La Neosofistica (o Seconda Sofistica)

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Nascita e consolidamento del movimento

L’insegnamento della retorica, insieme a quello della filosofia, costituiva la base della formazione culturale dei giovani che intendevano dedicarsi alla carriera politica. Tuttavia, non tutti quelli che seguivano questi studi divenivano magistrati o funzionari pubblici; molti di loro, e spesso i più brillanti, dopo aver raggiunto un alto livello di preparazione, facevano dell’eloquenza una fonte di celebrità e di guadagno, spostandosi in varie città per esibirsi in declamazioni pubbliche nelle piazze, nei teatri, alle terme (soprattutto a Roma) o in auditoria, affittai per l’occasione e frequentati da un pubblico eterogeneo, in cui, peraltro, non mancava una componente di buon livello culturale, capace di giudizi solidamente fondati. Gli oratori pronunciavano di solito discorsi preparati in precedenza, ma improvvisavano anche su argomenti proposti dal pubblico. I temi erano, in genere, quelli tradizionali dell’oratoria epidittica e occasionale (encomi, λόγοι ἐπιτάφιοι, genetliaci di personaggi illustri); ma a essi si affiancavano anche argomenti meno consueti, talora addirittura insoliti o stravaganti (παίγνια, «scherzi»), adatti a far risaltare la bravura del retore e a suscitare la meraviglia del pubblico, con esempi di consumata tecnica oratoria, sostenuta da finezze stilistiche e “concettismi” da fare invidia a qualunque autore barocco.

La definizione di “neosofistica” è dovuta al retore Filostrato, nato fra il 160 e il 170, autore di un opuscolo intitolato Vite dei sofisti, che aveva suddiviso l’eloquenza greca in tre periodi: l’antica Sofistica ateniese, i dieci oratori attici del canone alessandrino, la neosofistica. Egli considerò antesignano del movimento il retore Niceta di Smirne, vissuto al tempo di Nerone, che, con il suo discepolo Scopeliano di Clazomene, aveva rinnovato nei suoi discorsi il fasto formale dell’eloquenza di Gorgia. Va detto, infatti, che questo genere di oratoria, che fiorì soprattutto sotto Adriano (117-138), si propose, in teoria, di riprendere sia gli accorgimenti tecnici e stilistici sia l’impostazione didattica dell’antica Sofistica; ma, in pratica, non operò nessuna innovazione o rivoluzione concettuale, limitandosi a coltivare l’aspetto più esteriore dell’eloquenza. Da questo punto di vista, tuttavia, la neosofistica ebbe una sua utilità, in quanto, da un lato, sviluppò e perfezionò gli aspetti tecnici dell’ars dicendi, anche se spesso a fine di esibizione o di lucro; dall’altro, rivolgendosi a un pubblico socialmente e culturalmente assai vario, ebbe il merito di abbandonare l’ambiente della scuola, affrontando esperienze più concrete e colmando almeno in parte il vuoto lasciato dalla scomparsa del teatro. Inoltre, i personaggi più in vista del movimento ebbero frequentemente una certa importanza nella politica del tempo, poiché la notorietà aprì loro le porte della corte imperiale.

A causa del suo esasperato formalismo, la neosofistica non poté rimanere estranea alla polemica fra asiani e atticisti, alla quale, però, non apportò alcun contributo significativo; infatti, mentre la sua stessa natura e i suoi fini la portarono a orientarsi piuttosto verso le tendenze stilistiche dell’Asianesimo, al tempo stesso, il desiderio di emulare i grandi oratori ateniesi del IV secolo a.C. fecero sì che anche l’Atticismo assumesse una notevole importanza all’interno del movimento.

Scena di scuola. Rilievo, marmo, inizi III sec. d.C. ca. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

I principali esponenti della neosofistica

Seguace e discepolo di Scopeliano fu Polemone di Laodicea, il primo neosofista di cui sia pervenuto qualcosa. Vissuto fra l’88 e il 145, restano di lui due declamazioni in stile asiano, in cui i padri di due caduti a Maratona si disputano l’onore di tenere il discorso celebrativo per gli eroi caduti.

Antonio Polemone di Laodicea. Busto, marmo pentelico, 140 d.C. ca. dall’Olympeion di Atene. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il vero iniziatore della neosofistica deve però essere considerato il retore Dione, divulgatore della filosofia cinica e stoica. Nato a Prusa, in Bitinia, nel 40 da una ricca famiglia, costui si dedicò fin da giovane agli studi retorici e filosofici, sotto la guida di C. Musonio Rufo, maestro stoico assai rinomato sotto il principato di Nerone, e poi esiliato dallo stesso Cesare con l’accusa di aver preso parte a una congiura. Sotto i Flavii Dione raggiunse una certa notorietà per le sue declamazioni, ma all’inizio del regime di Domiziano fu coinvolto in un processo politico (forse a causa della sua amicizia con Flavio Sabino, caduto in disgrazia presso l’imperatore), e mandato in esilio. Iniziò così per Dione un periodo di vita raminga e disagiata, che lo portò dai Balcani all’Asia Minore e fino alle lande a nord del Ponto Eusino. Tuttavia, la convinta adesione alla dottrina cinica lo aiutò a sopportare questo difficile momento della sua esistenza, nella quale non gli venne mai meno l’interesse per la cultura – tanto che approfittò dell’esilio per raccogliere materiale geografico ed etnografico per comporre una monografia sul popolo dei Geti (purtroppo andata perduta). Quando M. Cocceio Nerva ascese al trono imperiale, Dione poté far rientro a Roma; e, grazie alla simpatia del princeps, gli fu conferita la civitas Romana e il diritto di fregiarsi del cognomen di Cocceiano. Il favore imperiale lo accompagnò anche sotto Traiano, al quale Dione dedico alcune delle sue più famose orazioni. A un certo momento, però – non se ne conoscono i motivi –, Dione decise di tornare nella sua Prusa per aprirvi un scuola di retorica. A quanto pare, ciò gli suscitò le invidie di alcuni concittadini, che nel 111-112 lo accusarono di fronte al legato imperiale C. Plinio Cecilio Secondo (Plinio il Giovane). Da quel momento in poi non si hanno più tracce di Dione; probabilmente morì poco dopo, fra il 115 e il 120.

A testimonianza della duplice attività filosofica e retorica di Dione di Prusa rimane un corpus di ottanta orazioni (due sono certamente del suo allievo Favorino di Arelate): si tratta in gran parte di declamazioni fittizie, di παίγνια (come l’elogio del pappagallo o quello della mosca), di diatribe, di esercitazioni letterarie o filosofiche in forma dialogica; una stretta minoranza sono discorsi epidittici, pronunciati in diverse occasioni. Di particolare interesse per la critica moderna, l’orazione In Atene sull’esilio, di carattere fortemente autobiografico; tuttavia, le notizie in essa contenute vanno prese con una certa cautela, perché occorre tenere presente che il tema dell’esilio costituiva un tópos della filosofia stoica e si prestava benissimo a rielaborazioni letterarie e a spunti consolatori (come accadde già in Seneca), spesso assai lontani dalla realtà dei fatti.

Dione Crisostomo, Orazione ΠΕΡῚ ΒΑΣΙΛΕΙΑΣ Α (p. 43), edizione critica di Johann Jacob Reiske (1784).

Lo stile dioneo dimostra una valida conoscenza della migliore prosa attica (Platone, Senofonte, Demostene), che si traduce nella capacità di delineare con vivacità scene e caratteri, soprattutto quando si tratta delle popolazioni barbariche da lui visitate nel suo esilio o nell’osservazione della natura e degli animali. La lingua utilizzata è quella della koiné, caratterizzata però da una singolare limpidezza, dovuta allo sforzo di accostarsi ai modelli attici.

Di origine celtiche, nato ad Arelate in Gallia Narbonensis (od. Arles) nell’85, Favorino è un rappresentante di quella classe di intellettuali che, pur essendo estranei per nascita al mondo greco, ne appresero ben presto la lingua e ne ammirarono la cultura. Amico dello storico Plutarco, da ragazzo Favorino si trasferì a Roma, dove seguì le lezioni di Dione. Divenuto un abile e brillante oratore, si diede alla carriera di conferenziere itinerante, conquistandosi grande fama e ricchezza. Tuttavia, al tempo dell’imperatore Adriano, per motivi rimasti ignoti, fu esiliato nell’isola di Chio, dove rimase fino a quando Antonino Pio non gli revocò la condanna e gli permise di rientrare nell’Urbe, nel 136.

Favorino, dunque, aprì una propria scuola, che fu frequentata anche da personaggi destinati a diventare celebri, come Aulo Gellio ed Erode Attico. Scomparve verso la metà del II secolo, in una data che non si è in grado di precisare.

La vasta mole delle opere di Favorino è andata quasi completamente perduta: il poco che resta, comunque, rivela una cultura multiforme e varia, che spazia dalla filosofia alla retorica, dalla storia alla pura erudizione. Fra gli scritti filosofici si possono annoverare i Memorabili, cinque libri dedicati alle biografie dei filosofi più illustri, che denotano uno spiccato gusto per l’aneddotica, e i Discorsi pirroniani, in dieci libri. Carattere paradossale e spiccatamente sofistico avevano le declamazioni Sulla febbre quartana e In difesa di Tersite. Anche Favorino, come il suo maestro, del resto, ha lasciato scritto un discorso Sull’esilio, di impostazione cinico-stoica, che è però poco più che un elenco di luoghi comuni sull’argomento.

Uomo togato. Statua, marmo, 100-250 d.C. ca. da Roma.

Il più brillante esponente della neosofistica nel II secolo fu Tiberio Claudio Attico Erode, discepolo di Favorino. Nato a Maratona nel 101, si trasferì ad Atene, dove ricoprì importanti incarichi politici. Inoltre, le sue notevoli disponibilità finanziarie gli permisero di distinguersi per generosità nei confronti di varie città greche che abbellì di monumenti ed edifici pubblici, come l’Odeon che fece costruire ad Atene. Giunto a Roma, vi ebbe una fortunata carriera politica che culminò nell’elezione al consolato nel 143, e che fu accompagnata da una grandissima fama come maestro di retorica. La sua scuola fu frequentata da Marco Aurelio e da Lucio Vero, che gli furono affidati dell’imperatore Antonino Pio. Della vasta opera di Erode Attico, scomparso ad Atene nel 177, è pervenuta una sola orazione, Sullo Stato, un vero esempio della perfezione stilistica a cui egli era giunto nell’imitazione dei modelli classici. Erode, infatti, aveva composto quel discorso rifacendosi allo stile del sofista Trasimaco di Calcedone, attivo intorno al 430-400 a.C., raggiungendo risultati tali da indurre alcuni studiosi ad attribuirne la paternità proprio a Trasimaco.

Contemporaneo di Erode Attico fu Elio Aristide, nato ad Hadriani ad Olympum, in Bitinia negli anni fra il 117 e il 129. Dopo aver acquisito una solida formazione retorica, nella quale egli rivolse la propria preferenza soprattutto verso Isocrate, Elio Aristide intraprese una fortunata carriera di conferenziere, nel corso della quale viaggiò molto, in varie parti dell’Oriente romano. Nel 156 egli giunse anche nell’Urbe, dove, tuttavia, mostrò i primi sintomi di una malattia nervosa che lo avrebbe poi accompagnato per il resto della vita e sulla quale ebbe modo di soffermarsi a lungo nella sua autobiografia. Poiché le cure mediche del tempo non furono in grado di arrecargli alcun giovamento, Elio Aristide decise di affidarsi alla potenza taumaturgica di Asclepio e, perciò, si trattenne per diverso tempo a Pergamo, presso il santuario del dio: suo malgrado, però, non riuscì a ottenere la guarigione sperata. Il retore soggiornò a lungo anche a Smirne; anzi, poiché durante gli studi presso la scuola di Erode Attico aveva avuto per compagno lo stesso Marco Aurelio, con il quale aveva instaurato un profondo legame di amicizia e di stima, gli fu possibile perorare presso il princeps la ricostruzione della città, distrutta da un terremoto nel 178. Elio Aristide morì una decina di anni dopo, sotto Commodo, nel 188.

Elio Aristide. Statua, marmo, 200 d.C. ca. Roma, Musei Vaticani.

Della sua produzione rimangono cinquantacinque orazioni di vario argomento: alcune sono declamazioni fittizie, encomi, elogi di divinità; altre vertono su temi filosofici. Fra queste, in particolare, la più cospicua è intitolata Sulla retorica, nella quale l’autore abbraccia la tesi di Isocrate contro quella di Platone, sostenendo il primato dell’eloquenza rispetto alla filosofia e classificandola come τέχνη. Di carattere encomiastico è invece l’orazione In difesa dei quattro, in cui l’autore prende le parti di Milziade, Temistocle, Cimone e Pericle contro il giudizio negativo di Platone. In omaggio all’antica gloria di Atene, vincitrice sui Persiani, fu scritto il Pantatenaico, che rivela nel titolo una certa simpatia dell’autore verso Isocrate. Il ruolo di Roma come città pacificatrice del mondo e patria comune di tutte le genti cha abitano l’Impero è l’argomento dell’Elogio di Roma, che evidenzia anche il rapporto fra gli intellettuali e i Caesares. Più interessanti a livello autobiografico sono i Discorsi sacri, di argomento religioso, che Elio Aristide compose nella maturità, forse anche sotto l’effetto della malattia che lo aveva colpito. In questi testi egli descrive con incisiva precisione l’ambiente del tempio di Asclepio, popolato, oltre cha da ammalati, da gente di ogni risma, da curiosi, da turisti, da imbroglioni; l’autore mette a nudo anche la propria anima, sostenuta da una fede fanatica, che si affida con cieca credulità a sogni, a presagi, a tutte le manifestazioni sacre o ritenute tali. Di conseguenza, appare estremamente difficile per il lettore moderno discernere la religiosità dalla superstizione, visto il clima di esaltazione misticheggiante dell’opera, alla quale non è alieno, però, un certo compiaciuto sfoggio di bravura compositiva: infatti, da un punto di vista formale, per l’ampiezza dell’erudizione e per la ricchezza e la frequenza delle citazioni letterarie, Elio Aristide può essere considerato uno degli esponenti più validi della neosofistica, anche se non è sostenuto da pari originalità di pensiero.

I neosofisti minori

Sotto l’impero di Commodo soggiornò a Roma Massimo di Tiro, un retore itinerante vissuto nella metà del II secolo, del quale restano quarantuno diatribe composte per la scuola, su argomenti di filosofia popolare. I temi proposti (Se si debba preferire la vita del Cinico, Se Socrate abbia fatto bene a non difendersi) permettono all’autore di far valere i propri mezzi dialettici, sostenuti da un pensiero filosofico non molto profondo, di impronta eclettica, in cui Platone occupa un posto di rilievo, mentre Epicuro ne è escluso del tutto. Ciò è dovuto prevalentemente al fatto che l’autore possiede una visione trascendente della divinità e crede che essa sia circondata da un’infinità di entità soprannaturali, che agiscono da intermediarie con il mondo degli uomini – teoria, questa, assolutamente inconciliabile con la concezione epicurea del cosmo.

Completamente estraneo all’attività di retore vagante fu invece Claudio Eliano, che non lasciò mai la città di Praeneste, in cui era nato intorno al 175, se non per recarsi a Roma, dove sarebbe morto nel 235 circa. Anche lui, come già Favorino, apprese la lingua e la cultura greche a scuola, dove ebbe come maestro il sofista Pausania. Concentrò di preferenza la propria attenzione all’osservazione della natura e del mondo animale, sul quale compose un’opera di diciassette libri. Tuttavia, Eliano non fu sostenuto da intenti scientifici né da personali osservazioni autoptiche, ma piuttosto da curiosità per quanto altri naturalisti avevano scritto prima di lui; così l’opera si presenta come una specie di antologia di altri testi (di Aristotele, di Teofrasto, di Nicandro e altri), letti e compilati con uno spiccato gusto per l’esotico e l’inconsueto. La stessa tendenza alla compilazione diligente, ma con scarsi apporti personali, si nota in un’altra opera, di cui sono pervenuti ampi frammenti, la Storia varia, suddivisa in quattordici libri: in essa l’autore raccolse una vasta serie di aneddoti su personaggi famosi, usando come fonti gli scritti di Ctesia, Teofrasto, Teopompo e Timeo.

Tib. Claudio Erode Attico. Busto, marmo, 161 d.C. ca. da Probalinthos (Attica). Paris, Musée du Louvre.

L’interesse per il mondo naturale, assai vivo nella cultura del II secolo, è ben documentato anche da un’altra antologia, redatta ad Alessandria e pervenuta anonima in varie redazioni e traduzioni medievali (greche, etiopiche, siriache, armene e numerose latine), con il titolo di Physiologus (lo «studioso della natura»): questo testo attraverso gli esempi tratti dal regno animale illustra e divulga in forma allegorica le dottrine dogmatiche e morali del Cristianesimo; il suo autore, inoltre, si mostra più esperto di testi sacri che di scienza naturale. Per lungo tempo il libro fu utilizzato dalla patristica (Epifanio, Basilio, Crisostomo, ecc.), e nel VI secolo fu perfino attribuito ad Ambrogio. L’opera costituì l’antecedente dei tanti bestiarii prodotti nei secoli medievali.

Fra i neosofisti minori si può anche annoverare il già menzionato Filostrato, detto “il Maggiore”, per distinguerlo da altri tre scrittori omonimi menzionati nel lessico Suda e che, rispettivamente, furono suo padre – delle cui opere non è rimasto nulla – e suo nipote. Filostrato nacque fra il 160 e il 170, studiò con i retori Damiano di Efeso e Antipatro di Hierapolis e si trasferì a Roma al tempo di Settimio Severo, assumendo il nome di Flavio Filostrato. Molto apprezzato nella cerchia della famiglia imperiale e soprattutto dall’Augusta Giulia Domna, egli fu costretto a lasciare l’Urbe dopo la tragica fine dell’imperatrice e di suo figlio Caracalla, che era stato suo amico e protettore. Filostrato si recò allora ad Atene, dove morì probabilmente intorno al 249, sotto il principato di Filippo l’Arabo, comandante del pretorio salito al trono dopo l’assassinio di Gordiano.

Ingegno vario e versatile, Filostrato applicò la sua cultura di retore soprattutto alla composizione di opere narrative di contenuto storico, nelle quali, però, non esitò a mescolare ad avvenimenti e a personaggi ben documentabili anche elementi favolosi. Ciò si nota con chiarezza nella sua opera già menzionata, le Vite dei sofisti, che comprende le biografie dei sofisti greci da Gorgia ai propri contemporanei. La raccolta, in due libri, composta fra il 229 e il 238, fu dedicata al proconsole Antonio Gordiano. Oltre a interessanti notizie biografiche, essa presenta anche una serie di citazioni letterarie di numerosi passi delle opere degli autori menzionati, offrendo una piacevole e varia lettura. Per desiderio dell’imperatrice Giulia Domna, Filostrato compose anche la Vita di Apollonio di Tyana, in otto libri, biografia del filosofo pitagorico vissuto nel I secolo e divenuto celebre per la sua fama di mago, profeta e taumaturgo. Nonostante la discutibile attendibilità dell’opera, che può essere considerata più che altro un romanzo biografico, essa propone una gradevole lettura per la ricca serie di notizie sulle civiltà orientali e per la scioltezza e la vivacità del racconto.

Achille alla corte di Licomede. Bassorilievo, marmo attico, 240 d.C. ca. da un sarcofago (dettaglio), Roma. Paris, Musée du Louvre.

Quasi nello stesso periodo, Filostrato redasse L’eroico, un lungo dialogo di impronta platonica, i cui protagonisti sono un vignaiolo greco e un marinaio fenicio, che, per caso, si incontrano su una spiaggia nel Chersoneso tracico: il Greco di ritorno da una visita al tempio dell’eroe Protesilao, il Fenicio in attesa di venti più favorevoli alla navigazione. Il Fenicio, curioso delle usanze elleniche, rivolge numerose domande al suo occasionale interlocutore, il quale risponde con piacere, affabilità e competenza, illustrando i miti di Protesilao, Palamede, Ettore, Achille e altri eroi, attingendo le sue informazioni ai poemi omerici e ciclici, ma modificandole secondo la cultura religiosa del tempo. Questo aspetto costituisce, in effetti, l’elemento di maggiore interesse dell’opera, perché consente di conoscere quali cambiamenti avevano subito nel tempo le leggende eroiche (una è quella degli Eneadi) e come erano state adattate agli usi e alle cerimonie locali.

Interessante è anche il Ginnastico, che fornisce notizie sulle competizioni e sulle specialità sportive del II-III secolo. Di argomento più erudito e vario sono i due libri delle Immagini, una raccolta in prosa che contiene le descrizioni di sessantacinque quadri conservati in una pinacoteca di Napoli. Questo genere letterario, detto “ecfrastico” (da ἔκφρασις, «descrizione»), ha i suoi precedenti nella poesia di Callimaco, di Teocrito, di Eroda e degli epigrammatisti; inoltre, alcuni decenni prima di Filostrato, i retore Nicostrato il Macedone aveva composto, usando per la prima volta la prosa, una raccolta di brevi descrizioni di opere d’arte. Gli studiosi sono stati a lungo incerti sulla reale esistenza dell’antologia di Filostrato, perché nelle scuole di retorica la descrizione fittizia di capolavori dell’arte era un esercizio piuttosto comune; tuttavia, sembra probabile che qui lo scrittore faccia riferimento a quadri realmente esistiti e veduti da lui stesso.

Di Filostrato “il Minore”, figlio di Nerviano e di una figlia del “Maggiore”, si può ricordare una raccolta di diciassette Immagini, assai analoga a quella del nonno, ma molto più ridotta nell’estensione delle singole descrizioni e meno brillante nell’esposizione. Dell’opera di un altro Filostrato, nato intorno al 190, non è rimasto nulla.

Tib. Claudio Erode Attico (forse). Testa, marmo pario, 177-180 d.C. ca.

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L’atteggiamento dei cristiani verso il potere e l’Impero prima di Costantino

di M. Rizzi, relazione al convegno internazionale di studio Costantino il Grande. Alle radici dell’Europa, 19 aprile 2012 (in Zenit.org).

Le complesse motivazioni che hanno condotto Costantino alla scelta di legittimare prima, e sostenere poi il Cristianesimo sono state oggetto di molteplici studi […]. Il mio contributo si propone, più limitatamente, di indagare l’evoluzione dell’atteggiamento dei gruppi cristiani nei confronti del potere politico – e specificamente verso quello di Roma – nell’arco di tempo che va dalla metà del primo secolo sino alla svolta costantiniana, per verificare se anche ciò abbia in qualche modo potuto concorrere ad essa.

Anticipando le conclusioni di quanto cercherò di mostrare, si può affermare che accanto ad una linea di pensiero che mantiene a lungo il carattere di generica riflessione sul potere nelle sue varie manifestazioni e sugli obblighi dei cristiani verso di esso, si è progressivamente venuta elaborando, specie in Occidente, una più puntuale riflessione sui caratteri e le funzioni proprie dell’Impero romano; una dinamica che risulta tanto più significativa perché sviluppatasi in parallelo allo strutturarsi dell’organizzazione ecclesiastica nella forma del mono-episcopato cittadino e, nella pars occidentis dell’Impero, della sua gravitazione su Roma.

Vespasiano. Denario, Roma 69-70 d.C. Recto: Personificazione della Giudea in catene a destra di un trofeo; Iudaea (in exergo).
Vespasiano. Denario, Roma 69-70 d.C. Recto: Personificazione della Giudea in catene a destra di un trofeo; Iudaea (in exergo).

Al cuore della prima fase della riflessione cristiana sul potere, sta un problema molto concreto e sentito nel contesto giudaico prima, e poi più generalmente nella sensibilità delle popolazioni orientali sottomesse a Roma, ovvero quello della tassazione.

Nella formulazione paolina del tredicesimo capitolo della Lettera ai Romani («rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse, le tasse; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore»), che nel corso dei secoli ha rappresentato il testo chiave di ogni teologia politica cristiana, sono nitidamente individuate le due forme di tassazione proprie del sistema fiscale romano: l’imposta capitaria sulle persone e i patrimoni (phóros/tributum), inteso quale segno di sottomissione al potere del vincitore, e quella indiretta sulle attività e le transazioni economiche (télos/vectigal); accanto ad esse, viene distinta l’obbedienza dovuta a chi esercitava il potere giudiziario, su delega dell’autorità superiore, per giudicare e reprimere il crimine (phóbos/timor), dalla sottomissione riservata al detentore del potere politico in quanto tale (timḗ/honor).

Così, pur indirizzate ai cristiani di Roma dove risultavano immediatamente tangibili, le parole di Paolo conservavano il loro pieno significato anche in altri contesti geografici e sociali, in accordo con le forme dell’articolazione gerarchica e personale con cui tali poteri venivano concretamente esperiti dai primi cristiani che li identificavano nel locale esattore delle tasse o nei soldati preposti all’ordine pubblico piuttosto che in altre figure intermedie.

Paolo di Tarso. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro
Paolo di Tarso. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro.

La riflessione di Paolo, pur ancora nell’orizzonte di un’escatologia imminente, si sforza così di dettare una serie di indicazioni valide per il tempo di sospensione che da quello separa ancora il presente; per contestualizzarle in dettaglio, sappiamo ad esempio da Tacito che in quel torno di anni la popolazione di Roma era in subbuglio per il peso del carico fiscale, cosa che indusse Nerone ad una parziale modifica del sistema daziario.

Le affermazioni paoline avevano dunque con ogni probabilità una portata del tutto contingente, senza essere state pensate dallo stesso Paolo come un precetto assoluto – come peraltro l’esegesi antica tenne fermo a lungo, risultando in ciò assai più avveduta di molta esegesi “scientifica” moderna; erano tuttavia destinate a caricarsi di una portata ben più ampia, come detto.

Scrivendo qualche decennio più tardi, l’autore della prima lettera di Pietro riprende letteralmente parecchie delle idee paoline sul rapporto di subordinazione dei cristiani nei confronti dell’autorità, sforzandosi però di collocarle in termini più efficaci dal punto di vista politico-amministrativo, distinguendo il basileús dai «governatori inviati da lui», e senza menzionare direttamente le tasse.

Il timore (phóbos) questa volta viene riservato a Dio, mentre si ribadisce come l’onore (timḗ) vada tributato al basileús; fattore unificante (lo ritroviamo anche nella prima lettera di Timoteo) dell’atteggiamento dei cristiani verso il potere diviene la preghiera in favore dei governanti, che viene presentata come una manifestazione libera e spontanea di lealismo, andando a sostituire su di un piano spirituale il tributo materiale e imposto della tassazione – ovviamente a livello di enunciati prescrittivi, perché dopo le parole fatte apporre da Pilato sulla croce di Gesù secondo il vangelo di Luca, aperte rivolte fiscali sono sempre rimaste tendenzialmente estranee alla prassi cristiana dei primi secoli.

Nerva. Sesterzio, Roma 97 d.C. Æ 25 gr. R – FISCIIVDAICICALVMNIASVBLATA. SC divise da una palma.
Nerva. Sesterzio, Roma 97 d.C. Æ 25 gr. Recto: legenda – fisci Iudaici calumnia sublata / s(enatus) c(onsultu). Una palma.

Questa linea di pensiero, che imposta l’atteggiamento cristiano verso il potere attorno all’idea della sottomissione e del lealismo testimoniati dalla preghiera, si snoda senza soluzione di continuità dalla fine del I secolo sino alla metà del III, a partire dalla lettera di Clemente Romano ai Corinzi, che ribadisce il dovere della preghiera per i regnanti, passando per Giustino, che unitamente alla riaffermazione della fedeltà fiscale dei cristiani cerca di depotenziare ogni implicazione politica del concetto di «regno di Dio» dichiarandone la natura esclusivamente spirituale e ultraterrena, sino a Origene, che ne rappresenta il momento speculativamente e teologicamente più avanzato e avvertito.

Questi, nel contesto del dibattito che travagliava le chiese sull’atteggiamento da assumere nei periodi di persecuzione, non esita ad affermare sulle orme di Paolo il dovere dei cristiani di restare sottomessi pure ad un sovrano ingiusto e persecutore, che comunque dovrà rendere conto di sé a Dio nel momento del giudizio; del resto, per Origene, il potere politico viene esercitato nell’ambito di quella dimensione terrena che il cristiano è chiamato a trascendere per attingere già in questa vita alla vera realtà spirituale.

Se, nella prospettiva cristiana, l’esercizio dell’autorità secolare acquisiva in questo modo un proprio statuto autonomo di legittimità, legato all’idea di legge naturale universalmente conoscibile che deve ispirarne l’azione, una tale posizione scontava due gravi limitazioni agli occhi dei detentori del potere imperiale: anzitutto una certa indeterminatezza storico-politica, per cui qualsiasi autorità risultava di fatto fungibile da parte dei cristiani, senza che una eventuale incorporazione del loro Dio nel pantheon romano ne garantisse appieno la fedeltà, dato il carattere universalistico e non etnico-territoriale della loro religione, diffusasi anche al di fuori dei confini dell’Impero (e in questo senso è significativo il protettorato che Costantino proclamerà nei confronti del cristiani residenti al di fuori dei suoi diretti dominii all’indomani dell’accesso al potere anche nella pars orientis dell’Impero).

Soprattutto, a distanza di settant’anni da quando Celso, a nome di Marco Aurelio, aveva sollecitato i cristiani ad assumere un ruolo più attivo nella difesa militare e nella gestione politica dell’Impero (specie delle concrete vicende dell’autogoverno cittadino), la risposta di Origene non andava al di là di reiterate proclamazioni di lealismo e promesse di preghiere, nonostante l’estensione universale della cittadinanza avvenuta con la Constitutio Antoniniana e lo stesso avvicinamento delle élites cristiane al potere imperiale nel periodo della ben disposta dinastia severiana.

Sarà solo con l’editto di Serdica del 311, che l’autorità romana, nella persona di Galerio, accetterà controvoglia le preghiere dei cristiani, inserendole, sia pure con difficoltà, nel tradizionale schema teologico- politico romano della pax deorum: «Poiché vedemmo che essi non tributavano la dovuta venerazione agli dèi celesti e che neppure onoravano il Dio dei cristiani (…) in conformità a quanto da noi disposto, i cristiani sono tenuti a pregare il loro Dio per la salvezza nostra, della res publica e di loro stessi, affinché in ogni modo la res publica si confermi integra ed essi possano vivere sereni nelle loro case».

M. Aurelio Numeriano. Antoniniano, Lugdunum 284 d.C. AR-Æ 3, 41 gr. Obverso: Statua della Pace, stante verso sinistra, reggente un ramo d’olivo nella destra e uno scettro, posto di traverso nella sinistra; legenda: Pax Aug(usti); B, punzonata a sinistra della figura.

Che per di più tra i cristiani dei primi secoli l’ermeneutica delle parole di Paolo non fosse solo quella che sfociava nel lealismo e nelle preghiere per i sovrani, bensì fossero possibili sulla loro base anche atteggiamenti che agli occhi delle autorità romane dovevano risultare quanto meno ambigui, è testimoniato dal breve resoconto degli atti dei martiri scilitani, risalenti al 180; il loro portavoce, Sperato, ha con sé proprio le lettere di Paolo «un uomo giusto» e per definire la sua posizione afferma di non aver commesso furto, bensì di aver pagato la tassa (teloneum) ogni volta che ha acquistato qualcosa, perché «conosco il mio signore (dominum), re dei re (rex regum) e imperatore (imperator) di tutte le genti», anche se «non conosco l’Impero (imperium) di questo mondo».

Dal canto suo, Donata, una sua compagna, non esita a proclamare «onore a Cesare come Cesare, ma timore a Dio (honorem Caesari quasi Caesari; timor autem Deo)»; la precisione della terminologia politica e amministrativa utilizzata mostra come il pagamento a Cesare delle tasse sulle transazioni non comporti nessuna ammissione di appartenenza o sottomissione che travalichi il semplice svolgimento ordinato della vita quotidiana: l’assenza di ogni menzione del tributum, la tassa capitaria, è altrettanto eloquente del rifiuto esplicito di riconoscere l’Impero e l’imperatore di questo mondo, in quanto tale e non come semplice Cesare. E il timore, come nel caso della prima lettera di Pietro, è riferito piuttosto a Dio, sommo giudice, che ha insegnato ai cristiani a non rubare, a non dire falsa testimonianza e a non uccidere.

Proprio nel drammatico contesto dell’ondata persecutoria accesasi intorno all’ultimo quarto del secondo secolo, di cui gli atti dei martiri scilitani sono testimonianza, la riflessione cristiana inizia a interrogarsi sulle condizioni e le caratteristiche specifiche del potere incarnato da Roma e dai Romani, avviandosi a superare la genericità delle indicazioni di matrice paolina sin lì dominanti.

Nel celebre frammento della sua apologia, trasmessoci da Eusebio di Cesarea, Melitone vescovo di Sardi sviluppa tre idee, di differente provenienza e destinate ad avere altrettanto diversa fortuna negli autori e nei decenni immediatamente successivi. La più celebre è legata al cosiddetto “sincronismo augusteo”, ovvero alla presunta coincidenza cronologica tra la fondazione dell’Impero da parte di Augusto e la diffusione al suo interno del Cristianesimo.

Nonostante la storiografia più recente, soprattutto di area anglosassone, abbia voluto vedere un antecedente esplicito di questa posizione nell’opera lucana, sino a spostare molto in avanti – addirittura in epoca adrianea – la redazione degli Atti degli Apostoli per farla coincidere con un periodo di relativa tranquillità per la nuova religione, è solo con Melitone che una simile affermazione viene formulata con nettezza.

Tuttavia, Melitone risulta meno ingenuo di quanto in genere gli storici siano disposti a concedergli. Infatti, egli si mostra ben cosciente della genesi sostanzialmente allotria del cristianesimo rispetto all’orizzonte propriamente romano, affermando che esso si è diffuso anzitutto tra i barbari, intendendo con ciò tutta l’area mediorientale piuttosto che il solo ambito giudaico, e riconoscendo altresì come per la sua propagazione si sia giovato del periodo di pace e stabilità garantite dall’Impero sino a Nerone e Domiziano, i quali furono non solo persecutori dei cristiani, ma pure causa di guerra civile o di sollevazioni senatorie che misero a repentaglio quella medesima pace e stabilità.

È questa la seconda idea teologico-politica melitoniana, ovvero l’associazione tra persecuzione, crisi dell’Impero, morte infamante dei persecutori, che si tradurrà di lì a poco nel tópos storico-letterario De mortibus persecutorum, e manterrà inalterata la sua fortuna anche in epoca costantiniana. Centrale per il superamento dell’originaria estraneità cristiana a Roma e alla sua cultura è però il terzo fattore, ovvero la presentazione del Cristianesimo come “filosofia”, sulle orme di una tradizione che si era avviata Aristide e si prolunga nella seconda generazione degli apologisti cristiani.

Questa identificazione era stata resa possibile dalla svolta ellenizzante di Adriano, che aveva definitivamente legittimato la presenza e il ruolo sociale della filosofia, fin lì considerata a Roma e nella cultura latina un prodotto d’importazione. Non è un caso che Melitone menzioni proprio Adriano, unitamente ad Antonino Pio, in chiara opposizione a Nerone e Domiziano, che furono protagonisti non solo delle persecuzioni religiose, ma anche di una dura repressione anti-filosofica.

Omelia attribuita a Melitone di Sardi. Retro del P.Mich. 5552, con parti del Libro di Enoch. IV secolo d.C. dall’Egitto. University of Michigan, Ann Arbor Library.

In questo modo Melitone, pur riconoscendo l’origine non romana e “barbarica” del Cristianesimo, lo associava ad una pratica culturale ed esistenziale che inizialmente era stata vista come altrettanto estranea e sospetta, ma che ora risultava pienamente integrata nella cultura imperiale, tanto più sotto un imperatore “filosofo” quale Marco Aurelio diceva – o millantava – di essere.

In termini meno enfatici, la medesima sottolineatura del ruolo positivo svolto dalla condizione di sottomissione dell’ecumene all’impero romano emerge anche da una cursoria osservazione di Ireneo di Lione, che, forse riecheggiando l’encomio di Roma di Elio Aristide, afferma che «il mondo è in pace grazie ai Romani, così che noi possiamo viaggiare senza paura, per terra e per mare, ovunque vogliamo» e – implicitamente – proprio grazie a ciò diffondere il vangelo, come era accaduto nel suo caso, che lo aveva visto muovere dall’Asia a Roma, alle Gallie.

Più rilevante e più celebre è la successiva inserzione, operata da Ireneo, del dominio di Roma nello schema apocalittico dei quattro regni universali del libro di Daniele, a sua volta rielaborazione biblica dell’originaria idea ellenistica della traslatio imperii.

Non ci è purtroppo giunto il trattato di Melitone sull’Apocalisse di Giovanni e il diavolo, che avrebbe consentito di vedere come il vescovo di Sardi maneggiasse un testo, anzi con ogni probabilità il testo, che era alla base delle frenesie escatologiche dei vari movimenti cristiani che preoccupavano tanto le autorità romane, quanto le stesse gerarchie ecclesiastiche che proprio allora si stavano consolidando intorno alle idee di episcopato monarchico e di successione apostolica.

In Ireneo è evidente il tentativo di disinnescare la portata eversiva della pulsione millenaristica che il generico rimando alla prescrizione paolina di sottomissione non sembrava più in grado di contenere, attraverso l’elaborazione di un poderoso affresco escatologico in cui la cronologia si dilata in avanti e il ruolo di Roma risulta quanto meno ambivalente: la stessa identificazione della cifra della bestia apocalittica con Lateinos rappresenta solo una tra le molte possibilità presentate da Ireneo, mentre l’accenno alla provenienza dell’Anticristo escatologico dalla tribù di Dan, che Ippolito sviluppò in una direzione coerentemente antigiudaica, sembra orientare verso oriente – e non verso Roma – lo sguardo di chi attende con la persecuzione finale anche il definitivo instaurarsi del regno di Dio su questa terra.

Le posizioni di Ireneo vennero rielaborate immediatamente a ridosso dell’inizio del III secolo da Ippolito nel suo sistematico commento al Libro di Daniele, con un approccio particolarmente attento alle implicazioni politologiche del testo e alle concrete dinamiche storico-politiche del potere romano contemporaneo. Il sincronismo augusteo viene riproposto da Ippolito in una chiave meno ingenua e più sottile di quella di Melitone; il culmine del potere romano non rappresenta solo la condizione che favorisce la diffusione del cristianesimo, ma costituisce al tempo stesso una contraffazione di matrice diabolica del vero universalismo cristiano: il primo censimento venne realizzato da Augusto perché gli uomini di questo mondo, censiti da un re terreno, venissero chiamati romani, mentre i sudditi del re celeste venissero chiamati cristiani.

La riflessione di Ippolito analizza acutamente la struttura del contemporaneo potere romano, laddove individua nella concessione della cittadinanza lo strumento con cui vengono cooptati «i più nobili da tutte le nazioni» in vista dell’approntamento dell’esercito. Agli occhi di Ippolito, nella volontà di sottomettere tutte le altre popolazioni l’impero romano risulta del tutto in linea con i tre precedenti, con la sola decisiva differenza che, mentre questi fondavano il loro potere militare su un esercito monoetnico, la leva romana era estesa a tutte le popolazioni, e al suo termine era appunto possibile ottenere la cittadinanza; proprio questa modalità era stata lodata da Elio Aristide nel già ricordato Encomio di Roma come segno di governo illuminato, capace di associare a sé i migliori tra i non-romani.

Bassorilievo da un sarcofago romano paleocristiano. Frammento con raffigurazione di Daniele nella fossa dei leoni. Calcare, IV secolo d.C. Museo Arqueológico y Etnológico de Córdoba.

Il massiccio ricorso ad una siffatta forma di reclutamento – ancora una volta – si era avviato con Marco Aurelio e proprio su questo punto aveva richiamato l’attenzione anche Celso; con Settimio Severo si era acuito così un problema che, in aggiunta a quello della tassazione, doveva essere dibattuto nelle comunità cristiane, specie nel periodo dei conflitti civili a cavallo tra II e III secolo.

In quanto espressione della medesima libido dominandi, l’Impero romano non risulta né migliore né peggiore di quelli che l’hanno preceduto, solo più militarmente più potente e perciò più efficace ed esteso; proprio per questo, dopo l’inevitabile dissoluzione di esso, l’ultimo dominio universale, massimamente contraffattorio del regnum Dei, l’impero dell’Anticristo, ne riassumerà le specifiche fattezze, a partire dall’esaltazione della propria forza militare. Così, partendo dal grado di orgoglio e di autoesaltazione che li connota è possibile distinguere tra re sottomessi a Dio e re destinati ad essere smascherati dal giudizio di Dio; tesi questa che richiama in modo indiretto e più problematico l’ingenua teoria sulla morte dei persecutori avanzata da Melitone.

Soprattutto, Ippolito combina accuratamente il sincronismo augusteo con la cronologia biblica esamillenaria della storia universale, prospettando con precisione una scansione che rimanda da lì a oltre trecento anni il compiersi dei tempi, la conseguente frantumazione dell’impero romano in una poliarchia, l’apparizione finale dell’Anticristo tra gli Ebrei; Ippolito rispondeva con tutta probabilità ad analoghi computi che ritenevano invece ben più imminente la fine, come, a detta di Eusebio, avrebbe fatto un certo Giuda, sempre sotto Severo.

Le fila delle riflessioni ippolitee che intrecciano cronologia biblica, cronologia romana, cronologia cristiana potranno essere poi tirate in una direzione marcatamente filo-romana da Giulio Africano prima e soprattutto da Eusebio poi; ma questo potrà accadere solo dopo la svolta “universalistica” della Constitutio Antoniniana e l’atteggiamento filo-cristiano di Alessandro Severo.

In Ippolito, invece, permane ancora un atteggiamento che si potrebbe definire esterno, se non estraneo, rispetto all’Impero, considerato un dato storico di fatto dalla prospettiva di un esponente di una popolazione sottomessa e probabilmente coinvolta nei conflitti civili a cavallo tra II e III secolo, la cui strumentazione concettuale risulta innervata da una acuta combinazione di concetti politologici ellenistici (la translatio imperii, l’originale ri-declinazione dell’opposizione tra monarchia e democrazia nei termini dell’opposizione tra un solo potere romano e i molti poteri che deriveranno dal suo crollo), osservazioni storiche pragmatiche (il ruolo centrale degli eserciti nell’acquisizione e nel mantenimento del potere, la politica romana di concessione della cittadinanza) e presupposti biblico-teologici (la cronologia universale dalla creazione all’éschaton).

Arco di Alessandro Severo
a Thugga/Dougga (od. Téboursouk, Tunisia).

In quegli stessi anni, nell’Africa romana, Tertulliano recepisce le sollecitazioni provenienti dall’oriente cristiano, ma ne inserisce le tensioni escatologiche e politiche in un quadro significativamente modificato, tale da avviare la costruzione di un’escatologia politica propriamente occidentale. Sin dall’Apologeticum, infatti, Tertulliano lega l’ormai tradizionale tema della preghiera pro imperatoribus, apertamente ricondotto all’insegnamento della prima lettera di Timoteo, alla funzione esercitata da essi e più in generale dall’impero romano nell’allontanamento della fine dei tempi, considerata più o meno imminente, ma senza che egli si addentri in computi cronologici più specifici quali quelli elaborati da Ippolito e dagli altri cronografi cristiani.

Sono tre gli aspetti degni di nota della nuova prospettiva inaugurata da Tertulliano. Anzitutto, l’abbandono di ogni riferimento alla teoria ellenistico-danielica della translatio imperii, che vedeva nel potere romano un epigono dei precedenti, senza alcun tratto ideologicamente o qualitativamente distintivo; nemmeno troppo implicitamente, Tertulliano lascia invece trasparire una sorta di adesione condizionata al mito della aeternitas di Roma, laddove afferma che i cristiani, non volendo sperimentare le acerbitates horrendae comportate dalla fine dei tempi coincidente con il commeatus Romani imperii, pregano per il suo differimento e con ciò stesso contribuiscono alla diuturnitas Romana.

Sarcofago dei due fratelli con scene bibliche. Particolare – Marmo, 325-30 d.C. ca., dal cimitero di Lucina. Città del Vaticano, Museo Pio Cristiano.

In secondo luogo, l’oggetto delle preghiere e dell’interesse teologico-politico di Tertulliano non risulta più limitato alle sole persone degli imperatori o dei loro rappresentanti, come era stato sino ad allora, bensì si allarga alla condizione complessiva del sistema di dominio romano, lo status Romanus; sempre più, nelle opere successive, esso viene ad assumere un ruolo di «trattenimento» della fine modellato a contrario sulla funzione assegnata nella seconda Lettera ai Tessalonicesi alla misteriosa figura del katéchon, che fino ad allora aveva avuto un significato puramente negativo, di ciò o colui che impediva la parousía di Cristo.

Indubbiamente, persiste anche in Tertulliano una certa dose di ambivalenza, se non di ambiguità, dato che, in ogni caso, l’aeternitas di Roma non trascende la dimensione del saeculum presente; ma viene meno – ed è la terza novità introdotta da Tertulliano – quell’estraneità radicale affermata ad esempio negli Acta martyrum Scillitanorum, sostituita da un atteggiamento di piena condivisione della situazione politica comune, nei suoi aspetti tanto positivi, quanto soprattutto negativi: «Quando l’Impero è scosso (concutitur), sono scossi anche i suoi membri, ed anche noi, sia pure estranei alle turbe, in qualche modo ne siamo coinvolti». Questa prima inserzione dei cristiani nell’orizzonte politico dell’Impero segna una significativa divaricazione rispetto al più o meno contemporaneo commento ippoliteo a Daniele e apre la strada ad una sempre più marcata romanizzazione dell’escatologia occidentale.

Così, il vescovo pannonico Vittorino di Petovio supera lo schema ermeneutico orientale che vedeva nelle profezie vetero e neotestamentarie esclusivamente il preannuncio di eventi escatologici a venire, per individuarvi invece puntuali riferimenti ad eventi storici intermedi, tra cui la successione degli imperatori adombrati, a suo dire, dall’Apocalisse di Giovanni; si tratta di una linea cronografica già presente in autori come Clemente Alessandrino, dove assumeva però una valenza de-escatologizzante, mentre Vittorino la lega, con un complesso procedimento esegetico, all’identificazione del persecutore dei tempi finali con il Nero redivivus proveniente dall’oriente.

La minacciosa rappresentazione di un re devastatore ex Oriente affonda le radici addirittura nell’epoca preclassica, ma venne particolarmente diffusa dagli oracoli sibillini e ancora in epoca imperiale dalle cosiddette profezie di Istaspe, la cui lettura era stata proibita dalle autorità romane – o almeno così ci dice Giustino.

Nel quadro della tradizionale opposizione tra occidente e oriente, la visione escatologica di Vittorino assegna all’Impero uno statuto peculiare: il nemico finale, tanto dei cristiani, quanto dei romani, è un ex imperatore persecutore, anzi il persecutore per antonomasia, ma proprio dall’Impero nella sua forma attuale partirà la resistenza nei suoi confronti. In questo modo, l’intera vicenda cristiana si colloca a pieno titolo entro quella romana, come testimonierà di lì a poco Commodiano con i suoi tentativi di raccordare strettamente la cronologia apocalittica alle vicende dell’Impero susseguenti all’invasione persiana del 259/60, giungendo addirittura a duplicare la figura dell’Anticristo per meglio riuscire nel proprio intento.

Scrivendo proprio alla corte occidentale di Costantino e a lui dedicandolo il settimo e ultimo libro delle Divinae institutiones, Lattanzio opera sul piano teorico il definitivo abbandono di ogni idea di estraneità cristiana all’Impero. In questo senso, la sua vicenda risulta oltremodo significativa. Proveniente dall’Africa cristiana, la sua piena adesione al cristianesimo avvenne però in Asia minore, dove l’aveva chiamato Diocleziano e dove presumibilmente dovette conoscere le tradizioni cronografiche ed escatologiche di matrice ippolitea, e più in generale il Cristianesimo d’impronta orientale, che sembrano caratterizzare ancora la sua presentazione dei tempi finali. Tuttavia, le ultime parole del suo scritto ne scandiscono l’epitaffio e aprono ad un orizzonte totalmente rinnovato:

«Quando tuttavia debba compiersi tutto ciò, lo insegnano coloro che hanno scritto riguardo ai tempi, ricavando dai sacri testi e da diverse storie il numero di anni passati dall’inizio del mondo. Benché questi varino e le loro somme complessive risultino un po’ diverse, non sembra che l’attesa sia superiore a duecento anni. La cosa in sé mostra che la rovina e il crollo del mondo saranno tra breve, tranne che non si deve temere nulla di ciò fino a che la città di Roma è sana e salva.

Quando invero quel capo del mondo sarà caduto e comincerà ad esserci la violenza che le sibille prevedono, chi potrà dubitare che per gli uomini e per il mondo sia venuta ormai la fine? Quella è la città che tiene tutto ancora in piedi e noi dobbiamo implorare e adorare il Dio del cielo, posto che i suoi disegni e i suoi decreti possano essere differiti, che non venga più presto di quanto pensiamo quel tiranno abominevole, che ordisca un tale crimine e strappi via quella luce, alla cui rovina il mondo stesso cadrà».

Sarcofago «di Giona». Particolare – Giona e la balena. Marmo, 280-300 d.C. ca. dalla Necropoli vaticana. Museo Pio Cristiano.

Difficile dire se questa celebrazione di Roma e della sua funzione katechontica da parte cristiana preceda o segua, sia causa (anche solo minima) o effetto della svolta di Costantino all’indomani di ponte Milvio. Certo è che simili accenti non erano mai risuonati sino ad allora nella pars orientis dell’Impero e solo con Eusebio si assisterà lì alla definitiva liquidazione di ogni cronologia apocalittica, qui ancora in qualche misura solo sospesa.

È però lo stesso Eusebio a indicare nella biografia di Costantino la motivazione ideologica che lo avrebbe spinto a calare su Roma e a innalzarvi il labaro dopo la vittoria su Massenzio: «Considerava l’intero assetto del mondo come un grande corpo e si rese conto che il capo del tutto, la città che regnava sul potere dei romani era oppressa da una schiavitù tirannica (…); dichiarò quindi che la vita gli sarebbe stata invivibile se avesse abbandonato la città regale così vessata».

Una simile immagine organica per caratterizzare la res publica non costituisce di per sé una novità, rimontando addirittura a Platone, e lo stesso si può dire della retorica anti-tirannica qui utilizzata. Tuttavia, Eusebio colloca proprio a ridosso di questa decisione l’avvicinamento di Costantino al Cristianesimo che culminerà nella celebre visione di ponte Milvio, almeno a detta del biografo, che sottolinea altresì come sempre a seguito di quella circostanza Costantino iniziasse la lettura dei testi sacri e la frequentazione di sacerdoti e vescovi.

Accenni indubbiamente labili per stabilire una diretta connessione tra la «conversione» di Costantino e il suo incontro con un Cristianesimo più disponibile a una possibile composizione con Roma di quello che Costantino aveva potuto invece conoscere nella sua permanenza in oriente e con un episcopato come quello gallico meno litigioso, perché probabilmente meno numeroso e intellettualmente sofisticato del suo corrispettivo orientale (o africano).

Certo è però che tra gli atti successivi alla battaglia di Ponte Milvio compaiono una cospicua donazione economica ai vescovi delle province africane e la convocazione, a Roma e di fronte al suo vescovo, di un sinodo destinato a risolvere i problemi di giurisdizione ecclesiastica insorti proprio in Africa a seguito della questione donatista; Costantino impone altresì la presenza di tre vescovi provenienti dalle Gallie, Reticio di Autun, Materno di Colonia e Marino di Arles e, dopo il fallimento di quel primo tentativo di pacificazione, provvede immediatamente a indirne un secondo proprio in quest’ultima città, per chiudere il conflitto «anche se tardi» e ristabilire la necessaria concordia. Va rilevato come nella seconda lettera di convocazione Costantino non manchi di sottolineare il ruolo svolto dal vescovo di Roma nell’incontro precedente.

Quantomeno il gesto di munificenza imperiale potrebbe apparire del tutto in continuità con l’analogo sostegno offerto da Aureliano ai sacerdoti del templum Solis poco più di una generazione prima; ma un punto decisivo li differenzia, ovvero il reciproco rispecchiamento, inconcepibile nel culto solare e nei suoi officianti, tra imperatore e vescovi nell’esercizio dell’autorità. Sulla scia delle cosiddette lettere pastorali, l’immagine del governo di questi ultimi sulle chiese veniva per lo più associata dai cristiani a quella del pater familias che sovrintende alla gestione del complesso della domus.

Ma nella Didascalia apostolorum, redatta in Siria nel corso del III secolo, la funzione episcopale viene assolutizzata con modalità che rappresentano un unicum nella letteratura disciplinare cristiana; rivolgendosi ai fedeli, l’autore li invita infatti ad amare il vescovo come un padre, temerlo come un re, onorarlo come Dio. Se dopo la svolta costantiniana, Eusebio di Cesarea costruirà l’ideologia dell’imperatore cristiano e Costantino una nuova Roma in oriente, l’immagine del vescovo-imperatore verrà traslata in occidente da un anonimo traduttore, probabilmente di ascendenza ariana, intorno alla metà del IV secolo.

Bisognerà attendere Agostino e la sua De civitate Dei perché si sciolga, almeno in Occidente, il nodo così venutosi a stringere tra il Cristianesimo e Roma, mentre l’Impero secolare di quest’ultima viene derubricato a semplice tappa, forse neppure la più importante, di un disegno provvidenziale e di una storia umana destinati entrambi a proseguire ben oltre il suo tramonto.