La crisi del III secolo: la paura di vivere e l’anarchia militare

Tra il II e il III secolo cominciò a serpeggiare per tutto l’Impero romano una sorta di angoscia esistenziale che sembrò non risparmiare nessuno e che investì tutti i gruppi sociali, dai più umili a quelli più elevati. In particolare, Eric R. Doods, in Pagan and Christian in an Age of Anxiety (1965), interpretò il periodo compreso fra il principato di Marco Aurelio (161-180) e tutto il secolo successivo come un’epoca di decadenza economica e di perdita dei valori tradizionali, che avevano dominato sulla civiltà. Questa crisi ebbe come conseguenza anche proprio l’insinuarsi tra gli abitanti dell’Impero di una nuova spiritualità e di nuovi modi di concepire il mondo. Ciò, all’unisono con una diversa prospettiva intellettuale e un mutamento della mentalità, non più rivolta alla vita materiale, impresse una maggiore spinta alla diffusione di culti monoteistici e soteriologici, alla base del cui credo ponevano la speranza in una vita ultraterrena migliore.

Jules-Élie Delaunay, La peste a Roma. Olio su tela, 1859.

Siccome il risentimento verso il mondo era per Marco Aurelio la peggiore delle empietà, egli lo rivolgeva all’interno, contro sé stesso. Già in una lettera al proprio maestro e pedagogo, Frontone, scritta all’età di venticinque anni, il futuro Augustus si dichiarava irritato contro la propria incapacità di raggiungere l’ideale di vita filosofica che si era proposto: itaque poenas do, irascor, tristis sum, ζηλοτυπῶ, cibo careo (Front. Ad M. Caes. IV 13, p. 129 Pepe, «Perciò faccio penitenza, sono adirato con me stesso, sono triste e invidio gli altri, mi astengo dal cibo»). Le medesime sensazioni lo avrebbero, in seguito, perseguitato anche una volta divenuto imperatore: nei suoi Τὰ εἰς ἑαυτόν (Pensieri a sé stesso) Marco diceva di aver fallito il proprio ideale, di aver mancato una vita onesta; la sua esistenza lo aveva sfregiato, macchiato, «contaminato» (M. Aur. Med. VIII 1, 1). Egli confessava di aspirare a essere diverso da quello che era, ripromettendosi le seguenti parole: «Incomincia una buona volta a essere umano, finché sei in vita» (XI 18, 5, ἄρξαι ποτὲ ἄνθρωπος εἶναι, ἕως ζῇς). Eppure, ammetteva che «è duro per un uomo sopportare anche sé stesso» (V 10, 1, καὶ ἑαυτόν τις μόγις ὑπομένει).

M. Aurelio Antonino. Busto giovanile barbato, marmo, metà II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Quanto alle azioni dell’uomo e ai suoi casi, Marco si diceva: «Vedrai continuamente che le cose umane sono fumo e un nulla, soprattutto se terrai presente che ciò che una volta si è trasformato non esisterà mai più nel tempo infinito» (X 31, συνεχῶς θεάσῃ τὰ ἀνθρώπινα καπνὸν καὶ τὸ μηδέν, μάλιστα ἐὰν συμμνημονεύσῃς ὅτι τὸ ἅπαξ μεταβαλὸν οὐκέτι ἔσται ἐν τῷ ἀπείρῳ χρόνῳ). Così – riferendosi ai valori e ai successi personali –, «in questa fiumana, in cui non è possibile trovare un punto d’appoggio, quale si potrebbe apprezzare tra queste cose che ci passano accanto di corsa? Come se uno prendesse ad amare uno di quei passerotti che ci passano accanto e volan via, che già è scomparso alla vista» (VI 15, ἐν δὴ τούτῳ τῷ ποταμῷ, ἐφ’ οὗ στῆναι οὐκ ἔξεστιν, τί ἄν τις τούτων τῶν παραθεόντων ἐκτιμήσειεν; ὥσπερ εἴ τίς τι τῶν παραπετομένων στρουθαρίων φιλεῖν ἄρχοιτο, τὸ δ’ ἤδη ἐξ ὀφθαλμῶν ἀπελήλυθεν). E ancora: «Le cose tanto apprezzate nella vita sono vuote, marce, meschine, cagnolini che si mordono a vicenda, monelli rissosi che ridono e subito dopo piangono» (V 33, τὰ δὲ ἐν τῷ βίῳ πολυτίμητα κενὰ καὶ σαπρὰ καὶ μικρά· καὶ κυνίδια διαδακνόμενα καὶ παιδία φιλόνεικα, γελῶντα εἶτα εὐθὺς κλαίοντα).

Trofeo con armi barbariche (scudi, lance e un’ascia), posto fra le personificazioni di due province romane. Rilievo su plinto, marmo, II sec. d.C. dall’Hadrianeum. Roma, P.zzo dei Conservatori.

La pompa del trionfo sarmatico, riportato dall’imperatore nel 176, era ironicamente paragonata da Marco all’autocompiacimento di un ragno che coglie una mosca, alla preda catturata dai cacciatori (X 10). Per il princeps-filosofo questa non era vuota retorica, ma una concezione della condizione umana e aveva un significato profondamente serio.  Lui, che passava i suoi giorni ad amministrare un impero, poteva esprimere talvolta un desolato senso di non-appartenenza, di alienazione: «Nella vita umana la durata è un punto, la sostanza in perenne flusso, la sensazione oscura, la compagine del corpo intero corruttibile, l’anima eterna inquietudine, la sorte enigmatica, la fama incerta. Per dirla in breve, tutto ciò che riguarda il corpo è un fiume, tutto ciò che riguarda l’anima è sogno e vanità, la vita è una guerra e un soggiorno in terra straniera, la gloria postuma oblio» (II 17, 1, τοῦ ἀνθρωπίνου βίου ὁ μὲν χρόνος στιγμή, ἡ δὲ οὐσία ῥέουσα, ἡ δὲ αἴσθησις ἀμυδρά, ἡ δὲ ὅλου τοῦ σώματος σύγκρισις εὔσηπτος, ἡ δὲ ψυχὴ ῥόμβος, ἡ δὲ τύχη δυστέκμαρτον, ἡ δὲ φήμη ἄκριτον· συνελόντι δὲ εἰπεῖν, πάντα τὰ μὲν τοῦ σώματος ποταμός, τὰ δὲ τῆς ψυχῆς ὄνειρος καὶ τῦφος, ὁ δὲ βίος πόλεμος καὶ ξένου ἐπιδημία, ἡ δὲ ὑστεροφημία λήθη). L’imperatore lottava contro il predominio esclusivo di pensieri siffatti con tutta la forza della sua religione stoica, prendendo a guida la filosofia e ricordando a sé stesso che la sua stessa esistenza era parte e frazione della grande unità cosmica (VI 46).

Ora, non è mancato chi ha voluto scorgere in tanta autocritica e in tanto pessimismo aspetti morbosi, riconducibili a quella che gli psicologi moderni chiamerebbero una forma grade di depressione cronica, accompagnata da crisi d’identità. Con una maggiore prospettiva storica, invece, negli atteggiamenti di Marco Aurelio si possono riconoscere le manifestazioni di quell’angoscia che si stava diffondendo per tutta la compagine imperiale proprio a partire dal suo principato. Non è facile, in realtà, definire gli esatti confini cronologici di questa nuova tendenza spirituale né è possibile considerarla disgiunta da quegli aspetti di crisi sociale, economica e istituzionale che pure sarebbero emersi con prepotenza nel secolo successivo.

Filosofo seduto e pensante (dettaglio). Rilievo, marmo, II-III sec. d.C. da un sarcofago romano. Città del Vaticano, Grotte Vaticane.

Alcune avvisaglie sono comunque già avvertibili dall’inizio del principato e possono essere riconosciute nella progressiva diffusione e nel successo crescente dei culti misterici e orientali, un’indubbia reazione alla religione tradizionale romana. Ma è soprattutto nel II secolo, proprio nel corso di quella che è passata alla storia come «l’età d’oro degli Antonini», che la crisi spirituale si manifestò più pienamente. Un ruolo non trascurabile ebbe indubbiamente la peste che le legioni romane riportarono dall’Oriente nel 166-167 e che imperversò per anni, sterminando, secondo le stime, circa metà della popolazione dell’Impero. Un’epidemia tanto spaventosa dovette incidere profondamente su un mondo che, in larga parte privo di difese razionali e conoscenze medico-scientifiche, poneva all’origine dei fenomeni patologici la collera di divinità trascurate e vendicative; la contestuale diffusione di malattie mentali e di disagi psichici di varia natura fu quindi uno dei tanti terribili effetti della pestilenza.

La forte incertezza nel futuro creò le premesse per una profonda crisi spirituale e un’azione di straniamento dalla realtà quotidiana, una fuga verso il magico, il ricorso agli oracoli: ecco allora il diffondersi di certo misticismo, soprattutto di matrice orientale, i cui culti avevano per fondamento la promessa nell’immortalità dell’anima, la speranza nella salvazione, la rigenerazione della carne e il ritorno a una vita migliore.

Fedeli all’oracolo. Bassorilievo, calcare, II sec. d.C. Vicenza, Museo Archeologico.

Ma, allora, in che cosa cercavano rifugio gli abitanti dell’Impero per placare il loro senso di angoscia? Una prima risposta si può trovare nell’indubbia crescita di interesse che registrarono nel III secolo gli oracoli. Questo è stato verificato soprattutto dalle evidenze archeologiche negli antichi e tradizionali centri oracolari. Spesso città e intere comunità vi inviavano delegazioni per avere responsi su problemi che affliggevano la cittadinanza, come l’origine di una pestilenza o di una carestia. Numerosi erano anche i προφῆται, più o meno attendibili, maghi e ciarlatani, che venivano interpellati per un responso, esercitando persino la professione da privati. In certi casi, la richiesta assumeva un tono del tutto diverso, come domanda metafisica sulla natura del dio. A tal proposito, si possiedono varie redazioni di un oracolo proveniente dal santuario di Apollo a Claros, che risponde alla domanda: «Sei tu il dio o è qualcun altro?», tramandato dalla Theosophia Tubingensis (§. 13 Erbse), da Lattanzio (Lactant. Div. Inst. I 7, 1) e da un testo inciso sulle porte di Enoanda (SEG 27, 903). Apollo avrebbe vaticinato che, «al di sopra della volta iperurania, esiste una fiamma sterminata, mobile, eternità infinita» (Ἔσθ’, ὑπὲρ οὐρανίου κύτεος καθύπερθε λεγογχώς,  φλογµὸς ἀπειρέσιος, κινούµενος, ἄπλετος ἀίων), specificando che lui stesso e le altre divinità «non siamo che una minuscola particella del dio, noi messaggeri» (µικρὰ δὲ θεοῦ µερὶς ἄγγελοι ἡµεῖς). È questa una preziosa testimonianza della religiosità tradizionale nel II-III secolo e dei suoi orientamenti in senso enoteista, per cui il vecchio Olimpo, ormai sbiadito, subì una riorganizzazione su base gerarchica in modo da soddisfare l’esigenza primaria di quell’epoca, cioè quella di avere un solo dio con cui stabilire un dialogo intimo e personale o, addirittura, quel rapporto preferenziale che in passato sarebbe stato inconcepibile.

Naturalmente, l’incertezza sulla sorte della propria anima nell’aldilà era uno dei motivi di angoscia più diffusi: il II e il III secolo videro un aumento esponenziale del prestigio e del seguito di gruppi religiosi che assicuravano ai propri adepti un altro mondo dopo la morte, nel quale le difficoltà di tutti i giorni avrebbero trovato conclusione e pace. Ma se le persone di cultura media e inferiore si rivolgevano ai vari culti misterici con certa facilità, gli esponenti delle élites privilegiavano gli studi filosofici. Un seguace di Ermete Trismegisto affermava che «… la filosofia… consiste soltanto in una frequente contemplazione finalizzata alla conoscenza della divinità e in una santa devozione. Infatti, molti la confondono in molti modi» (Asclep. XII, Corp. Herm. II 312 Nock-Festugière, … philosophia, … sola est in cognoscenda divinitate frequens obtutus et sancta religio. Multi etenim et eam multifaria ratione confundunt).

Giovanni di Stefano (attribuito), Ermete Trismegisto. Tarsie, marmi policromi, 1488, dal pavimento della navata centrale. Siena, Duomo di S. Maria Assunta.

Nel II secolo, però, né il pensiero pagano né quello cristiano facevano ancora riferimento a un sistema riconosciuto e coerente, tanto meno a una ortodossia. Da questo punto di vista, il panorama dell’età degli Antonini e della prima età severiana era molto confuso: i cristiani erano divisi in innumerevoli gruppi spesso in lotta fra loro, mentre moltissimi Vangeli, Atti e Apocalissi, poi giudicati apocrifi, circolavano liberamente fra i fedeli. Per contro, le scuole filosofiche si dividevano fra stoiche, aristoteliche, pitagoriche e platoniche, e non mancò chi le avesse frequentate un po’ tutte, nel tentativo di trovare risposta alle proprie domande esistenziali. Una ben nota testimonianza di questo si trova nel Dialogo con Trifone di Giustino, in cui l’autore descrive di aver trascorso una ricerca del genere: dopo aver cercato invano di imparare qualcosa su Dio da uno stoico, da un peripatetico e da un pitagorico, alla fine si pose alla sequela di un platonico, che per lo meno gli diede la speranza di vedere Dio faccia a faccia, «visto che questo è lo scopo della filosofia di Platone» (Iustin. Tryph. II 3, 6, τοῦτο γὰρ τέλος τῆς Πλάτωνος φιλοσοφίας).

Nel III secolo, poi, mentre il Cristianesimo si diffondeva sempre più e altre sette, quali lo Gnosticismo, che dava ai propri accoliti solo cupe e lugubri prospettive, andavano scomparendo, il Neoplatonismo trovò nella figura di Plotino un interprete coerente, ma anche il protagonista più adatto per questa fase del paganesimo. Plotino, un mistico che in età matura aveva raggiunto attraverso una severa disciplina interiore la calma e la chiarezza, con il suo esempio e con i suoi scritti permise ai tradizionalisti di riafferrare il senso perduto del rapporto tra corpo e anima, fra uomo e mondo sensibile, fra dio e universo. Non è un caso che alcuni suoi discepoli sarebbero stati fra i più lucidi oppositori del Cristianesimo.

Uomini togati, forse senatori (dettaglio). Rilievo, marmo, 235, dal Sarcofago di Acilia. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

Ranuccio Bianchi Bandinelli, in Roma. La fine dell’arte antica (1970), mostrò come l’elemento irrazionale fece la propria comparsa anche nelle arti figurative di II e III secolo, manifestandosi sia nelle espressioni private, come ritratti e sculture funerarie, sia nelle rappresentazioni ufficiali quali il ritratto degli imperatori e i rilievi storici. Un’opera che rappresenta emblematicamente questo nuovo linguaggio espressivo è certamente la Colonna Antonina, realizzata fra i principati di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo (c. 176-193). Nel rilievo a spirale che si sviluppa lungo il fusto del monumento si fa spazio l’elemento soprannaturale. Questo è particolarmente evidente nelle scene del «Miracolo del fulmine» e del «Miracolo della pioggia», dove le divinità irrompono a risolvere la situazione a favore dei Romani. Nonostante il lucido razionalismo di Marco Aurelio, il tema dominante del periodo sembra piuttosto la fede in quella providentia deorum, che compare anche nelle monete del tempo.

Inoltre, a partire dalla seconda metà del II secolo, nella scultura furono volutamente accentuati alcuni tratti (occhi più grandi del naturale, pupilla profondamente incisa, testa inclinata), che facevano assumere ai volti espressioni di dolore, afflizione e angoscia. Con il III secolo, poi, il rigore formale della tradizione ellenistica cedette il passo a bruschi effetti chiaroscurali, su solchi profondi alternati a superfici lisce e luminose; alla rappresentazione naturalistica si sostituirono le illusioni ottiche e le rappresentazioni arbitrarie e simboliche. Barbe e capelli vennero resi in modo espressionistico, con fiorellini ravvicinati o fitti trattini. In queste rappresentazioni, Bianchi Bandinelli ravvisava l’espressione di angoscia spirituale, cui si affiancava una manifestazione di volontà di potenza, che non rifuggiva da ogni mezzo pur di affermarsi.

Nella pittura dello stesso periodo si diffuse l’effetto “a macchia”, che annullava il volume e i particolari delle figure, accentuandone l’intensità dell’espressione e il carattere simbolico. E anche quando l’artista voleva mantenere una certa solidità formale, la rappresentazione offriva una marcata drammaticità, approfondendo il contenuto umano delle scene.

Il «Miracolo della Pioggia». Rilievo, marmo di Carrara, c. 176-193, dalla Colonna Antonina. Roma, P.zza Colonna.

Gli storici sono concordi nel ritenere che il III secolo si sia profilato come un’incredibile concatenazione di eventi, accompagnata da una profonda trasformazione non solo nella psicologia delle persone e nell’estetica dell’arte, ma anche nel modo di vivere e di comunicare nel quotidiano, e pure nella maniera di rappresentare, il rapporto tra coloro che detenevano il potere e i subordinati. Fu dunque un periodo in cui le contraddizioni, i contrasti e i precari equilibri mai del tutto risolti della prima età imperiale conflagrarono per poi trovare una nuova, originale composizione. Cercare di spiegare i motivi e le dinamiche di questa crisi non è semplice, dal momento che essa investì gli strati profondi della compagine imperiale e ragioni diverse si intersecarono fra di loro in un groviglio quasi inestricabile.

Per quello che riguarda la storia politica, l’eliminazione di Severo Alessandro a Mogontiacum da parte dei soldati in tumulto nel 235 pose fine alla dinastia tradizionalmente definitiva «monarchia militare dei Severi», che nel complesso aveva rappresentato un periodo di stabilità per l’Impero. La definizione di «monarchia militare» allude al fatto che l’elemento militare era stato promotore del potere stesso e, insieme, al fatto che gli esponenti di tale dinastia si erano appoggiati con donativi e premi proprio agli eserciti. L’ammutinamento di Mogontiacum pose fine unilateralmente all’accordo tra soldati e imperatore: per tutta quanta la storia precedente, mai i soldati avevano pensato neppure un attimo di mettere in discussione l’istituto del principato e la sua autorità; la loro indispensabilità, riconosciuta dai fatti, li aveva spinti e li avrebbe spinti a proporre un proprio capax imperii, ponendo sempre più in ombra l’importanza del Senato.

I soldati della Cohors XX Palmyrenorum scrificano davanti al loro vexillum. Affresco, III sec. d.C. ca. da Dura Europos.

Il III secolo, e segnatamente il periodo tra il 235 e il 285, è altresì definito come «anarchia militare», definizione che sottolinea la preminenza dell’elemento militare nell’elezione imperiale. Si trattò del periodo più confuso della storia di Roma, tanto pernicioso nei suoi effetti da mettere a serio rischio la sopravvivenza stessa dell’Impero come entità politica. L’importanza, dunque, assunta dalle armi, garanti dell’integrità dello Stato, fu densa di conseguenze. La scelta del vertice era ormai saldamente nelle mani dei militari: gli stessi aspiranti alla porpora erano spesso esponenti della truppa, nemmeno ufficiali di alto rango e ancor più spesso di oscuri natali, se non addirittura di origine straniera. Molti di coloro che si succedettero nel giro di un cinquantennio rimasero in carica soltanto per pochi mesi, se non per pochi giorni; e, contrapponendosi l’uno all’altro, diedero vita a governi effimeri e ad ancor più effimeri progetti politici. Fu questa la stagione dei Soldatenkaiser.

Capo barbaro supplicante. Rilievo, marmo, fine II sec. d.C. dal pannello della clementia dell’arco di M. Aurelio. Roma, Arco di Costantino.

Il III secolo, tra l’altro, si aprì con la constatazione della presenza di una nuova realtà alle frontiere fluviali del Reno e del Danubio, nelle regioni comprese nel barbaricum. Quelle popolazioni che i Romani in precedenza avevano fronteggiato, e con le quali avevano sostanzialmente mantenuto una coesistenza relativamente pacifica, presentavano un assetto ben diverso da prima: non più parcellizzazione per pagi, sovente assai piccoli, con un’economia agricola di sussistenza e limitata allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, con migrazione quando queste fossero esaurite, ma una tendenza all’accorpamento, fino a costituire unità complesse e numerose di popoli: a tal proposito, si è parlato di «etnogenesi». L’attrazione naturale fu dunque verso l’Impero e questa attrazione aumentò, come entrarono in gioco vari fattori: l’aumento della popolazione, la diminuzione della produttività del suolo, dei cambiamenti climatici con un aumento della siccità estiva e della rigidità degli inverni, la spinta di altre tribù e popolazioni che migravano; si adducono tutti questi fenomeni per spiegare l’impulso delle genti barbariche verso il limes imperiale, e forse è più opportuno parlare di concomitanza di fattori.

Avvisaglie di questo mutato assetto si erano già manifestate ai tempi di Marco Aurelio, quando l’imperatore, prima con il collega Lucio Vero e poi da solo, aveva dovuto contenere la spinta offensiva di Quadi, Marcomanni, Iagizi e Sarmati. In effetti le cosiddette guerre marcomanniche avevano coinvolto gran parte dei barbari insediati lungo le frontiere e anche per loro si era trattato di un periodo di sconvolgimenti. Lungo tutto il confine, nel giro di poche generazioni avevano preso forma nuove popolazioni e nuovi raggruppamenti. Gli Alamanni comparvero nell’area tra l’alto Reno e l’alto Danubio, incorporando parte degli Svevi e di altre stirpi germaniche; a nord di costoro varie tribù, come i Bructeri e i Chatti, divennero note come Franci, una federazione di etnie mai completamente unite fino all’inizio del VI secolo. A est degli Alamanni, nell’alto Danubio, si stanziarono i Langobardi, mentre nel basso corso del fiume vennero alla ribalta potenti gruppi di genti che, nel corso del III, sarebbero diventati noti come Goti. Tutte queste popolazioni non abbandonarono le loro antiche tradizioni tribali: non si dovrebbe, perciò, prestare necessariamente fede ai Romani, quando utilizzavano tali etichette, poiché non vennero quasi mai a contatto con l’intero gruppo etnico e potrebbero non aver capito chi avessero di fronte. Le espressioni che utilizzavano per indicare queste genti sono, dunque, tutte ugualmente vaghe.

Guerriero germanico ferito e morente (dettaglio). Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

In ogni caso, dopo le guerre condotte da Marco Aurelio, i rapporti fra Romani e Marcomanni e Quadi si erano riallacciati e la dominazione romana era ripresa: si era tornati a chiedere l’approvazione di Roma per la scelta dei sovrani e, sotto Commodo, si era concesso loro di tenere regolari assemblee, solo in presenza di un ufficiale romano; alcuni barbari avevano preso la civitas, avevano prestato servizio nell’esercito, si erano stabiliti entro i confini dell’Impero: anche l’archeologia ha dimostrato l’esistenza di stretti rapporti commerciali nonché altri tipi di legame fra le due realtà, rinvenendo manufatti romani tra le sepolture dei benestanti e ceramiche di origine mediterranea anche nelle abitazioni più umili.

Nel 250 l’imperatore Decio inviò l’esercito nel regno greco del Bosforo, in Crimea, apparentemente allo scopo di scoprire gli spostamenti degli Sciti in quell’area (AE 1996, 1358). Purtroppo, il termine Σκύθοι, impiegato genericamente nella letteratura antica, non permette di conoscere il vero nome della stirpe in questione. Intorno al 500, Zosimo di Panopoli scriveva che erano state le popolazioni dei Borani, dei Goti, dei Carpi e degli Urugundi a invadere l’Impero romano tra il 253 e il 259 (Zos. I 27, 1; 31,1). I Carpi si trovano menzionati anche da un’altra fonte coeva (Dessippo, autore degli Σκυθικά, FGrH 100), ma la maggior parte degli storici ritiene che a determinare la caduta di Decio siano stati i Goti, anche perché Giordane (che, come Zosimo, scriveva nel VI secolo) afferma che uno dei primi re dei Goti fu Cniva, che era anche il nome del comandate «scita» (Jord. Get. 101-102). Chiunque essi fossero, nel 250 i barbari irruppero attraverso la frontiera e ad Abrittus inflissero una pesante sconfitta all’esercito romano guidato da Decio; lo stesso imperatore rimase ucciso.

Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

Nella catastrofica situazione che seguì, intorno al 253, Cipriano, vescovo di Cartagine, diede voce all’opinione condivisa dell’imminente collasso dell’Impero romano, scrivendo all’allora proconsole d’Africa, Demetriano (Cyprian. Ad Demetr. 3-5):

Illud primo in loco scire debes, senuisse jam mundum, non illis viribus stare quibus prius steterat, nec vigore et robore eo valere quo antea praevalebat. Hoc etiam, nobis tacentibus et nulla de Scripturis sanctis praedicationibusque divinis documenta promentibus, mundus ipse jam loquitur et occasum sui rerum labentium probatione testatur. Non hyeme nutriendis seminibus tanta imbrium copia est, non frugibus aestate torrendis solis tanta flagrantia est, nec sic vernante temperie sata laeta sunt, nec adeo arboreis foetibus autumna foecunda sunt. Minus de effossis et fatigatis montibus eruuntur marmorum crustae, minus argenti et auri opes suggerunt exhausta jam metalla, et pauperes venae breviantur in dies singulos et decrescunt, deficit in arvis agricola, in mari nauta, miles in castris, innocentia in foro, justitia in judicio, in amicitiis concordia, in artibus peritia, in moribus disciplina. Putasne tantam posse substantiam rei senescentis existere quantum prius potuit novellu adhuc et vegeta juventa pollere? Minuatur necesse est quicquid fine jam proximo in occidua et extrema devergit. Sic sol in occasu suo radios minus claro et igneo splendore jaculatur; sic, declinante jam cursu, exoletis cornibus luna tenuatur, et arbor quae fuerat ante viridis et fertilis, arescentibus ramis fit postmodum sterili senectute deformis; et fons qui, exundantibus prius venis, largiter profluebat, senectute deficiens, vix modico sudore distillat. Haec sententia mundo data est, haec Dei lex est, ut omnia orta occidant et aucta senescant, et infirmentur fortia, et magna minuantur, et cum infirmata et diminuta fuerint, finiantur. Christianis imputas quod minuantur singula, mundo senescente. Quid si et senes imputent Christianis quod minus valeant in senectute, quod non perinde ut prius vigeant auditu aurium, cursu pedum, oculorum acie, virium robore, succo viscerum, mole membrorum; et cum olim ultra octingentos et nongentos annos vita hominum longaeva procederet, vix nunc possit ad centenarium numerum perveniri? Canos videmus in pueris, capilli deficiunt antequam crescant; nec aetas in senectute desinit, sed incipit a senectute. Sic in ortu adhuc suo ad finem nativitas properat; sic quodcumque nunc nascitur, mundi ipsius senectute degenerat: ut nemo mirari debeat singula in mundo coepisse deficere, quando totus ipse jam mundus in defectione sit et in fine. Quod autem crebrius bella continuant, quod sterilitas et fames sollicitudinem cumulant, quod, saevientibus morbis, valetudo frangitur, quod humanum genus luis populatione vastatur, et hoc scias esse praedictum, in novissimis temporibus multiplicari mala et adversa variari, et appropinquante jam judicii die magis ac magis in plagas generis humani censuram Dei indignantis accendi. Non enim, sicut tua falsa querimonia et imperitia veritatis ignara jactat et clamitat, ista accidunt quod dii vestri a nobis non colantur, sed quod a vobis non colatur Deus.

Devi sapere che è invecchiato già questo mondo. Non ha più le forze che prima lo reggevano: non più il vigore e la forza per cui prima si sostenne. Anche se noi cristiani non parliamo e non esponiamo gli avvenimenti delle Sacre Scritture e delle profezie divine, lo stesso mondo già parla da sé e coi fatti stessi documenta il suo tramonto e il suo crollo. D’inverno non c’è più abbondanza di piogge per le sementi, d’estate non più il solito calore per maturarle, né la primavera è lieta del suo clima, né è fecondo di prodotti l’autunno. Diminuita, nelle miniere esauste, la produzione d’argento e oro, e diminuita l’estrazione dei marmi; impoverite, le vene danno di giorno in giorno sempre meno. Viene a mancare l’agricoltore nei campi, sui mari il marinaio, nelle caserme il soldato, nel Foro l’onestà, nel tribunale la giustizia, la solidarietà nelle amicizie, la perizia nelle arti, nei costumi la disciplina. Pensi veramente che un mondo così vecchio possa avere l’energia che la giovinezza ancora fresca e nuova poté un tempo trarre? È necessario che perda vigore tutto ciò che, appressandosi alla fine, volge al tramonto e alla morte. Così nel suo tramonto il sole manda raggi meno luminosi e infuocati, così al suo declino meno luminosa è la luna; e l’albero, che prima era stato fertile e verde, inaridendosi i rami, diventa sterile e deforme per vecchiaia. Tu dai la colpa ai cristiani, se tutto diminuisce con l’invecchiare del mondo, ma certo non è colpa dei cristiani se ai vecchi è diminuita la forza e più non hanno l’udito di un tempo, la rapidità e la forza visiva di un tempo, la robustezza e la gagliardia e sanità di un tempo; prima i longevi arrivavano a 800 e 900 anni, ora a stento a 100. Vediamo fanciulli canuti; i capelli scompaiono ancor prima di crescere; ormai la vita non finisce, ma comincia con la vecchiaia… Quanto alla frequenza maggiore delle guerre, all’aggravarsi delle preoccupazioni per il sopravvenire di carestie e sterilità, all’infierire di malattie che rovinano la salute; alla devastazione che la peste opera in mezzo agli uomini – anche ciò, sappilo, fu predetto: che negli ultimi tempi i mali si moltiplicano e le avversità assumono vari aspetti, e per l’avvicinarsi al dì del giudizio, la condanna di Dio sdegnato si muove a rovina degli uomini. Hai torto tu, nella tua stolta ignoranza del vero, di protestare che queste cose accadono perché noi non onoriamo gli dèi; accadono perché voi non onorate Dio.

Scena della moltiplicazione dei pani. Rilievo, marmo bianco, c. 330-339, dal sarcofago di Marco Claudiano. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme

Questo fu l’inizio vero e proprio della crisi del III secolo, durante la quale l’Impero subì gli attacchi dei barbari e dei Persiani e, fatto ancor più preoccupante, quelli di una moltitudine di usurpatori, alcuni dei quali aspirarono alla conquista del governo di tutto l’Impero, mentre altri sembrano aver mirato a un potere meramente regionale. Ciò produsse – si è detto – inevitabilmente una pesante recessione economica, che peraltro riguardò soltanto alcune zone dell’Impero: per esempio, ci fu un declino del numero degli insediamenti nell’area renana e in certe regioni dell’Italia, mentre pare che il Nordafrica e il Medio Oriente abbiano goduto di una notevole prosperità.

I problemi interni e le divisioni consentirono agli invasori barbarici di sfruttare la situazione. Nel frattempo, infatti, gli «Sciti» o Goti avevano cominciato a muoversi anche via mare: nel 252, passando per il Bosforo, avevano raggiunto l’Egeo e razziato le coste dell’Asia Minore, distruggendo il famoso tempio di Artemide Efesia. Nel 258 un altro gruppo attraversò il Ponto Eusino saccheggiando la costa settentrionale dell’Anatolia, spingendosi persino nell’entroterra fino alla Cappadocia. In quell’occasione, l’imperatore Valeriano guidò l’esercito da Antiochia verso nord, senza peraltro riuscire a risolvere la situazione, anche perché si trovò contemporaneamente impegnato ad affrontare l’attacco dei Sassanidi, che, com’è noto, si concluse con la disfatta e la cattura dell’imperatore stesso.

Scontro equestre tra Romani e barbari. Rilievo, marmo, c. 190, da un sarcofago romano. Dallas, Museum of Art.

Infatti, i pericoli per l’Impero non venivano soltanto dal barbaricum europeo. I Parti, eterni nemici di Roma, avevano continuato a minacciare i confini orientali alla fine del II e agli inizi del III secolo, fin quando sotto il principato di Severo Alessandro non furono assoggettati dai loro vassalli persiani (224-226). Apparentemente, questo per Roma significò soltanto cambiare interlocutore: non più il regno partico degli Arsacidi, ma l’Impero persiano dei Sassanidi. È contro questo che dovettero misurarsi Gordiano III, Filippo Arabo e Valeriano.

Un interessante spaccato degli effetti delle invasioni sulla vita dell’Impero è offerto dalla Lettera Canonica di Gregorio Taumaturgo, vescovo di Neocaesarea (l’ant. Kabeira, l’od. Niksar) nel Pontus. Il prelato si angustia per i peccati commessi dai Romani a seguito delle invasioni; non si preoccupa del fatto che qualcuno possa essersi cibato di carne offerta in sacrificio agli dèi, poiché, come egli afferma, tutti erano d’accordo che i barbari non avrebbero fatto sacrifici mentre si trovavano nell’Impero. Il vescovo, piuttosto, si preoccupa di chi poteva aver approfittato delle agitazioni e del trambusto per commettere rapine, impossessarsi di bottini abbandonati, ridurre in schiavitù i prigionieri sfuggiti ai razziatori; ma parla anche di chi si era unito alle schiere barbariche, «dimenticando di essere uomini del Ponto e cristiani, e si sono barbarizzati a tal punto da mandare alla forca persone della loro stessa gente e da indicare ai barbari, che non potevano conoscerle, strade e abitazioni» (Greg. Taumat. Ep. Canon. VII 9-10).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Approfittando della crisi, gli Iutungi invasero l’Italia: un’iscrizione proveniente da Augsburg (AE 1993, 1231) ricorda la loro disfatta e la liberazione di migliaia di prigionieri a opera delle forze congiunte degli eserciti dalla Raetia e dalla Germania. Forse proprio a seguito di questa crisi, Postumo, il governatore della Germania inferior, si proclamò Augustus nel 260. Peraltro, non sembra aver dimostrato interesse a estendere la propria autorità, reclamando tutto l’Impero: al contrario, egli si accontentò di governare quello che sarebbe stato chiamato Imperium Galliarum, standosene nella capitale, Colonia.

Nel 268/9 gli «Sciti», che questa volta pare fossero guidati dagli Eruli, invasero ancora il territorio romano, attaccando nuovamente dal mare. Il nuovo imperatore, Claudio II, riuscì a sconfiggerli nel 269, guadagnandosi il titolo di Gothicus Maximus; ma ciò non fermò gli assalti e, nel 270, muovendosi separatamente, gli Iutungi e i Vandali invasero l’Italia, mentre un rinnovato attacco dei Goti condusse all’abbandono della provincia della Dacia.

L’imperatore Aureliano (270-275) riuscì, infine, a ripristinare l’ordine e l’unità dell’Impero, mettendo fine al cosiddetto «Impero delle Galliae», respingendo l’ennesima invasione degli Iutungi e recuperando il controllo sulle province orientali. Queste, infatti, avevano costituito un regno indipendente da Roma: durante la crisi del 260, infatti, dell’aiuto prestato all’imperatore Gallieno contro i Persiani aveva approfittato Odenato, signore di Palmira e governatore della Syria; costui aveva esteso la propria influenza anche sull’Aegyptus, riscuotendo consenso in diverse province limitrofe; inoltre, per i suoi meriti era stato investito dei titoli di dux Romanorum e corrector totius Orientis. Alla sua morte, nel 267, la moglie Zenobia aveva assunto il potere, proclamando sé stessa e il figlio Waballato Augusti. Il regno di Palmira mantenne la propria autonomia e un certo prestigio finché Aureliano non intervenne e lo sconfisse, riportandone il territorio sotto il controllo di Roma. Non molto tempo dopo, comunque, anche Aureliano venne assassinato dai suoi stessi alti ufficiali.

Aureliano. Aureum. Mediolanum, c. 271-272, Au 4,70 g. Dritto: Imp(erator) C. L. Dom(itius) Aurelianus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto dell’imperatore laureato e corazzato, voltato a destra.

Probabilmente, a proposito di questi repentini cambi di vertice, la conseguenza più pesante del periodo fu il catastrofico declino della fiducia che i cittadini dell’Impero nutrivano nell’istituto imperiale e nella capacità del loro imperatore di difenderli. Per la prima volta si assistette non solo alla comparsa di imperatori «locali» (come Postumo nelle Galliae e Zenobia in Oriente nel 260, e Carausio in Britannia nel 286), ma anche allo scoppio di rivolte locali e regionali. Già nel 238 si era consumata la sollevazione dei proprietari terrieri dell’Africa proconsularis, che, oppressi dalla rapacità del fisco, si erano ribellati a Massimino Trace, armando i loro dipendenti e persino i loro schiavi; le forze leali all’imperatore avevano soffocato l’insurrezione in Africa, ma non avevano potuto impedire che il moto raggiungesse l’Italia e incontrasse il plauso del Senato, portando alla caduta di Massimino. Nelle province occidentali, a quanto sembra, endemico fu il fenomeno dei cosiddetti Bacaudae (“Bagaudi”). La questione di chi fosse precisamente questa gente e se ci sia stata una qualche continuità tra la loro prima comparsa alla fine del III secolo e il loro riemergere nel V è stata oggetto di aspre controversie tra gli interpreti moderni. Forse, per quanto attiene al III secolo, andrebbero considerati come «contadini allo sbando», che cercavano protezione nella leadership di personaggi di secondo piano, anziché dei piccoli aristocratici, proprietari terrieri o, perfino, dei visionari. Nel V secolo, anzi, questi ribelli potrebbero aver giocato un ruolo tanto significativo nel contribuire al crollo dell’autorità imperiale in alcune zone della pars Occidentis.

Non è possibile valutare esattamente quali siano state le ripercussioni della crisi del III secolo, ma con tutta probabilità si deve ritenere che furono assai pesanti. Non solo avviarono la riorganizzazione dell’Impero, ma produssero anche cambiamenti nel modo di concepire la compagine imperiale stessa. Tutti i Romani cives presero atto della fragilità delle istituzioni tradizionali e, forse, assunsero un atteggiamento nuovo nei confronti dei barbari: ora che l’Impero non si trovava più in posizione di superiorità e doveva tenersi sulla difensiva e che nessuno si aspettava nuove espansioni all’esterno, i barbari, dapprima visti come popolazioni che, un giorno, sarebbero state aggregate e incorporate nell’Impero, furono considerati solo come genti ostili a Roma.

Scena bucolica con villa rurale. Affresco, c. III secolo, da Augusta Treverorum (od. Trier).

È evidente che Roma si trovò a dover contrastare nemici esterni che premevano su tutti i fronti. Per poter far questo, si dovette puntare sulle forze armate, che subirono un forte aumento numerico, trasformazioni nella struttura e nel sistema di reclutamento, modificazioni quanto a tattica e a dislocazione. Naturalmente, per addivenire alle ingenti spese militari di mantenimento le autorità imperiali inasprirono l’imposizione fiscale. Laddove misure di difesa si fossero rivelate insufficienti, si fece ricorso ai mercenari, unità etniche composte o da barbari dediticii oppure da volontari, comunque non inquadrati nell’esercito romano. Queste formazioni offrivano il duplice vantaggio di integrare le fila delle truppe regolari e di familiarizzare i Romani con armamenti e tattiche loro estranee: si pensi ai cavalieri osroeni, clibanarii (cavalleria pesante d’assalto), arruolati in Oriente da Severo Alessandro, oppure agli equites cataphractarii istituiti da Gallieno. Spesso alcuni reparti di mercenari erano inviati a difesa delle aree di confine, come nel caso di un gruppo di Goti, distaccato nella fortezza di Mothana (nell’od. regione di Hawran, nella Siria meridionale). Un’iscrizione funeraria in greco, proveniente da quella località e risalente al 208, costituisce la prima testimonianza del ricorso a queste formazioni etniche già da Settimio Severo: μνημεῖον Γουθθα, υἱοῦ / Ἑρμιναρίου πραιποσίτου / γεντιλίων ἐν Μοθανοῖς ἀνα-/φερομένων, ἀπογεν‹ομέν›ου ἐτῶν ιδʹ. / ἔτι {²⁶ἔτει}²⁶ ρβʹ Περιτίου καʹ (AE 1911, 244, «[Questa è la] tomba di Gutta, figlio di Erminario, praepositus gentilium a Mothana, morto all’età di quattordici anni, nell’anno 102, nel ventunesimo giorno del mese di Peritio [= 28 febbr. 208]).

La sempre maggiore importanza via via assunta dai militari mutò la posizione dell’esercito nell’ambito dello Stato, garantendo ai suoi membri un posto migliore nella scala sociale. Come si è detto, il III secolo fu il periodo dei Soldatenkaiser, molti dei quali furono acclamati dalle truppe, spesso provenienti dai ranghi inferiori o ufficiali di carriera, e la cui nomina non sempre incontrò il plauso del Senato. Lo scenario dell’investitura degli Augusti mutò decisamente rispetto ai primi due secoli del principato, aprendo un’ulteriore incrinatura in un sistema ben collaudato e interrompendo il criterio di successione dinastica.

La fortezza romana di Qasr Bshir (Giordania), III secolo. Illustrazione di B. Delf.

Il bisogno di mantenere eserciti permanenti e che andavano continuamente incoraggiati e rabboniti con premi e donativi costrinse l’apparato imperiale a destinare alle forze armate una porzione sempre più grande delle entrate e, d’altra parte, a cercare nuovi modi per aumentarle. Questo non fu possibile se non con una forte esazione fiscale, che inizialmente gravò solo sulle province (con l’esclusione di quei territori che godevano dello ius Italicum), in particolare su quelle più ricche, dov’erano estese proprietà terriere in mano a diversi senatori: in questa prospettiva, dunque, è possibile leggere la rivolta del 238 in Africa proconsularis e sempre mutatis mutandis si può interpretare l’insurrezione dei Bacaudae nel 286 nelle Galliae. In ogni caso, l’esigenza di un più cospicuo gettito fiscale a un certo punto non risparmiò neppure l’Italia, già provata da carestie, spopolamento, invasioni e colonato, accelerando quel processo di provincializzazione che sarebbe culminato nella riforma amministrativa di Diocleziano.

In questo senso si erano manifestate alcune avvisaglie già sotto Adriano (117-138), quando l’imperatore aveva suddiviso la Penisola in quattro distretti, affidati ad altrettanti consulares; il processo era poi proseguito sotto Marco Aurelio con la creazione di quattro iuridices, con competenze analoghe ai predecessori; si era quindi arrivati con Caracalla da una parte all’istituzione del corrector Italiae (una sorta di amministratore o addirittura di governatore dell’Italia peninsulare), dall’altra all’istituzione dell’annona militaris, un’imposta in natura, al pagamento della quale ora dovevano contribuire pure gli Italici (gli abitanti della Lucania, per esempio, partecipavano attraverso l’invio di caro porcina, cioè carne di maiale, di cui la regione era particolarmente ricca). L’ultimo atto, prima di Diocleziano, fu siglato sotto Massimino Trace nel cruciale anno 238, quando, sia pur per un periodo limitato, l’Italia fu riorganizzata in dieci regiones a capo di ciascuna delle quali furono posti dei commissari speciali, i XXviri rei publicae curandae, con l’incarico di difendere lo Stato.

Clibanarius. Illustrazione di J. Shumate.

L’inasprimento della fiscalità si era manifestata sotto forme diverse. Alle imposte regolari costituite dai già gravosi tributum capitis e tributum soli, che colpivano rispettivamente la persona e il suolo, si erano aggiunte da una parte nuove forme di esazione, come l’annona militaris, dall’altra le già esistenti forme di imposizione irregolare – come la vicesima hereditatum (cioè una “tassa di successione” del 20%) e la vicesima libertatis (sulle manumissiones del 20%) – erano state estese a coloro che, con la Constitutio Antoniniana (212), erano entrati a far parte della cittadinanza romana. Sembra inoltre che fossero state raddoppiate, se si dà ascolto a Dione Cassio (DCass. LXXVII 9, 4-6). Come se ciò non bastasse, alle esazioni in denaro cominciarono poi ad affiancarsi sempre più spesso quelle in natura.

Ma a questi fattori di crisi economica occorre aggiungerne almeno altri due. Innanzitutto, va ricordato che la certezza di disporre di forza-lavoro in modo illimitato crollò miseramente nel corso del III secolo: ne furono causa la necessità di un sempre maggiore arruolamento, la iper-mortalità durante le innumerevoli guerre e ribellioni, e le epidemie. La peste, che si diffuse alla fine del principato di Marco Aurelio e che fu causa della morte dello stesso imperatore, non rimase purtroppo un fenomeno isolato: un nuovo contagio, sotto l’imperatore Probo, decimò una popolazione già decurtata dalle continue guerre. In secondo luogo, non si può trascurare che, pur non disponendo di un aumento di risorse in metallo prezioso, il conio monetale avvenne a ritmi serrati per venire incontro alle necessità amministrative: il governo imperiale ricorso all’espediente di eradere argento dal denarius, moneta argentea a maggiore circolazione; ma il rapporto 1:25 rispetto all’oro si fingeva inalterato, così da permettere un incremento nella quantità di moneta. È qui il germe dell’inflazione galoppante che tormentò la società dell’Impero per tutto il III secolo ed ebbe come conseguenza immediata l’aumento esponenziale dei prezzi, con enormi costi sociali. Questa situazione, mescolata alle condizioni di grande instabilità, portò a un forte contraccolpo anche nelle attività artigianali e nei traffici commerciali, con un impoverimento generale e una diminuzione della domanda.

Era fatale che tutto questo avesse forti ripercussioni anche sul piano religioso. In una cultura, come quella romana, in cui la pax deorum, cioè il rapporto armonioso tra uomo e divinità, era rispecchiata dalla felicitas imperii, cioè dalle sorti fortunate dell’Impero, era implicito che l’insuccesso, la sconfitta, il disordine scuotessero fin dalle fondamenta la fede religiosa. Di fronte a tale incrinarsi del sereno rapporto con gli dèi le reazioni furono di tipo diverso: o di fuga verso religioni consolatorie, misteriche, soteriologiche, oppure di condanna verso quello che veniva additato come il culto che avrebbe provocato l’ira degli dèi, cioè il monoteismo cristiano (di qui le persecuzioni dei cristiani, come quella di Massimino Trace, di Decio, di Valeriano e da ultimo di Diocleziano) o di tentativi sincretistici (come quello costituito dal culto di Iuppiter Dolichenus o dalla politica religiosa di Filippo Arabo).

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Šāpur I, l’uomo che umiliò Roma

Se si chiedesse di elencare i nomi dei grandi nemici di Roma, difficilmente, dopo quelli di Annibale, Giugurta, Mitridate, Vercingetorige, Cleopatra e Arminio, si menzionerebbe anche quello di Šāpur I. Eppure, quest’ultimo fu forse il più grande vincitore dei Romani. La storia antica e la cultura moderna hanno trasmesso e reso familiare re, generali e capi tribali che combatterono e tennero in scacco Roma, ma si trattò comunque di avversari a cui gli stessi Romani avevano potuto rendere l’onore delle armi: infatti, alla fin fine, erano stati tutti inequivocabilmente sconfitti.

Al contrario, la personalità e il carattere di re Šāpur restano come avvolti nella nebbia. La storiografia di III-IV secolo o di poco successiva non sembra aver avuto alcuna intenzione di soffermarsi su una disfatta che non rimase circoscritta a un unico evento bellico. L’intero lungo regno di Šāpur I, durato circa fra il 240 e il 273, rappresentò effettivamente la totale sconfitta dell’Impero romano sotto ogni punto di vista, militare, politico e diplomatico. Insomma, mentre per più di un trentennio il sovrano sassanide mantenne saldamente un potere assoluto e accentratore, in Occidente l’autorità fu esercitata ufficialmente da ben dieci Augusti, senza contare tutti gli usurpatori! E basta questo a dare la misura di quale fra le due compagini godesse di maggiore stabilità politica interna e fosse in grado di portare avanti progetti a lunga scadenza. Il dominio sassanide, dopo Šāpur, sarebbe durato più di quattro secoli, segnando l’ultimo periodo di grande potenza e fioritura della civiltà iranica.

Šāpur a cavallo seguito dai figli Hormizd e Bahram e altri dignitari. Rilievo, roccia calcarea, c. 245. Naqš-e Rajab (Pārs).

Il rivolgimento politico che aveva condotto all’ascesa dei Sassanidi e alla caduta degli Arsacidi, negli anni 223-226, sembra essere stato inteso dagli osservatori romani come uno dei soliti colpi di mano e cambi di vertice del Regno dei Parti. In realtà, si trattò di un evento di vastissima eco geopolitica, che le fonti occidentali sembrano non aver capito affatto. Anche questo fraintendimento è un significativo segno della decadenza dell’Impero romano: nessuna realtà politica, aggressiva o meno, può permettersi il lusso di ignorare i propri avversari, dichiarati o potenziali.

Se piuttosto scarne sono le testimonianze greche e latine sul conto di Šāpur I, le notizie persiane che lo riguardano si fanno decisamente più consistenti e numerose. La fonte principale sul suo regno è la straordinaria iscrizione trilingue (medio-persiano, partico e greco) che Šāpur volle apposta sulle pareti del cosiddetto Kaʿba-ye Zardošt (“Cubo di Zoroastro”); l’epigrafe fu rinvenuta in una serie di campagne di scavo nel 1936-39, a Naqš-e Rostam, nel cuore dell’Impero persiano, presso le tombe dei grandi sovrani achemenidi. Cogliendo l’importanza autocelebrativa del documento Michail Rostovzeff lo ribattezzò Res Gestae Divi Saporis.

Ahurā Mazdā consegna il diadema della regalità ad Ardašir I. Rilievo, roccia calcarea, 226-241. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Da questa e da altre fonti iraniche, dunque, si apprende che Šāpur fu un sovrano illuminato, saggio, colto, curioso e aperto alle culture e alle tradizioni straniere. Egli era figlio di Ardašir I e di una «nobildonna Myrōd». Il rilievo di Firuzābād dedicato alla battaglia di Hormozdgan (28 maggio 224) raffigura Šāpur al fianco di suo padre contro re Artabano IV di Partia. Una volta instaurato il dominio sassanide, ritenendolo il più idoneo a regnare tra i suoi figli, nel 240 Ardašir investì Šāpur come suo legittimo successore di fronte all’assemblea dei notabili. La scena dell’investitura compare sui rilievi di Naqš-e Rajab e di Firuzābād, nei quali Šāpur è raffigurato a cavallo nell’atto di ricevere la corona direttamente dalle mani di suo padre.

Dopo un breve periodo di condivisione del regno, Ardašir lasciò tutto il potere al figlio e si ritirò a vita privata. La loro sinarchia è attestata da diverse fonti: un passo dal Codex Manichaicus Coloniensis (V sec.), in cui si riferisce che nel ventiquattresimo anno di Mani, cioè nel 240, Ardašir «sottomise la città di Hatra e il re Šāpur, suo figlio, gli pose sul capo il grande diadema»; una lettera al Senato dell’imperatore Gordiano III, in cui informava di aver allontanato la minaccia «dei re persiani (reges Persarum)» dalla Antiochia di Syria (SHA Gord. 27, 5); ma anche le tarde emissioni monetali di Ardašir, che sul retto lo ritraggono affrontato al giovane principe con la didascalia: «Il divino Šāpur, re dell’Iran, il cui seme proviene dagli dèi»; un coevo rilievo rupestre a Salmās, in Azerbaigian, rappresenta i due sovrani a cavallo con la medesima corona.

Shapur I. Artwork by A. McBribe.

Il tratto più caratteristico ed evidente del nuovo re fu la decisione con cui una volta rimasto solo sul trono proseguì i progetti di suo padre. Gli scrittori orientali offrono un’idea piuttosto vaga delle guerre che Šāpur condusse contro l’Impero romano, facendo riferimento a un’unica campagna che si concluse con la cattura di Valeriano (260). L’iscrizione e i rilievi rupestri di Naqš-e Rostam concordano con le fonti romane sul fatto che le campagne furono in realtà tre. La prima (242-244) avvenne dopo la conquista di Hatra. Il resoconto di Giulio Capitolino nella biografia ufficiale di Gordiano III (SHA Gord. 23, 4; 26, 3-24, 3), integrato da alcuni autori successivi, riferisce che nel 242 l’imperatore mosse contro i Persiani con «una grande armata e moltissimo oro» e svernò ad Antiochia. Di qui combatté e vinse in diversi scontri, scacciò le truppe di Šāpur dalla provincia di Syria, dalle roccaforti di Carrhae e Nisibis e lo sbaragliò a Resaina (od. Ra’s al-‘Ain), costringendolo a restituire tutte le città occupate. Il giovane Gordiano informava il Senato: «Siamo penetrati fino a Nisibis, arriveremo anche a Ctesifonte!». Ma ciò non avvenne. Le fonti romane (Chron. min. 1, 147; Aur. Vict. Caes. 27, 8; Fest. 22; Eutrop. 9, 2; Hier. Chron. 217; Amm. Marc. XXIII 5, 7-8, 17; SHA Gord. 29,1-31,3; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 27, 2; Oros. VII 19, 5; Zos. I 18, 2-19, 1; Zon. 12, 18) riportano che il nuovo prefetto del pretorio, Filippo Arabo, ordì alcune trame, al punto da scatenare una rivolta militare e costringere al ritiro dalla campagna. Sulla via del ritorno Gordiano morì, ma le testimonianze sono piuttosto confuse: alcune affermano che il giovane imperatore venne eliminato da Filippo, altre che egli rimase ucciso in Partia; altre ancora che Gordiano fu assassinato in territorio nemico, altre che, disarcionato in battaglia e rottosi un femore, sarebbe morto a causa della ferita. Zosimo (Zos. I 19, 1) riporta che Filippo «stipulò con Šāpur un patto di amicizia sancito da giuramenti», mettendo fine alla guerra e cedendo al nemico l’Armenia e la Mesopotamia.

Dal 1940 è possibile confrontare quanto riferito dalle fonti imperiali con la versione persiana, offerta dallo stesso Šāpur nelle sue Res Gestae: «Proprio quando ci siamo stabiliti sul trono, l’imperatore Gordiano arruolò in tutto l’Impero Romano un esercito tra Goti e Germani e, invasa l’Āsōristān (Assiria), marciò contro l’Ērānšahr e contro di noi. Ai confini dell’Assiria, a Misiḵē, vi fu una grande battaglia campale. E il Cesare Gordiano rimase ucciso, e noi sbaragliammo l’armata romana. Allora i Romani acclamarono Filippo imperatore. Quindi, il Cesare Filippo venne da noi per trattare i termini della pace, dandoci 500.000 denarii per riscattare la vita dei prigionieri, e divenne così  nostro tributario» (RGDS rr. 6-10).

Šāpur a cavallo sopra il corpo esanime di Gordiano III, mentre riceve la sottomissione di Filippo Arabo. Rilievo, pietra calcarea, c. 244. Dārābgerd (od. Kandaq Dahia).

Gli studiosi moderni hanno dimostrato che il resoconto di Šāpur, sebbene viziato, è superiore alla versione romana, che non spiega perché l’imperatore, dopo aver messo in rotta le armate di Šāpur vicino a Nisibis e aver raggiunto le porte di Ctesifonte, avrebbero preferito concludere una «pace vergognosissima». Kettenhofen (1982, 35-36) afferma che «Con ogni probabilità l’orgoglio imperiale romano abbia fatto ricadere su Filippo la responsabilità della sconfitta, per cui Gordiano III fu il primo imperatore romano a perdere la vita in battaglia in territorio nemico. Diversamente, il senso di superiorità dei Sassanidi fu immortalato in diversi rilievi rupestri di Šāpur I, e la vittoria di Misiḵē fu celebrata da un vanaglorioso sovrano come l’unico evento militare nel corso di questa prima campagna». Dopo aver tolto la possibilità ai Romani di nuocere e aver arricchito il tesoro regio esigendo un onerosissimo riscatto, Šāpur estese il protettorato persiano sull’intera Armenia, commemorando il suo trionfo in numerosi rilievi rupestri nel Pārs: tra questi il più famoso è senz’altro quello di Dārābgerd, che mostra il corpo del giovane Gordiano III calpestato dal cavallo del re e questi in atto di ricevere la sottomissione di un altro imperatore (Filippo?). Nonostante l’evidente insuccesso, è curioso che Filippo abbia celebrato la campagna orientale fregiandosi dei titoli di Persicus Maximus e Parthicus Maximus e facendo passare il trattato concluso con il nemico come una pax fundata cum Persis.

Mentre le fonti occidentali sulla seconda campagna di Šāpur (252-256) sono scarse, contraddittorie e ostili, il testo delle sue Res Gestae è piuttosto coerente: «E il Cesare mentì ancora e fece male all’Armenia» (r. 10). Questo esordio potrebbe riferirsi a una rinnovata ingerenza romana nella questione armena e al possibile rifiuto di corrispondere tributi ai Persiani. Verso il 252 Šāpur lanciò una nuova offensiva contro le province orientali dell’Impero romano e occupò numerose città della Mesopotamia, compresa Nisibis (Eutrop. 9, 8; Zos. I 39, 1). Quindi, attaccò la Cappadocia e la Syria, sconfiggendo le forze romane nella battaglia di Barbalissos (od. Qalʿat al-Bālis), sulla riva sinistra dell’Eufrate, ed espugnando la stessa Antiochia (Amm. Marc. XX 11, 11; XXIII 5, 3; SHA Trig. Tyr. 2; Malal. Chron. 12; Orac. Sibyl. XIII 125-130; Liban. XV 16; XXIV 38; LX 2-3). L’iscrizione di Naqš-e Rostam, invece, riferisce: «E annientammo una forza di 60.000 armati a Barbalissos, devastammo la Syria e i suoi dintorni, distruggemmo e depredammo. In questa sola spedizione noi strappammo al controllo dei Romani le seguenti città e fortezze: Anatha e i suoi sobborghi, […] Birtha, Sura, Barbalissos, Hierapolis, Beroea, Chalcis, Apamea, Rhephania, Zeugma, Ourima, Gindaros, Armenaza, Seleucia, Antiochia, Cyrrhus, Alexandretta, Nicopolis, Sinzara, Chamath, Ariste, Dichor, Doliche, Dura Europos, Circesium, Germanicia, Batnae, Chanar, e in Cappadocia, Satala, Domana, Artangil, Souisa, e Phreata per un totale di 37 città con i loro sobborghi».

Dura Europos (od. Salhiyah, Siria, Deir el-Zor). Mura collassate nell’assedio del 256.

Le testimonianze pervenute riferiscono che negli anni 253-256 Šāpur aveva condotto diverse offensive con l’obiettivo di colpire soprattutto Antiochia, metropoli particolarmente ricca e prestigiosa. Durante la prima fase della seconda campagna il sovrano sassanide aveva dovuto affrontare dei torbidi in Armenia: re Cosroe II, volendo vendicare la morte del parente, re Artabano IV, aveva invaso l’Assiria, minacciando i confini settentrionali dell’Ērānšahr. Fatto assassinare con un tradimento l’avversario e occupato il regno caucasico, Šāpur installò suo figlio Hormizd-Ardašir come “Grande re degli Armeni”; inoltre, assoggettò la Georgia, riducendola a satrapia e ponendola sotto il governatorato di un funzionario di alto rango, il bidaxš. Avuta ragione sulle armate romane a Barbalissos, Šāpur poté condurre una vasta offensiva contro le province romane, saccheggiando, devastando e deportando numerosi prigionieri.

Ripetute scaramucce fra le forze persiane e quelle romane rinnovarono le ostilità nel 260. Le Res Gestae Divi Saporis riferiscono così della terza campagna di Šāpur contro l’Impero: «Durante la terza invasione, noi marciammo contro Edessa e Carrhae e le ponemmo sotto assedio, tanto da costringere il Cesare Valeriano a condurre il suo esercito contro di noi. Egli era alla testa di una forza di 70.000 armati provenienti dalle province di Germania, Raetia, Noricum, Dacia, Pannonia, Moesia, Thracia, Bithynia, Asia, Pamphilia, Isauria, Lycaonia, Galatia, Lycia, Cilicia, Cappadocia, Phrygia, Syria, Phoenicia, Iudaea, Arabia, Mauretania, Lydia e Mesopotamia» (rr. 19-23).

P. Licinio Valeriano. Antoniniano, Antiochia, c. 253-255. AR 3,80 g. Recto: Imp(erator) C(aesar) P. Lic(inius) Valerianus Aug(ustus). Busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.

Zosimo (Zos. I 36) riferisce che Valeriano, com’ebbe appreso dell’offensiva persiana, «si recò di persona da Antiochia sino in Cappadocia e, colpite soltanto le città durante il suo passaggio, tornò indietro. Ma quando la peste si abbatté sull’esercito, falcidiandone la maggior parte, Šāpur con un’incursione sottomise tutto l’Oriente. Valeriano, per debolezza e mollezza di vita, non se la sentì di porre rimedio a una situazione che si era fatta tanto grave e, volendo mettere fine alla guerra con donativi in denaro, inviò un’ambasceria a Šāpur, che la rimandò indietro senza aver concluso nulla, e chiese di incontrarsi con l’imperatore per discutere ciò che riteneva necessario». A questo punto, le fonti romane divergono su quanto accadde a Valeriano: mentre Eutropio (9, 7), Festo (23) e Aurelio Vittore (Caes. 32, 5), concordemente, narrano che l’imperatore fu catturato dai soldati nemici dopo essere stato vinto in una grande battaglia campale, Zosimo riferisce che Valeriano, recandosi all’incontro richiesto dal sovrano sassanide, fu fatto prigioniero a tradimento: «Valeriano, accettate le richieste senza nemmeno riflettere, mentre si recava presso Šāpur con decisione avventata, insieme a pochi uomini, improvvisamente cadde prigioniero dei nemici. Catturato, morì tra i Persiani, disonorando assai gravemente il nome romano presso i posteri».

L’iscrizione di Šāpur, invece, riferisce chiaramente che «ci fu una grande battaglia a metà strada tra Carrhae ed Edessa fra noi e il Cesare Valeriano e noi lo catturammo, facendolo prigioniero con le nostre mani, insieme ad altri generali dell’armata romana, al prefetto del pretorio, alcuni senatori e ufficiali. Tutti costoro caddero nelle nostre mani e li deportammo in Pārs» (rr. 24-26).

La cattura dell’imperatore e dei suoi lasciò l’Oriente romano alla mercé del re persiano: «Noi allora bruciammo, devastammo e saccheggiammo la Syria, la Cilicia e la Cappadocia», sottraendo al controllo nemico ben trentasei città e fortezze (rr. 26-34). Come ha osservato l’ufficiale e storico militare britannico sir Percy Sykes (1921, I 401): «Few if any events in history have produced a greater morale effect than the capture of a Roman Emperor by the monarch of a young dynasty. The impression of the time must have been overwhelming, and the news must have resounded like a thunderclap throughout Europe and Asia». Con ogni probabilità gli autori di parte imperiale preferirono attribuire «la più grande umiliazione dei Romani» alla diffusione di una pestilenza e al tradimento degli alleati, affermando che l’«anziano imperatore» fosse stato ingannato da Šāpur durante i negoziati per un armistizio piuttosto che confermare l’onta della cattura di Valeriano in battaglia.

Shapur and the Surrender of Valerian. Artwork by A. McBribe.

Šāpur volle celebrare il successo delle sue imprese con iscrizioni, come quella a Naqš-e Rostam, e numerosi rilievi rupestri. A Bišāpur uno di questi monumenti propone una scena assai simile a quella di Dārābgerd: il re vincitore è raffigurato a cavallo in atto di ricevere da Ahurā Mazdā la corona, simbolo della regalità, mentre sotto il suo destriero giace esangue Gordiano e prostrato dinanzi a lui compare l’imperatore Filippo. Un altro grande rilievo di Bišāpur ripropone lo stesso tema, ma al posto di Filippo accanto al re si mostra Valeriano, tenuto saldamente per un polso dal vincitore. Infine, un cammeo in sardonice, conservato al Cabinet des Medailles di Parigi, raffigura Šāpūr e Valeriano che si affrontano a cavallo: l’imperatore romano avanza al galoppo contro il nemico con la spada sguainata, mentre il sovrano sassanide si limita ad afferrare il polso dell’avversario, bloccandolo saldamente. A ogni modo, tutte le rappresentazioni persiane dell’evento da una parte celebrano la supremazia di Šāpūr, dall’altra, però, raffigurano il prigioniero completamente integrato nel suo ruolo di Cesare, smentendo così quelle fonti, soprattutto di parte cristiana, che volevano fosse stato maltrattato e, infine, barbaramente ucciso ([Aur. Vict.] Epit. Caes. XXXII, 5-6; Oros. VII 3-4; Lactan. mort. pers. 5).

Il trionfo di Šāpur accrebbe indubbiamente il prestigio dell’Impero sasanide, confermando pienamente la sua posizione di rivale della compagine romana. Le sue incursioni privarono il nemico di risorse, mentre rimpinguavano e arricchivano il proprio tesoro. I numerosi prigionieri deportati, tra militari e civili, per lo più artigiani e operai qualificati, contribuirono a rivitalizzare i centri urbani dell’Impero persiano. Ciò è dichiarato dallo stesso sovrano nelle sue Res Gestae: «E insieme al bottino abbiamo portato via degli uomini dall’Impero romano, cioè degli Anērān; abbiamo insediato costoro nel nostro regno in Pārs, Parthia, Ḵuzestān e Āsōristān, suddividendoli satrapia per satrapia» (rr. 35-36). Pare che l’integrazione di tanti elementi stranieri sotto il proprio regno abbia indotto Šāpur a riformulare il proprio titolo reale in Šāhān Šāh ī Ērān ud Anērān (“Re dei re degli Iranici e dei non-iranici”). D’altra parte, molti di quei prigionieri erano cristiani e, non sottoposti a persecuzioni, riuscirono a prosperare e a fare proseliti nel Ḵuzestān e in altre satrapie orientali, costruendo persino chiese, monasteri e vescovati. I nuovi sudditi, inoltre, diffusero il greco e il siriaco e portarono con sé diverse conoscenze scientifiche, soprattutto opere astronomiche, poi tradotte anche in pahlavi, la lingua parlata dai Sassanidi.

Il lungo regno di Šāpur fu un periodo senza precedenti di rinnovamento urbano: la località di Misiḵē (Ērāq) fu rifondata con il nome di Pērōz-Šāpūr (“Vittoria di Šāpūr”) e divenne uno dei più importanti centri militari (anbār) dell’Impero persiano; Abaršahr in Khorāsān divenne Nišāpur (“Šāpūr è l’eccelso”); così l’antica Susa fu ribattezzata Hormazd-Ardašir in onore del principe reale. Il sovrano fondò la città di Gondêšâpur, in Ḵuzestān, sul sito di un antico abitato noto come Bēṯ Lapaṭ, servendosi di manodopera antiochena. Altri prigionieri dall’Impero romano furono impiegati per la fondazione di Bišāpur, in Fārs, la cui pianta e i cui edifici tradiscono le origini dei suoi costruttori. In una grotta fra i Monti Zagros a 6 km a sud di questa metropoli fu scolpita in pietra calcarea una statua colossale di Šāpūr, alta 6, 7 m.

Šāpūr I. Statua colossale, stalagmite, calcare, III secolo. Kazerun (Pārs), Grotta di Šāpūr.jpg

La grandiosità dei monumenti con le loro scene di vittoria, i simboli del potere e della regalità, di popoli sottomessi dovette colpire i nuovi sudditi di Šāpūr. Eppure, è difficile provare a immaginare l’impressione di questi prigionieri di fronte a scene assolutamente simili a quelle a cui erano già abituati in patria – anche se, naturalmente, di segno opposto. Ancora più forte dovette essere verosimilmente l’impatto sui sudditi persiani e orientali, che si trovavano di nuovo ad assaporare dopo tanti secoli, vittorie degne dei grandi e mitici sovrani del passato. Non è infatti un caso che Šāpūr avesse scelto per illustrare le sue imprese anche luoghi come Naqš-e Rostam, che ospitavano i sepolcri degli antichi dinasti achemenidi. Nonostante l’evidente salto cronologico, le differenze etniche e culturali, i Sassanidi si sentivano i degni eredi del grande Impero persiano e, come tali, celebrarono le loro vittorie sui Romani.

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L’Apologetica

di G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 504-511.

 

Oxford, Balliol College Library. Ms. balliol. 79 (O^), Tertulliano, Apologeticum, con marginalia di William of Malmesbury (XV sec.), f. 1r.

Accanto a […] forme di letteratura a volte popolare, ma non per questo meno interessante anche sul piano della resa stilistica, intorno alla fine del II secolo compaiono anche i primi scrittori latini cristiani sui quali si posseggono informazioni sufficienti perché siano presentati con un’immagine più compiuta. La produzione letteraria che si propone la diffusione delle teorie cristiane e la loro difesa dagli attacchi dei pagani va sotto il nome di apologetica, ed apologisti sono comunemente chiamati questi scrittori che operano tra gli ultimi anni del II e i primi del IV secolo. Anche per queste opere c’è da segnalare un più rapido sviluppo nel mondo orientale, ed un relativo ritardo in quello occidentale: le prime Apologie scritte a Roma sono opera di Giustino, martire nel 165, ma sono scritte in greco, e ancora in greco sono varie altre opere di poco più tarde scritte con le medesime intenzioni in diverse parti dell’Impero. I primi a scrivere in latino sono Minucio Felice e Tertulliano, ai quali spetta il titolo di primi autori latini cristiani. Quale dei due sia più antico è problema pressoché insolubile: di Tertulliano conosciamo bene molte vicende, e possiamo ragionevolmente ricostruirne la cronologia; tutto più incerto è invece per Minucio Felice, e gli argomenti su cui ci si basa per considerarlo più o meno recente di Tertulliano sono prevalentemente soggettivi e reversibili, o interpretabili in maniera diversa, a seconda delle tesi sostenute dagli studiosi. È comunque importante osservare che fin dagli inizi si manifesta – nelle diverse posizioni assunte da Minucio e Tertulliano – quella che sarà una costante all’interno della produzione letteraria cristiana: da un lato (con Minucio) una tendenza conciliante, che cerca di non rompere con il passato classico e di recuperare da esso quanto non sia in stridente contrasto con il messaggio cristiano; dall’altro (con Tertulliano) un atteggiamento di rigorosa intransigenza, che postula una decisiva svolta rispetto al mondo pagano ed ai suoi valori, anche se tale svolta si esprime in una lingua letteraria che risente comunque degli insegnamenti retorici della formazione scolastica (che è comune a pagani e cristiani).

Paris, Bibliothèque Nationale de France. Cod. Par. lat. 1622 (Agobardinus, IX sec.), Tertulliano Opera omnia, f. 1v.

Quinto Settimio Fiorente Tertulliano nacque a Cartagine intorno alla metà del II secolo da genitori pagani; studiò retorica e diritto nelle scuole tradizionali, dove apprese anche il greco, esercitò la professione di avvocato in Africa, e per un certo periodo anche a Roma, prima del rientro in patria e della conversione, che avvenne soltanto in età piuttosto avanzata, probabilmente verso il 195. Fu anche prete, e le sue posizioni religiose si dimostrano molto rigorose, tanto che nel 213 finì con l’aderire ad una delle sette ereticali più note per l’intransigenza e il fanatismo, quella dei Montanisti; negli ultimi anni di vita abbandonò anche questo gruppo, e ne fondò uno nuovo, che si chiamò dei Tertullianisti. Morì dopo il 220, anno a cui risalgono le ultime notizie che abbiamo su di lui.

Di Tertulliano ci sono pervenuti oltre trenta scritti, a orientamento teologico e polemico; polemiche contro i pagani e contro i cristiani che non condividevano le sue tesi. Fra i più notevoli, vanno ricordati l’Ad martyras, con l’esortazione ad un gruppo di cristiani incarcerati e in attesa del martirio; l’Ad nationes, l’Apologeticum e il De testimonio animae, composti tutti e tre nel 197, per difendere il Cristianesimo dagli attacchi dei pagani; il De praescriptione haereticorum, del 200 circa, contro i cristiani che contaminano la loro fede con dottrine filosofiche pagane e propugnano interpretazioni troppo libere del testo biblico; il De anima, scritto intorno al 211, forse l’opera più notevole della maturità di Tertulliano, nella quale sono rielaborate ampiamente anche fonti pagane; l’Ad Scapulam, del 212, indirizzato al governatore dell’Africa proconsolare che conduceva una campagna contro i cristiani. Accanto a queste vanno ricordate opere che affrontano problemi morali e di comportamento del cristiano nella vita quotidiana, offrendo pertanto al lettore anche spunti interessanti sulla società africana tra II e III secolo: De spectaculis, contro la partecipazione agli spettacoli del teatro, dell’anfiteatro e del circo; De cultu feminarum, sui vestiti delle donne, che debbono essere particolarmente discreti; De virginibus velandis, sull’opportunità che le donne non escano di casa a volto scoperto; De pudicitia, contro i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio; De corona, contro il servizio militare, dichiarato incompatibile con l’appartenenza alla fede cristiana; De idololatria, contro tutte le attività economiche che siano in qualche modo connesse con i culti pagani. Altre opere riguardanti argomenti di carattere liturgico e teologico e altre infine sono dedicate a violente polemiche contro avversari religiosi (Adversus Marcionem, Adversus Praxean, ecc.).

Sansone e i leoni. Affresco, 350-400 d.C. Roma, Catacombe di Via Latina.

L’esperienza professionale dell’avvocato, lo spirito battagliero e pronto a trasformare in durissimi attacchi agli avversari ogni opera che nasceva da esigenza difensive, il gusto per l’improperio, per la descrizione sgradevole e pesante, per uno stile «barocco» e nutrito di efficacissima strumentazione retorica sono caratteristiche comune a quasi tutti gli scritti di Tertulliano, a qualunque periodo appartengano. Se ne può ricavare l’impressione di un personaggio arrogante, disposto a sostenere le proprie tesi con qualsiasi tipo di argomentazioni, a volte anche con ragionamenti discutibili e prove chiaramente false. Questa immagine complessivamente non positiva è aggravata da alcune posizioni che, fuori dal loro contesto, risultano del tutto inaccettabili, come la pervicace demonizzazione di tutto ciò che è femminile e la convinzione che la donna sia il più pericoloso strumento di Satana. Simili pregiudiziali antipatie devono essere però superate, se si vuole capire il ruolo e la posizione di un personaggio certamente focoso, ma non privo di coraggio, trascinato spesso da una violenta carica di rigore e di moralismo. In ultima analisi Tertulliano appare una figura tragica, che non riesce ad amare l’umanità, che si compiace di immaginare e di descrivere tutte le disgrazie che prima o poi capiteranno ai suoi nemici; un uomo che non sa trovare un momento di pace e di tranquillità, almeno in questa vita.

Ma accanto a questi limiti ci sono anche la grandezza del teorico e l’acume del pensatore: tralasciando le questioni più strettamente dottrinali, che qui hanno un rilievo secondario, si pensi all’importanza che ha nell’Apologeticum la definizione del rapporto giuridico tra religione e Stato, impostato con la chiarezza e la professionalità di un avvocato romano. Sempre nell’Apologeticum, è famosa l’argomentazione dell’anima naturaliter Christiana, che tanto successo ebbe nei secoli seguenti: l’anima stessa, se non addottrinata in senso contrario, dimostrerebbe il primato del monoteismo con le invocazioni ad un unico dio nei momenti di difficoltà. La sua incapacità di mediare, il suo intransigente integralismo mettono Tertulliano contro tutto il mondo: significativo, in particolare, è in questo senso il De idololatria, che vede piene di paganesimo, e perciò inaccettabili per il buon cristiano, quasi tutte le attività quotidiane. È il problema del rapporto che l’oppositore di un regime, di uno stato di fatto, deve avere con la realtà che lo circonda: fino a che punto possono spingersi la contrapposizione e il rifiuto senza divenire fanatica rinuncia ed esasperato isolamento, che in definitiva privano anche della possibilità di intervenire per modificare una situazione che si ritiene ingiusta?

Anche per le sue qualità di scrittore Tertulliano ha diritto ad un posto di rilievo nel quadro, complessivamente piuttosto povero, della sua età. Assai personale è l’impasto di parole tecniche del gergo avvocatizio e di termini dell’indiscussa dignità letteraria, piena la padronanza su un periodo volutamente irregolare, spezzato, con interrogazioni ed esclamazioni che interrompono frequentemente l’andamento del discorso, con brevi battute ad effetto, con metafore spinte all’estremo proprie di una fantasia visionaria e allucinata. Il suo successo nella cultura africana è confermato dalla sopravvivenza dei Tertullianisti ancora all’epoca di Agostino, e dal fatto che molti dei suoi temi preferiti ritornano con insistenza nella letteratura cristiana dei primi secoli; non piccolo merito di Tertulliano è anche quello di aver ampiamente contribuito a creare una nuova lingua cristiana, capace di esprimere a livello letterario i dogmi di fede e la problematica della prassi quotidiana del credente.

Il buon Pastore. Affresco, III-IV sec. d.C. Roma, Catacombe di S. Callisto.

Anche lui avvocato ed africano (era nato probabilmente a Cirta, la patria di Frontone), Marco Minucio Felice esercitava la sua attività a Roma, dove godeva di condizioni di buona agiatezza economica. Contemporaneo di Tertulliano, secondo alcuni scrisse qualche anno prima di lui, sul finire del II secolo, secondo altri invece la sua opera va collocata nei primi decenni del III secolo, fra la produzione di Tertulliano e quella di Cipriano. Oltre al dialogo Octavius, che ci ha lasciato, Minucio avrebbe scritto un De fato che non ci è pervenuto.

Il dialogo Octavius si svolge sul lido di Ostia, fra tre personaggi: il pagano Cecilio, il cristiano Ottavio e Minucio stesso. Ottavio rimprovera Cecilio per un gesto di adorazione a una statua del dio Serapide, e Cecilio propone di esporre le reciproche ragioni e di nominare Minucio giudice della controversia; ma dopo le due orazioni, quella di Cecilio contro il Cristianesimo e quella di Ottavio a suo favore, non c’è bisogno di un giudizio, perché Cecilio ammette di essere stato sconfitto.

Serapide. Testa, calcite, II-III sec. d.C. ca. Baltimora, Walters Art Museum.

Gli argomenti discussi sono quelli che compaiono anche negli altri apologeti, compreso Tertulliano: il monoteismo è preferibile, anche razionalmente, al politeismo; i cristiani non sono colpevoli dei misfatti che vengono loro imputati, anzi spesso sono proprio i loro accusatori ad essere macchiati di tali colpe; se i pagani comprendessero le istanze di pace e di amore del Cristianesimo non lo avverserebbero, anzi si convertirebbero subito. La differenza fra la trattazione impostata da Minucio e quella di Tertulliano, ad esempio nell’Apologeticum, non potrebbe però essere più evidente: Minucio è scrittore fine e delicato, rifugge dalle grossolanità che Tertulliano invece ama; Minucio fonda la sua argomentazione sulla logica e sul ragionamento pacato, mentre Tertulliano cerca di emozionare e di colpire i sentimenti. Minucio si rivolge ai pagani colti, per convertirli, e cita quindi con abbondanza gli scrittori classici, astenendosi dai riferimenti alla Bibbia; Tertulliano si scaglia contro i pagani per consolidare i cristiani nella loro fede, e tutt’al più può pensare di conquistare al Cristianesimo le future generazioni, che non si siano ancora macchiate del peccato di idolatria. In conclusione, se Tertulliano colpisce il lettore per il suo gusto dell’esasperazione, Minucio Felice appare al contrario un modello di equilibrio e di buon senso.

Questa differenza ha spesso comportato per Minucio accuse di debolezza e di incapacità, di incertezza nella fede, di prevalenza degli interessi letterari su quelli religiosi; ma chi abbia sufficiente sensibilità per cogliere le sfumature ed i mezzi toni, e sufficiente buon gusto per apprezzare un’opera che rifiuta programmaticamente ogni scadimento di livello, ogni concessione al patetico, dovrà apprezzare la serenità e la dignità della discussione. Ciò non toglie, certo, che molta attenzione sia anche riservata all’aspetto letterario: Cicerone è un modello sempre presente nella costruzione del periodo. Alcune scene della cornice che inquadra il dialogo sono pezzi di bravura giustamente apprezzati, come la famosa descrizione dei ragazzi che giocano sulla spiaggia facendo rimbalzare sull’acqua sassi piatti, la passeggiata sull’estremo lembo di sabbia bagnato dalle onde, la sosta sulla scogliera, dove i protagonisti si siedono a parlare della fresca mattina d’autunno, la conclusione con i tre amici che si salutano contenti della bella discussione, e felici di aver appianato le divergenze.

Col suo tono sereno e al tempo stesso malinconico, con la sua composta razionalità, l’Octavius segna la fine del mondo classico e il passaggio al Cristianesimo sulla linea della continuità, non della rottura, come auspicava Tertulliano. È il Cristianesimo dei ceti dirigenti, i quali non vogliono che il cambiamento di religione sia accompagnato da sommovimenti sociali, e sono convinti che debbano comunque sopravvivere la finezza e l’equilibrio costruiti da secoli di civiltà greco-latina; nel progetto di Minucio non c’è spazio per le «stranezze» giudaiche e per gli estremismi dei cristiani radicali. Non si può negare che il suo Cristianesimo sia autentico e sincero, ma certamente nulla ha della carica rivoluzionaria che ne aveva facilitato la sua diffusione fra i ceti subalterni, e che per alcuni intellettuali – Tertulliano è uno di loro – costituiva ancora il fascino principale della nuova religione.

SS. Cornelio e Cipriano. Affresco, III sec. d.C. Roma, Catacombe di S. Callisto.

Tascio Cecilio Cipriano nacque intorno al 200 a Cartagine, si formò nelle scuole di quella città, fu rinomato maestro di retorica fino al 246, quando si convertì e donò tutti i suoi beni ai poveri. Eletto vescovo alla fine del 248, dovette affrontare la durissima persecuzione decretata dall’imperatore Decio nel 250, durante la quale dimostrò grande coraggio e seppe evitare alla comunità cristiana lutti ancora più gravi; non sfuggì, invece, alla persecuzione di Valeriano nel 257-258, quando fu processato e condannato all’esilio, poi richiamato per un secondo processo, che si concluse con la condanna a morte e il martirio, il 14 settembre del 258.

Vari gli scritti di carattere apologetico, come l’Ad Donatum, sulla propria conversione (alcuni toni autobiografici hanno fatto vedere in quest’opera un «precedente» alle Confessioni di Agostino), e l’Ad Demetrianum, sulle colpe dei pagani e le punizioni divine, o il Quod idola dii non sint, della cui autenticità alcuni dubitano. Altri trattati affrontano questioni connesse con la guida della diocesi di Cartagine, come il De lapsis, sulla questione dell’atteggiamento da tenere nei riguardi di quei cristiani che avevano rinnegato la fede durante le persecuzioni, ma si erano poi pentiti e volevano rientrare nella comunità ecclesiastica; il De catholicae ecclesiae unitate, ferma presa di posizione contro tutte le eresie e gli scismi, che Cipriano considera una sciagura maggiore delle stesse persecuzioni contro i Cristiani (l’opera fu inviata a Roma e utilizzata come la più compiuta teorizzazione del primato papale, minacciato in quel periodo dallo scisma di Novaziano); il De habitu virginum, sui comportamenti che debbono tenere le donne che abbiano fatto voto di consacrarsi a Dio. Molto importante è anche l’Epistolario, che comprende 81 lettere, 65 di Cipriano e 16 a lui inviate; da esso possiamo dedurre precise informazioni sulle condizioni di vita nell’Africa proconsolare alla metà del III secolo e sui problemi che le persecuzioni creavano alle comunità cristiane.

Cipriano fu un grande estimatore di Tertulliano, che apprezzava per la severità delle dottrine: in varie opere riprese argomenti e perfino titoli che erano già stati impiegati dal suo più anziano conterraneo ma, a differenza di Tertulliano, non si lasciò mai prendere la mano dal gusto dell’estremismo. La sua funzione di vescovo e gli obblighi che tale investitura gli imponeva nei riguardi di tutti i fedeli, un innato, ammirevole equilibrio, una notevole dose di buon senso gli consentirono sempre le scelte più ragionevoli: così, dopo la persecuzione di Decio, decise di riaccogliere nella Chiesa i rinnegati (lapsi) pentiti, nonostante l’opposizione di quanti avevano rischiato il martirio per non abiurare, ma impose severe penitenze per chi voleva meritare di essere riammesso alla comunione. Questo atteggiamento non va confuso col lassismo o il permessivismo: Cipriano dimostrò pochi anni dopo, col suo stesso martirio, di non essere disposto a cedimenti, e un’analoga fermezza seppe dimostrare in occasione di uno scontro con il vescovo di Roma, Stefano.

La questione riguardava il battesimo impartito agli eretici: per gli Africani esso non era valido e, a parer loro, bisognava ribattezzare tutti quanti avessero ricevuto il sacramento da preti che si trovassero fuori dalla Chiesa; per il papa, invece, quel battesimo era valido purché fosse avvenuto secondo le forme previste dal rito, e non poteva essere rinnovato. Nato da un problema di prassi pastorale, il conflitto investiva però la ben più grossa questione dell’autonomia delle singole sedi vescovili rispetto a quella di Roma, che si appellava al cosiddetto «primato di Pietro», in base al quale il papa si arrogava un’autorità superiore a quella di tutti gli altri vescovi. Cipriano seppe tessere con grande abilità una fitta rete di alleanze, che comprendeva molti vescovi orientali, per arginare quella che allora era avvertita come un’illecita invadenza del papa; ma la persecuzione di Valeriano e la morte interruppero questa sua iniziativa.

Scena di battesimo. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro.

Le sue caratteristiche di scrittore si allontanano molto da quelle dell’amato Tertulliano: Cipriano ha un sicuro possesso delle tecniche della prosa classica, nella quale inserisce citazioni bibliche senza alterare l’elegante costruzione della frase e la solennità grandiosa del periodare; lontano dalle provocazioni e dagli eccessi di Tertulliano, ma meno sfumato e labile di Minucio, ha fornito il modello principale ai grandi prosatori cristiani del secolo successivo. Una Vita Cypriani è stata scritta dal diacono Ponzio, che lo conobbe personalmente: è il primo esempio latino di quelle biografie di vescovi e santi che diverranno molto numerose nei secoli successivi.

Tertulliano, Minucio Felice e Cipriano sono i tre principali scrittori di questo secolo, ma accanto ad essi fiorirono molti altri apologisti, a noi più o meno noti, e la polemica fra le diverse sette del Cristianesimo diede vita a una vasta letteratura di argomento teologico e dottrinale, che qui non può essere trattata in maniera esaustiva e neppure accennata con sufficiente ampiezza. Basterà ricordare Novaziano, un prete di Roma, che nella questione dei lapsi si schierò contro Cipriano. Quando, dopo più di un anno di sede vacante, nel 251 fu eletto papa Cornelio, il quale sul problema dei lapsi condivideva le posizioni di Cipriano, Novaziano, postosi a capo del partito rigorista, si lasciò eleggere a sua volta papa dai suoi seguaci, dando vita ad un’eresia che durerà più di un secolo. La sua opera principale è un De Trinitate (un titolo che avrà molta fortuna nella letteratura successiva), oltre ad un De spectaculis e un De bono pudicitiae chiaramente ispirato a Tertulliano.

Vittorino di Poetovium (oggi Ptuj in Slovenia) è un altro ecclesiastico che ci ha lasciato opere in latino; morì martire nel 304, vittima della persecuzione scatenata da Diocleziano. Scrisse molti commenti biblici, sui quali ci informa Girolamo; di essi abbiamo soltanto un commento all’Apocalisse, la più antica opera di esegesi biblica in lingua latina che ci sia giunta.

Le notizie [circa Commodiano] sono talmente incerte che alcuni studiosi lo collocano addirittura nel V secolo, ma sembra più probabile una datazione alla metà del III secolo, quando scoppiarono le persecuzioni di Decio e di Valeriano, alle quali fanno forse riferimento alcuni suoi versi. Da un altro suo passo si ricava che egli era originario di Gaza in Palestina, da dove però doveva essere partito per recarsi in Occidente, probabilmente in Africa, come dimostrerebbero le somiglianze di contenuto con le opere dei contemporanei apologisti africani del III-IV secolo. Ma anche su questi punti gli studiosi sono in disaccordo, e c’è chi esclude la sua origine orientale, e chi pensa che la sua attività si sia svolta nella Gallia meridionale, o anche a Roma.

[La sua opera principale è costituita dalle] Instructiones in due libri, per complessivi 80 componimenti in esametri, di varia lunghezza, da un minimo di 6 ad un massimo di 48 versi. Il primo libro comprende i carmi contro i pagani e quelli contro gli Ebrei; il secondo le composizioni per i Cristiani, rimproverati per i loro peccati ed esortati ad una vita più devota. I carmi sono degli acrostici: le prime lettere dei singoli versi, lette tutte di seguito, formano il titolo del carme stesso, come ad esempio De infantibus, con il primo verso che comincia per d, il secondo per e, il terzo per i, il quarto per n, e così via. [Segue il] Carmen apologeticum, in 1060 esametri, il cui vero titolo era probabilmente Carmen adversos Iudaeos et Graecos, o Carmen de duobus populis: l’opera è tramandata senza indicazione dell’autore, ma l’attribuzione a Commodiano è ormai ritenuta indiscutibile. Argomento del carme è la storia del mondo, quella dell’Antico Testamento e quella di Roma, vista come scontro fra Dio e il diavolo, fino alla distruzione dell’Impero, all’apocalisse e al giudizio universale.

Fra tanti scrittori in prosa il Cristianesimo delle origini produce un solo ma significativo poeta, Commodiano. Egli è per molti aspetti un poeta strano, una voce anomala nel panorama della poesia latina: è interessato alle fasce meno alte della società, e nelle sue opere rappresenta le credenze e le aspirazioni dei diseredati, le loro passioni forti e senza sfumature, avvalendosi di un latino che risente degli sviluppi del parlato e di una metrica priva ormai di continuità con quella dei classici. Anche nel campo della dottrina cristiana le sue conoscenze sono piuttosto approssimative e grossolane, lontane dalle ricche elaborazioni degli apologisti occidentali e dalle raffinate elucubrazioni di quelli orientali: non si spiega bene il ruolo dello Spirito Santo, pensa che gli dèi pagani siano figli degli angeli e di donne mortali, è convinto che la fine del mondo sarà preceduta da un’età felice sulla terra: saranno rovesciati gli Stati che si fondano sull’ingiustizia e sullo sfruttamento dei deboli, e verrà un regno terreno di Dio, in cui i poveri, i derelitti, i maltrattati vedranno esaudite le loro speranze e riconosciuti i loro diritti. Questa speranza, cosiddetta millenaristica, che credeva in un concreto cambiamento delle condizioni di vita sulla terra, prima e più che nelle ricompense celesti del paradiso, era assai diffusa nel Cristianesimo degli ambienti più umili e rispondeva a precise esigenze sociali.

Toro. Mosaico, inizi III sec. d.C. dalle Catacombe di Hermes. Sousse, Musée Archéologique

Se come teorico Commodiano è quantomeno confuso, anche come polemista mostra qualche limite. Ha l’irruenza e la forza di un Tertulliano, e come lui è capace di trovare improperi popolari e pesanti per i pagani e per i Giudei, ma gli manca la fantasia e la capacità retorica dell’avvocato cartaginese: le ripetizioni sono piuttosto frequenti, le volgarità scontate e poco efficaci. I tratti più incisivi sono il rigoroso moralismo, la profonda convinzione di essere dalla parte giusta, lo scontro con le morenti istituzioni classiche. L’ardore con cui sono presentate le visioni apocalittiche, e le speranze rivoluzionarie in esse riposte, fa sì che Commodiano sia stato definito l’ultimo dei profeti; l’unico che si sia espresso in lingua latina. Riconoscere fino a che punto l’autore si faccia convinto portavoce di istanze popolari e quanto invece egli conceda ad un atteggiamento demagogico è cosa senz’altro difficile; e in questo senso, la lettura di Commodiano lascia sempre incerti e sconcertati: ci si domanda se uno scrittore, comunque un uomo di cultura, potesse condividere certi livelli di primitivismo, o se egli non avesse invece fatto proprie certe rivendicazioni a scopo di provocazione letteraria, religiosa e politica.

Il verso di Commodiano colpisce per la sua anomala prosodia, completamente diversa da quella classica. L’esametro non è più una successione regolare di sillabe brevi e sillabe lunghe, ma una riga composta di un certo numero di sillabe (non più diciassette e non meno di dodici); è l’andamento degli accenti tonici delle parole, non l’alternanza quantitativa, a garantire il ritmo nell’insieme. In questo senso Commodiano anticipa l’evoluzione che dalla metrica quantitativa porterà alla poesia accentuativa propria delle lingue romanze.

Damnatio ad bestias. Mosaico, II-III sec. d.C. da Zliten. Tunis, Musée du Bardo

Questa novità si mescola con un lessico elementare e ripetitivo, con una sintassi semplificata ai limiti del possibile, con una logica sommaria e a volte assurda nella sua partigianeria. Ne risulta, come dicevamo, l’immagine di una figura atipica e stimolante: uno scrittore che non ignora completamente i classici e le tradizioni, ma li riprende in forma banalmente scolastiche o estremamente modificate, involgarite, popolareggianti; un poeta che si presenta come portavoce degli emarginati, con tutte le loro spinte irrazionali, violente, ma anche con una sete di giustizia confortata dalla promessa divina; un polemista che alterna le piccole meschinità dell’invettiva personale contro l’avversario a vasti affreschi cosmici sul ritorno del Cristo e il fuoco che brucerà i malvagi, risparmiando i pochi onesti che ci sono a questo mondo.