ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
cfr. Platone, Simposio, introd. di V. DI BENEDETTO, trad. di F. FERRARI, Milano 1997, 67-73.
Il Simposio, composto da Platone intorno al 380 a.C., verso i cinquant’anni, si apre con una scena in cui ad Apollodoro, che ha incontrato Glaucone (fratello del filosofo) e altri amici, viene richiesto di raccontare dell’incontro svoltosi in casa di Agatone, in occasione della vittoria di questo poeta negli agoni tragici delle Lenee del 416. Apollodoro dichiara di poter esaudire la richiesta dell’amico, in quanto ha udito il racconto di quella riunione da un certo Aristodemo, un ammiratore di Socrate, che vi aveva preso parte personalmente insieme al maestro. Aristodemo aveva infatti incontrato Socrate per via, mentre questi si stava recando da Agatone e il maestro lo aveva persuaso a seguirlo laggiù. L’esordio dell’opera, costruito letteralmente “a incastro”, ha l’andamento di un grande racconto che riguarda il passato recente, ma considerato già mitico dall’autore; la drammatizzazione degli incontri tra amici è caratteristico di diversi dialoghi platonici.
Pittore di Castelgiorgio. Dialogo fra due giovani. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, 500-480 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.
Dopo la cena, Pausania, il retore, propone a tutti di bere con moderazione, evitando ogni eccesso dopo le bevute del giorno prima, durante i festeggiamenti di Agatone. Allora Erissimaco, il medico, suggerisce di trascorrere la serata tessendo a turno le lodi di Amore: Socrate, che aveva raggiunto l’incontro appena in tempo, e gli altri convitati approvano (Symp. 176a-178a). Il primo a parlare è il giovane Fedro, amasio (ἐρόμενος) di Erissimaco e appassionato della retorica sofistica: egli sostiene che Amore è il più antico fra gli dèi e ha elargito agli uomini i più splendidi favori, in quanto l’innamorato (ἐραστής) desidera distinguersi agli occhi dell’amato (ἐρόμενος). Così il dio instilla coraggio e spirito di sacrifico, come dimostrano i casi di Alcesti per Admeto e di Achille per Patroclo (Symp. 178a-180b). Tutto l’intervento di Fedro si muove secondo le linee degli encomi tradizionali, facendo assiduamente ricorso a exempla mitici e sottolineando il tema dell’utilità del dio, specialmente dal punto di vista sociale, comunitario.
Secondo a parlare è Pausania, per il quale non esiste un unico Amore, ma ve ne sono due, così come due sono le Afroditi corrispondenti, una celeste (Οὐράνια) e un’altra volgare (Πάνδημος). Qualsiasi umana azione di per sé non è buona né cattiva, ma merita lode solo se è compiuta con intenzioni oneste. L’Amore è caduto in discredito per l’uso volgare che molti ne fanno, mirando solo al corpo della persona amata. In alcune regioni della Grecia le relazioni omoerotiche sono consentite, in altre condannate. Il costume ateniese invece è ambiguo, in quanto l’amante viene incoraggiato, seppure, al contempo, ostacolato nei suoi tentativi di conquista, e l’amato viene biasimato nel momento in cui cede alle richieste dell’amante. Questa ambiguità è dovuta al desiderio di distinguere fra l’amante che ricerca e desidera soltanto il corpo e l’amante che invece aspira all’anima in vista di un rapporto duraturo. Solo se l’intenzione è onesta sia nell’amante che nell’amato, il comportamento omosessuale risulta lecito (Symp. 180c-185c). L’intervento del retore è tutto giocato su una serie di distinzioni che ruotano attorno alla fondamentale opposizione fra amore buono e amore cattivo, nonché fra orientamento eterosessuale e omosessuale: di quest’ultimo Pausania è fervente apologeta, come mostra nei fatti la relazione con Agatone. Che l’ἔρος sia precipuamente omoerotico (esclusivamente tra persone di sesso maschile) e che la donna si collochi in una posizione di manifesta marginalità è presentato nel Simposio, come dato ovvio e aproblematico.
Pittore Pistosseno. Afrodite sul cigno. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse su sfondo bianco, 460 a.C. ca. dalla Tomba F43 di Camiro (Rodi)
La teorizzazione più esplicita della superiorità dell’amore omosessuale (tra maschi) rispetto a quello eterosessuale – di quello omosessuale tra donne non se ne parla nemmeno – è appunto esposta proprio da Pausania; nella sua distinzione tra due diversi Amore e due diverse Afroditi, l’amore proprio della Πάνδημος è sia omosessuale che eterosessuale, mentre quello della Οὐράνια è specificamente omosessuale. Quest’ultimo è rapporto esclusivo tra uomini e ciò si basa sull’assunto che i maschi siano più forti e più intelligenti (nel senso che possiedono più νοῦν, «pensiero», «intelletto») dell’altro sesso: e chi ama un ragazzo attende l’età in cui incomincia a svilupparsi il suo νοῦν. Quindi, la distinzione tra i due tipi di Amore è fatta non solo sulla base della specializzazione omosessuale maschile dell’amore di Afrodite Οὐράνια, ma anche sulla base di una qualità diversa di amore, nel senso che chi ama di un amore volgare mira alla mera soddisfazione immediata di un impulso, mentre l’altro tipo di amore si propone una comunanza di vita, d’intenti e di ideali. Coerentemente al suo modo di argomentare, è il fatto che, ancor prima che si incominci la discussione, proprio Pausania non solo ha proposto di congedare la flautista (che, tra l’altro, era di condizioni servili), ma ha pure suggerito agli amici di invitarla ad andare a suonare alle donne della casa di Agatone. L’assunto fondamentale del discorso di Pausania per ciò che concerne una posizione di emarginazione della donna è fatto proprio da tutti gli altri partecipanti del convito e appare come un dato assolutamente ovvio, che non viene nemmeno posto in discussione. Ciò, insomma, nel Simposio non è nulla di nuovo; la grossa novità dell’opera, piuttosto, rispetto alla vita reale è l’invito a imparare a contenere i propri impulsi sessuali.
Ora sarebbe la volta di Aristofane, il poeta comico, che però è improvvisamente assalito dal singhiozzo. Interviene allora Erissimaco, che dottamente gli illustra il modo per liberarsene (Symp. 185c-e). In attesa che l’amico plachi il singhiozzo che lo tormenta, il suo posto è preso dallo stesso medico, che svolge la propria tesi partendo dall’osservazione che due tipi di Amore si manifestano in tutti i fenomeni naturali. In particolare – spiega –, nella pratica medica occorre compiacere ciò che nel corpo è sano e combattere ciò che è malato, facendo sì che i contrari (caldo/freddo, secco/umido) si attraggano reciprocamente, secondo una temperata armonia, così come nella musica l’artista deve produrre accordo fra l’acuto e il grave, suscitando amore e consenso fra di essi. Anche nella sfera meteorologica la condizione ottimale è raggiunta allorché vengono conciliate le opposte tendenze climatiche. Infine, nel campo della mantica e in ogni altra relazione tra uomini e dèi, instaurare armonia e comunicazione fra le due dimensioni significa favorire le inclinazioni amorose che nell’uomo tendono al lecito e alla verecondia; per converso, l’empietà scaturisce dal mancato assecondamento dell’amore continente (Symp. 185e-188e).
Pittore Epitteto. Scena di corteggiamento omoerotico. Pittura vascolare da una κύλιξ attica a figure rosse, 520 a.C. ca. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
È caratteristico dell’orientamento mentale di Erissimaco il proporre una trattazione dell’eros al di là della sua connotazione specifica, in un tentativo sistematico di correlare sfere diverse dell’attività umana e dei fenomeni naturali muovendo dalla teoria dei contrari, che risaliva alla scienza ionica della natura del VI e del V secolo. È probabile che Platone «componesse questo discorso per ridicolizzare la tendenza di alcuni scienziati a formulare leggi eccessivamente generali che governerebbero i fenomeni dell’universo. Gli scrittori di medicina talvolta criticano queste generalizzazioni (p. es., Hp. vet. med. 13-16; vict. II 39), ma nondimeno talvolta vi fanno ricorso (p. es., Hp. vict. I 3-10; cfr. flat. 1-5). Nella misura in cui Erissimaco rompe con una trattazione dell’ἔρος come aspetto della sessualità umana, il suo discorso può essere considerato come un’anticipazione della trattazione offerta da Diotima dell’ἔρος in quanto viaggio a tentoni alla ricerca del Bene assoluto; ma il suo dualismo, che attribuisce un ἔρος positivamente cattivo all’ordine della natura, è estraneo alle speculazioni metafisiche di Diotima» (Dover).
Riavutosi dal singhiozzo, Aristofane prende finalmente la parola, ricostruendo una singolare storia dell’umanità: in origine gli esseri umani avevano quattro mani e quattro gambe, e due apparati genitali; e i generi erano tre, quello maschile, quello femminile e l’androgino. Questi esseri erano creature superbe e tentarono di dare la scalata al cielo per assalire gli dèi e spodestarli. Allora, per indebolirli e ricondurli all’ordine, Zeus li divise ciascuno in due metà, come le sogliole. Perciò, da quel momento ciascun essere umano cerca la propria “metà” perduta, e precisamente a questa ricerca dell’intero si dà nome di “amore” (Symp. 189a-193d).
Il discorso del commediografo riecheggia burlescamente e, ricorrendo a immagini che trovano talora riscontro nelle sue stesse commedie, le teorie dell’origine e il progresso del genere umano tanto in voga nel V secolo (cfr. Aesch. Prom. 436 ss.; Mosch. F 6 Nauck2; Emped. B 57-62 Diels-Kranz; Plat. Prot. 320c ss.). Ma la specificità dell’intervento di Aristofane sta soprattutto nel mettere la relazione erotica fra due esseri umani come fine in sé piuttosto che come mezzo o momento in vista di uno scopo diverso e superiore.
Dopo un intermezzo scherzoso fra Socrate e Agatone, interrotto da Fedro, Agatone stesso dichiara che Amore è il più beato, il più bello e il più giovane fra gli dèi. Da quando egli è nato, è cessata ogni discordia fra gli immortali. Amore è tenero, giusto, temperante, sapiente e ingenera negli uomini consimili virtù (Symp. 193d-197e). L’esposizione del giovane tragico procede per agglutinazioni successive e si espande in una fuga di determinazioni articolate secondo le norme della retorica gorgiana. Più che un contributo filosofico, il suo discorso si profila – anche intenzionalmente: «Sia dedicato da me al dio questo discorso, ben temperato, per quanto stia in me, a tratti di scherzo (παιδιά) a tratti di serietà misurata» – come un’efflorescenza di immagini eleganti, impreziosite dalla disposizione dei membri sintattici, che arieggiano le sequenze della lirica dei cori e delle monodie tragiche.
Pittore Duride. Giovanetto con leprotto in grembo. Pittura vascolare da una κύλιξ a figure rosse, 500-460 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Segue un ἔλεγχος, una confutazione ironica, attraverso cui Socrate costringe Agatone ad ammettere di «non aver capito niente di ciò che ha detto prima». Allora il maestro si accinge a riferire il discorso che avrebbe udito un giorno da Diotima, una sacerdotessa di Mantinea, che lo ammaestrò nelle cose d’amore. Amore – disse la donna – non è né bello né brutto, né buono né cattivo, né immortale né mortale, ma è intermedio fra questi opposti. Egli è nato da Povertà (Πενία) e da Espediente (Πόρος): pertanto, è povero ma ricco d’ingegno e di risorse. Chi ama ciò che è bello desidera che esso gli appartenga per sempre. Tutti gli esseri umani sono fecondi e aspirano a riprodursi. Il bello stimola, quindi, la generazione, il brutto la inibisce. Attraverso la generazione i mortali conseguono una forma di immortalità: dunque, amore è aspirazione a unirsi e a riprodursi. E la generazione si realizza non solo nella sfera del corpo e dei sensi, ma anche in quella dell’anima, dove pensieri e conoscenze vengono continuamente rinnovati. Gli esseri fertili nel corpo generano figli in carne e ossa, quelli fertili nell’anima generano conoscenza, arte e leggi. Dall’amore per la bellezza di un corpo l’amante passa a desiderare la bellezza che si manifesta in tutti i corpi belli, e poi in tutte le istituzioni e in tutte le scienze, finché non raggiungerà la contemplazione del Bello assoluto, immutabile e imperituro (Symp. 198a-212c). Il discorso della sacerdotessa – in realtà, di Platone, anche se non si può negare con certezza l’esistenza storica di Diotima – presuppone la teoria delle idee, in quanto (attraverso un processo di graduale astrazione, e in parte utilizzando il linguaggio proprio delle iniziazioni misteriche) esso tende a configurare un καλόν che sfugge a qualsiasi determinazione concreta e si identifica con il bene in sé.
Non appena Socrate termina il suo intervento, alla porta si sente bussare e fa il suo ingresso tumultuoso Alcibiade ubriaco fradicio. Dopo un battibecco scintillante di humour con Socrate e il padrone di casa, Alcibiade dichiara di voler tessere le lodi non già di Amore ma del proprio maestro e amante Socrate. Questi potrebbe essere paragonato nell’aspetto (naso camuso e occhi sporgenti) a un satiro o a un sileno; ma le sue parole producono un effetto prodigioso. Quand’era adolescente, Alcibiade cercò di sedurlo, ma Socrate resistette a qualsiasi assalto. Nella campagna militare di Potidea, il maestro aveva dimostrato un’incredibile resistenza ai disagi e un grande coraggio durante la ritirata ateniese: nessuno è simile a Socrate (Symp. 212c-222b).
Busto di Socrate. Marmo, copia romana da originale greco del IV secolo a.C. dalla Villa dei Quintilii sulla Via Appia. Città del Vaticano, Musei Vaticani – Museo Pio Clementino.
Nella forma di encomio, Alcibiade offre un magistrale ritratto della figura del maestro, e dell’effetto quasi incantatorio che le sue parole sono solite produrre in chi lo ascolta. Poiché al tempo della composizione del dialogo Alcibiade era naturalmente ricordato come traditore di Atene, e la fama di Socrate risultava oscurata dall’esser stato maestro di un simile discepolo, è significativo che Platone faccia dire ad Alcibiade di non aver seguito gli insegnamenti socratici, trascurando se stesso per inseguire il successo e gli onori politici.
Un’altra folla di comasti gaudenti fa irruzione in casa di Agatone. Allora, alcuni convitati se ne vanno. Restano solo il padrone di casa, Aristofane e Socrate, che trascorrono il resto della notte conversando. Alla fine, tutti si addormentano, tranne il maestro, che si reca prima al Liceo e soltanto a notte inoltrata torna a casa a riposarsi (Symp. 222c-223d).
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“… e quelli che[1] di Priamo Dardanide[2] la grande cittadella illustrissima opulenta distrussero, scagliandosi da Argo[3], secondo il volere del grande Zeus[4], per l’aspetto di Elena bionda, con lotta da molti cantata[5], nella lacrimevole guerra[6]. Salì la martoriata Pergamo la rovina[7], per via di Cipride dai capelli d’oro.
Ora, io però né Paride traditore degli ospiti desidero cantare e nemmeno Cassandra dalle lunghe caviglie e gli altri figliuoli di Priamo, e di Troia dagli alti portali il dì predace a cui non si dà nome[8], … il valore superbo degli eroi, e coloro che le concave, ben chiodate navi condussero a Troia, sventura, eroi prodi; ne era il signore Agamennone Plistenide al comando, re condottiero d’uomini[9], figlio della famiglia di Atreo prode. Son cose che le Muse istruite saprebbero ben passare in racconto, le figlie di Elicone[10]; ma non può dire un uomo mortale, pur vivo (…) i dettagli, quanto grande fu il numero di navi che da Aulide[11] per il mar Egeo, a partire da Argo, arrivarono a Troia che nutre i cavalli, coi forti figli degli Achei, dal bronzeo scudo; tra loro il migliore di lancia… il piè veloce Achille e il grande Telamonio[12] Aiace ardimentoso…; … il più bello da Argo… Cianippo verso Ilio… intrecciata d’oro Illide[13] generò, al quale, invero, Troilo, come l’oro tre volte bollito all’oricalco, ormai i Troiani e i Danai per forma amabile rassomigliavano. Con loro per sempre anche tu di bellezza, o Policrate, fama immortale avrai, come anche la mia fama, per il canto”.
𝐾𝑜𝑢𝑟𝑜𝑠 di Reggio (o Efebo di Reggio). Statua, marmo pario, VI sec. a.C. Reggio Calabria, Museo Archeologico della Magna Grecia
Un papiro scoperto nel 1922 e redatto nel 130 a.C. (𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 1790 + 2081f) da uno scriba competente – capace di riconoscere i 𝑐𝑜𝑙𝑎 metrici già individuati per i lirici da Aristofane di Bisanzio (III-II secolo a.C.) e le forme doriche, e di precisare l’accentuazione e la prosodia dei termini meno conosciuti – ha restituito i 48 versi finali (lo attesta con certezza un segno posto in margine all’ultimo verso), articolati in tre triadi (strofe, antistrofe ed epodo) e mezza (forse l’intero componimento, privo della strofe iniziale, o al più di una triade e una strofe) e caratterizzati da un ritmo dattilico (per lo più pentametri dattilici, ℎ𝑒𝑚𝑖𝑒𝑝𝑒, enopli), dell’encomio che Ibico dedicò alla straordinaria bellezza di un giovane Policrate: che si trattasse del futuro tiranno (che regnò su Samo fra il 533 e il 522 a.C.), quando ancora apparteneva alla 𝑗𝑒𝑢𝑛𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑑𝑜𝑟𝑒́𝑒 dell’isola, ovvero del suo omonimo figlio, di cui fu poi precettore Anacreonte (cfr. 𝑃𝑀𝐺 491), dipende in definitiva dalla controversa cronologia di Ibico (𝑃𝑀𝐺𝐹 TA 1-2) e non può essere stabilito con sicurezza; certa è invece l’eroizzazione del giovane sottesa all’encomio, che unisce il passo mitico (vv. 1-45) e realtà presente (vv. 46-48) in un unico tempo, signoreggiato da Afrodite (v. 9) e dalla bellezza (v. 46), ed eternato dal potere del canto poetico (vv. 47 s.).
Come anche altrove (per es., 𝑃𝑀𝐺𝐹 289a, dove il giovane Gorgia è paragonato a Ganimede e a Titonoo, rapiti per la loro bellezza da Zeus e da Aurora), Ibico costruisce su illustri 𝑒𝑥𝑒𝑚𝑝𝑙𝑎 mitici le basi del proprio encomio. E come Saffo era ricorsa al tradimento di Elena e alla guerra di Troia per cantare congiuntamente la potenza di Afrodite e la bellezza di Anattoria (fr. 16 V.), così anche Ibico si richiama al più celebre dei miti greci per celebrare la forza irresistibile di Cipride e l’immortale fascino di Policrate. Dopo una probabile invocazione proemiale (contenuta nella strofe o nella triade + strofe perduta), il poeta passava a narrare come gli Achei, «slanciandosi da Argo» (v. 3; cfr. 𝐼𝑙. II 559; il verbo è omerico e l’integrazione di Hunt assai verosimile), distrussero «la grande cittadella illustrissima opulenta» (vv. 1-2; il cumulo di aggettivi a incorniciare il sostantivo è tipico dello stile ibiceo: cfr. vv. 14-15, 16-17, 34, 44-45, 𝑃𝑀𝐺𝐹 286, 5-6, 11, 287, 6) di Priamo, figlio di Dardano (v. 1; anche l’uso di patronimici è frequente in Ibico; cfr. vv. 21, 34; 𝑃𝑀𝐺𝐹 S166, 15): furono la volontà di Zeus (v. 4, con la probabile integrazione di Hunt), secondo il dettato dei 𝐶𝑎𝑛𝑡𝑖 𝐶𝑖𝑝𝑟𝑖 (fr. 1, 7 West), e l’aspetto della bionda Elena (v. 5 ξα]ν̣θᾶς Ἑλένας περὶ εἴδει: Elena è bionda anche in Sᴀᴘᴘʜ. fr. 23, 5 V. e in Sᴛᴇsɪᴄʜ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S103, 5) a causare quella lotta che ispirò tanti canti (v. 6 πολύυμνον: l’aggettivo è in 𝐻. 𝐻𝑜𝑚. 26, 7, detto di Dioniso, e in Pɪɴᴅ. 𝑁. 2, 5, detto del «bosco di Zeus»), quella guerra lacrimevole (v. 7 πό]λ̣εμον̣ κ̣ατὰ δ̣ακρυ̣[ό]εντα: per la clausola, cfr. 𝐼𝑙. XVII 512), quando la «rovina» (v. 8 [ἄ]τ̣α) salì la «martoriata» (ταλαπείριο̣[ν: cfr. 𝑂𝑑. VI 193, XIV 511, XVII 84) Pergamo per colpa di un’altra, ancor più potente «bionda» (l’epiteto χρυσοέθειρ era già in Aʀᴄʜɪʟ. fr. 323 W.²): Cipride (v. 9).
Le lacrime, come le guerre, non si addicono all’εὐφροσύνη del simposio. Per questo Ibico inizia una lunga 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑡𝑒𝑟𝑖𝑡𝑖𝑜 (vv. 10-45), che gli consente di sorvolare (vv. 10-11 νῦ]ν̣ δέ μοι οὔτε … /..] ἐπιθύμιον, «ora, io però né […] desidero»: per la movenza cfr. Aʟᴄ. fr. 308, 1-2 V., in un contesto innodico) – pur protraendo la narrazione per altre due triadi e mezza – sulle nefandezze di Paride «traditore degli ospiti» (v. 10 ξειναπάτ̣α̣ν: cfr. Aʟᴄ. fr. 283, 5 V.), su Cassandra dalle caviglie lunghe e sottili (v. 11 τανί[σ]φ̣υρ[ον: cfr. Hᴇs. 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑔. 364, delle Oceanine, τανύσφυροι Ὠκεανῖναι, e Sᴀᴘᴘʜ. fr. 44, 15 V. παρθενίκα[ν] τ..[..].σφύρων), e ancora sul «dì predace e a cui non si dà nome di Troia dagli alti portali» (la fiorita formula contamina Sᴛᴇsɪᴄʜ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S89, 11, Τρο‹ΐ›ας ἁλώσι̣[μον ἆμαρ «il dì predace di Troia dagli ampi spazi», con l’aggettivo omerico ὑψίπυλος, riferito a Troia in 𝐼𝑙. XVI 698, XXI 544; quanto «a cui non si dà nome», cfr. Pɪɴᴅ. 𝑃. 1, 82), sul «valore superbo» (ὑπ]εράφανον: cfr. 𝐼𝑙. XI 694, Hᴇs. 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑔. 149, Sᴏʟ. fr. 4, 36 W.²) degli eroi e sulle «concave ben chiodate navi» (vv. 17-18 κοίλα̣[ι / νᾶες] πολυγόμφοι̣: ancora un nesso plurideterminato, che contamina 𝐼𝑙. I 20 «presso le concave navi», e Hᴇs. 𝑂𝑝. 660, νηῶν … πολυγόμφων, «di navi ben chiodate») che li condussero come una sventura a Troia (v. 19). E qui, il poeta si concede un erudito 𝑒𝑥𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠 di ben due versi (e di sapore quasi pre-alessandrino) sulla complessa e discussa genealogia del capo di quel manipolo di «eroi prodi» (v. 19): «il signore Agamennone Plistenide, re condottiero d’uomini, figlio della famiglia d’Atreo prode» (vv. 20-22), con la sua sovrabbondanza, tipicamente ibicea, di determinazioni, rappresenta una sorta di sfumato compromesso tra l’albero genealogico omerico (per cui Agamennone e Menelao erano figli di Atreo, a sua volta figlio di Plistene: cfr. 𝐼𝑙. II 576-577, su cui sono chiaramente rifatti i vv. 20-22) e quello dorico-occidentale (per cui Plistene era figlio di Atreo e padre di Agamennone: cfr. per es. Hᴇs. frr. 194-195 M.-W. = 137-138 Most, Sᴛᴇsɪᴄʜ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 219).
L’𝑒𝑥𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠 richiede una nuova giustificazione, che puntualmente arriva ai vv. 23-26, e offre il destro per altri 20 versi di 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑡𝑒𝑟𝑖𝑡𝑖𝑜. Le Muse, «esperte» (v. 23 σεσοφ̣ι̣[σ]μ̣έναι: il participio era già in Hᴇs. 𝑂𝑝. 649), «Eliconidi», saprebbero «ben passare in racconto» (v. 24 εὖ… ἐμβαίεν λόγῳ, ma il testo è incerto metricamente) queste vicende, a differenza di un «uomo mortale» (v. 25 θνατ[ὸ]ς… ἀνὴρ, a incorniciare il verso) che, per quanto «vivo» (v. 26 διερός, il cui senso è quello di «sveglio», «abile», ma il termine riprende ironicamente il precedente «mortale»), non potrebbe registrare ogni dettaglio (v. 26): per esempio – e la narrazione può continuare – quante navi, attraverso il mar Egeo, «da Aulide» (v. 27), anzi «da Argo» (la clausola del v. 28 corregge quella del verso precedente e riprende probabilmente l’𝑖𝑛𝑐𝑖𝑝𝑖𝑡 del v. 3 Ἄργ]ο̣θεν), giunsero a Troia «che nutre i cavalli» (v. 30 ἱπποτρόφο̣[ν: in Hᴇs. 𝑂𝑝. 507 l’epiteto qualifica la Tracia, διὰ Θρῄκης ἱπποτρόφου, in Pɪɴᴅ. 𝑁. 10, 41-42 Corinto), piene di «forti» (φώτ̣ες, qui con l’accento dorico, è sostanzialmente sinonimo di «eroi»), «figli di Achei» (v. 31: 40 volte in clausola nei poemi omerici) «dal bronzeo scudo» (χ]αλκάσπι̣[δες: l’epiteto parrebbe una neoformazione, e piacerà a Pindaro, che lo riuserà almeno tre volte), il migliore dei quali, almeno quanto alla lancia, fu «il piè veloce Achille» (30 volte in clausola nell’𝐼𝑙𝑖𝑎𝑑𝑒), topicamente seguito a ruota dal «grande Telamonio Aiace ardimentoso» (v. 34: nuova ipertrofica contaminazione delle formule omeriche «grande Aiace Telamonio» [per es., 𝐼𝑙. V 610] e «Telamonio Aiace ardimentoso» [cfr. 𝐼𝑙. XII 349 e 362]).
Insomma, l’ode appare come un esempio estremo di una tendenza caratteristica della lirica arcaica, quella a costruire interi componimenti tramite l’espansione di un determinato modulo compositivo: qui si tratta dello schema della 𝑟𝑒𝑐𝑢𝑠𝑎𝑡𝑖𝑜, per cui il rifiuto a cantare un determinato tema viene sfruttato come elemento compositivo (secondo la terminologia inaugurata dall’americano Elroy Bundy, come 𝑓𝑜𝑖𝑙, che è la “foglia” o lamina di metallo posta sotto una pietra preziosa al fine di valorizzarla) per far risaltare ciò che invece sta a cuore al poeta. Egli dichiara che solo le Muse, nella loro venerabile onniscienza, sarebbero in grado di affrontare per intero l’immenso e ponderoso tema delle lodi degli eroi; un mortale non ci riuscirebbe mai in modo adeguato, a causai dei limiti stessi della propria natura. E poiché il poeta è ben consapevole di ciò, preferisce abbreviare la trattazione del tema eroico, per passare subito a ciò che gli è più congeniale e che più vivamente lo ispira: la lode di Policrate.
Così, ai vv. 35-40, assai lacunosi, il racconto mitico tornava circolarmente alla bellezza: stando a un commento marginale sul papiro, era qui nominato il bellissimo giovinetto argivo Cianippo (figlio o nipote di Adrasto), ignoto all’𝐼𝑙𝑖𝑎𝑑𝑒 (dove il più bello dopo Achille è Nireo di Sime: cfr. II 673-674), ma conosciuto a fonti posteriori (cfr., per es., Ps.-Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. I 9, 13, Pᴀᴜs. II 18, 4-5; 30, 10), subito seguito (ai vv. 40-41) dal figlio della ninfa Illide, Zeuxippo (cfr., per es., Pᴀᴜs. II 6, 7), che gli eserciti contrapposti dei Troiani e dei Danai (v. 44) paragonavano concordemente a Troilo, il 𝑏𝑒𝑛𝑗𝑎𝑚𝑖𝑛 di Priamo ed Ecuba (cfr. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S224, 4, 9, 16, e già 𝐼𝑙. XXIV 257, 𝐶𝑦𝑝𝑟. fr. 25 West), come l’oro «tre volte bollito» (vv. 42-43) all’oricalco (una lega di rame e di zinco, accostata all’oro sin da 𝐻. 𝐻𝑜𝑚. 6, 9, in cui gli orecchini di Afrodite sono detti ἄνθεμ’ ὀρειχάλκου χρυσοῖό τε τιμήεντος, «fiori d’oricalco e d’oro prezioso»).
L’elogio del giovinetto Policrate, che concludeva il carme, si saldava naturalmente alla celebrazione degli affascinanti παῖδες καλοί dell’𝑒́𝑝𝑜𝑠: snodo logico del passaggio dal mito all’attualità, la «bellezza» (v. 46 κάλλος) include di diritto Policrate – verosimilmente presente all’esecuzione materiale del canto, di cui pure si ignorano tutte le modalità, a cominciare dalla dubbia presenza di un amplificante Coro – nella nobile schiera (v. 46 τοῖς μὲν πέδα), e gli conferisce «gloria perenne e immortale» (vv. 46-47 αἰὲν / … κλέος ἄφθιτον: cfr. per es. 𝐼𝑙. IX 413, Hᴇs. fr. 70, 5 M.-W. = 41, 5 Most, ma anche in Sᴀᴘᴘʜ. fr. 44, 4 V., e in 𝐶𝑜𝑟𝑝𝑢𝑠 𝑒𝑝𝑖𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑐𝑢𝑚 𝐺𝑟𝑎𝑒𝑐𝑢𝑚 [Hansen] 344, 2), come immortale (ma il poeta dice soltanto un più pudico «come», al v. 48), proprio in virtù del canto (κατ’ ἀοιδὰν), sarà anche la fama del cantore che dice «io» (ἐμὸν κλέος). Un concetto che, con Sᴀᴘᴘʜ. fr. 55 V., Tʜᴇᴏɢɴ. 237-254, e Bᴀᴄᴄʜ. 3, 90-98, rappresenta una delle più vivide formulazioni del potere che la parola ha di dare «fama sonora» (κλέος appunto) e di eternare l’eccellenza che lo merita: 𝑛𝑜𝑛 𝑜𝑚𝑛𝑖𝑠 𝑚𝑜𝑟𝑖𝑎𝑟… (Hᴏʀ. 𝐶𝑎𝑟𝑚. III 30, 6). Di conseguenza, Policrate potrà essere accomunato ai grandi eroi, e soprattutto agli eroi più belli, della guerra troiana.
[1] Al principio è andata perduta la prima strofe oppure una triade più una strofe.
[2] Dardano, figlio di Zeus e nativo – a seconda delle varie tradizioni – di Samotracia odell’Arcadia o di Creta, aveva fondato alle falde dell’Ida il primo nucleo della futura Troia.
[3] Qui Argo, in origine nomecomune con il valore di «pianura», designa verosimilmente, come già in 𝑂𝑑. I 344, IV 726, l’intero Peloponneso; dalla città di Argo provenivaspecificamente Diomede, mentre Agamennone era di Micene.
[4] Forse con riferimento, come si raccontava nei𝐶𝑎𝑛𝑡𝑖 𝐶𝑖𝑝𝑟𝑖, al progetto di Zeus di alleggerire la terra dal peso eccessivo degli uomini, ma il nesso Διὸς βουλή è omerico, cfr. 𝐼𝑙. I 5.
[5] Allusione al successo rapsodico della saga troiana.
[6] Calco di 𝐼𝑙. XVII 512 πόλεμον κάτα δακρυόεντα.
[7] Per l’immagine, cfr. Sᴏᴘʜ. 𝑂𝐵 876, dove si dice della ℎ𝑦𝑏𝑟𝑖𝑠 ἀκ ἀκρότατα γεῖσ’ ἀναβᾶσα, «salita al sommo dei cornicioni»
[8] Per l’estensione di senso, cfr. Pɪɴᴅ. 𝑂. I, 82-83 ἀνώνυμον / γῆρας.
[10] cfr. Hᴇs. 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑔. 1 Mουσάων Ἑλικωνιάδων ἀρχώμεθ᾽ ἀείδειν, 𝑂𝑝. 658; l’Elicone è il monte della Beozia, dove il culto delle Muse sarebbe stato portato dai Traci che abitavano intorno all’Olimpo.
[11] La località sullo stretto dell’Euripo, fra Beozia ed Eubea, ove, secondo la tradizione, si radunò il contingente greco diretto a Troia.
[12] Nato da Eaco e da Endeide e fratello di Peleo, Telamone si era stabilito a Salamina dopo l’assassinio del fratellastro Foco e aveva partecipato alla spedizione a Troia contro Laomedonte.
[13] Sedotta da Apollo, Illide generò Zeuxippo, ribattezzato in seguito Cianippo per la sua bellezza, che regnava a Sicione al momento della partenza della spedizione achea.
di CONTE G.B., PIANEZZOLA E., Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 3. L’età imperiale, Milano 2010, 186-197.
Sotto il nome di Petronio l’antichità ci ha trasmesso uno dei massimi capolavori della narrativa mondiale, comunemente noto con il titolo di Satyricon. Pregiudizi moralistici hanno inibito a lungo la sua diffusione, precludendogli la via delle scuole; ma lo sviluppo del romanzo europeo è stato profondamente influenzato da questa narrazione di avventure comiche, satiriche, paradossali. Grandi artisti moderni come Gustave Flaubert o James Joyce hanno chiaramente riconosciuto il loro debito con questo isolato, impressionante esperimento della narrativa antica, che continua tuttavia a essere oggetto di interrogativi molteplici e sovrapposti: del Satyricon sono incerti l’autore, la data di composizione, il titolo e il significato del titolo, l’estensione originaria, la trama, per non parlare di questioni meno concrete ma importanti, quali il genere letterario in cui si inserisce e le motivazioni per cui questo testo, per molti versi eccentrico, fu concepito e pubblicato. Per fortuna, non tutti gli aspetti dell’opera sono altrettanto incerti: per l’attribuzione e la datazione esiste una soluzione pienamente soddisfacente; per altre questioni, invece, sarà bene tenere presente quanto limitate e parziali restino le nostre conoscenze e le relative ipotesi.
Piotr Stachiewicz, Petronio nella sua villa. Illustrazione, prima metà del XX sec.
Il Satyricon, un’opera in cerca d’autore
Nessun autore antico ci dice chi fosse il misterioso Petronius Arbiter, autore, secondo la tradizione manoscritta, del Satyricon. Oggi, tuttavia, la grande maggioranza degli interpreti concorda nell’identificarlo con un cortigiano di Nerone mirabilmente ritratto da Tacito negli Annales: un fascinoso personaggio di nome Petronio (console nel 62, suicida per volontà dell’imperatore nel 66), considerato dal princeps il giudice per eccellenza dello chic e della raffinatezza, ovvero il suo elegantiae arbiter. Tacito non parla però del Satyricon, e l’identificazione del Petronio tacitiano con l’autore del libro, a dire il vero, non poggia su alcuna testimonianza che la renda esplicita. D’altra parte, a giudicare dalla tradizione indiretta, l’opera deve essere stata composta entro la fine del II secolo (a quell’epoca risalgono infatti le più antiche citazioni del Satyricon, nei trattati del grammatico Terenziano Mauro).
Non risulta invece con sicurezza che Petronio abbia scritto altre opere letterarie. L’Anthologia Latina (la grande collezione di poesie di vari autori o anonime, formatasi nel V-VI secolo) preserva alcuni carmi e frammenti poetici trasmessi sotto il suo nome; altri sono stati assegnati a Petronio dai moderni per ragioni stilistiche. Una parte di questo materiale poetico era originariamente inserita nel Satyricon, che deve aver contenuto, a giudicare da quello che abbiamo, copiosissimi e svariati inserti poetici.
La datazione del Satyricon
Tutti gli elementi di datazione interni, cioè desunti dal testo stesso del Satyricon, concordano con una datazione che non va oltre il principato di Nerone. Le allusioni a personaggi storici, i nomi di tutte le figure del racconto, i presupposti sociali della trama (economia, diritto, istituzioni, e l’ambientazione in genere) sono tutti compatibili con questo periodo di composizione, e nessun singolo indizio implica una datazione più tarda.
Un altro elemento utile per la datazione dell’opera, e cioè le caratteristiche di lingua e stile, ha dato più lavoro ai critici; il linguaggio parlato da alcune figure minori – vale a dire i liberti che partecipano al convito in casa di Trimalchione, il liberto arricchito che dà il nome a uno degli episodi più lunghi del Satyricon, la cosiddetta Cena Trimalchionis – è profondamente diverso dal latino letterario che ci è familiare. Abbiamo qui una preziosa fonte di informazione sulla lingua d’uso popolare, che si può combinare con attestazioni di tipo subletterario, come i graffiti di Pompei, le glosse – parole rare, perché non letterarie, studiate dai grammatici e dai lessicografi della tarda latinità – e con quelle tracce di lingua d’uso che recuperiamo, spesso faticosamente, da poeti quali Plauto o Catullo, e dai prosatori meno stilizzati.
La lingua dei liberti si armonizza perfettamente con il quadro generale di queste testimonianze, e si distacca dal latino che Petronio usa, attraverso il narratore Encolpio, nelle parti narrative del Satyricon. Il contrasto è voluto e presuppone un cosciente dosaggio artistico. È chiaro che i cosiddetti volgarismi non costituiscono un indizio per una datazione tarda dell’opera, nemmeno quando certi termini e certe costruzioni ci appaiono dei fenomeni unici, senza paralleli. Esprimendoci schematicamente, diremo che i volgarismi sono spie non di uno strato tardo, storicamente tardo, della lingua, ma di uno strato “basso”, che corre per un lungo periodo storico, ed è normalmente escluso dalla selettività del linguaggio letterario. Portarlo alla luce è una ricerca artistica di Petronio, guidata da un preciso programma letterario.
In sintesi, si può concludere che il Satyricon deve essere stato composto nel periodo neroniano, e potrebbe, se mai, essere ambientato in un periodo precedente. La data di composizione è ancora più precisa se si accetta che il Bellum civile, un lungo inserto poetico affidato alla voce di un personaggio, il poeta Eumolpo, contenga dei precisi riferimenti alla Pharsalia di Lucano. Esistono però delicati problemi di cronologia: Lucano morì solo un anno prima del Petronio tacitiano, lasciando l’opera incompiuta; d’altra parte, è probabile che almeno la prima parte del poema lucaneo fosse già in circolazione da più tempo. La questione a tutt’oggi non può dirsi risolta, ma è chiaro comunque che il dibattito sul poema storico si inquadra particolarmente bene nel clima letterario dell’età di Nerone.
Scena omoerotica. Incisione, argento, 5-15 d.C. dalla coppa Warren. London, British Museum.
Una narrazione in “frammenti”
Del Satyricon ci è rimasto un lunghissimo frammento narrativo in prosa, con sezioni in versi, residuo di una narrazione molto più lunga. Secondo le indicazioni della tradizione manoscritta, la parte che abbiamo comprende (con alcuni vuoti e salti intermedi) stralci dei libri XIV e XVI e la totalità del libro XV; è verosimile che il XV coincidesse in gran parte con il celebre episodio noto come Cena Trimalchionis. Non sappiamo di quanti libri fosse composta l’opera.
Il testo ebbe infatti un destino capriccioso e complesso; fu mutilato e antologizzato in età tardoantica, subendo qua e là dei tagli, forse anche delle interpolazioni e degli spostamenti di sezioni narrative. Di questa riduzione del Satyricon, la Cena Trimalchionis, la parte oggi più popolare del lungo frammento narrativo pervenuto, ricomparve soltanto nel XVII secolo, in un codice ritrovato nella cittadina dalmata di Traù (il codex Traguriensis); altre parti, invece, erano già note agli umanisti italiani dal 1423.
Il titolo tramandato nei codici, Satyricon, propriamente un genitivo plurale neutro (sotteso libri) equivale a Satyrica (proprio come Georgicon libri equivale a Georgica, “Le Georgiche”), è un grecismo formato da Satyri, “satiri”, le grottesche creature della mitologia, più il suffisso di derivazione greca -icus, che caratterizza i titoli di molti romanzi antichi (per es., Ethiopica, Ephesiaca, ecc.).
Le particolari vicende della trasmissione del testo si riflettono anche nella nostra conoscenza dell’intreccio. La parte più integra del frammento narrativo in nostro possesso è il famoso episodio della cena di Trimalchione: è chiaro che questo brano esercitava su chi ha manipolato il testo di Petronio un’attrattiva particolare. Di sicuro, il testo che abbiamo era preceduto da un lunghissimo antefatto (narrato in quattordici libri, stando alle indicazioni tramandate dai codici) e seguito da una parte di lunghezza per noi imprecisabile.
Paris, Bibliothèque Nationale de France. Ms. lat. 7989 (codex Traguriensis), frammento del Satyricon di Petronio, p. 189.
La trama del Satyricon
La storia è narrata in prima persona dal protagonista, Encolpio, l’unico personaggio (oltre a Gitone) che compare in tutti gli episodi della vicenda. Encolpio attraversa una successione indiavolata di peripezie, e il ritmo del racconto è variabile: talora scarno e riassuntivo, a volte – come nella cena in casa di Trimalchione – lentissimo e ricco di dettagli realistici.
Da principio Encolpio, un giovane di buona cultura, ha a che fare con un maestro di retorica, un certo Agamennone, e discute con lui il problema della decadenza dell’eloquenza. La problematica è affine al quella del Dialogus de oratoribus tacitiano, ma Agamennone ha l’aria di un professore da strapazzo. Apprendiamo poi che Encolpio viaggia in compagnia di un altro avventuriero dal passato burrascoso, Ascilto, e di un bel giovinetto, Gitone; fra questi personaggi corre un triangolo amoroso. Entra in scena una matrona di nome Quartilla, che coinvolge i tre in un rito in onore del dio Priapo. Questa buffa divinità, che simboleggia il sesso maschile, sembra avere un ruolo importante in tutte le storie narrate da Encolpio. Comunque, i riti di Priapo si rivelano più che altro un pretesto per asservire i tre giovani ai capricci lussuriosi di Quartilla.
Appena sfuggiti alla donna, i tre vengono scritturati per un banchetto in casa di Trimalchione, un ricchissimo liberto dalla sconvolgente rozzezza. Si descrive con abbondanza di dettagli lo svolgersi della cena, una teatrale ostentazione di ricchezza e di cattivo gusto; la scena è tutta dominata dai liberti amici di Trimalchione e dalle loro chiacchiere. Encolpio, anche qui, è costretto in un ruolo passivo e subalterno; solo un casuale incidente decreta la fine del ricevimento, e “libera” nuovamente i nostri eroi. La rivalità omosessuale tra Encolpio e Ascilto precipita: i due, gelosi dell’amore di Gitone, hanno un violento diverbio, al termine del quale Ascilto si porta via il ragazzo. Encolpio, affranto, entra casualmente in una pinacoteca e qui conosce un nuovo personaggio, che avrà un ruolo centrale in tutte le successive peripezie. Si tratta di Eumolpo, un poeta vagabondo: un uomo anziano e però insaziabile, sia come letterato sia come avventuriero. Eumolpo comincia con l’esibire i suoi doni poetici, recitando seduta stante una sua composizione dell’Ilioupersis, che riceve una pessima accoglienza da parte dei presenti: in questo, il vecchio richiama alla mente gli insuccessi del velleitario retore Agamennone. Dopo una rapida serie di avventure, Encolpio riesce a recuperare il suo amato Gitone e a liberarsi di Ascilto; ma Eumolpo si rileva sempre più come nuovo aspirante alle grazie del ragazzo. Si costituisce così un nuovo triangolo amoroso. Sinora, l’azione si è svolta in una Graeca urbs, sul litorale campano: l’identificazione precisa è controversa, e forse Petronio non intende un luogo ben definito. Encolpio, Eumolpo e Gitone lasciano precipitosamente la città, imbarcandosi, in incognito, su una nave mercantile. Durante la navigazione, l’armatore si rivela essere il peggior nemico del protagonista: è un mercante di nome Lica, che ha motivo di vendicarsi per qualche precedente avventura (narrata, ovviamente, nell’antefatto per noi perduto!). Con questi viaggia una signora di dubbia moralità, Trifena, anche lei già nota al protagonista. Un maldestro tentativo di camuffarsi produce risultati catastrofici: scoperto, Encolpio è ormai in balia della vendetta di Lica. Eumolpo tenta una mediazione e fra l’altro cerca di svagare i compagni di viaggio raccontando la piccante novella della Matrona di Efeso. La situazione sembra, comunque, male avviata, quando interviene una provvidenziale tempesta. Il minaccioso Lica viene spazzato in mare e muore annegato, Trifena riesce a fuggire su una scialuppa, mentre la nave cola a picco. I tre si ritrovano soli su una spiaggia.
Inizia così una nuova avventura: Eumolpo scopre di essere nei paraggi di Crotone. Questa città dal passato glorioso è attualmente tutta rivolta a un’attività deplorevole: la caccia alle eredità. La città è in mano ai ricchi senza eredi e ai cacciatori di testamenti, che li colmano di onori e favori per ottenerne il patrimonio. Il vecchio poeta ha un’illuminazione: recitare la parte dell’anziano facoltoso e senza eredi, assecondato da Encolpio e Gitone, che impersoneranno i suoi servi. Sulla strada per la città, Eumolpo tiene ai suoi compagni una lezione sulla poesia epica, e declama un lungo poemetto sulla guerra tra Cesare e Pompeo, il cosiddetto Bellum civile.
L’ultima fase del racconto è per noi più difficile da seguire, per lo stato lacunoso del testo. In principio, la commedia di Eumolpo funziona, e i tre vivono comodamente alle spalle dei cacciatori di testamenti. Encolpio ha un’avventura con una donna di nome Circe, ma improvvisamente si ritrova abbandonato dalle proprie facoltà sessuali. Perseguitato – come egli stesso sostiene – dal dio Priapo, il protagonista si sottopone a umilianti pratiche magiche, senza successo alcuno; poi, di colpo, riacquista la propria virilità. Ecco però che la commedia di Eumolpo comincia a incrinarsi: i Crotoniati stanno per scoprire il raggiro. Nell’ultima scena del testo superstite, il sedicente poeta escogita un bizzarro espediente: si dà pubblica lettura di un assurdo testamento, per cui chi voglia godere dei lasciti di Eumolpo dovrà cibarsi del suo cadavere; i pretendenti, accecati dalla cupidigia, sarebbero disposti persino a farsi cannibali…
Ma come finisce la storia? Ancora una volta, quando il nostro testo si interrompe, troviamo il protagonista in una situazione di stallo, creata proprio nel tentativo di liberarsi da una minaccia incombente. Non sappiamo come si concludesse l’avventura crotoniate né quanto ancora si estendesse la narrazione del Satyricon. Immaginare il finale dell’opera è poi del tutto impossibile: nessuno degli episodi pervenuti lascia prevedere il successivo, e non sappiamo neppure come fosse incominciata l’esistenza picaresca del protagonista.
Una donna che dipinge la statua di Priapo. Affresco, ante 79 d.C., dalla Casa del Chirurgo (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Un testo in cerca di genere
A quale genere letterario può essere ricondotto il Satyricon? Nessun testo narrativo classico, a nostra conoscenza, si avvicina anche lontanamente alla complessità letteraria che caratterizza Petronio. Complessa è, anzitutto, la trama. La parte superstite, come si è visto, si presenta come una libera successione di episodi, con tonalità variabile; ma queste scene sono collegate da un complesso gioco di richiami narrativi. Ci sono personaggi che appaiono e rispuntano a distanza, come nel caso di Lica e di Trifena. Ci sono, soprattutto, situazioni tipiche che si ripetono: cambiano scenari e personaggi minori, ma Encolpio continua a essere intrappolato, umiliato e costretto a tentativi di fuga che si risolvono, per un’accanita perversione del fato, in peggioramenti ulteriori.
Complessa è pure la forma del racconto. La prosa narrativa è interrotta, con apprezzabile frequenza, da inserti poetici: alcune di queste parti in versi sono affidate alla voce dei personaggi, soprattutto a quella di Eumolpo che, anche in situazioni poco opportune, dà spazio alla sua torrenziale vocazione poetica: è il caso dell’Ilioupersis e del Bellum civile – per citare le inserzioni più cospicue. Questi inserti sono “motivati” e hanno come uditorio i personaggi. Ma molte altre parti poetiche sono strutturate come interventi del narratore, che nel vivo della sua storia abbandona la relazione degli avvenimenti per commentarli.
Spesso i suoi excursus hanno una funzione ironica; non perché si tratti di poesie “malfatte” – ché anzi Petronio si rivela come un poeta dalla versatilità tecnica straordinaria e ammirevole –, ma perché il commento poetico non corrisponde, vuoi per stile e livello letterario, vuoi per contenuto e orientamento, a quella situazione in cui si dovrebbe inquadrare. Ne derivano dei contrasti, degli sbalzi tra aspettative e realtà, tra illusioni materiate di fantasmi (fantasmi, a loro volta, nutriti di cultura e di letteratura) e brusche ricadute, anche di volgarità brutale. Quando Encolpio paragona una losca fattucchiera ubriacona a un personaggio di Callimaco, o canta in versi catulliani le sue gioie d’amore subito prima di essere tradito da Gitone, il lettore scopre un controcanto ironico, a spese dell’ingenuità del narratore.
La presenza di un narratore passivo, ingenuo, sottoposto a continui passaggi di fortuna, è tipica di Petronio come delle Metamorfosi di Apuleio, l’altro testo narrativo lungo in latino a noi noto (e per molti altri aspetti assolutamente distinto dal Satyricon), nonché della moderna narrativa picaresca: è un modo di costruire il racconto. La presenza stessa di un’azione continua narrata dalla prospettiva unificante del protagonista pone il Satyricon nella tradizione del romanzo antico, ma la straordinaria ricchezza di contenuti e di livelli sembra sfuggire alla rigida classificazione nel sistema canonico dei generi letterari.
Dal punto di vista formale, la caratteristica più evidente del Satyricon è senza dubbio la libera alternanza di prosa e di versi, il cosiddetto prosimetro: questo doppio “registro” non ha una presenza marcata nei testi narrativi antichi che conosciamo, quale per esempio l’opera di Apuleio. Il punto di riferimento più vicino sembra piuttosto una satira menippea, l’Apokolokyntosisdi Seneca. Il genere ha una storia abbastanza complicata da seguire: richiamandosi al filosofo cinico Menippo di Gadara, Varrone aveva intitolato Satire Menippee le sue composizioni satiriche. Dai frammenti che abbiamo, sembra che questo tipo di satira fosse un contenitore aperto, molto vario per temi e soprattutto per forma. Doveva comprendere anche parti in prosa, e sembra che Varrone desse largo spazio a una componente “realistica”.
In ogni caso, a questa tradizione si richiama chiaramente l’Apokolokyntosis, un testo in prosa che si apre a svariati inserti poetici: sia citazioni di autori classici, che nel contesto narrativo assumono una valenza parodiata e distorta, sia parti poetiche composte in proprio, spesso a loro volta dei pastiches, delle rielaborazioni di moduli poetici tradizionali. Una caratteristica interessante di questa menippea è il continuo scontro di toni seri e giocosi, di risonanze letterarie e di crude volgarità; il tutto è sorvegliato da una raffinata tecnica compositiva, che ricorda piuttosto da vicino Petronio.
Rimangono però alcune differenze assai nette. La satira senecana è una narrazione di compasso molto breve, ed è impossibile paragonarla allo sviluppo del Satyricon. Inoltre, è un testo di satira inteso come libello, come attacco personale concepito in una precisa situazione e rivolto contro un bersaglio esplicito, il defunto imperatore Claudio. In Petronio, nessun intento del genere è percepibile. È possibile che Petronio guardi alla tradizione menippea per molti aspetti della sua opera: la mescolanza degli stili, il prosimetro (la mistura di versi e prosa), e forse anche la struttura narrativa a blocchi; ma non sembra che questo filone letterario gli offrisse già confezionata la formula del Satyricon. D’altra parte, quella alternanza di prosa e di versi che nella menippea era solo una risorsa formale, è in Petronio anche un modo, inedito, di costruire il racconto: spesso gli inserti poetici forniscono al lettore la prospettiva in cui è immerso il narratore Encolpio, esplicitano gli schemi culturali attraverso i quali i fatti vengono percepiti e interpretati dai personaggi in azione. La forma prosimetrica diventa così una scelta programmatica dell’autore.
A questo punto potremmo ricapitolare: il Satyricon deve molto alla narrativa (sia seria sia comica) per trama e struttura del racconto, e qualcosa alla tradizione menippea, per la tessitura formale (il prosimetro); ma trascende, in complessità e ricchezza di effetti, entrambe le tradizioni. Ogni tentativo di immobilizzare l’inesauribile creatività di Petronio in una categoria di genere – anche un genere misto come la menippea – è destinato inevitabilmente a sacrificare qualcosa, giacché intenzione primaria di questo testo è proprio l’accumulo dei linguaggi, l’innesto di un genere sull’altro, l’inesauribile contaminazione di forme letterarie diverse.
Roberto Bompiani, Festino romano (Saturnalia). Olio su tela, metà XIX sec. Los Angeles, The J. Paul Getty Museum.
L’originalità del Satyricon
L’aspetto più originale del Satyricon è forse la sua forte carica di realismo, evidente soprattutto nella Cena Trimalchionis – dove diventa anche mimetismo linguistico – ma ben presente anche altrove. Il romanzo ha una sua storia da raccontare, la vita avventurosa di Encolpio, ma nel farlo si sofferma a descrivere luoghi che non sono visti astrattamente e fuori dal tempo, come in gran parte del romanzo antico. Sono luoghi tipici e fondamentali del mondo romano: la scuola di retorica, i riti misterici, la pinacoteca, il banchetto, la piazza del mercato, il postribolo, il tempio. L’autore ha un vivo interesse per la materialità delle varie classi sociali, oltre che (nella sola Cena Trimalchionis, però) per il loro linguaggio quotidiano.
In particolare, comunque, il realismo entra nel Satyricon come forza antagonistica del “sublime” letterario, secondo cui il protagonista-narratore Encolpio, e i suoi compagni, giovani nutriti di cultura scolastica, pretendono di interpretare, nobilitandola, la realtà delle loro misere esistenze. Encolpio è infatti un piccolo avventuriero che si arrangia a vivere vagabondando qua e là, ma il tempio dell’azione è continuamente rallentato dalle riflessioni di un altro Encolpio – uno scholasticus, come direbbero gli antichi –, fresco di studi e vittima degli schematismi della scuola, che ingenuamente si esalta immedesimandosi nelle grandi figure dei personaggi mitico-letterari. Quando, per esempio, Ascilto gli rapisce Gitone, Encolpio piange sulla riva del mare come Achille, privato di Briseide dalla prepotenza di Agamennone; e subito dopo, quando armato e fuori di sé ritorna in città alla ricerca del ragazzo, agisce come Enea che, nell’ultima notte di Troia, cerca disperatamente la sposa Creusa lungo i porticati dell’abitato.
Ai grani miti eroici, ai modelli alti dell’epica e della tragedia, che il protagonista-narratore si illude di poter rivivere, si contrappone la forza materiale delle cose, la fisicità del corpo con i suoi istinti: cibo, sesso, denaro sono temi “bassi”, elementi di una sceneggiatura del realismo che si oppone, nel Satyricon, a quella del “sublime” letterario. Sotto la pressione delle cose, gli schemi di interpretazione del reale (fatti di epica, di tragedia, della grande oratoria) che Encolpio, frequentatore entusiasta quanto ingenuo della letteratura “alta”, applica costantemente alla propria esistenza, mostrano tutta la loro inadeguatezza. Il realismo è uno strumento dell’aggressione satirica messa in atto da Petronio contro il protagonista del suo racconto (e contro le velleitarie pretese della cultura scolastica, di cui Encolpio è rappresentante esemplare).
L’originalità del realismo petroniano emerge chiaramente dal confronto con la satira (Lucilio, Orazio, anche Persio e Giovenale). Il realismo della satira si sofferma in genere su tipi sociali ben precisi – il parassita, il ricco stupido, il poetastro, la donna che ostenta virtù – e questi tipi sono costruiti tutti attraverso un filtro morale. Il poeta satirico li guarda attraverso un suo ideale: c’è un commento morale continuo, anche se spesso implicito, e il lettore è sempre in grado di formarsi un giudizio su queste realtà. Poco importa se il tono sia quello dell’aggressiva indignazione (Giovenale) o della ricerca di un intimo equilibrio (Orazio).
Petronio, invece, non offre ai suoi lettori nessuno strumento di giudizio etico. Non potrebbe essere altrimenti, in una narrazione condotta in prima persona da un personaggio che è dentro fino al collo in quel mondo sregolato. Anche là dove Encolpio prende distanza dai fatti, e lui stesso critica e ironizza, non è mai fornita al lettore un’ideologia positiva. I personaggi che “fanno la morale” sono, del resto, per nulla superiori agli altri. Anzi, affidando la predicazione moralistica a personaggi screditati, l’aggressione satirica dell’autore giunge ad attaccare persino le pose moralistiche del genere satirico, le implicazioni normative che esso contiene.
Già il libro II delle Satire oraziane arrivava a togliere autorità alla maschera satirica, affidando il messaggio moralistico a portavoce inadeguati (doctores inepti, come Ofello, Cazio o Davo). Il Satyricon – ed è qui la differenza del suo nuovo realismo – valorizza appieno questa contraddizione e la traduce in forma narrativa: con mossa paradossale, la maschera satirica viene messa addosso a personaggi inaffidabili che non esitano ad atteggiarsi a censori, pur non avendone alcun diritto. Ne consegue una visione del reale che è tanto critica quanto disincantata. Quando percorre la via della satira, Petronio si ferma prima di adottare il gesto della protesta, dell’invettiva, della predicazione. In questo senso, si può dire che il romanzo esprima una vocazione satirica “incompleta”, mentre è interamente dominato da una vocazione alla parodia.
Si è detto che Encolpio, voce narrante dell’opera, è un narratore “mitomane”, pronto a esaltarsi immedesimandosi negli eroi mitici celebrati dalla grande letteratura del passato. Richiami all’epica sono assai frequenti: in particolare, sono sembrate notevoli, in relazione alla struttura “di viaggio” del romanzo, le allusioni all’Odissea: si è pensato addirittura che tutta la storia di Encolpio sia in qualche modo concepita come una parodia dell’Odissea, un’Odissea di pitocchi. Certamente, la parodia di Omero ha un’enorme tradizione letteraria (la commedia, l’epigramma, gli stessi Priapea ne fanno largo uso); si è pensato anche che tutto il genere romanzesco risalga, per via più o meno diretta, all’epos omerico. Ma l’allusione a Omero non è una chiave interpretativa sufficiente a spiegare il complesso gioco della parodia del Satyricon.
È vero che Encolpio sembra, a più riprese, fare i conti con l’irato dio Priapo ed esplicitamente, colpito da una defaillance sessuale, si paragona a Odisseo perseguitato da Poseidone, in versi che rammentano esempi di collera divina sugli uomini (Satyricon 139), ma la divinità che perseguita Encolpio è Priapo, il buffo dio del sesso rurale, una figura grottesca che niente ha in comune con le divinità dell’Olimpo omerico. Le disavventure del giovane potrebbero risalire a un incidente iniziale, contenuto nell’antefatto (forse un sacrilegio o una maledizione divina). Occorre notare, poi, che il ruolo di Priapo, nel frammento superstite, è piuttosto sporadico. Il motivo della persecuzione divina sembra appartenere all’immaginazione fantastica del protagonista piuttosto che alla realtà dei fatti.
Un’altra ipotesi è che il Satyricon sia strutturato nel suo complesso, a grandi linee, come una parodia del romanzo greco d’amore. In Petronio l’amore è visto in modo del tutto diverso dalla narrazione idealizzata tipica del romanzo greco. Non c’è spazio per la castità, e nessun personaggio è un serio e credibile portavoce di valori morali. Il protagonista è sballottato tra peripezie sessuali di ogni tipo e il suo partner preferito è maschile. Il sesso è trattato esplicitamente ed è visto come una continua fonte di situazioni comiche. Così, il rapporto omoerotico tra Encolpio e Gitone sarebbe come la parodia, la degradazione ironica dell’amore “romantico” che lega i fidanzati del romanzo greco. Questa tesi coglie elementi di verità, ma risulta forzata se la si intende in modo esclusivo.
Petronio guarda al romanzo antico con un sorriso aristocratico di condiscendenza polemica, come a una moderna degradazione della grande letteratura del passato. Non solo: questo genere narrativo, proprio perché fortemente convenzionale, fondato sulla ripetizione di stereotipi fissi, gli appare particolarmente adatto al proprio gioco parodico. Petronio struttura infatti la storia di Encolpio come una parodia continua della narrativa greca idealizzata. Il rapporto ironico con il romanzo ellenico genera la forma del racconto, calando il personaggio-narratore in una serie di peripezie tipiche delle storie d’amore e d’avventura: storie sensazionali, ricche di colpi di scena ed emozioni forti (naufragi, travestimenti, suicidi mancati e così via), che il romanzo greco aveva “copiato” dai modelli della letteratura “sublime”. Petronio utilizza ironicamente quelle sceneggiature: la coppia di innamorati fedelissimi e casti si trasforma così in una coppia omosessuale di amanti debosciati e infedeli.
Strumento del rovesciamento parodico è Encolpio, l’anti-modello dell’eroe del romanzo idealizzato: tanto è moralmente forte quello, quanto Encolpio è debole e rotto a ogni inganno. Chiuso nella trappola di situazioni stereotipate, il giovane protagonista è vittima delle sue stesse illusioni di consumatore scolastico di opere sublimi. È sufficiente che la situazione narrativa mostri una larvata analogia con i grandi modelli letterari, perché si scateni in lui una vera e propria mania di immedesimazione eroica (di qui l’alto tasso di allusioni a Omero e Virgilio, come pure alla tragedia e alla grande oratoria). Smascherando le illusioni di Encolpio, la parodia aggredisce i modelli romanzeschi e il meccanismo di trivializzazione con cui essi hanno ridotto a schematismi melodrammatici i paradigmi “sublimi”.
Un uomo, forse sofferente d’impotenza, assistito da Cupido, offre in sacrificio un maiale a Priapo. Affresco, ante 79 d.C., dalla Villa dei Misteri.
La strategia dell’«autore nascosto»
Non dobbiamo dimenticare, infine, che nel Satyricon chi dice «io» non è l’autore, ma un personaggio screditato. L’autore si fa da parte e lascia che il protagonista-narratore viva gli eventi della propria quotidianità in una sorta di continua esaltazione eroica, che, come si è detto, lo porta ad assimilare la realtà ai grandi modelli letterari. Ma gestiti da un personaggio siffatto tali modelli non tardano a mostrare i loro limiti: nel Satyricon essi si scontrano con la sceneggiatura romanzesca che Petronio ha scelto per lo svolgimento della vicenda. La distinzione tra «autore nascosto» e «narratore mitomane» sovrintende alla regia dei modelli attivati dal testo. Alcuni restano di competenza dell’autore (quelli romanzeschi impiegati per costruire situazioni tipiche della narrativa ellenica), altri appartengono esclusivamente alla fantasia del protagonista (la letteratura “sublime”, che occupa la sua memoria scolastica e interferisce con la realtà). La mescolanza parodica delle forme discorsive ottiene l’effetto di relativizzare la verità che ognuno dei generi letterari codificati propone come unica e assoluta: sotto la prospettiva unificante e deformata dell’io narrante, si dissolve il sistema tradizionale dei generi letterari, la sua pretesa di rappresentare il mondo in forme compiute, capaci di esaurire la complessità della vita. Ma la parodia – è questo il vero problema del Satyricon – non è ottenuta attraverso un’aggressione diretta dei grandi modelli sublimi (l’epica, la tragedia, l’oratoria forense), bensì scoprendo di volta in volta quanto inopportune siano le immaginazioni che guidano il protagonista-narratore nel suo cammino attraverso il mondo: nient’altro che immaginazione sovraccariche di pathos, pose letterarie e declamatorie, destinate a crollare per effetto della parodia che aggredisce Encolpio.
Questi è il catalizzatore della satira di Petronio: affidare a lui la narrazione e ritirarsi in disparte è la strategia scelta dall’autore per colpire l’autoritarismo culturale che mortifica la realtà, sovrapponendo a essa vuoti schematismi cui la scuola ha ridotto i grandi testi della letteratura classica.
L’assenza di una parola autoriale diretta spiega anche l’ambiguità costitutiva del Satyricon. In qualche caso, la parodia petroniana lascia disorientato il lettore: il suo senso ultimo sembra inafferrabile. Eumolpo espone una sua critica al poema storico, e poi la esemplifica poetando sul Bellum civile: spiega, tra l’altro, che la poesia epica non può rinunciare all’apparato divino. La critica si direbbe rivolta alla Pharsalia di Lucano, che appunto viola i canoni della tradizione eliminando le divinità olimpiche. Eppure, il Bellum civile unisce all’imitazione di Virgilio (coerente con l’impostazione poetica di Eumolpo) l’allusione a Lucano: è una poesia tremendamente convenzionale e sembra difficile che Petronio la intendesse come un modello positivo. Pensare che si voglia ridicolizzare o esaltare Lucano è una semplificazione inaccettabile.
Ancora una volta, il senso della parodia petroniana va cercato nella tensione tra autore e voce narrante. Straordinaria figura di poeta invasato, Eumolpo è il complemento perfetto di Encolpio: anch’egli è un interprete inadeguato di quella facile poetica del sublime, su cui si appuntano gli strali dell’ironia petroniana. E anche nell’ironia che aggredisce Eumolpo si riconosce il tema ideologico serio del Satyricon: la polemica per la riaffermazione dei grandi valori letterari, divenuti ora materia quotidiana di personaggi degradati, resi ottusi dalla cultura declamatoria diffusa dalla scuola.
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Il sesso era l’altro decisivo fattore per determinare chi poteva diventare cittadino adulto in senso pieno: le donne erano escluse. Naturalmente esisteva qualche eccezione, soprattutto in età ellenistica e fuori Atene, ma generalmente e in particolare ad Atene una donna era integrata nella città non in quanto cittadina, bensì in quanto figlia o moglie di un cittadino. Solo in età ellenistica si ha qualche notizia di ragazza che s’impegna personalmente in un contratto di matrimonio col futuro sposo; in genere quest’impegno era assunto dal padre o dal tutore della ragazza. Il diventare adulte per la maggior parte delle ragazze greche di condizione libera era segnato dalla tappa decisiva del matrimonio. La differenza di condizione tra bambini maschi o femmine è ben espressa da un’alternativa posta nei Memorabili di Senofonte: εἰ δ’ ἐπὶ τελευτῇ τοῦ βίου γενόμενοι βουλοίμεθά τῳ ἐπιτρέψαι ἢ παῖδας ἄρρενας παιδεῦσαι ἢ θυγατέρας παρθένους διαφυλάξαι («e se, giunti alla fine della nostra vita, volessimo affidare a qualcuno i figli maschi da educare, le figlie ancora ragazze da custodire…?», Xen. Mem. I 5, 2). Alla παιδεία rivolta ai ragazzi corrispondeva, nel caso delle femmine, l’essere custodite (διαφυλάξαι): le ragazze, infatti, sono connotate come θυγατέρες παρθένοι, letteralmente “figlie vergini”, ma è preferibile rendere come «figlie ancora ragazze», cioè “nubili”, “non ancora sposate”, dato che l’appellativo παρθένος indicava ciò che oggi si direbbe lo stato civile della donna, più che la sua illibatezza. In ogni caso, alla verginità, invece, allude in modo implicito, ma inequivocabile, proprio il verbo διαφυλάξαι, che significa appunto “conservare”, “mantenere in un certo stato per un determinato periodo di tempo”. Il passo senofonteo è crudamente rivelatore di una precisa distinzione di ruoli sessuali: mentre al tutore di maschi adolescenti era affidato l’incarico di educarli (παιδεῦσαι), a quello delle ragazze spettava il compito di custodirle, come dice elegantemente l’autore.
Una legge attribuita a Solone stabiliva che, se il padre avesse scoperto che la figlia intratteneva rapporti sessuali prima del matrimonio – e il segno inequivocabile era la gravidanza –, ella cessava di appartenere alla famiglia e poteva essere venduta. Per lei si chiudevano le prospettive del matrimonio; di qui l’importanza della custodia, come garanzia di preservazione delle condizioni d’accesso alle nozze.
Pittore anonimo. Una ragazza in atto di acconciarsi i capelli. Pittura vascolare su λήκυθος attica a figure rosse, 425-400 a.C. ca. Palermo, Collezione archeologica del Banco di Sicilia.
Fin dalla nascita le ragazze trascorrevano gran parte della loro vita in casa, affidate alle cure della madre o delle serve. Il crescente fenomeno di urbanizzazione simultaneo alla formazione delle πόλεις – documentabile non prima della seconda metà del VII secolo – aveva determinato uno spostamento sensibile delle attività della donna all’interno della casa (οἶκος), lasciando agli uomini il libero movimento nello spazio esterno. Solo le donne più povere erano costrette a uscire dalla casa per lavorare nei campi o fare le venditrici. All’interno della casa, invece, le giovani di buona famiglia apprendevano ben presto i lavori domestici della filatura e della preparazione del cibo.
Solo le feste religiose delle città erano un’occasione di uscita, non certo i simposi, vietati a tutte le donne che non fossero etere, danzatrici o flautiste. Ma diversamente da quanto avveniva per i maschi, queste feste nell’Atene classica non coincidevano con momenti di iniziazione alla vita adulta per intere classi di età. L’iniziazione era compiuta soltanto da gruppi ristretti di ragazze, che venivano scelte a rappresentare l’itinerario di preparazione al matrimonio. Così ogni anno, in occasione delle Arreforie, due ragazze dell’aristocrazia, tra i sette e gli undici anni, davano inizio circa nove mesi prima delle Panatenee alla tessitura del peplo che in tale occasione sarebbe stato offerto ad Atena. La tessitura del peplo da parte di ragazze è documentata anche altrove, per esempio ad Argo in onore di Era; forse anche a Sparta le ragazze tessevano il chitone consacrato ogni anno ad Apollo alle Giacinzie.
Nei mesi antecedenti alle Panatenee le due ragazze conducevano un genere di vita speciale e, alla fine, si spogliavano dei loro abiti e dei monili d’oro rappresentanti la loro fanciullezza. Le Arreforie scandivano per costoro un momento di passaggio e di iniziazione: esse apprendevano i lavori femminili, la filatura e la tessitura, e si preparavano a essere spose e madri, assumendosi il compito di portare sul capo, di notte, dall’Acropoli a un giardino dedicato ad Afrodite, un canestro di cui dovevano ignorare il contenuto e che veniva riposto in un luogo sotterraneo, dal quale uscivano riportando altri oggetti sacri avvolti in un panno.
Nel canestro, invero, erano contenuti il simulacro del bambino Erittonio e il serpente, che simboleggiavano la sessualità e la generazione. Tra migliaia di bambine soltanto due erano le prescelte: ciò che anticamente forse costituiva il passaggio collettivo di un’intera classe di età a una nuova condizione, attraverso una fase di segregazione dalla comunità e una prova, in età classica divenne oggetto di una rappresentazione simbolica.
Si ha infatti notizia di casi di sacerdozio affidato a ragazze in età prematrimoniale in Arcadia e a Calaurea; le fanciulle di Locri erano addirittura costrette a un servizio a vita nel tempio di Atena. Ma normalmente la partecipazione delle ragazze a riti e cerimoniali religiosi era collegata simbolicamente alla svolta decisiva della loro vita, coincidente proprio con il matrimonio. Così, appunto, ad Atene accadeva per le feste Brauronie. Alcune bambine, di età compresa fra i cinque e i dieci anni, si dovevano consacrare al servizio di Artemide presso il santuario di Brauron, fuori Atene, per un periodo a noi non noto. In ricordo dell’orsa prediletta dalla dea, che, rifugiatasi nel suo tempio, era stata uccisa, esse erano chiamate «orse» (ἄρκτοι) ed espiavano questo sacrilegio col loro servizio (ἀρκτεία). Al tempo stesso, esse rifacevano il percorso dell’orsa da una condizione selvaggia, dalla quale si liberavano, per prepararsi a coabitare con lo sposo e integrare la propria sessualità nella cultura della città.
Scuola di Fidia. Scena della processione panatenaica. Marmo pentelico, 438-432 a.C. dal frontone est del Partenone. London, British Museum.
Ancora in età ellenistica l’analfabetismo sembra più diffuso tra le donne che tra gli uomini, stando alla percentuale di donne che ricorrevano ad altri per scrivere. Tuttavia, è noto che a Teo esisteva una scuola frequentata da allievi di ambo i sessi e che a Pergamo si tenevano gare di recitazione poetica e di lettura per ragazze, ma non si trattava di fenomeni tanto comuni, e anche l’educazione ginnica era prerogativa essenzialmente maschile. L’eccezione più celebre era costituita da Sparta, dove le bambine, ben nutrite quanto i maschi, anziché essere addestrate alla tessitura e alla preparazione del cibo, che sarebbero sempre rimaste occupazioni servili, non della moglie, erano ben presto avviate agli esercizi ginnici, nude e visibili anche ai maschi, nella corsa, nella lotta, nel lancio del disco e del giavellotto. Non sappiamo se sia stato questo esempio spartano a portare all’istituzione di corse femminili a piedi nel contesto delle Olimpiadi, anche se tenute in giorni diversi dalle competizioni riservate ai maschi. Pausania (V 16, 2-8) informa che si trattava dei «Giochi Erei» (ἀγῶνα Ἡραῖα), che, secondo la leggenda, sarebbero stati istituiti da Ippodamia, compagna di Pelope. A queste competizioni, suddivise in categorie per età, prendevano potevano partecipare sedici ragazze, vestite con una corta tunica che giungeva fino al ginocchio e lasciava scoperta una spalla. Come nel caso degli atleti olimpici, anche le vincitrici degli Erei ricevevano in premio una corona d’ulivo e una porzione di carne della vacca sacrificata in onore della dea dall’occhio bovino. Non è chiaro se a queste gare podistiche abbiano mai partecipato anche ragazze ateniesi.
Ragazza spartana in corsa. Statuetta, bronzo, 520-500 a.C. ca., dalla Laconia. London, British Museum.
Ancor più raro e difficile era per le giovani acquisire un’istruzione superiore. Un’eccezione è il caso delle etere, come Aspasia, vicina a Pericle e significativamente una straniera, non una cittadina. Un’altra eccezione è rappresentata dalla cerchia di Saffo nella Lesbo del VI secolo a.C., di cui non esistono simili contesti documentati per l’età classica. Si trattava di un’associazione cultuale nella quale ragazze di Lesbo, ma anche provenienti dall’antistante Ionia, si esercitavano nella danza e nel canto, imparavano a suonare la lira e a partecipare a feste nuziali, a officiare cerimoniali e forse prendevano parte a gare di bellezza, acquisendo le competenze e le qualità richieste perché convolassero a nozze con uomini di nobile stirpe. Ciò sembra confermare la maggiore libertà di cui avrebbero goduto le fanciulle aristocratiche nell’epoca arcaica rispetto alla segregazione così caratteristica nell’Atene classica. Nella cerchia di Saffo nascevano anche legami omoerotici, che per la Sparta del secolo VII a.C. sono ben documentati dai parteni di Alcmane, ma questo non implica che anche in Laconia le donne ricevessero un’educazione sessuale prematrimoniale.
Pittore di Amasis. Scena con corteo matrimoniale (dettaglio). Lekythos a figure nere, 550 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.
Nella vita delle ragazze greche di condizione libera il matrimonio era il rito di passaggio obbligato e decisivo. Grazie a esso, la donna, più che l’uomo, compiva un mutamento radicale di status: diventare adulta, non essere più una παρθένος, coincideva per lei con l’essere sposa e divenire madre di futuri cittadini (preferibilmente maschi). Diversamente dai ragazzi, le figlie generalmente non restavano in casa del padre, ma andavano presto in spose, sovente prima di aver compiuto sedici anni, spesso maritate con uomini molto più grandi di loro.
Il fidanzamento o la promessa di matrimonio (ἐγγύησις), di norma, avveniva ancor prima: Demostene nell’accusa al cugino Afobo, disonesto tutore, spiega che, alla morte del padre, sua sorella a soli cinque anni era stata promessa a Demofonte con una dote di due talenti d’argento (Demosth. In Aphob. I 4). Una delle leggi che compare nel corpus di Gortina, a Creta (c. VI-V secolo a.C.), prevedeva che una πατροιοκός (“ereditiera”, corrispondente all’att. ἐπίκληρος) fosse «sposata dall’età di dodici anni in su» (ὀπυί-/εθαι δὲ δυοδεκαϝετία ἒˉ πρεί-/γονα, IC XII 17-19). Pare che la differenza di età, del resto, non contribuisse a potenziare i legami affettivi, spirituali e intellettuali tra gli sposi: Senofonte avrebbe attribuito la mancanza di educazione delle donne all’età precoce in cui venivano maritate (Xen. Oec. 7, 3-4).
Per comprendere i caratteri del matrimonio ateniese (ἐγγύησις) occorre ricordare che esso era un contratto fra due uomini, il padre, o il tutore, e il futuro sposo. Per le donne, invece, esso significava essenzialmente un trasferimento dalla casa del padre a quella dello sposo, passare dalla segregazione nella prima a quella nella seconda, dalla tutela di uno a quella dell’altro in ogni transazione giuridica. Nell’Egitto, che appariva a Erodoto e a Sofocle l’antitesi per eccellenza del mondo ellenico, erano invece le donne a uscire di casa per procurarsi il cibo, mentre gli uomini restavano in casa a tessere.
Ad Atene, la futura sposa si preparava al giorno delle nozze, offrendo ad Artemide i suoi giochi infantili e tagliando i capelli, segno del suo abbandono dell’adolescenza. Alla vigilia delle nozze i due futuri sposi si purificavano col rito del bagno al canto di imenei, che propiziavano la generazione di ottima prole, e il padre della sposa offriva un sacrificio a Zeus, Era, Artemide, Afrodite e Peitò. La cerimonia vera e propria, come itinerario della donna dalla casa del padre a quella dello sposo, confermava che la vera protagonista del rito di passaggio e del mutamento di stato era appunto la donna. L’inizio era costituito da un banchetto in casa del padre, ove un bimbo passava tra i commensali recando pane e pronunciando la frase: «Hanno fuggito il male; hanno trovato il meglio» (ἔϕυγον κακόν, εὖρον ἄμεινον, cfr. Demosth. De coron. XVIII 259). Il pane stava a significare la transizione da un regime selvatico a uno civilizzato. Al banchetto la ragazza assisteva velata e attorniata da amiche e solo alla fine forse mostrava il volto ai presenti. Dopo canti di imenei, libagioni e auguri, un corteo notturno illuminato da fiaccole accompagnava la ragazza, che su un carro giungeva alla casa dello sposo, dove entrava recando un vaglio da orzo, che prefigurava la sua nuova attività di preparazione del cibo. Presso il focolare della nuova casa essa riceveva l’offerta di dolci e fichi secchi, che sancivano la sua integrazione in essa. Successivamente i due sposi entravano nella camera nuziale, alla cui porta faceva la guardia un amico del marito, e consumavano il matrimonio. Nel suo stesso svolgimento spaziale la cerimonia nuziale appariva un transito da casa a casa, più che dallo spazio privato della casa a quello ampio e pubblico della città: con la sua mobilità, la ragazza consentiva l’istituzione di un legame tra due famiglie.
di I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca. Vol.I Dalle origini al V secolo a.C., Firenze 2004, pp. 299-301.
Nel mondo greco, il simposio (sympósion) rappresentò un momento di aggregazione di grande importanza culturale, sociale, politica e sacrale. Si trattava di una riunione esclusivamente maschile che ebbe probabilmente la sua più lontana origine nel cosiddetto “banchetto ospitale” descritto nei poemi omerici, celebrato in occasioni particolari, con scopi sia pratici che celebrativi (Il. VII. 313-344; Od. IX. 1-38). Anche l’associazione fra l’assunzione del cibo, la sacralità e l’ascolto del canto, tipica del simposio in età storica, era già presente nei poemi omerici; tale consuetudine traspare infatti nell’accoglienza riservata da Achille ai compagni che si recano da lui in ambasceria. In primo luogo, al momento del loro arrivo, l’eroe suona la cetra, rievocando «glorie di eroi» (kléa andrōn), mentre Patroclo lo ascolta in silenzio; subito dopo, il Pelide invita il compagno a porre in mezzo un cratere più grande, a mescolare una maggiore quantità di vino e ad offrire una coppa a ciascuno dei presenti. Segue poi l’offerta di cibo, preceduta dal sacrificio agli dèi sul focolare domestico; soltanto al termine del pasto, Fenice, il più anziano del gruppo, espone ad Achille il motivo della loro visita (Il. 186-221). Nell’Odissea si vedono i cantori che intrattengono gli ospiti; questi sono aedi professionisti, ospiti fissi del re a cui dedicano le loro performances, nelle quali compaiono anche argomenti entrati da poco a far parte della tradizione epica, come il racconto del rientro degli eroi dalla Troade (Od. I. 326-344), o il ben noto inganno del cavallo.
Nei poemi omerici, il “banchetto” è generalmente definito daís, mentre il vocabolo sympósion compare per la prima volta in due frammenti del VII secolo a.C., uno di Alceo ed uno di Teognide, per indicare un momento di aggregazione sostanzialmente diverso dal convito eroico, cioè una forma di intrattenimento privato, riservata ad occasioni particolarmente solenni. Oltre che al bere, sancito da regole che imponevano la moderazione, il simposio era dedicato alla discussione di argomenti politici, culturali o filosofici, all’ascolto della poesia, del canto e della musica, a vari generi di intrattenimento; le uniche donne che vi prendevano parte erano musiciste, danzatrici, acrobate, giocoliere, disposte anche ad altre prestazioni richieste dagli ospiti. Un simile ambiente favoriva un genere di comunicazione interpersonale scherzosa e seria al tempo stesso, non priva di una certa sfumatura competitiva, ma sempre contenuta nei limiti dell’autocontrollo e del buon gusto.
Fra gli svaghi preferiti c’erano l’improvvisazione poetica e giochi che si configuravano come vere e proprie gare, con premi per i vincitori; notissimo quello del còttabo, che consisteva nell’infilare un dito nell’ansa della coppa quasi vuota, facendola roteare e cercando di colpire, con un ben mirato spruzzo del poco vino rimasto, alcuni gusci di noce che galleggiavano nell’acqua di un ampio recipiente, così da affondarli.
Pittore Cleofrade. Simposiasta che gioca al kottabos. Pittura vascolare sul tondo di una kylix attica a figure rose, 480 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.
Tali caratteristiche, che escludevano, almeno teoricamente, qualunque forma di eccesso (hýbris), sottolineavano l’assoluta diversità del «bere insieme» greco da consuetudini analoghe presenti anche presso popolazioni barbariche, come Sciti e Traci. Tuttavia, queste norme non erano sempre rispettate nel corso del kōmos, la manifestazione finale del simposio, una chiassosa scorribanda per le vie della città, che si concludeva con canti di vario genere – provocatori, erotici, politici, rituali – rivolti a ben precisi destinatari. Talvolta, i comasti si abbandonavano a critiche pungenti e diffamatorie (psógoi), a minacce, a profferte amorose; in qualche caso, i personaggi presi di mira rispondevano per le rime, come dimostra l’espressione proverbiale eis melíttas ekōmasas,«hai stuzzicato le api».
Il simposio aveva anche una connotazione religiosa, sottolineata dalla libagione iniziale in onore di Zeus, a cui prendevano parte tutti i presenti, seguita da quella in omaggio ad altre divinità. I partecipanti formavano un insieme omogeneo per estrazione sociale, educazione e stile di vita, l’ideologia politica, vista la loro origine, era di solito improntata ad un forte conservatorismo aristocratico. L’appartenenza ad un gruppo politico, detto heitaireía, “eteria”, era rafforzata da un giuramento che ne sanciva la sacralità, la compattezza e l’impegno totale. In conseguenza di ciò, il simposio rappresentava un ambiente di elezione per la determinazione di un ḗthos, un “comportamento comune”, diverso dal legame di sangue che univa i componenti di un génos, ma non meno forte e non necessariamente in contrasto con esso.
Lo spazio destinato al simposio era l’andrōn, la “sala degli uomini”, che, nell’abitazione privata di un aristocratico o alla reggia di un sovrano o di un tiranno, aveva le stesse funzioni dell’antico mégaron, la grande sala del focolare descritta nei poemi omerici; tali riunioni rappresentavano un’alternativa sia all’ambiente dell’oikos, in cui si svolgeva la normale vita familiare del singolo, sia all’agorà, centro della vita collettiva della comunità. I commensali stavano sdraiati, singolarmente o in coppia, su lettucci o divani distribuiti lungo le pareti della sala, secondo una consuetudine che determinava nello stesso tempo l’organizzazione dello spazio simposiale e le dimensioni del gruppo. Poiché l’andrōn era una sala appositamente disegnata per contenere un numero fisso di lettucci, di solito sette, undici o quindici, il numero degli invitati oscillava tra i quattordici e i trenta, cosa che favoriva la formazione di piccoli gruppi omogenei e di forte stabilità.
Scena simposiale, Affresco, 480-470 a.C. ca. da Paestum, Tomba del Tuffatore (Parete settentrionale).
Uno dei rituali del simposio riguardava la separazione del cibo dalle bevande, consumati insieme durante il pasto normale (il deîpnon, “cena”); invece, nel corso del successivo sympósion ci si dedicava soprattutto al vino, accompagnandolo con semplici focacce, dette pópana, o con dolci, come le pyramídes, pasticcini di sfoglia di farina ripieni di miele e ricotta. Anche l’arredo del simposio presentava caratteristiche proprie, con mobili di buona fattura, talora decorati ad intarsio, resi più confortevoli da cuscini e tappezzerie e con vasellame apposito per le esigenze simposiali: il cratere per mescolare acqua e vino, lo psychthḗr per far raffreddare la miscela, brocche per distribuirlo e una notevole varietà di coppe per berlo.
Le immagini che ornano il vasellame rappresentano scene ispirate ai miti eroici, episodi di guerra e situazioni desunte dai repertori poetici, oppure immagini di attività tipicamente maschili, comuni nella vita dell’aristocrazia, come l’atletica, la caccia e il corteggiamento omosessuale.
Poiché la poesia e la musica costituivano l’elemento centrale del simposio, esso divenne l’ambiente di elezione della lirica, lontana tanto dall’universale oggettività dell’ἔπος, quanto dalla funzione pubblica del canto nelle solennità civili, religiose o agonistiche. Con il doppio flauto (aulós), tipico delle attività militari, si accompagnava la poesia elegiaca; fra gli strumenti a corda si utilizzavano il bárbiton e la lýra a sette corde; quest’ultima – inventata da Terpandro di Lesbo – divenne lo strumento tipico di questo genere poetico. Le forme metriche riflettevano la consuetudine della gara spontanea e della creazione estemporanea da parte di poeti occasionali: il distico elegiaco era particolarmente adatto all’improvvisazione, quando un tema scelto veniva sviluppato a turno da tutti i convitati.
Le componenti essenziali dell’atmosfera simposiale venivano indicate con i termini di euphrosýnē, hēsychía, cháris.
Gruppo dei pittori della Situla di Dublino. Apollo, Dioniso ed Hermes a banchetto. Pittura vascolare su situla apula a figure rosse, 350-330 a.C.
Il primo significava propriamente “gioia”, ma anche “festa”, e indicava la condizione psicologica, individuale e collettiva, derivante dalla presenza di persone amiche e gradite, non troppo numerose e ben selezionate, dal clima festivo (il simposio infatti era in genere la conclusione in ambiente privato di una panḗgyris, una “festività pubblica”, oppure la celebrazione di una lieta occasione personale); il secondo esprimeva la “serenità” o la “tranquillità” dei partecipanti, liberi da preoccupazioni immediate e disponibili a condividere pienamente la gradevole esperienza di una compagnia piacevole e stimolante. Tale atmosfera era arricchita dalla pístis, la “fiducia”, e dalla “concordia” o “identità di vedute” (homónoia), da cui scaturivano tranquillità e confidenza reciproca. Infine, con l’ultimo termine, che indicava la “grazia”, si esprimeva la raffinata capacità estetica di godere di tutto ciò che il simposio offriva di bello e di gradevole: suppellettili eleganti, fiori, profumi, vivande e vini di alta qualità, presentati da servi di bell’aspetto e di modi garbati, divertimenti di vario genere, ma, soprattutto, la conversazione, la musica, il canto.
I temi della poesia simposiale riflettevano gli interessi del gruppo e il suo aristocratico stile di vita: le imprese eroiche, la guerra, l’attività politica e l’incitamento all’azione – dai toni ora polemici, ora esortativi – ; gli inni, sia seri sia scherzosi, erano dedicati agli dèi preposti al simposio. Mancavano del tutto gli accenni alla vita familiare e al ruolo della donna libera, mentre erano frequenti le liriche ispirate all’amore etero ed omosessuale e le allusioni alle etere o alle schiave che partecipavano al simposio in veste di cantanti, danzatrici, musiciste ed intrattenitrici.
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