ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Tito Flavio Vespasiano fu acclamato imperatore nel luglio del 69. Uno dei suoi primi atti ufficiali, una volta insediatosi in Roma e dopo aver lasciato al figlio maggiore Tito il compito di gestire la rivolta giudaica, fu di ridurre il numero delle coorti pretorie da sedici a nove. La prima preoccupazione del nuovo princeps fu quella di ridimensionale l’ingerenza dei militari nella vita politica dello Stato, impendendo, in sostanza, che si ripresentasse quella stessa situazione che lo aveva portato al potere. Vespasiano non dimenticò mai, tuttavia, il debito che aveva nei confronti delle legioni di Syria, Aegyptus e Moesia, tra le prime a prestargli giuramento, tant’è che per festeggiare la propria ascesa all’impero, egli scelse il giorno in cui era stato acclamato dai soldati, piuttosto che quello della ratifica del Senato. Da parte loro, i militari vedevano nel nuovo principe uno di loro, un homo novus, di origini non nobili, che aveva saputo elevarsi proprio grazie alla sua abilità guerresca.
Un altro problema che Vespasiano volle dirimere il prima possibile fu quello dei disordini scoppiati ai confini dell’Impero, soprattutto sul Reno. Qui doveva essere ancora sedata la ribellione provocata tra i Batavi da Giulio Civile, insurrezione che si era estesa a macchia d’olio, creando un effimero governo “separatista” nelle Galliae. Vespasiano inviò otto legioni, al comando di Petilio Ceriale e Giulio Sabino, che in poco tempo, verso la fine del 70, ebbero ragione dei rivoltosi e riportarono la situazione alla normalità. Nel frattempo, nel settembre dello stesso anno, il giovane Tito poneva fine alla rivolta giudaica con la presa di Gerusalemme. Ristabilita la pace e sedate le sollevazioni nelle province, era ora necessario dare stabilità a un Impero scosso dalla guerra civile del longus et unus annus (Tac. Dial. 17, 3).
T. Flavio Vespasiano. Busto, marmo bianco, c. 70, da Napoli. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.
Per quanto concerne la politica interna, era evidente che proprio le origini dell’imperatore, che lo rendevano caro agli eserciti, potesse costituire un problema per l’ordine senatorio. Anche i più conservatori e intransigenti tra gli esponenti dell’alto consesso si erano ormai adeguati alla “necessità” del principato; ma, in fin dei conti, il princeps era pur sempre stato un rampollo di una delle più antiche e gloriose genti patrizie: un Giulio o un Claudio.
Era necessario, dunque, per Vespasiano giustificare il proprio potere, consolidarlo e garantirne la continuità. Richiamandosi ai suoi più autorevoli predecessori, già alla fine del 69 l’imperatore aveva promulgato un documento importantissimo, noto come lex de imperio Vespasiani (ILS 244): il rescritto, sancito da un Senatus consultum e ratificato pro forma dalle assemblee comitali, stabiliva una serie di prerogative, diritti e doveri del principe nei confronti della res publica, come la facoltà di convocare il Senato, di non essere vincolato a leggi e plebisciti, di intervenire nell’elezione dei magistrati. Più che di una nuova definizione “costituzionale” dei poteri dell’imperatore, si trattava probabilmente di una pubblicazione sistematica di quelli già esercitati dai predecessori.
Inoltre, nel 71, Vespasiano si associò nell’impero il figlio maggiore Tito, conferendogli la tribunicia potestas e l’imperium proconsulare. Facendo questo, l’imperatore sabino intendeva richiamarsi direttamente ad Augusto, assumendolo a modello della propria propaganda. Nei coni monetali, che facevano il giro dell’Impero, per esempio, venivano ripetuti, in forme lievemente diverse, i rassicuranti simboli del potere augusteo: Aeternitas, Salus, Victoria. Accanto a queste astrazioni personificate, che restituivano alla gente fiducia nella stabilità del governo e nel benessere dello Stato, primeggiava soprattutto un’altra, che costituì la chiave di volta di tutta l’ideologia flavia: la Pace. Rappresentata come una figura muliebre con cornucopia e ramo d’ulivo, la Pax Augusti fu diffusa su ogni mezzo comunicativo. Non solo sulle monete, quindi, ma in suo onore fu progettato ed edificato il nuovo Foro, limitrofo a quello di Augusto. Inoltre, l’accorta politica di Vespasiano portò a una “rinascita” augustea anche nella letteratura, nelle arti e negli studi liberali. I poeti che gravitavano intorno alla corte flavia, in particolare Publio Papinio Stazio, trovarono in Virgilio il modello ideale dell’indimenticata età dell’oro della cultura romana.
T. Flavio Vespasiano. Dupondius, Roma c. 71. Æ 12, 81 g. Verso: Felicitas – publica – S(enatus) c(onsulto). La dea Felicitas stante, voltata a sinistra, con caduceo e cornucopia.
Per garantire alla gens Flavia il prestigio di cui era priva, Vespasiano rivestì il consolato quasi ininterrottamente, spesso insieme ai figli Tito e Domiziano. Sempre a Tito, con un’abile mossa politica, l’imperatore affidò anche l’incarico di prefetto del pretorio, da una parte per assicurarsi l’incolumità e dall’altra per inorgoglire e avvicinare i membri della classe equestre. Attraverso l’istituto della censura, che tenne insieme al figlio maggiore nel 73, Vespasiano poté anche intervenire nella composizione del venerando consesso, espellendone i senatori più scomodi e introducendo nuovi patres conscripti, esponenti delle aristocrazie provinciali d’Occidente.
Proprio nel campo dell’amministrazione delle province, Vespasiano dimostrò grande interesse e particolare attenzione. Molte delle opere pubbliche e delle infrastrutture commissionate e le nuove riorganizzazioni amministrative da lui intraprese avevano certamente scopi economici e fiscali, ma, di fatto, le iniziative del principe impressero un nuovo, fondamentale impulso allo sviluppo di quei territori. La massiccia concessione dello ius Latii o della Romana civitas e l’istituzione di numerosi municipia Flavia, soprattutto nelle Hispaniae, accelerarono il processo di romanizzazione del Paese e la formazione di un’alta aristocrazia locale, che col tempo avrebbe affiancato e poi soppiantato quella italica. Diversamente, le province orientali non godettero della medesima benevolenza: in particolare, l’Achaia, che Nerone aveva gratificato concedendo l’immunitas, fu reintegrata pienamente nel regime fiscale dell’Impero. In Cappadocia e Syria Vespasiano ordinò la costruzione di nuove fortezze legionarie e altre infrastrutture militari, concepite a scopi offensivi più che difensivi.
Nonostante l’epurazione, la destituzione e la sostituzione di alcuni eminenti personaggi dal Senato, è emblematico del mutare dei tempi che Vespasiano non sia stato rappresentato come un acerrimo nemico o un persecutore dell’oligarchia. L’opposizione a lui si limitò, a quanto sembra, ad alcuni circoli filosofici. L’unico complotto di un certo rilievo che sia stata tramandata fu quella che portò alla rovina Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto, uno dei “martiri” dell’opposizione a Nerone.
Per cancellare le testimonianze della megalomane attività edilizia di quest’ultimo, Vespasiano si preoccupò di restituire al godimento pubblico molte aree di Roma, ampliando il pomerium e dando inizio alla costruzione dell’Amphitheatrum Flavium. Anche in altre città d’Italia e delle province l’imperatore incoraggiò in tutti i modi l’edilizia pubblica.
La morte lo colse nella nativa Sabina il 24 giugno del 79, quando era ancora impegnato negli affari di Stato.
Lawrence Alma-Tadema, Il trionfo di Tito. Olio su tela, 1885.
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Bibliografia minima:
F. Coarelli (ed.), Divus Vespasianus: il bimillenario dei Flavi. Catalogo della mostra (Roma, 27 marzo-10 gennaio 2010), Milano 2010.
B. Levick, Vespasian, London-New York 1999.
S. Pfeiffer, Die Zeit der Flavier: Vespasian – Titus – Domitian, Darmstadt 2009.
liberamente tratto da CONTE G.B., L’epica di età flavia, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 1992, pp. 401-407; e da PIAZZI F., GIORDANO RAMPIONI A., Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, Vol. 3, L’alto e il basso Impero, Bologna 2004, pp. 245-246, 249-250.
Stazio fu probabilmente il poeta che meglio seppe rappresentare e trasmettere ai posteri un’immagine fedele della sua epoca. Le sue notevoli doti artistiche, che gli valsero onori e apprezzamento presso gli ambienti più altolocati di Roma, nonché alla corte di Domiziano, si esercitarono infatti non solo nella poesia elevata di tradizione epica, ma anche nella stesura di testi d’occasione, in cui egli seppe abilmente descrivere il mondo ricco e composito della raffinata società imperiale del suo tempo.
Publio Papinio Stazio nacque a Napoli tra il 40 e il 50 d.C. Il padre, un erudito maestro di scuola (grammaticus) e cultore dell’epica omerica, lo avviò fin da ragazzo alla poesia. Trasferitosi a Roma per perfezionare gli studi ed entrare in società, il giovane poeta si legò ben presto agli ambienti della corte imperiale e divenne amico e protetto dello stesso princepsDomiziano. In qualità di poeta professionista e «cortigiano», ricosse un notevole successo, vincendo nelle recitazioni pubbliche e negli agoni poetici Augustali (gare quinquennali che si svolgevano a Napoli), nonché nel certamen Albanum con il poema storico De bello Germanicosulle imprese belliche del suo protettore. Compose, inoltre, due poemi epici, la Tebaide in 12 libri (oltre 10.000 versi), pubblicata nel 92, e l’Achilleide, lasciato incompiuto, di cui rimangono solo il primo libro e l’inizio del secondo (complessivamente poco più di 1100 esametri); ma scrisse anche poesie d’occasione – le Silvae in cinque libri di versi di vario metro, edite gradualmente a partire dal 92 – alcune consolazioni, degli encomi dedicati agli esponenti del palatium e, infine, dei “libretti” per pantomimi (fabulae salticae), tra i quali l’Agave.
Dopo essere stato sconfitto nel certamen Capitolinum, tenutosi nel 94, forse per delusione, forse per nostalgia della città natale – come si ricava da uno suo carmen (Silvae III 5) –, Stazio ritornò a Napoli. Qui morì intorno al 95, mentre stava attendendo all’Achilleide, il cui argomento, appunto, era la vita del celebre eroe acheo.
Ragazzo che recita la lezione al maestro. Sarcofago romano, rilievo, marmo, II sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.
Le Silvae
Da una trattazione che guardi insieme tutti e tre i poemi epici di età flavia (quelli, cioè, di Stazio, Silio Italico e Valerio Flacco), esorbitano le Silvae di Stazio, opera non epica, che possiede caratteri originali propri e molto legati al gusto contemporaneo. Stazio, si è detto, era un letterato di professione, che viveva del proprio lavoro (a differenza di Silio Italico e del misterioso Valerio Flacco).
Per il loro carattere occasionale, quindi vario e anche miscellaneo – il titolo vuole indicare probabilmente una raccolta di «schizzi»[1], quasi a dare un’aurea di improvvisazione al tutto – queste poesie sono un preziosissimo documento sulla società dell’epoca. I «committenti» delle varie poesie si rispecchiano in molte di esse, rivelando mentalità e atteggiamenti di un ceto colto e benestante, impegnato in una fitta vita di relazione e spesso occupato nel sistema del governo e della burocrazia imperiale. Emergono bene i valori che guidavano questo sistema sociale: da un lato, il ripiegamento sul privato (passione per le arti, consumi di lusso, estetismo diffuso, affettività familiare); dall’altro, l’ideologia del «pubblico servizio», inserita nelle strutture del potere imperiale.
Da questo punto di vista sono di particolare interesse composizioni come quella funebre dedicata al segretario finanziario di Nerone, Claudio Etrusco. In essa è celebrata la fulminante carriera del defunto, dalla schiavitù ai vertici della burocrazia, attraverso i topoi encomiastici del funzionario modello: fedeltà all’imperatore, senso del dovere, dedizione al lavoro nel superiore interesse della securitas dei concittadini (questa virtus apparteneva sia al princeps sia ai suoi alti collaboratori), esercizio del potere considerato come un onore (pondus), che comportava rinunce piuttosto che vantaggi personali. Segue l’immancabile elogio servile delle virtutes dell’homo nouus e della Fortuna, che ha consentito a un umile di costruirsi con le sue sole forze una posizione sociale tanto prestigiosa.
T. Flavio Domiziano. Statua, marmo, fine I sec. d.C. ca. Roma, Musei Vaticani.
Altrettanto importanti storicamente sono le poesie cortigiane, direttamente rivolte a Domiziano, che illustrano lo sviluppo del culto imperiale, i cerimoniali e le manifestazioni pubbliche. Una serie di carmi descrittivi testimonia i gusti dell’epoca: gli artifici della poesia si adattano bene a mimare l’artificiosa architettura delle ville e dei giardini, dove la realtà naturale era abilmente trasformata in spettacolo.
I componimenti (trentadue in tutto) sono organizzati libro per libro in serie accuratamente costruite, con molteplici effetti di corrispondenze e variazioni; i metri spaziano dall’esametro ai versi lirici. La struttura dei singoli carmi è governata da rigorosi schemi tradizionali (per esempio, carmi nuziali, di compleanno, epistole poetiche), certamente nutriti di formazione retorica: questi schemi non escludono affatto una ricchezza di variazioni originali, perché il virtuosismo del poeta stava appunto nell’adattarli alla circostanza. Il carattere professionale dei carmi trova riscontro nella modalità compositiva, che rivela la capacità artigianale di variare, adattandoli alla richiesta del committente, questi schemi retorici e di riutilizzare in abili assemblaggi materiali topici, esempi mitologici, figurazioni manierate, espressioni prefabbricate adattabili a contesti diversi: lutti, nozze, compleanni, anniversari, viaggi, inaugurazioni, ecc. L’autore, dunque, si mostra perfettamente inserito in una società gerarchica, entro una rete di autorevoli protettori, che aveva il suo centro immobile nel simulacro divinizzato del princeps.
E così, in uno ieratico scenario imperiale, il poeta talvolta rivendicava a sé una solenne vocazione conciliatoria, quasi fosse preposto alla supervisione sistematica dei pubblici sentimenti. Spettatore di scene terrene e ultraterrene, il poeta delle Silvae si atteggiava a cantore orfico integrato nella comunità: è questo il modello di poeta che più gli piace e che, con varie perifrasi, richiama innumerevoli volte; si sente uno psicagogo, che suscita emozioni patetiche, ma solo per placarle subito nella dolcezza di una contemplazione composta e sospirosa.
Sentenziava bene Giovenale con una notazione efficace: tanta dulcedine captos / adficit ille animos («tanto grande è la dolcezza che egli infonde negli animi affascinati»). La poesia fungeva ora da ornamentazione, costruiva una ovattatura su cui erano deposti, come preziosi, gli oggetti e i gesti del quotidiano. La poesia diventava, così, in questa estrema decadenza, l’altra faccia del lusso, giacché la futilità intellettuale si era ormai mutata in esprit précieux. Non mancarono, tuttavia, prove d’impronta neosofistica, come l’epicedio di un pappagallo e quello di un leone addomesticato; Stazio scrisse perfino un carme per la consacrazione di una ciocca di capelli: si tratta appunto di composizioni manierate, prolisse, appesantite dall’erudizione e dal concettismo.
Albero di melograno con uccelli (dettaglio). Affresco, fine I sec. a.C., dal ninfeo sotterraneo della villa di Livia. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme
Questa futilità «leggera» era, in effetti, l’erede di una poesia grande e vigorosa (Virgilio, Orazio, Catullo e i neòteori, gli elegiaci). Di quella tradizione, la poesia delle Silvae ereditava modi e giunture espressive, valori ed elaborazione morale; ma quel che voleva era sfruttarne lo splendore residuo con cui alonare il kitsch quotidiano (fra cui rientrava lo stesso imperatore e il suo culto).
Abilmente, però, essa sfruttava anche taluni vizi di origine di quella grande letteratura: per esempio, l’ambiguo rapporto intrattenuto con il potere. E riusciva perfino, senza problemi e dubbi, con semplicismo spensierato, a far trapassare i poeti «augustei» nel culto imperiale.
La nuova funzione di questa poesia si può, dunque, definire “estetizzante”, nel senso che doveva rendere belli e gradevoli oggetti, uomini e gesti, ma poteva farlo solo a patto di distanziarsene: le ekphraseis (cioè le digressioni) di Stazio più che «descrizioni» sono «encomi», più che mostrare qualcosa al lettore vogliono lasciarlo contento e soddisfatto; le volute ornamentali, allora, coprono e nascondono la linea essenziale delle cose, affinché si realizzi nel testo un’efficace «retorica della dolcezza», una dolcezza che, partendo dallo stile, arrivi a permeare le cose stesse[2].
Ciononostante, le Silvae contengono momenti fra i migliori di tutta la poesia lirica di età imperiale. Per il loro carattere di poesia colta, tradizionale e riflessa, hanno spesso faticato a trovare estimatori: più ancora ha pesato, nella loro svalutazione, una certa ripugnanza suscitata dall’impronta cortigiana e conformistica di tutto l’insieme. Ma proprio di fronte a temi aridi, o a situazioni di bassa adulazione, Stazio emerge come un dotatissimo artigiano della parola. La sua capacità di «improvvisare», la sua celeritas nel comporre, sbandierata più che vera, è il gesto retorico di una poetica dell’opera «minore» o «minima», che raccoglie l’originaria spinta proveniente dalla tradizione epigrammatistica. La proclamata rapidità di composizione finge di essere direttamente vicina alla vita vissuta (istruttiva la prefazione al primo libro)[3] e vuole contrapporre programmaticamente le Silvae alla limatissima Tebaide (curata per più di un decennio), ma insieme denuncia l’autocompiacimento lusivo del letterato professionista, che intervalla così l’impegnativo labor epico.
Meno superficiali e retoriche sono alcune liriche nate da spunti autobiografici, come quella, indirizzata alla moglie per persuaderla a ritornare a Napoli, nella quale sono celebrate con sincera nostalgia le bellezze della sua città natale, o l’epicedio per la morte del padre o quella di un figlioletto: in questi casi il poeta mette da parte il bagaglio ingombrante del professionismo poetico e regala versi intensi e sinceri[4].
La tenera poesia «sentimentale» di Stazio, benpensante e conciliativa, aspirava a presentare di sé il ritratto fedele e autorizzato della buona società imperiale. Ma il gusto e la poetica del sentimento, che caratterizzano le Silvae, rispondevano – nel quadro di una cultura organica che il potere flavio promosse – a un’ampia politica di direzione e di controllo della pubblica emotività.
Poeta nelle vesti di Orfeo (dettaglio). Statua, terracotta, 350-300 a.C. ca. da Taranto.
L’età neroniana, infatti, aveva inaugurato la moda delle pubbliche gare di poesia, certamina celebrativi legati a ricorrenze e a festività: la moda ora si era consolidata, ma serviva piuttosto a un programma di restaurazione civile e morale, all’esaltazione dei valori e delle forme letterarie tradizionali: famosi soprattutto furono i Ludi Capitolini e i Ludi Albani, in cui erano previsti concorsi di poesia e di prosa, sia in latino sia in greco. Ciò produsse una sostanziale «teatralizzazione» della letteratura, trasformando la poesia in spettacolo: le occasioni pubbliche e sociali istituite dal mecenatismo imperiale costruivano, e insieme soddisfacevano, i bisogni del sentimento comune.
Il carattere spettacolare, che ispirava gli agoni poetici destinati a compiacere le masse eterogenee di una metropoli enormemente accresciuta, si accordò bene alla straordinaria fortuna che forme di spettacolo come il mimo incontrarono allora presso il pubblico romano. Tra i certamina celebrativi e il teatro del mimo ci fu probabilmente una differenza di livelli, ma non di atteggiamenti culturali: la cultura ufficiale non solo si riconosceva volentieri nella «retorica» dell’ornamento e della dolcezza, ma pure legittimava e favoriva il gusto per le emozioni seducenti, elementari.
La satira di Giovenale, educatore sconfitto e, in questo, solitario maestro di opposizione, osservava con scandalo il nuovo «mecenatismo per tutti», che l’autorità imperiale favoriva. Lo spettacolo del mimo, suscitatore di facili e sensuose commozioni voluttuosamente appagate, si incontrò con la «teatralizzazione» quotidiana del mito imperiale[5]. Così, figura centrale dell’immaginario mitologico e delle imprese che i certamina proponevano, fu spesso e significativamente quella di Giove, imposta da una scoperta allegoria che lo identificava al princeps regnante: esemplare, a questo proposito, un discorso di Giove padrone assoluto del cosmo conservato nei versi greci di Q. Sulpicio Massimo, vincitore dodicenne nei Ludi Capitolini tenutisi nel 94.
La Tebaide
Composta tra l’80 e il 92 e dedicata a Domiziano, la Tebaide narra le vicende della guerra combattuta presso Tebe dai due figli di Edipo, Eteocle e Polinice: l’opera, conforme al modello dell’epos eroico, di cui conserva gli elementi tradizionali (argomento mitico e apparato divino, presenza di cataloghi, scene di giochi funebri e di battaglie, profezie, ecc.), svolge un mito del ciclo epico e della tragedia. Se Lucano aveva cantato «guerre più che civili» (Bella… plus quam civilia, Pharsalia I 1), il tema di Stazio sono addirittura «battaglie tra fratelli», fraternae acies (I 1). Non pare che la vicenda, incentrata su una guerra fratricida, alludesse al tema lucaneo delle guerre civili, eppure la sostanza del contenuto porta irresistibilmente a compararla al Bellum civile.
In un insolito epilogo programmatico, Stazio dichiara di avere un modello altissimo: l’Eneide, che il suo poema dovrà «seguire a distanza», con religioso e umile rispetto[6]. Le ambizioni sono peraltro molto chiare: il poema virgiliano è ripreso nel lessico, in situazioni e scene precise, nella struttura bipartita, talora è esplicitamente citato. Infatti, il piano dell’opera è in dodici libri, divisi in due esadi; la seconda è tutta una storia di guerra, come la «metà iliadica» dell’Eneide; la prima, più variata, ha funzione di lunga preparazione, e insieme contiene tratti «odissiaci» (le peripezie del viaggio), come la prima metà dell’Eneide. Anche Dante sottolineò la dipendenza della Tebaide all’Eneide, «la qual – come fa dire a Stazio – mamma fummi, e fummi nutrice, poetando: / sanz’essa non fermai peso di dramma»[7].
Eppure, la Tebaide è anche molto diversa dall’opera di Virgilio, a cominciare dall’argomento, che non riguarda la grandezza di Roma, ma una lotta fratricida, emblema di ogni guerra civile, come nell’epica «negativa» di Lucano. A una «teologia» diversa da quella virgiliana rinviano le presenze divine: nell’Eneide la vicenda prende le mosse dal concilio delle divinità olimpiche, nella Tebaide è la Furia, Tisifone, che innesca il dramma. Alla visione provvidenzialistica virgiliana si sostituiscono un cieco Fato e le forze malefiche degli Inferi. Nemmeno Giove è benevolo verso gli uomini e un personaggio pius come Adrasto, re di Argo, è abbandonato dagli dèi. Dal modello virgiliano la Tebaide si discosta anche per l’assenza di un protagonista, per la scarsa organicità dell’impianto narrativo (frammentazione dell’azione, proliferazione di digressioni sproporzionate, ecc.), per il gusto dell’orrido e per i toni carichi che fanno pensare alla poesia di Lucano e alle tragedie di Seneca, per la scarsa penetrazione psicologica dei personaggi.
Sette contro Tebe. Terracotta, V sec. a.C., dal frontone del Tempio A di Pyrgi. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
I modelli poetici di Stazio sono legione. Le funeste imprese dei Sette erano state cantate in poesia epica, soprattutto nella fortunata opera di Antimaco di Colofone (IV sec. a.C.), e nella tragedia greca di Eschilo (Sette contro Tebe); esse avevano, inoltre, ispirato Seneca (Oedipus e Phoenissae). La scelta dell’epos eroico ha comportato molti diretti richiami dell’Iliade, in parte mediati da Virgilio, e in parte autonomi – come si è detto. In certe brevi sezioni digressive appaiono anche modelli più insoliti, e cioè Euripide, Apollonio Rodio e Callimaco (viene in mente la ricca cultura letteraria di Stazio padre). Infine, lo stile narrativo e la metrica dell’opera staziana sono inconcepibili senza la tecnica di Ovidio; la sua immagine del mondo è inseparabile dall’influenza senecana: e proprio qui, nel contrasto fra fedeltà alla tradizione virgiliana e inquietudini modernizzanti, sta il vero centro dell’ispirazione epica di Stazio.
Posta sotto questa costellazione di influssi, l’opera non manca affatto di unità. Il difetto più tipico della Tebaide, tuttavia, è piuttosto l’ossessiva ricorsività di motivi e di atmosfere. Tutta la storia è dominata da una ferrea necessità: «Chi può negare che i presagi scorrono da cause segrete? Il destino si spiega davanti all’uomo, ma dispiace leggerlo, e va persa l’anticipazione del futuro. Così dei presagi noi facciamo casualità, e la Fortuna ha il potere di colpirci» (VI 936 s.). La casa di Edipo è schiacciata non tanto da una maledizione di vendette familiari (concezione, questa, della tragedia attica, che suonerebbe poco attuale qui), quanto da una ferrea Necessità universale. La scelta ideologica di Stazio è chiaramente virgiliana: salvare l’apparato divino dell’epica, ma rendendolo più «moderno» con l’approfondire la funzione del Fato. Ma la scelta di un tema così profondamente negativo porta l’autore molto vicino alla posizione di Lucano: il risultato è un compromesso che avrebbe avuto grande influsso sulla storia dell’epica occidentale.
Le divinità epiche tradizionali appaiono, dunque, svuotate o appiattite: le forze divine più vitali sono invece personificazioni di concetti astratti, con tonalità persino allegoriche: la Furia che muove gran parte dell’azione è un puro e semplice Genio del Male.
Pittore di Caivano. Scena dai Sette contro Tebe, Capaneo assalta la città. Pittura vascolare su anfora a collo campana a figure rosse, 340 a.C. ca. Getty Villa Museum.
Schiacciate, quindi, dalle leggi del cosmo e della predestinazione, le figure umane sono, a loro volta, appiattite. Stazio concede molto poco alle sfumature psicologiche dei suoi personaggi: da un capo all’altro del poema, Eteocle incarna il tiranno dispotico e sanguinario, Capaneo il bestemmiatore – e come tale arriverà fino a Dante in Inferno XIV –, Ippomedonte un sorta di macchina da guerra, e Tideo l’incarnazione dell’ira[8].
A completare questa visione assai manichea della realtà, gli undici libri sulla guerra dei Sette hanno una chiusa di compensazione: il trionfo della clemenza e dell’umanità portate dal civilizzatore Teseo.
La grande quantità di eroi comportava una trama molto complessa, romanzesca e soprattutto (anche qui il pensiero corre a Lucano), l’assenza di un vero protagonista. I pericoli di dispersione sono, però, controllati con notevole energia. Anche nei lunghi episodi che ritardano l’inizio della guerra si avverte spesso la volontà di stabilire dei nessi tematici ricorrenti. Ad esempio, i prolissi giochi funebri del VI libro sono ampiamente funzionali (forse persino più che in Virgilio) allo sviluppo successivo della trama; le similitudini sono spesso pensate in sequenze omogenee, con un effetto a volte ossessivo: le immagini della natura rispecchiano di continuo gli eventi umani. È la concezione stoica della sympatheia che già Seneca aveva saputo trasformare in tema letterario.
L’assenza di riferimenti diretti all’attualità romana non costringe Stazio a eludere gli incubi propri della sua epoca (si pensi, invece, per la ricerca di evasione, all’Achilleide o a Silio Italico). Una guerra civile vista come scontro fra tiranni specularmente uguali; la degenerazione di una famiglia regnante in dispotismo fanatico; il problema etico del «vivere sotto i tiranni» rispettando comunque una regola morale. L’insistenza su questi problemi – visti in uno scenario allucinato di fosca mitologia ancestrale – rende la Tebaide una lettura promettente anche per gli storici della cultura romana.
L’Achilleide
A differenza del poema su Tebe – che avrebbe avuto grande fortuna a lungo termine, nell’epica medievale soprattutto – il poema sulla vita di Achille ha avuto un destino stentato. Qualsiasi giudizio è difficile, perché il testo che è pervenuto (interrotto per la scomparsa prematura dell’autore[9]) tratta solo delle vicende del giovane eroe a Sciro. Forse a causa del tema, o per una precisa scelta di poetica, il tono è più disteso e idillico che nella Tebaide: per questo l’opera non dispiacque a quei critici che hanno rilevato l’eccessivo «barocchismo» della Tebaide. Il progetto di narrare tutta la vita di Achille (I 4 sgg.) rivela comunque ambizioni letterarie grandiose. Se avesse potuto continuare, Stazio si sarebbe trovato di fronte Omero, alle porte Scee; e sin dal titolo l’opera sembra mirare – ancor più che la Tebaide – a un pericoloso confronto con l’ombra del padre Virgilio.
Achille alla corte di Licomede. Bassorilievo, marmo attico, 240 d.C. ca. da un sarcofago, Roma. Paris, Musée du Louvre
La fortuna
L’episodio più spettacolare della fortuna di Stazio è certamente la sua comparsa nel Purgatorio dantesco, basata sulla falsa convinzione che il poeta si fosse convertito al Cristianesimo – da vero discepolo di Virgilio, che il Medioevo considerava precursore e profeta dell’avvento di Cristo. Più in generale, Dante fece un notevole uso del modello epico staziano. Nel XIV secolo, tuttavia, erano del tutto ignote le Silvae, che avrebbero illuminato certi aspetti privati della personalità del poeta antico.
Anche prima di Dante, come comprova la notevole quantità di manoscritti medievali dell’opera, la Tebaide esercitò un grande influsso: per i suoi aspetti quasi manichei (il contrasto fra l’Olimpo e le potenze infere) e per la sua tendenza alla personificazione quasi allegorica, l’opera di Stazio avrebbe costituito un importante punto di riferimento per lo sviluppo dei Romans franco-provenzali a contenuto allegorico.
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Note:
[1] Cfr. Quint. Inst. or. X 3, 17. Al carattere occasionale ed estemporaneo, oltre che alla varietà dei contenuti, farebbe in particolare riferimento il termine silva; ma anche all’elaborazione formale incompleta, come di materiali solo sbozzati, non rifiniti (silva corrisponde, in questo senso, al gr. ὕλη, cioè «materiali letterari» raccogliticci e disordinati).
[2] Si annida qui il segreto della straordinaria fortuna di Stazio presso i manieristi «cortigiani» tardo-antichi, del tipo di Claudiano e di Sidonio Apollinare, o già medievali, del tipo di Venanzio Fortunato alla corte merovingia, che ne trasmisero la lezione di stile pomposo-epidittico al mondo «cortese» medievale
[3] Stat. Silv. praef. I: mihi subito calore et quadam festinandi uoluptate flexerunt («Mi sono sgorgate sotto lo stimolo di ispirazioni improvvise e con un certo gusto di fare in fretta»). L’autore insiste sulla rapidità d’esecuzione (celeritas) di questi «schizzi», nessuno dei quali lo ha impegnato per più di due giorni.
[5] Cfr. Iuv. Sat. 6, 63-66: chironomon Ledam molli saltante Bathyllo / Tuccia uesicae non imperat, Appula gannit / uelut in amplexu subito et miserabile, longum / attendit Thymele… («Quando il molle Batillo danza la pantomima di Leda, Tuccia non riesce a dominare la sua libidine e Apula guaisce come nell’amplesso, in modo improvviso e lamentoso; Timele guarda a lungo con attenzione…»)
[6] Stat. Theb. XII 815-816: nec tu diuinam Aeneida tempta, / sed longe sequere et uestigia semper adora («Non cercare di entrare in gara con l’Eneide divina, ma seguila da lontano e venera sempre le sue orme»).
[8] Come esempio di descrizione raccapricciante di gusto «moderno», si vd. questa scena in cui Tideo morente infierisce sulla testa troncata del nemico (Theb. VIII 751-762): erigitur Tydeus uultuque occurrit et amens / laetitiaque iraque, ut singultantia uidit / ora trahique oculos seseque agnouit in illo, / imperat abscisum porgi, laeuaque receptum / spectat atrox hostile caput, gliscitque tepentis / lumina torua uidens et adhuc dubitantia figi. / infelix contentus erat: plus exigit ultrix / Tisiphone; iamque inflexo Tritonia patre / uenerat et misero decus inmortale ferebat, / atque illum effracti perfusum tabe cerebri / aspicit et uiuo scelerantem sanguine fauces / – nec comites auferre ualent – … («Tideo si erge, tende il viso ed ebbro di gioia e d’ira, appena vede gli spasmi nel volto e gli occhi stravolti, comanda di troncare quella testa nemica, di dargliela e, afferratala con la sinistra, la guarda ferocemente e gioisce nel contemplare quegli occhi torvi e ancora mobili. Il maledetto era soddisfatto: Tisifone implacabile pretende di più. Già la dea Tritonia ritornava, dopo aver convinto il padre e recava allo sventurato il dono dell’immortalità; lo vede lordo del marciume del cervello spappolato con le mascelle di sangue vivo e i suoi non riescono a strapparglielo…»).
[9]Purg. XXI, 92-93: «Cantai di Tebe e poi del grande Achille, / ma caddi in via con la seconda soma».
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