ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di ERODOTO, Storie. Volume secondo (libri III-IV), a cura di A. IZZO D’ACCINNI e D. FAUSTI, Milano 1993, 282-285; HERODOTUS, The Histories, ed. by A.D. GODLEY, Cambridge 1920 [perseus.tufts.edu]
Nel brano seguente, Erodoto parla dei misteriosi Neuri (Νευροί), un popolo nomade del Nord Europa, che occupava la regione (τὴν Νευρίδα γῆν) che si estendeva a nord-est dei monti Carpazi, a nord delle sorgenti del Dnestr (Τύρης, IV 51) e lungo il bacino meridionale del Bug (Ὕπανις, IV 17) – insomma, un’area posta fra le attuali Polonia e Lituania. È probabile che la regione chiamata Nurskazemja, presso i fiumi Narew e Nur, debba il suo nome proprio ai Neuri (cfr. P.J. Šafárik, Slawische Alterthümer, Prag 1839, I, 1, 186; 194 sgg.). Molto tempo prima della spedizione di Dario contro gli Sciti (515-505 a.C.), i Neuri erano stati costretti a lasciare le loro sedi originarie, perché infestate da numerosi serpenti, e si erano rifugiati presso i Budini nella regione del Bug. Sebbene non fossero della stessa stirpe, i Neuri avevano usanze simili a quelle degli Sciti e avevano fama di essere sciamani (γόητες), come gli samān tra i nomadi siberiani odierni. Una volta all’anno – così gli Sciti e i Greci di Olbia raccontarono a Erodoto – ognuno di loro si trasformava per alcuni giorni un lupo: una leggenda che sopravvive ancora tra la Volinia e la Bielorussia. (cfr. anche Mela, Chor. II 14; Ptol. III 5, 25 v. Ναύαροι; Steph. Ethn. 473, 3 v. Νευροί). L’accenno alla loro trasformazione in lupo è la più antica notizia pervenuta sulla licantropia.
Paris, Bibliothèque Sainte-Geneviève. MS. graec. 3401 (1566), Manuel Philes, De animalium proprietate, f. 31v. Un cinocefalo a caccia.
[105, 1] I Neuri, dal canto loro, hanno costumi scitici. Una generazione prima della spedizione di Dario, accadde loro di dover abbandonare tutto il paese a causa dei serpenti: infatti, la terra produceva già molti serpenti, ma più ancora ne piombarono su di loro dalle desolazioni del nord, fino a tal punto che, sopraffatti, andarono ad abitare con i Budini, abbandonando il loro paese. [2] C’è motivo di credere che questi uomini siano stregoni. Infatti, gli Sciti e i Greci che abitano in Scizia raccontano che, una volta all’anno, ciascuno dei Neuri diventi un lupo per pochi giorni e, poi, di nuovo, ritorni al suo aspetto normale. Per conto mio, col dire questo non mi convincono; ciononostante, essi lo affermano e per di più lo giurano.
Riferimenti:
SMITH W., Dictionary of Greek and Roman Geography, London 1854 [perseus.tufts.edu].
VON SCHLÖZER K., Les premiers habitants de la Russie : Finnois, Slaves, Scythes et Grecs ; essai historique et géographique, Paris 1846.
di PAUSANIA, Viaggio in Grecia. Arcadia (libro VIII), a cura di S. RIZZO, Milano 2004, pp. 134-139, e note a pp. 433-436. Testo greco di Pausaniae Graeciae descriptio, vol. 3, ed. F. SPIRO, Leipzig, Teubner, 1903 [perseus.tufts.edu].
Jan Cossier, Giove e Licaone. Olio su tela, 1640 c. Madrid, Museo Nacional del Prado.
[1] Le innovazioni di Licaone figlio di Pelasgo[1], frutto di una sapienza maggiore ‹di› quella del padre suo, furono le seguenti. Fondò la città di Licosura sul monte Liceo, diede a Zeus il titolo di “Liceo” e istituì delle gare Licee[2]. Ed è mia opinione che, prima delle Licee, non erano state ancora istituite nemmeno le prime Panatenee degli Ateniesi. E dico «prime», perché questa gara si chiamava in quel tempo Atenee, mentre il nome di Panatenee dicono che fu loro dato sotto Teseo, perché organizzate allora dagli Ateniesi ormai riuniti tutti insieme in un’unica città. [2] Per quanto, poi, riguarda il certame olimpico, proprio perché lo fanno risalire a un periodo anteriore al genere umano raccontando che là Crono e Zeus si misurarono nella lotta e che i Cureti disputarono la prima gara di corsa, per questo motivo intendo escluderlo da quanto ora stiamo dicendo[3]. Personalmente ritengo che l’età di Licaone fu la stessa di quella di Cecrope, re degli Ateniesi[4], ma non simile fu la saggezza che essi dimostrarono nei confronti della divinità. [3] L’uno, infatti, fu il primo a chiamare Ipato (sc. “Supremo”) Zeus e, ritenendo giusto escludere dal sacrificio tutto ciò che fosse animato, offrì sull’altare dolciumi fatti alla maniera locale, che ancora ai tempi miei gli Ateniesi chiamano pelánoi (sc. libazioni)[5]. Licaone, invece, portò all’altare di Zeus Liceo un bambino appena nato e lo sacrificò e del suo sangue fece libazione sull’altare e, subito dopo il sacrificio, dicono che da uomo si trasformò in lupo[6]. [4] Per quanto mi riguarda, anch’io credo a questo racconto: esso gode di un’antica tradizione presso gli Arcadi e, inoltre, ha tutto l’aspetto della verisimiglianza[7]. Gli uomini di allora, infatti, grazie alla loro giustizia e religiosa pietà, erano ospiti e commensali degli dèi e da parte degli dèi ricevevano apertamente onore quando erano buoni e allo stesso modo erano colpiti dal loro sdegno quando peccavano. E, in effetti, in quei tempi alcuni da uomini che erano diventavano dèi, e ancor oggi conservano i loro onori, come Aristeo, la cretese Britomarti, Eracle figlio di Alcmena, Anfiarao figlio di Oicle e, oltre a questi, Polluce e Castore[8]. [5] Si potrebbe perciò credere che anche Licaone sia diventato una belva e Niobe di Tantalo una pietra[9]. Ai miei tempi, invece, poiché la malvagità cresceva fino al culmine o occupava tutta quanta la Terra e tutte quante le città, nessuno più da uomo diventava dio se non a parole e per adulazione verso i potenti, mentre la vendetta divina troppo tardi colpisce gli ingiusti e quando già se ne sono andati da questo mondo. [6] Ma in tutto il lungo volgere del tempo coloro che sulla verità costruiscono castelli di menzogne hanno fatto sì che la gente non presti fede ai molti casi verificatisi in antico e ‹a quelli› che ancora succedono. E difatti si dice che dopo i tempi di Licaone, in seguito al sacrificio offerto a Zeus Liceo, un uomo si trasformi ogni volta in lupo: non lo resterebbe, però, per tutta la vita, ma, quando è un lupo, se si astiene dal mangiare carne umana, al decimo anno dicono che di nuovo da lupo ridiventa uomo. Se invece ne assaggia, rimane bestia per sempre[10]. [7] Allo stesso modo, raccontano anche che Niobe sul monte Sipilo piange nella stagione estiva. E altri racconti udii ancora: che i grifoni hanno la pelle maculata come quella dei leopardi e che i Tritoni emettono voce umana. C’è anche chi dice che essi suonano soffiando in una conchiglia perforata[11]. E coloro che prendono diletto ad ascoltare racconti meravigliosi sono soliti aggiungervi anch’essi qualche elemento portentoso e in questo modo corruppero le verità mescolandole con le menzogne.
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Note:
[1] In questo capitolo e fino a tutto il quinto Pausania illustra la successione dei re di Arcadia da Pelasgo ad Aristocrate II, cioè dai tempi mitici alla fine della seconda guerra messenica (668 a.C., secondo Pausania). Questa lista dei re arcadi, i quali avrebbero regnato su tutta l’Argolide (mentre sappiamo per certo che una unità politica arcadica non esistette nei tempi remoti, ma fu il prodotto, completamente attuato con la fondazione di Megalopoli, 370 a.C., della resistenza degli Arcadi all’espansionismo spartano), è probabilmente frutto di composizione di fonti anche tarde e diverse, per lo più a noi non note, alcune delle quali sicuramente scritte (le più antiche), altre orali e raccolte dalle tradizioni locali delle città arcadi (le più recenti) che Pausania visitò, v. J. HEJNIC, Pausanias the Periget and the Archaic History of Arcadia, Prague 1961; F. HILLER VON GAERTRINGEN, Pausanias’ arkadische Königsliste, Klio 21 (1927), 1-13; J. ROY, The Sons of Lycaon in Pausanias’ Arcadian King-List, ABSA 63 (1968), 287- 292, e cfr. cap. 6, 1 e nota 1. Licaone era figlio di Pelasgo e di Melibea, figlia di Oceano o, secondo altri, della ninfa Cillene (Apollod. 3, 8, 1) o di Deianira, figlia di un altro Licaone, figlio di Ezeo (Dion. 1, 11 e 13).
[2]Licosura, la «prima città che il sole vide» (v. cap. 38, 1), ricorda il nome di Licaone. Per il monte Liceo v. cap. 38, 2 sgg. L’epiteto Liceo è qui connesso (Licaone – Licosura – monte Liceo) con la radice del nome greco del lupo più che con quella che indica la luce e rimanda all’aspetto solare del dio. Le gare Licee (v. cap. 38, 5), ricordate da Pindaro (O. 9, 97; 13, 108; N. 10, 48) e paragonate dagli antichi ai romani Lupercalia(Liv. 1, 5, 1 sg.; Dion. 1, 80; Plut. Caes. 61, 1; ecc.), erano considerate da Aristotele le quarte nell’ordine cronologico dopo le Eleusinie, le Panatenee e la gara di corsa istituita da Danao (fr. 637 R.). Ma Pausania, una volta accettate l’autoctonia di Pelasgo e l’attività di «primi civilizzatori» di Pelasgo e di Licaone, reputa, coerentemente, le Licee anteriori a tutte le altre gare famose, anteriori anche alle Eleusinie, dal momento che queste furono istituite per l’invenzione del grano, mentre Pelasgo e Licaone vissero ai tempi in cui gli uomini si cibavano di ghiande. Che le Panatenee (v. 1, 2 nota 7) siano state istituite da Teseo (per il sinecismo, v. App. I, 19) è accennato da Plutarco (Thes. 24, 3) e dato per certo dalla tarda tradizione (Suda, ecc.). Delle Atenee faceva menzione l’attidografo Istro (FGrHist. 334 F4).
[4] «Personalmente ritengo…»: con questa espressione Pausania propone una sua cronologia, considerando Licaone contemporaneo di Cecrope I, cioè del secondo re dell’Attica (v. 1, 2, 6 e nota 13), così come Licaone è il secondo re dell’Arcadia. E come nel § precedente assegna a Licaone il primato dell’istituzione delle gare (le Licee) contro la tradizione «canonica» (v. nota 2), qui gli assegna la contemporaneità con Cecrope I nell’istituzione del culto di Zeus (v. § 3), ancora contro la tradizione canonica, cfr. Marmor Parium, 17 (che assegna l’istituzione delle Licee e il sacrificio del bambino all’epoca del re ateniese Pandione, figlio di Cecrope II).
[5] Sull’acropoli di Atene c’era l’altare di Zeus Ipato (v. 1, 26, 5), al quale non si sacrificavano esseri viventi. Questo altare era stato eretto da Cecrope (v. Euseb. Praep. Ev. 10, 9, 15).
[6] Questa è la versione di Pausania e probabilmente degli Arcadi suoi contemporanei. Noi possiamo pensare che questo sacrificio conservi il ricordo di antichi (preistorici) sacrifici di vittime umane per Zeus Liceo, però Pausania non fa cenno a questa origine come non fa cenno, a proposito delle «libazioni» di Cecrope, all’origine agricola del sacrificio incruento. Licaone, al contrario di Cecrope, peccò per mancanza di «saggezza» e, per aver offerto sangue umano al dio, fu punito con la trasformazione in lupo. Le varie versioni del mito diffuse in antico, e tutte respinte da Pausania (v. §§ 5-7), sostenevano invece che i figli di Licaone erano empi e superbi, e Zeus, per sincerarsi della loro empietà, andò a visitarli in veste di povero. I figli di Licaone allora, per istigazione di Menalo, gli offrirono insieme ai sacrifici carne umana. Zeus, disgustato, li fulminò tutti, Licaone e i suoi cinquanta figli, tranne l’ultimo, Nittimo, dopo aver rovesciato la tavola (trapeza) nel luogo ora chiamato Trapezunte (Apollod. 3, 8, 1); oppure: Licaone, volendo distogliere i suoi sudditi dall’ingiustizia, diceva che Zeus gli faceva frequenti visite per osservare il comportamento degli uomini. Ma un giorno i figli di Licaone, per accertarsi che l’ospite del padre fosse realmente un dio, mescolarono carni umane a quelle della vittima sacrificale, e Zeus con fulmini e tempeste li uccise tutti (Niccolò di Damasco, FGrHist. 90 F 38; Hyg. 176; Suda). Il bambino offerto in sacrificio sarebbe stato Nittimo (o Arcade), e Zeus avrebbe tramutato in lupi Licaone e molti altri, o i figli di Licaone (Clem. Alex. Potr. 2, 27; Nonn. 18, 20 sgg.; scol. Licophr. 481, che segue, con dettagli diversi, le due versioni sopra citate), o il solo Licaone, che aveva messo alla prova Zeus con l’offerta delle carni di un bambino (Hyg. Astron. 2, 4; Ovid. Met. 1, 215 sgg., per il quale la vittima umana era un prigioniero molosso; Servio, ad Aen. 1, 731).
[7] Pausania vuole dimostrare qui la verisimiglianza della leggenda di Licaone, nei termini in cui la accetta, ricordando che, in origine, gli uomini vivevano vicini agli dèi (cfr. Od. 5, 35; 7, 201 sgg.: i Feaci sono «vicini agli dèi»; con loro gli dèi siedono a mensa) e perciò dagli dèi ricevevano ricompense, se giusti, o punizioni, se ingiusti, subito e direttamente in un rapporto personale, perché gli dèi vigilavano da vicino sulle azioni umane. Ora questo non avviene più a causa dell’ingiustizia e dell’empietà degli uomini diffuse per tutta la Terra e, perciò, nessun uomo oggi per la sua giustizia diventa un dio (le apoteosi degli imperatori romani sono solo finzioni dovute ad adulazione), come nessuno per la sua ingiustizia viene punito direttamente e subito dagli dèi: la punizione è sempre tardiva e spesso colpisce non il colpevole, ma la sua memoria (considerazione, questa, che dà inizio al dialogo plutarcheo De sera numinum vindicta, M. 548d sgg.). Non sembra il caso, quindi, di vedere un contrasto fra questa e altre affermazioni o narrazioni di Pausania circa l’intervento degli dèi nelle vicende umane in aiuto e difesa degli uomini e delle città o per la loro rovina (v. Habicht, pp. 154 sg.; Heer, pp. 263 e 306 sg.).
[8] Ad Aristeo, figlio di Apollo e di Cirene, per i suoi molteplici benefici resi agli uomini (v. 10, 17, 3 sgg.) non solo i barbari, ma anche i Greci attribuirono onori divini (Diod. 4, 82, 6). Per Britomarti v. 2, 30, 3 e nota 4; per Eracle v. App. VIII, 42-43; per Anfiarao v. 1, 34, 2 sgg. e nota 3; per Castore e Polluce v. 3, 13, 1 e nota 2.
[10] Pausania respinge tutte quelle leggende che sono opera della fantasia dei poeti e dei narratori. Queste menzogne corrompono infatti la genuina semplicità del vero e confondono la gente, che di fronte a tante meravigliose e stupefacenti invenzioni non crede più ai fatti realmente avvenuti. Circa la trasformazione dell’uomo in lupo v. 6, 8, 2 e nota 2 e cfr. Hdt. 4, 105: «Io non credo a queste storie».
[11] Omero, infatti, dice che Niobe è tramutata in roccia, ma non dice che la roccia piange (Il. 24, 617), mentre Ovidio (Met. 6, 311 sg.) afferma che «ancor oggi la pietra emette pianto». I grifoni, mostri favolosi con la testa di uccello (aquila) e corpo di felino, rappresentati già dal IV millennio a.C. nel vicino Oriente, in Egitto, a Creta e quindi in Etruria e a Roma (in aspetti vari a seconda dei luoghi e delle età), erano immaginati per lo più come guardiani (v. 1, 24, 6) e simbolicamente interpretati. È naturale perciò che scrittori e artisti li rappresentassero nelle forme più diverse. Per esempio, Ctesia (storico del V-IV secolo a.C., raccoglitore di curiosità persiane) aveva scritto che i grifoni avevano il collo variegato di piume blu (v. Ael. Nat. Animal. 4, 27, che descrive l’aspetto dei grifoni indiani). Lo stesso dicasi per i Tritoni, divinità marine a figura pisciforme dalla vita in giù. Meravigliosi veicoli per il trasporto di eroi e di dèi sul mare nell’epoca più antica, nel periodo classico ed ellenistico sono considerati personaggi del seguito di Poseidone. Che i Tritoni suonassero e usassero a questo fine conchiglie marine è detto da Virgilio (Aen. 6, 171 sgg.; 10, 209 sg.), Plinio (Nat. Hist. 9, 9), Igino (Astron. 2, 23) e da molti altri scrittori antichi, ed è tema molto diffuso nelle opere d’arte ellenistiche e romane. Pausania presta fede alle leggende originarie riferite da antichi autori (Ariste. v. 1, 24, 6, per i grifoni; Hes. Theog. 930 sgg., per Tritone, figlio di Poseidone e Anfitrite), ma non accetta, anzi respinge decisamente tutte le meravigliose invenzioni che, travisando il primitivo significato di queste figure, ne hanno moltiplicato gli esemplari, guastato la forma e sovvertito la verità.
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Bibliografia ulteriore:
BONNECHERE P., Le Sacrifice humain en Grèce ancienne, Kernos, suppl. 3, Liège 1994.
BURKERT W., Homo Necans: the Anthropology of Ancient Greek Sacrificial Ritual and Myth, Los Angeles 1983.
BUXTON R. G. A., Wolves and werewolves in Greek thought, in BREMMER J. (ed.), Interpretations of Greek mythology, London 1987, 60-70.
CARDETE DEL OLMO M.C., Paisajes mentales y religiosos: la frontera suroeste arcadia en épocas arcaica y clásica, Oxford 2005.
ID., Rural religion in Ancient Arcadia: a methodological approach, in ØSTBY E. (ed.), Ancient Arcadia. Papers from the 3rd International seminar on Ancient Arcadia (Norwegian Institute at Athens, 7-9 May 2002), Athens 2005, 51-63.
DE BLOCK R., Le loup dans les mythologies de la Grèce et de l’Italie anciennes, RIPB 20 (1877), 145-158; 217-234.
DETIENNE M., SVENBRO J., Les loups au festin ou la Cité impossible, in DETIENNE M., VERNANT J.-P., La Cuisine du sacrifice en pays grec, Paris 1979, 215-237.
HALM-TISSERANT M., Cannibalisme et immortalité. L’enfant dans le chaudron en Grèce ancienne, Paris 1993.
HUGHES J., Human sacrifice in Ancient Greece, London 1991.
JOST M., Deux mythes de métamorphose en animal et leurs interprétations : Lykaon et Kallisto, Kernos 18 (2005), 347-470.
ID., À propos des sacrifices humains dans le sanctuaire de Zeus du mont Lycée, in HÄGG R. (ed.), Peloponnesian Sanctuaries and Cults. Proceedings of the Ninth International Seminar on Ancient Greek cult organized by the Swedish Institute at Athens, 11-13 June 1994, Stockholm 2002, 183-186.
di Agostino, La città di Dio, a cura di L. Alici, Milano 2015, pp. 876-877.
Hoc Varro ut astruat, commemorat alia non minus incredibilia de illa maga famosissima Circe, quae socios quoque Vlixis mutauit in bestias, et de Arcadibus, qui sorte ducti tranabant quoddam stagnum atque ibi conuertebantur in lupos et cum similibus feris per illius regionis deserta uiuebant. Si autem carne non uescerentur humana, rursus post nouem annos eodem renatato stagno reformabantur in homines. Denique etiam nominatim expressit quendam Demaenetum gustasse de sacrificio, quod Arcades immolato puero deo suo Lycaeo facere solerent, et in lupum fuisse mutatum et anno decimo in figuram propriam restitutum pugilatum sese exercuisse et Olympiaco uicisse certamine. Nec idem propter aliud arbitratur historicus in Arcadia tale nomen adfictum Pani Lycaeo et Ioui Lycaeo nisi propter hanc in lupos hominum mutationem, quod eam nisi ui diuina fieri non putarent. Lupus enim Graece λύκος dicitur, unde Lycaei nomen apparet inflexum. Romanos etiam Lupercos ex illorum mysteriorum ueluti semine dicit exortos.
A riprova di ciò Varrone ricorda altri fatti non meno incredibili intorno alla famosissima maga Circe, la quale trasformò in bestie anche i compagni di Ulisse, e intorno agli Arcadi che, designati a sorte, attraversavano a nuoto uno stagno dove venivano trasformati in lupi e vivevano nei luoghi solitari di quella regione assieme a quelle belve feroci. Se però non mangiavano carne umana, di nuovo dopo nove anni, riattraversando lo stagno, diventavano uomini. Egli infine ricorda espressamente che un certo Demeneto, dopo aver gustato il sacrificio che di solito gli Arcadi offrivano immolando un fanciullo al loro dio Liceo, fu trasformato in lupo e dopo dieci anni, restituitegli le umane sembianze, si esercitò nel pugilato e vinse i giochi olimpici. Lo stesso storico ritiene che in Arcadia quel nome fu attribuito a Pan Liceo e a Giove Liceo, precisamente per questa trasformazione degli uomini in lupi, che ritennero possibile soltanto grazie ad una forza divina. In greco lupo si dice infatti lykos, da cui sembra essere derivato il nome Liceo. Si dice ancora che i Lupercali romani abbiano tratto origine da quei misteri.
Sucellos (o Silvanus). Statuetta, bronzo, I-II sec. d.C. ca., da Mours-Saint-Eusèbe. Valence, Musée des Beaux-Arts et d’Archéologie.
[61, 1] Postquam ergo omnes bonam mentem bonamque valitudinem sibi optarunt, [2] Trimalchio ad Nicerotem respexit, et «Solebas – inquit – suavius esse in convictu; nescio quid nunc taces nec muttis. Oro te, sic felicem me videas, narra illud quod tibi usu venit». [3] Niceros delectatus affabilitate amici «Omne me – inquit – lucrum transeat, nisi iam dudum gaudimonio dissilio, quod te talem video. [4] Itaque hilaria mera sint, etsi timeo istos scholasticos, ne me rideant. Viderint, narrabo tamen. Quid enim mihi aufert, qui ridet? Satius est rideri quam derideri». [5] «Haec ubi dicta dedit», talem fabulam exorsus est:
[6] «Cum adhuc servirem, habitabamus in Vico Angusto; nune Gavillae domus est. Ibi, quomodo dii volunt, amare coepi uxorem Terentii coponis; noveratis Melissam Tarentinam, pulcherrimum bacciballum. [7] Sed ego non mehercules corporaliter aut propter res venerias curavi, sed magis quod benemoria fuit. [8] Si quid ab illa petii, nunquam mihi negatum; fecit assem, semissem habui; in illius sinum demandavi, nec unquam fefellitus sum. [9] Huius contubernalis ad villam supremum diem obiit. Itaque per scutum per ocream egi aginavi, quemadmodum ad illam pervenirem; nam, ut aiunt, in angustiis amici apparent.
[62, 1] Forte dominus Capuae exierat ad scruta scita expedienda. [2] Nactus ego occasionem persuadeo hospitem nostrum, ut mecum ad quintum miliarium veniat. Erat autem miles, fortis tanquam Orcus. [3] Apoculamus nos circa gallicinia; luna lucebat tanquam meridie. [4] Venimus intra monimenta: homo meus coepit ad stelas facere; sedeo ego cantabundus et stelas numero. [5] Deinde ut respexi ad comitem, ille exuit se et omnia vestimenta secundum viam posuit. Mihi anima in naso esse; stabam tanquam mortuus. [6] At ille circumminxit vestimenta sua, et subito lupus factus est. Nolite me iocari putare; ut mentiar, nullius patrimonium tanti facio. [7] Sed, quod coeperam dicere, postquam lupus factus est, ululare coepit et in silvas fugit. [8] Ego primitus nesciebam ubi essem; deinde accessi, ut vestimenta eius tollerem; illa autem lapidea facta sunt. Qui mori timore nisi ego? [9] Gladium tamen strinxi, et – matavitatan – umbras cecidi, donec ad villam amicae meae pervenirem. [10] In larvam intravi, paene animam ebullivi, sudor mihi per bifurcum volabat, oculi mortui; vix unquam refectus sum. [11] Melissa mea mirari coepit, quod tam sero ambularem, et “Si ante – inquit – venisses, saltem nobis adiutasses; lupus enim villam intravit et omnia pecora tanquam lanius sanguinem illis misit. Nec tamen derisit, etiam si fugit; servus enim noster lancea collum eius traiecit”. [12] Haec ut audivi, operire oculos amplius non potui, sed luce clara Gai nostri domum fugi tanquam copo compilatus; et postquam veni in illum locum, in quo lapidea vestimenta erant facta, nihil inveni nisi sanguinem. [13] Ut vero domum veni, iacebat miles meus in lecto tanquam bovis, et collum illius medicus curabat. Intellexi illum versipellem esse, nec postea cum illo panem gustare potui, non si me occidisses. [14] Viderint quid de hoc alii exopinissent; ego si mentior, genios vestros iratos habeam».
London, British Library, Royal MS 12 F. XIII, Rochester Bestiary (1230 c.), f. 29r. Un branco di lupi assiste alla trasformazione di un uomo in licantropo.
[61, 1] Dopo che tutti a questo punto ebbero fatto un brindisi per la buona salute della mente e del corpo, [2] Trimalcione si rivolse a Nicerote, e osservò: «Di solito tu a tavola eri più allegro. Va’ a capire perché oggi te ne stai muto e non fiati. Ti prego, se vuoi vedermi contento, racconta ciò che ti è successo». [3] Nicerote, lusingato dalla gentilezza dell’amico, esclamò: «Che mi scappi ogni affare, se già non schiatto di gioia a vederti così! [4] Su dunque, pensiamo solo a star allegri, anche se ho paura che ‘sti sapientoni ridano di me. Ma si mettano comodi, io racconterò lo stesso. Che ci perdo qualcosa a far ridere? Meglio far ridere che farsi deridere». [5] Pronunciate tali parole, attaccò questa storia:
[6] «Quando ero ancora un servo, si abitava in Vico Stretto; oggi è la casa di Gavilla. Lì, come gli dèi vogliono, incominciai a farmela con la moglie di Terenzio, l’oste; ricorderete Melissa di Taranto, la splendida cicciona. [7] Io però, per Ercole, non ero mica per il fisico, o per farci l’amore, che mi interessavo a lei, ma perché aveva un buon carattere. [8] Se le chiedevo qualcosa, non mi diceva mai di no; se guadagnava un soldo, mezzo soldo era per me; lo depositavo nel suo seno, e non sono mai rimasto fregato. [9] Il suo compagno morì mentre stava in campagna. Allora io sudai le proverbiali sette camicie per trovare il modo di arrivare da lei; infatti, come dicono, è nel momento del bisogno che si vedono gli amici.
[62, 1] Il caso volle che il mio padrone fosse andato a Capua per smerciarvi il meglio delle sue cianfrusaglie. [2] Colgo al volo l’occasione e convinco un nostro ospite ad accompagnarmi fino al quinto miglio. Si trattava di un soldato, forte come l’Orco. [3] Leviamo le chiappe verso il canto del gallo; c’era una luna che sembrava mezzogiorno. [4] Arriviamo in mezzo a un cimitero: il mio uomo si mette a farla tra le tombe, io mi siedo canticchiando e mi metto a contare le lapidi. [5] Poi mi volto verso il mio compare e vedo che quello è lì che si sveste e depone tutti gli abiti sul ciglio della strada. Mi sentivo il cuore in gola; stavo immobile come fossi morto. [6] Quello allora si mise a pisciare tutto intorno ai vestiti e di colpo si trasformò in lupo. Non pensate che stia scherzando; non mentirei per tutto l’oro del mondo. [7] Ma, come stavo dicendo, una volta diventato lupo, incominciò a ululare e sparì nella boscaglia. [8] Io sulle prime non capivo più dove fossi; poi mi avvicinai ai suoi abiti per prenderli; ma quelli erano diventati di pietra. Chi non poté morire di paura se non io stesso? [9] Tuttavia strinsi la mano alla spada, e, abracadabra, andai infilzando le ombre, finché non raggiunsi la tenuta della mia amica. [10] Entrai che parevo uno spettro, a momenti schiattavo, il sudore mi colava tra le chiappe e avevo gli occhi di un morto; ce ne volle per riprendermi. [11] La mia Melissa dapprima si meravigliò perché ero ancora in giro a quell’ora, e fece: “Se arrivavi un po’ prima, almeno ci davi una mano; un lupo si è introdotto nella fattoria e da vero macellaio ci ha sgozzato tutte le bestie. Però non l’ha fatta franca, anche se è riuscito a fuggire, ché un nostro servo gli ha trapassato il collo con la lancia”. [12] A sentir questo, non potei più a chiuder occhio e sul far del giorno, via di corsa alla casa del nostro Gaio, come un oste rapinato; e una volta che giunsi in quel posto, dove gli abiti erano diventati pietra, non altro trovai altro che sangue. [13] Come poi tornai a casa trovai il mio soldato stravaccato sul letto come un bue, mentre il medico gli curava il collo. Compresi che era un lupo mannaro e da allora in poi non sarei più riuscito a dividere il pane con lui, nemmeno se mi avessero ammazzato. [14] Gli altri al riguardo la pensino come vogliono. Quanto a me, se mento, possano i vostri numi tutelari stramaledirmi».
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Bibliografia di approfondimento:
G.B. Bronzini, Il lupo mannaro e le streghe di Petronio, Lares 54 (1988), pp. 198-201.
[1] Et mihi discendi et tibi docendi facultatem otium praebet. Igitur perquam velim scire, esse phantasmata et habere propriam figuram numenque aliquod putes an inania et vana ex metu nostro imaginem accipere.
[2] Ego ut esse credam in primis eo ducor, quod audio accidisse Curtio Rufo. Tenuis adhuc et obscurus obtinenti Africam comes haeserat. Inclinato die spatiabatur in porticu: offertur ei mulieris figura humana grandior pulchriorque; perterrito Africam se, futurorum praenuntiam, dixit; iturum enim Romam honoresque gesturum atque etiam cum summo imperio in eandem provinciam reversurum ibique moriturum. Facta sunt omnia. [3] Praeterea accedenti Carthaginem egredientique nave eadem figura in litore occurrisse narratur. Ipse certe implicitus morbo, futura praeteritis, adversa secundis auguratus, spem salutis nullo suorum desperante proiecit.
[4] Iam illud nonne et magis terribile et non minus mirum est, quod exponam, ut accepi? [5] Erat Athenis spatiosa et capax domus, sed infamis et pestilens. Per silentium noctis sonus ferri et, si attenderes acrius, strepitus vinculorum longius primo, deinde e proximo reddebatur: mox apparebat idolon, senex macie et squalore confectus, promissa barba, horrenti capillo; cruribus compedes, manibus catenas gerebat quatiebatque. [6] Inde inhabitantibus tristes diraeque noctes per metum vigilabantur; vigiliam morbus et crescente formidine mors sequebatur. Nam interdiu quoque, quamquam abscesserat imago, memoria imaginis oculis inerrabat, longiorque causis timoris timor erat. Deserta inde et damnata solitudine domus totaque illi monstro relicta; proscribebatur tamen, seu quis emere, seu quis conducere ignarus tanti mali vellet.
[7] Venit Athenas philosophus Athenodorus, legit titulum auditoque pretio, quia suspecta vilitas, percunctatus omnia docetur ac nihilo minus, immo tanto magis conducit. Ubi coepit advesperascere, iubet sterni sibi in prima domus parte, poscit pugillares, stilum, lumen ; suos omnes in interiora dimittit, ipse ad scribendum animum, oculos, manum intendit, ne vacua mens audita simulacra et inanes sibi metus fingeret. [8] Initio, quale ubique, silentium noctis, dein concuti ferrum, vincula moveri: ille non tollere oculos, non remittere stilum, sed offirmare animum auribusque praetendere. Tum crebrescere fragor, adventare et iam ut in limine, iam ut intra limen audiri. Respicit, videt agnoscitque narratam sibi effigiem. [9] Stabat innuebatque digito similis vocanti; hic contra, ut paulum exspectaret, manu significat rursusque ceris et stilo incumbit. Illa scribentis capiti catenis insonabat; respicit rursus idem quod prius innuentem nec moratus tollit lumen et sequitur. [10] Ibat illa lento gradu, quasi gravis vinculis; postquam deflexit in aream domus, repente dilapsa deserit comitem. Desertus herbas et folia concerpta signum loco ponit. [11] Postero die adit magistratus, monet, ut illum locum effodi iubeant. Inveniuntur ossa inserta catenis et implicita, quae corpus aevo terraque putrefactum nuda et exesa reliquerat vinculis; collecta publice sepeliuntur. Domus postea rite conditis manibus caruit.
[12] Et haec quidem affirmantibus credo; illud affirmare aliis possum: est libertus mihi non illitteratus. Cum hoc minor frater eodem lecto quiescebat. Is visus est sibi cernere quendam in toro residentem admoventemque capiti suo cultros atque etiam ex ipso vertice amputantem capillos. Ubi inluxit, ipse circa verticem tonsus, capilli iacentes reperiuntur. [13] Exiguum temporis medium, et rursus simile aliud priori fidem fecit. Puer in paedagogio mixtus pluribus dormiebat: venerunt per fenestras (ita narrat) in tunicis albis duo cubantemque detonderunt et, qua venerant, recesserunt. Hunc quoque tonsum sparsosque circa capillos dies ostendit. [14] Nihil notabile secutum, nisi forte quod non fui reus, futurus, si Domitianus sub quo haec acciderunt, diutius vixisset. Nam in scrinio eius datus a Caro de me libellus inventus est; ex quo coniectari potest, quia reis moris est summittere capillum, recisos meorum capillos depulsi, quod imminebat, periculi signum fuisse.
[15] Proinde rogo, eruditionem tuam intendas. Digna res est quam diu multumque consideres, ne ego quidem indignus, cui copiam scientiae tuae facias. [16] Licet etiam utramque in partem, ut soles, disputes, ex altera tamen fortius, ne me suspensum incertumque dimittas, cum mihi consulendi causa fuerit, ut dubitare desinerem. Vale.
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Gaio Plinio invia i suoi saluti al caro Sura.
[1] Il tempo disponibile che abbiamo offre a me il destro d’imparare e a te quello d’insegnare. Dunque: io avrei un vivissimo desiderio di sapere se tu pensi che i fantasmi esistano davvero ed abbiano un loro proprio aspetto ed una qualche capacità di azione, ovvero che, pure vanità inconsistenti, ricevano una figura soltanto dalla nostra paura.
[2] Io mi sento spinto a credere alla loro esistenza in primo luogo dall’episodio che sento dire essere capitato a Curzio Rufo. Mentre era ancora un personaggio insignificante e sconosciuto, si era aggregato al seguito del governatore dell’Africa. Verso il cadere del giorno passeggiava sotto un portico: ed ecco che gli si presenta una figura di donna che per maestà e bellezza superava le possibilità umane. Vedendolo tutto spaventato, gli disse di essere l’Africa e che veniva a preannunziargli il futuro: egli infatti sarebbe rientrato a Roma, vi avrebbe esercitato alte magistrature, sarebbe anche ritornato nella stessa provincia con la suprema potestà e là sarebbe morto. Tutto si avverò. [3] Si racconta inoltre che mentre egli si accostava a Cartagine ed usciva dalla nave, la medesima figura gli si fece incontro sulla spiaggia. Questo per lo meno è sicuro, che fu colpito da una malattia; ed allora, traendo auspicio dal passato per il figuro e dalle fortune per le sventure, rinunziò subito a qualsiasi speranza di salvarsi, mentre ancora nessuno dei suoi l’aveva perduta.
[4] E ora ti racconto, come l’ho ricevuto, un fatto che mi sembra più spaventoso e non meno stupefacente. [5] C’era ad Atene una casa ampia e ricca di ambienti, ma malfamata e funesta. Durante il silenzio della notte si produceva un rumore di ferraglia che, se si prestava un’attenzione più concentrata, si identificava in uno stridore di catene, dapprima più lontano e poi vicinissimo: tosto appariva un fantasma, un vecchio logorato dalla macilenza e trasandato nell’aspetto, dalla barba lunga e dai capelli ispidi; aveva i piedi imprigionati in ceppi e le mani strette in catene che scuoteva. [6] Di conseguenza, gli inquilini, spaventati, trascorrevano senza chiudere occhio notti amare e atroci; non chiudendo occhio si ammalavano e, crescendo lo sgomento, morivano. Infatti anche durante la giornata, quantunque lo spettro se ne fosse andato, vagava ancora dinanzi agli occhi il ricordo del fantasma e la paura durava più a lungo delle cause della paura. Perciò la casa rimase disabitata, su di essa gravò la condanna di restare vuota e fu lasciata tutta a disposizione di quella sorprendente apparizione; tuttavia ufficialmente era in vendita, sia che qualcuno, ignaro di una così grave iattura, la volesse comperare, sia che la volesse affittare.
[7] Giunge ad Atene il filosofo Atenodoro, legge l’annuncio, si fa dire il prezzo; siccome gli sembrano sospette quelle condizioni così favorevoli, si informa per bene e viene a sapere ogni cosa, con tutto ciò, anzi soprattutto per ciò, la prende in affitto. Sul far della sera, dà ordine che gli si allestisca la brandina di lavoro nei locali della casa adiacenti all’ingresso e si fa portare tavolette, stilo e lampada; dispone che tutti i suoi familiari si sistemino nelle stanze interne e per parte sua concentra nello scrivere la sua mente, i suoi occhi, la sua mano, perché la fantasia disoccupata non gli foggiasse gli spettri di cui gli avevano parlato e delle paure inconsistenti. [8] All’inizio vi regna il silenzio della notte come in tutti gli altri posti, poi ecco uno scuotere di ferri ed un muovere di catene: egli non alza gli occhi, non desiste dallo scrivere, fa appello a tutta la sua forza d’animo e cerca con essa di sbarrare la via a quanto giunge alle sue orecchie. Allora il frastuono si fa più insistente, si avvicina sempre più; ormai dà l’impressione di risuonare sulla soglia, poi addirittura dentro la soglia. Si volta indietro a guardare, vede e riconosce la figura di cui gli avevano parlato. [9] Era ferma e in piedi e faceva segno col dito nell’atteggiamento di chi chiama. Atenodoro in risposta le indica con la mano che aspetti un poco e di nuovo si curva a scrivere sulle sue tavolette cerate. Essa, mentre l’altro scriveva, continuava a fargli strepitare le catene accanto alla testa. Il filosofo si volta di nuovo e la vede fargli lo stesso gesto di prima; allora, troncando ogni indugio, prende la lampada e la segue. [10] Essa camminava a passo lento, come se fosse aggravata dalle catene; dopo che ebbe piegato verso il cortile della casa, all’improvviso svanisce, abbandonando il suo compagno. Vistosi così abbandonato, egli raccoglie delle erbe e delle foglie e le colloca sul posto per indicarlo con precisione. [11] Il giorno seguente si reca dalle autorità e le invita ad ordinare uno scavo in quel punto. Vengono trovate delle ossa frammischiate ed intrecciate a catene: le carni, decomposte dal tempo e dalla terra, le avevano lasciate nude e corrose dai loro legami: furono raccolte e seppellite a nome del comune. Quello spirito, dopo che le sue spoglie mortali ottennero regolare sepoltura, non si fece più vedere in quella casa.
[12] La mia fede su queste vicende è fondata propriamente sulle dichiarazioni altrui; quest’altro episodio invece lo posso dichiarare io agli altri. Ho un liberto fornito di una discreta cultura; egli una volta riposava nel medesimo letto con il fratello minore. Quest’ultimo ebbe l’impressione di vedere un individuo sedersi sul letto, avvicinargli al capo delle forbici e tagliargli anche i capelli sul culmine della testa. Quando spuntò il giorno si trovò che egli era schiomato attorno al culmine della testa e che i capelli erano là per terra. [13] Passò un breve periodo di tempo e il ripetersi analogo della scena rese credibile quella precedente. Un giovane schiavo dormiva, insieme a parecchi altri, nella sua camerata: si introdussero attraverso la finestra (così racconta) due persone vestite di tuniche bianche, gli tagliarono i capelli mentre era coricato e se ne andarono per la stessa via per la quale erano venute. La luce del giorno mostrò che anch’egli era rasato e che i capelli erano sparpagliati tutt’attorno. [14] Non ne seguì nessun fatto sorprendente, tranne forse che io non fui incriminato, mentre lo sarei stato se Domiziano, al cui tempo risalgono queste apparizioni, fosse vissuto più a lungo. Infatti nel suo archivio personale fu trovata un’accusa nei miei confronti presentata da Caro. Siccome è uso che gli imputati si lascino crescere i capelli, si può arguire che i capelli recisi ai miei dipendenti costituissero un presagio che il pericolo, che incombeva su di me, era stornato.
[15] Perciò ti prego di fare appello a tutta la tua competenza scientifica. La questione è meritevole di un tuo prolungato ed intenso studio, ed io non sono poi immeritevole di essere chiamato a condividere le nozioni che tu conosci. [16] Anche se, attenendoti al tuo metodo solito, metterai avanti gli argomenti che ognuna delle due tesi contrapposte possiede, calcane però in modo speciale quelli di una delle due, per non lasciarmi titubante e incerto, perché il motivo per cui ti consulto è proprio quello di troncare tutte le mie perplessità. Stammi bene.
Henry Justice Ford, Athenodorus Confronts the Spectre. Illustrazione, 1900.
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