Paride ed Elena insieme e di ucciderli; tornato all’interno della reggia, però, con grande stupore si trova davanti la vera moglie, che chiede a Etra di essere portata insieme al marito in un luogo dove possano dimenticare tutti i tristi fatti che li hanno visti protagonisti. La ninfa fa bere al re di Sparta un filtro che gli provoca oblio, inducendolo a desistere dalle sue idee di vendetta, e i due sposi si ritrovano in Egitto.

Se Euripide e Hofmannsthal riprendono, entrambi, il motivo della giovane Elena, dal fascino irresistibile, il poeta e scrittore greco Ghiannis Ritsos (1909-1990) propone un punto di vista completamente diverso. Nella sua opera l’autore offre un ritratto della donna segnato dal passare del tempo, che lascia tracce indelebili sia sul suo aspetto sia nel suo spirito. Ritsos è considerato uno dei maggiori poeti ellenici del XX secolo e si è distinto, oltre che per la sua arte, anche per l’impegno politico, che l’ha visto prima nelle fila della resistenza contro l’invasione nazifascista della Seconda guerra mondiale, poi incarcerato durante il regime dei Colonnelli (1967-1974). Ritsos compose la sua Elena nel 1970 e, nel raffigurare una donna ormai anziana, rivisita un tema già caro ai filosofi e ai poeti della Roma imperiale: Elena, come qualsiasi altro essere vivente, è destinata a recare sulla propria persona i segni del tempo; anche di lei non resterà che un cranio perso in un mucchio d’ossa, come la descriveva Luciano di Samosata nei Dialoghi dei morti (18); anche Marco Aurelio parlava di lei come di «un’animuccia che trascina un cadavere».

«Vecchia ubriaca». Statua, marmo, copia romana da un originale greco del II sec. a.C. attribuita a Mirone. Roma, Musei Capitolini.

Ritsos riprende questo motivo e presenta Elena chiusa nella stanza di un ospizio, in bilico fra un presente fatto di acciacchi, demenza senile e semi-infermità e un passato testimoniato da tanti oggetti e da molti ricordi: la collana ricevuta da Micene dopo l’uccisione di Clitemnestra, le lettere degli ammiratori, i nomi e le immagini degli eroi achei (soggetti, peraltro, alle frequenti amnesie di una vecchia malata). Anche Menelao è stato ormai portato via dal tempo, dopo aver passato gli ultimi anni della sua vita insieme con Elena, a contemplare il bottino di tante guerre accumulato nella loro dimora. Il presente di Elena è fatto di solitudine e di conflitto, con le ancelle che la detestano, la derubano dei suoi tesori e la curano in modo negligente, truccandola malamente, forti della sua debolezza. In questo quadro, la morte giunge come una liberazione: ancora una volta, le serve se ne approfitteranno, portandole via tutto ciò che potranno. L’Elena di Ritsos, composta in pieno regime militare, sembra essere un’allegoria del passato e del presente della Grecia: una Grecia epica, quella omerica, della quale al tempo dello scrittore non sopravvivono che ricordi e oggetti, persi in una dimensione polverosa, volgare e prosaica. Da quel presente asfittico, l’eroe può essere liberato solo mediante la morte.

“Come le foglie”

La similitudine che mette in relazione la stirpe umana con le foglie ricorre, con accenti e significati differenti, tre volte nei poemi omerici.

La prima – e più celebre – occorrenza dell’immagine è quella di Il. VI 145-149. Sul campo di battaglia si incontrano per la prima volta l’acheo Diomede e Glauco, greco d’origine ma naturalizzato licio e alleato dei Troiani. Diomede domanda allo sconosciuto avversario la sua identità – teme di trovarsi di fronte a un dio – e Glauco risponde:

Τυδεΐδη μεγάθυμε τί ἢ γενεὴν ἐρεείνεις;

οἵη περ φύλλων γενεὴ τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν.

φύλλα τὰ μέν τ’ ἄνεμος χαμάδις χέει, ἄλλα δέ θ’ ὕλη

τηλεθόωσα φύει, ἔαρος δ’ ἐπιγίγνεται ὥρη·

ὣς ἀνδρῶν γενεὴ ἣ μὲν φύει ἣ δ’ ἀπολήγε.

Grande Tidide, perché mi chiedi la stirpe?

Tale e quale la stirpe delle foglie è quella degli uomini.

Le foglie il vento fa cadere a terra, ma altre sugli alberi

in fiore ne spuntano, quando arriva la primavera;

così le stirpi degli uomini, una nasce l’altra svanisce.

Glauco e Diomede. Ricostruzione a disegno di una gemma. W.H. Roscher, Ausfürliches Lexikon der griechisches und römisches Mythologie, 1884 [www.maikar.com].

Il tertium comparationis, ovvero l’elemento che accomuna i due termini messi a confronto, è la mancanza di rapporto fra una progenie (di uomini come di foglie) e quella precedente: il legame di stirpe sembra essere qui svuotato di significato e sostituito dal sentimento di appartenenza a una medesima generazione di coetanei. Senonché, subito dopo, Glauco indugia nel racconto della storia di suo nonno Bellerofonte, ed è proprio la constatazione di un’antica amicizia fra la stirpe di Glauco e quella di Diomede a determinare la conclusione positiva dell’episodio.

Con un significato leggermente diverso l’immagine delle foglie ritorna in Il. XXI 462-466, dove, a Poseidone che gli propone di intervenire in battaglia in aiuto degli Achei, Apollo risponde:

ἐννοσίγαι’ οὐκ ἄν με σαόφρονα μυθήσαιο

ἔμμεναι, εἰ δὴ σοί γε βροτῶν ἕνεκα πτολεμίξω

δειλῶν, οἳ φύλλοισιν ἐοικότες ἄλλοτε μέν τε

ζαφλεγέες τελέθουσιν ἀρούρης καρπὸν ἔδοντες,

ἄλλοτε δὲ φθινύθουσιν ἀκήριοι.

Scuotitore della terra, tu dovresti dirmi che non son saggio,

se con te mi mettessi a combattere per far piacere ai mortali

miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano

pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi,

un’altra volta cadono privi di vita.

Il tertium comparationis è in questo caso la brevità e la caducità della vita umana, contrapposta all’immortalità degli dèi.

Poseidone e Apollo. Frammento di rilievo (particolare), marmo, V secolo a.C. dal fregio degli dèi del Partenone. Atene, Museo dell’Acropoli.jpg

Infine, il paragone tra uomini e foglie ricorre in Od. IX 51-52: i Ciconi sopraggiungono a vendicare la scorreria di Odisseo e dei suoi compagni ὅσα φύλλα καὶ ἄνθεα γίνεται ὥρῃ, / ἠέριοι («quante spuntano in primavera le foglie e i fiori, al mattino»). Qui ciò che accomuna i due elementi del confronto è la quantità, grande, e il palesarsi improvviso; le foglie sono osservate sul nascere come i nemici sopraggiungono al mattino.

La similitudine omerica ha avuto una notevole fortuna, nell’antichità e poi nella moderna letteratura europea. Tra le numerose riprese dell’immagine, quella del poeta lirico Mimnermo (VII-VI secolo a.C.) contiene una significativa innovazione rispetto al modello: mentre nel VI libro dell’Iliade il tema è quello del succedersi ininterrotto delle generazioni, nella continuità del ciclo naturale, in Mimnermo il paragone dà espressione al motivo della brevità della giovinezza, destinata a dileguarsi in fretta e a non fare mai più ritorno. Il poeta, cioè, ricorre alla similitudine non più per alludere al rinnovarsi ciclico delle stirpi, ma per connotare un’età dell’esistenza individuale, la giovinezza appunto, piacevole, ma destinata a breve durata (F 2 West², vv. 1-8):

ἡμεῖς δ’, οἷά τε φύλλα φύει πολυάνθεμος ὥρη

ἦρος, ὅτ’ αἶψ’ αὐγῇς αὔξεται ἠελίου,

τοῖς ἴκελοι πήχυιον ἐπὶ χρόνον ἄνθεσιν ἥβης

τερπόμεθα, πρὸς θεῶν εἰδότες οὔτε κακὸν

οὔτ’ ἀγαθόν· Κῆρες δὲ παρεστήκασι μέλαιναι,

ἡ μὲν ἔχουσα τέλος γήραος ἀργαλέου,

ἡ δ’ ἑτέρη θανάτοιο· μίνυνθα δὲ γίνεται ἥβης

καρπός, ὅσον τ’ ἐπὶ γῆν κίδναται ἠέλιος.

E noi, come foglie che produce la primavera ricca di germogli,

quando ai raggi del Sole crescono tutt’a un tratto –,

simili a quelle, in un cubito di tempo, dei fiori della gioventù

godiamo, senza che dagli dèi ci giunga la nozione del male

né del bene: le nere Chere ci stanno addosso ormai,

e l’una regge il termine della penosa vecchiaia,

l’altra quello della morte; per un istante appena vive il frutto

della gioventù, per quanto si spande sulla Terra il Sole.

I primi due versi rimandano al passo di Il. VI, ma la prospettiva è diversa: la voce di Mimnermo non è distaccata come quella di Glauco e non si tratta più della vanità delle genealogie e dei vanti aristocratici, ma della brevità della giovinezza e dei piaceri della vita; non più eroica accettazione, dunque, ma drammatica protesta.

Pittore Cleofrade. Simposiasta che gioca al κότταβος. Pittura vascolare sul tondo di una κύλιξ attica a figure rose, 480 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.

Il poeta lirico Simonide di Ceo (VI-V secolo a.C.) risente sia di Omero sia di Mimnermo; egli cita esplicitamente il primo, «l’uomo di Chio» (una delle località che si vantava di essere stata la patria di Omero), ma, come Mimnermo, si serve del paragone fra uomini e foglie per lamentare la brevità dell’esistenza e della giovinezza, di cui gli uomini peraltro, nutrendo speranze irrealizzabili, mostrano di non essere consapevoli (F 8 West²):

ἓν δὲ τὸ κάλλιστον Χῖος ἔειπεν ἀνήρ·

‘οἵη περ φύλλων γενεή, τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν’·

παῦροί μιν θνητῶν οὔασι δεξάμενοι

στέρνοις ἐγκατέθεντο· πάρεστι γὰρ ἐλπὶς ἑκάστῳ

ἀνδρῶν, ἥ τε νέων στήθεσιν ἐμφύεται.

θνητῶν δ’ ὄφρά τις ἄνθος ἔχῃ πολυήρατον ἥβης,

κοῦφον ἔχων θυμὸν πόλλ’ ἀτέλεστα νοεῖ·

οὔτε γὰρ ἐλπίδ’ ἔχει γηρασέμεν οὔτε θανεῖσθαι,

οὐδ’, ὑγιὴς ὅταν ᾖ, φροντίδ’ ἔχει καμάτου.

νήπιοι, οἷς ταύτῃ κεῖται νόος, οὐδὲ ἴσασιν

ὡς χρόνος ἔσθ’ ἥβης καὶ βιότου ὀλίγος

θηντοῖς. ἀλλὰ σὺ ταῦτα μαθὼν βιότου ποτὶ τέρμα

ψυχῇ τῶν ἀγαθῶν τλῆθι χαριζόμενος.

Una sola cosa, bellissima, disse l’uomo di Chio:

“Quale la stirpe delle foglie, tale quella degli uomini”.

Pochi tra i mortali, dopo aver accolto nelle orecchie

queste parole, se le impressero in cuore: in ciascuno,

infatti, innata è la speranza, che sboccia nel cuore dei giovani.

Quando qualcuno dei mortali possiede l’amabile fiore di gioventù,

con animo leggero progetta cose irrealizzabili;

né ha alcun pensiero della vecchiaia o della morte,

né, quando è sano, si preoccupa della malattia.

Sciocchi, quelli che hanno questa mentalità, e non sanno

che il tempo della giovinezza e dell’esistenza è breve

per i mortali. Ma tu che l’hai capito, al limitare della vita,

fatti forza, godendoti nell’anima i beni.

(trad. it. I. Biondi)

Statua del vecchio (forse un indovino). Marmo, 454 a.C. ca. opera del ‘Maestro di Olimpia’, dal frontone orientale del Tempio di Zeus Olimpico. Museo Archeologico di Olimpia.

Anche Virgilio riprende nell’Eneide (VI 306-310) l’immagine delle foglie che in autunno cadono a terra numerose, come termine di paragone per la condizione delle anime dei defunti che si accalcano sulla riva dell’Acheronte:

huc omnis turba ad ripas effuse ruebat,

matres atque viri defunctaque corpora vita

magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,

impositique rogis iuvenes ante ora parentum:

quam multa in silvis autumni frigore primo

lapsa cadunt folia.

Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive,

donne e uomini, i corpi privati della vita

di magnanimi eroi, fanciulli e intatte ragazze,

e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri:

quante nelle selve al primo freddo d’autunno

cadono scosse le foglie.

(trad. it. R. Calzecchi Onesti)

Maestro della Leggenda dell’Eneide, La discesa di Enea negli Inferi. Smalto dipinto su rame argentato, c. 1530-1540. Baltimora, Walters Art Museum.

Come nel passo dell’Odissea ricordato sopra, qui il tertium comparationis è la quantità (quam multa): le foglie, numerose, sono però questa volta osservate alla fine della loro stagione, non all’inizio, coerentemente con la situazione dei defunti nell’Oltretomba.

Di questo passo virgiliano si sarebbe ricordato Dante (1265-1321) nell’Inferno (III 112-117):

Come d’autunno si levan le foglie

una appresso de l’altra, fin che ’l ramo

vede a terra tutte le sue spoglie,

similemente il mal seme d’Adamo

gittansi di quel lito ad una ad una,

per cenni come augel per suo richiamo.

Le anime si gettano nella barca di Caronte come le foglie, una dietro l’altra, in ottobre cadono dal ramo; a «levan» corrisponde «gittansi», a «una appresso de l’altra» corrisponde «ad una ad una».

Michelangelo Buonarroti, Giudizio Universale. Dettaglio: I dannati sulla barca infernale. Affresco, c. 1536-1541. Cappella Sistina, Città del Vaticano.

Lorenzo de’ Medici (1449-1492) nel poemetto Corinto, ricco di reminiscenze letterarie, riprende il parallelo fra uomini e foglie: il tema è quello del rimpianto del tempo breve della giovinezza. Il pastore Corinto, proiezione autobiografica del Magnifico, effonde al lume della Luna i suoi lamenti d’amore per la giovane e bella ninfa Galatea, ritrosa a ogni suo approccio; il suo discorso si conclude con l’immagine delle rose candide e rosse, appena sbocciate nel giardino e ben presto sfiorite. Il malinconico motivo delle rose, che si vedono nascere e morire «in men d’un’ora» (v. 177), offre lo spunto per un invito a cogliere senza indugio il fiore della gioventù e della bellezza, destinato inesorabilmente ad appassire nel più breve spazio di tempo (vv. 178-183):

Quando languenti e pallidi vidi ire

le foglie a terra, allor mi venne in mente

che vana cosa è il giovenil fiorire.

Nostro solo è quel poco ch’è presente,

né il passato o il futuro è nostro tempo:

un non è più, e l’altro è ancor nïente.

Infine, Giuseppe Ungaretti (1888-1970), nella lirica Soldati, composta nel bosco di Courton, in Francia, sul limitare della Grande guerra (nel luglio 1918), attraverso la similitudine uomini-foglie, resa in forma epigrammatica, sottolinea, come già Mimnermo, la fragilità della condizione umana, accentuata in questo caso dalla drammatica esperienza bellica:

Soldati

Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie

Il titolo, Soldati, è il primo termine del paragone che viene svolto nei quattro versi del testo; il tertium comparationis è il modo di stare, precario: quello dei soldati in attesa del distacco definitivo e inevitabile della vita e quello delle foglie in autunno, quando un soffio di vento basta per farle cadere.

***

Riferimenti bibliografici:

M. Barbi, Per due similitudini dell’Inferno, SD 11 (1927), 121-128.

B. Maier, Lorenzo de’ Medici, in W. Binni (ed.), Da Dante al Tasso, I, Firenze 1954, 257-276.

G. Regoliosi, Il tertium comparationis fra uomini e foglie, Zetesis 1 (1994) [www.rivistazetesis.it].

Ate (Ἄτη) nell’Iliade

Eric Robertson Dodds analizza il concetto di ate, definendola «tentazione o infatuazione divina»; a causa dell’ate mandatagli da Zeus, Agamennone si rifece della perdita di Criseide, portando via ad Achille Briseide. Ate designa la sventura che si abbatte sull’uomo, ma anche l’accecamento che induce l’individuo in errore. Per gli antichi Greci l’uomo è infatti sotto l’influenza di forze superiori, che oscurano il suo giudizio tanto da spingerlo a commettere azioni che in condizioni normali condannerebbe. Pertanto, egli è per un certo verso colpevole ma per un altro vittima di uno sventurato destino.

Pittore di Dario. I funerali di Patroclo. Dettaglio: la libagione di Agamennone sulla pira funebre. Pittura vascolare a figure rosse su un cratere apulo, c. 330 a.C.

“Cominciamo con il considerare la tentazione o infatuazione divina (ἄτη) che indusse Agamennone a rifarsi della perdita della propria concubina, portando via ad Achille la sua. «Ma il colpevole non sono io – dichiarava più tardi –, bensì Zeus e la Moira e l’Erinni che vaga nelle tenebre, che cieca follia (ἄτη) m’ispirarono nell’assemblea, quel giorno in cui strappai ad Achille il suo premio, arbitrariamente. Ma che potevo fare? È un dio che manda a effetto tutte le cose!» (Il. XIX 86-90). Dall’impaziente lettore moderno queste parole di Agamennone sono state talvolta troppo frettolosamente liquidate come debole pretesto per sottrarsi alle proprie responsabilità; non però, credo, da chi legga con attenzione. Evasione di responsabilità, in senso giuridico, sicuramente non c’è, poiché alla fine del suo discorso Agamennone offre un indennizzo così motivato: «Non potevo scordarmi di Ate, che all’inizio m’aveva accecato! Ma dato che fui accecato e il senno mi tolse Zeus, in cambio voglio placarti e darti compensi infiniti» (Il. XIX 136-138). Se avesse agito di volontà propria, non avrebbe tanto facilmente riconosciuto il suo torto; così come stanno le cose, pagherà per le sue azioni. Dal punto di vista giuridico, la sua posizione sarebbe stata la stessa nell’un caso e nell’altro, perché la giustizia greca primitiva non tiene conto dell’intenzione: solo dell’azione importa. Né Agamennone inventa, poco onestamente, un alibi morale; infatti, la vittima stessa della sua azione vede le cose allo stesso modo: «Padre Zeus, tu ispiri agli uomini grandi follie (ἄται): altrimenti mai l’Atride m’avrebbe sconvolto del tutto il cuore nel petto, né avrebbe preso implacabile contro la mia volontà la ragazza» (Il. XIX 270-273). Credete forse che Achille, con molto tatto, accetti una finzione allo scopo di salvare la faccia al Gran Re? Non è così: già nel libro I, spiegando il caso a Teti, Achille parlava della condotta di Agamennone come della sua ἄτη (Il. I 412), e nel libro IX esclamava: «Ma se ne vada tranquillo in malora: infatti, il prudente Zeus gli ha tolto il senno!» (Il. IX 376-377). Come si vede, questo è il punto di vista di Achille, non meno che di Agamennone, e le famose parole che preludono il racconto dell’ira, «compiendosi il volere di Zeus» (Il. I 5), lasciano chiaramente intendere che il poeta era della stessa opinione. Se questo fosse il solo episodio così singolarmente interpretato dai personaggi di Omero, potremmo avere dei dubbi circa le intenzioni del poeta: sospettarlo, per esempio, di voler conservare ad Agamennone, almeno in parte, le simpatie degli ascoltatori, o di voler conferire un senso più profondo della lite poco dignitosa dei due capi, presentandola come una mossa nell’attuazione di un disegno divino. Queste spiegazioni non valgono però per altri passi, dov’è detto che «gli dèi» o «qualche dio», o Zeus, hanno momentaneamente «portato via» o «distrutto» o «ammaliato» il senno di un essere umano”.

da E.R. Dodds, I greci e l’irrazionale, Firenze 1959, 3-5.