ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di D. Mᴜsᴛɪ, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 480 sgg.
L’esposizione che Senofonte fa degli episodi militari, che portano al rientro dei democratici, è ricca di dettagli per tutte le fasi del racconto; e questo, strutturalmente, dà alla narrazione senofontea un carattere diverso dai testi di Aristotele e Diodoro[1]. Questi ultimi, infatti, danno una particolare espansione alla prima fase del rientro. Il momento di File, come del resto anche quello del Pireo, ha estensione e ruolo particolari. Proprio il rilievo ideologico del rientro, le condizioni in cui se ne determina la possibilità, l’accorrere di varia gente che va ad ingrossare le file democratiche, sono l’elemento costitutivo del racconto di Aristotele e di Diodoro; più rapida invece l’esposizione dei fatti militari, che seguono agli scontri di File e del Pireo. Si può dire insomma che, nella parte finale, il racconto di Aristotele e quello di Diodoro siano molto contratti. In Senofonte più della metà del racconto riguarda il seguito dello scontro del Pireo, con particolari che si riferiscono soprattutto alla parte ateniese oligarchica, e alla parte spartana; il che può dare l’idea della posizione che in questo momento occupa l’autore. Dopo lo scontro del Pireo si raccolgono i morti, e un lungo discorso dell’araldo dei mýstai di Eleusi, Cleocrito, fa presente agli uomini dell’altra parte – anch’essi impegnati nell’opera pietosa – quanto sia folle il combattersi, quanto male abbiano fatto i Trenta che, per i loro vantaggi, in otto mesi hanno ucciso più Ateniesi di quanto i Peloponnesiaci abbiano fatto in dieci anni[2]. Questa indicazione è importante, perché permette di collocare cronologicamente gli eventi: gli otto mesi, secondo Beloch[3], vanno considerati dal momento della capitolazione e pace, avvenute nell’aprile del 404; e perciò aiuterebbero a collocare tutti questi fatti nel novembre-dicembre del 404. A rigore, potremmo scalare un paio di mesi ancora, perché la vera e propria installazione del regime dei Trenta tarda un paio di mesi ed è soltanto verso giugno: quindi noi dovremmo datare la battaglia del Pireo verso febbraio. Questo però si accorda male con il fatto che la prima spedizione dei Tiranni contro File fu scoraggiata da una nevicata imprevista; ora l’episodio di File, stando alla dinamica degli eventi, si colloca circa tre settimane prima della battaglia del Pireo, in cui cade Crizia; potrebbe perciò essere conveniente sistemare la battaglia del Pireo verso novembre-dicembre del 404, più che a febbraio del 403, quando la neve doveva essere qualcosa di prevedibile. Dobbiamo allora forse considerare gli otto mesi dal momento in cui non c’era ancora formalmente il regime dei Trenta Tiranni, ma, con la capitolazione di Atene, se ne erano create le premesse.
Atene. Tetradramma, Ar. 17,27 g. 454-404 a.C. ca. Recto: Testa paludata di Atena verso destra, con orecchino, collana ed elmo attico crestato decorato con foglie di olivo.
Lo scontro del Pireo rappresenta una svolta, perché ora i Trenta vengono indotti a rimettere il potere a un nuovo collegio di magistrati, i Dieci, che devono esperire le vie della pace; cosa che il collegio non fa, secondo Diodoro; segue un collegio di Dieci, che saranno fra i veri autori della riconciliazione[4].
Nel racconto senofonteo c’è un dato importante per la collocazione dell’autore. Senofonte afferma che il giorno dopo lo scontro del Pireo (intorno al novembre-dicembre, secondo Beloch, del 404), i Trenta residui, ormai privi delle loro guide, Crizia e Carmide, erano riuniti in sinedrio, soli e abbandonati, perché i Tremila, che avrebbero dovuto essere il loro naturale supporto, si riunivano in luoghi diversi, per discutere la situazione. «Quanti avevano commesso qualche violenza, e per questo avevano ragione di temere, dicevano con forza che non bisognava cedere a quelli del Pireo; ma quanti erano convinti di non aver commesso alcun torto, consideravano per sé, e agli altri facevano presente, che non c’era nessun bisogno di tutti questi mali, e dicevano ancora che non bisognava obbedire ai Trenta, né permettere che la città andasse in rovina. Da ultimo, decisero di metter fine al loro governo, e di eleggerne altri; e ne elessero dieci, uno per tribù» (Elleniche II 4, 23). Se veramente Senofonte avesse avuto qualcosa di grave sulla coscienza, egli non avrebbe in nessun modo parlato in questi termini; la cosa che più doveva passare sotto silenzio è che, intorno al dicembre del 404, ci fosse fra i Tremila qualcuno che aveva delle colpe, e qualcuno che non ne aveva. Egli avrebbe potuto semplicemente dire: «I Tremila decisero di metter fine al regime dei Trenta»; ma evidentemente egli ritiene di essere tra coloro che non avevano nulla di particolarmente grave da rimproverarsi.
Filosofo. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Museo Archeologico di Delfi.
I Trenta, dopo la sconfitta del Pireo, si ritirarono ad Eleusi; i Dieci sono molto preoccupati, e Senofonte descrive la diuturna guardia esercitata dai cavalieri per il timore di attacchi da parte di quelli del Pireo. Anche quelli del Pireo, intanto, si vanno organizzando e vanno promettendo l’isotéleia agli stranieri, che continuino a combattere dalla parte dei democratici. L’isotéleia è la condizione di colui che si trova a partecipare di télē (obblighi fiscali in primo luogo) dei cittadini; si tratta di una categoria privilegiata di meteci. Esiste il problema se l’isotelia equivalga semplicemente a immunità dal pagamento del metoíkion, cioè della tassa, probabilmente mite, di dodici dracme, versata dai meteci, o se invece significhi un più sostanziale adeguamento, senza che ci sia identificazione totale, alla condizione di cittadini.
Segue l’intervento spartano, condotto da Lisandro, che protegge gli oligarchici, e dal re Pausania II, che, per ragioni personali, oltre che per intima convinzione, contrasta i disegni di Lisandro, e in un primo momento deve attaccare, e sconfigge, quelli del Pireo, insieme con gli alleati peloponnesiaci (esclusi Beoti e Corinzi). Poi Pausania invita segretamente i democratici del Pireo a mandargli ambascerie di pace, e fa opera di convincimento anche con “quelli della città”; ambascerie delle diverse parti ateniesi giungono a Sparta. La pace è fatta, con un’amnistia (è a questo punto che Aristotele, almeno come Diodoro, colloca l’adozione del principio del mḕ mnēsikakeîn, il «non recriminare»), che esclude solo i Trenta, gli Undici (di giustizia) e i Dieci del Pireo; gli oligarchi che non lo vogliano possono ritirarsi ad Eleusi[5]. Archino riduce il numero dei giorni della decisione per trattenere in città gli incerti: misura abile, che si pone apparentemente contro i candidati al cambiamento di domicilio, cioè contro gli oligarchi, ma ha invece l’effetto reale di trattenerli nella cittadinanza. È chiaro che il risultato è quello che si addice a un rappresentante del filone moderato della rinata democrazia. Non a caso Aristotele lo colloca fra i rappresentanti della pátrios politeía e gli attribuisce tre misure, tutte dello stesso tenore: 1) l’opposizione al decreto di Trasibulo che finiva col premiare, fra i combattenti per la restaurazione democratica, anche gli schiavi con la concessione della cittadinanza; 2) la fermezza nel volere la condanna a morte di un cittadino che aveva osato «recriminare», cioè contravvenire al principio dell’amnēstía, del mḕ mnēsikakeîn, nei riguardi di coloro che appartenessero ai collegi governanti nel periodo dei Trenta; 3) l’abile riduzione del tempo concesso per l’opzione della residenza ad Eleusi, come già si è detto. Agli occhi di Aristotele, egli è un campione dell’homónoia, l’ideale moderato della concordia, che ormai si afferma ad Atene e nel mondo greco[6]. Per Senofonte (Elleniche II 4, 43) un grave episodio turba e chiude la vita effimera di Eleusi nel 401: insospettiti per notizie di intenzioni aggressive, gli Ateniesi con Trasibulo attaccano Eleusi; in un colloquio vengono uccisi a tradimento i generali oligarchici; solo ora (401) ci sono, per Senofonte, la pace e l’amnistia.
[1] Senofonte, Elleniche II 4, 1-43; Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 34-40; Diodoro, XIV 32-33.
[2] Senofonte, Elleniche II 4, 20 sgg., in part. 21 sugli “otto mesi”.
[3]GG2 III 2, pp. 209 sgg., e in generale 204-211.
[4] Sul secondo collegio di Dieci succeduto a quello dei Trenta, J.K. Beloch, GG2 III 1, p. 12 n. 1, in base ad Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 38, 3; Androzione, FGrHist 324 F 10.
[…] Pochi dati significativi riguardano la sua infanzia[1]. Figlio di secondo letto del re Archidamo, Agesilao vede la luce intorno al 444 a.C.[2]; non destinato alla porpora regale, che spettava al fratello maggiore Agide, percorse tutti i gradi della dura educazione spartana, dalla quale erano esclusi solo gli eredi al trono; la prestazione si impose alla memoria dei posteri per via dell’infermità parziale a una gamba, dalla quale era afflitto probabilmente dalla nascita[3]. Il periodo della gioventù di Agesilao coincide con gli anni della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) e del rinnovamento profondo che portò Sparta a trasformarsi da potenza “oplitica” e terrestre a città egemone su tutto lo spazio dell’Ellade, dunque indissolubilmente legata al possesso di una flotta e a un mondo ideale diverso da quello licurgheo[4]. La vita del futuro sovrano, in questi tempi agitati, trascorre senza fatti degni di nota, all’infuori di un evento significativo. Tra le sue conoscenze ascende a un ruolo predominante, in un momento per noi indefinito, un altro uomo dal futuro importante, Lisandro[5]; la relazione con questi assume a un certo punto i connotati del rapporto omoerotico, seguendo un copione frequente nello stato di Licurgo e indirizzando entrambi i personaggi alla strada che li condurrà, in tempi diversi, ai vertici della politica di Sparta e dell’intera Grecia. Se un aspetto del legame fra Lisandro e Agesilao merita di essere qui sottolineato, è che esso nacque verosimilmente da una reciproca attrazione piuttosto che da un calcolo utilitaristico. Da Agesilao Lisandro non poteva sperare moltissimo: il ragazzo era di famiglia regale, ma la sua ascesa al trono non era prevedibile. Neanche per Agesilao l’interesse personale può aver pesato nel desiderio di intraprendere il rapporto con Lisandro: per gli anni in cui il legame nacque, presumibilmente intorno al 430[6], questi era un giovane dall’avvenire promettente e niente più, il cui ingresso imperioso nella storia greca si farà attendere ancora per vent’anni. In breve: la natura disinteressata dell’amore omosessuale fra i due è un dato che le fonti suggeriscono e che ci conviene tenere a mente in vista delle evoluzioni successive del rapporto[7]. In Lisandro e Agesilao si incontrano le due massime figure della storia spartana fra la fine del V e l’inizio del IV secolo; al secondo l’amicizia nata dall’amore di quegli anni garantì – ma solo tardi – i mezzi per la scalata al potere, e si protrasse fino al momento in cui l’attrito tra due caratteri troppo abituati a sovrastare fece dei due compagni degli avversari. Prima che ciò avvenga deve verificarsi l’evento cardinale della vita di Agesilao, ossia la morte del fratello Agide, avvenuta intorno al 400, al termine di un regno più che ventennale[8].
La Sparta dell’epoca era una città diversa da quella in cui Agesilao era nato. La guerra peloponnesiaca ne aveva mutato lo spirito, e la sua conclusione le aveva tolto in Atene l’avversario “ideologico” di buona parte del V secolo a.C., incrinando a un tempo la fiducia dei maggiori alleati: a differenza di Sparta, Corinto e Tebe avevano di che lamentarsi per una guerra che aveva fruttato molto meno delle attese. Il suggestivo quadro tracciato da Plutarco[9] nel descrivere questo periodo, pur se influenzato dal mito di una Sparta licurghea che decade d’un colpo, coglie certamente nel segno: copiose ricchezze s’erano fatte strada nello stato spartano, da sempre celebrato per la refrattarietà all’economia monetaria e alle connesse “tentazioni”; persino l’adamantino kósmos, l’ordinamento di Licurgo, scricchiolava sotto il peso delle licenze concesse agli uomini responsabili della vittoria e a Lisandro sopra tutti. È in questo momento di grandi cambiamenti che, come abbiamo detto, si assiste all’arrivo al potere di Agesilao[10]. Il fratello Agide aveva lasciato alla sua morte un figlio maschio di nome Leotichida[11], in età sufficiente per ricevere il potere regale: a questi, per dettato esplicito della legge, toccava ereditare il titolo di re della linea Euripontide. Ciò che permette ad Agesilao di insinuarsi in questa successione scalzando il nipote non è tanto il sospetto – probabilmente diffuso ad arte – di un’origine adulterina di quest’ultimo, quanto l’appoggio dell’ormai onnipotente Lisandro, la cui influenza su tutta la politica spartana e sugli efori in particolare mette in moto la macchina della contesa dinastica. Non è la prima volta che a Sparta una coalizione, reclamando il trono per il proprio candidato, delegittima l’avversario in quanto figlio naturale: il caso di Demarato, privato del potere alla vigilia delle guerre persiane con la medesima accusa, è stato accostato a quello di Agide già da un osservatore antico;[12] è d’altronde verosimile che in entrambe le azioni l’intervento degli efori sia stato determinante[13], e che le macchinazioni della politica abbiano avuto un peso maggiore delle preoccupazioni sulla genuinità della razza dei re[14].
Oplita. Statuetta, bronzo, ultimo quarto del VI sec. a.C. ca. da una cista (?) presso il tempio di Zeus a Dodona (Epiro). Berlin, Antikensammlung.
Il gruppo contrapposto a Lisandro si difende stornando i sospetti sulla legittimità di Agide e riesumando un vecchio oracolo che, mettendo in guardia Sparta da un regno “zoppicante”, doveva inibire le possibilità di successo dello “zoppo” Agesilao. Tocca ancora a Lisandro, allora, chiudere la partita con una stoccata decisiva. Egli afferma che non l’avvento di un re zoppo, bensì il disequilibrio fra le due famiglie regali di Sparta sarebbe l’evento prefigurato dalla profezia, e che esso si realizzerebbe proprio con l’elezione di un re “bastardo”: accettare che metà della coppia regale sia inquinata da sangue non discendente da Eracle equivarrebbe, infatti, a rendere il regno “zoppicante”, ossia invalido in uno dei suoi due sostegni. Questa brillante finezza ermeneutica, che ricorda un’analoga trovata di Temistocle[15], conquista ad Agesilao il trono; proprio come nel caso di Temistocle, il successo finale è garantito non solo dall’abilità di rivolgere contro gli avversari la loro stessa arma reinterpretando l’oracolo, ma anche dall’appoggio di buona parte dei circoli politici di primo piano all’interno della città. Agesilao arriva così al trono per merito – e quasi come strumento – del potente amico, il quale ha un’ottima ragione per rallegrarsi della riuscita manovra: il re della famiglia Agiade allora in carica, Pausania II (reggenza 408-394 a.C. ca.), aveva dimostrato insofferenza verso la sua politica, contribuendo alla restaurazione della democrazia ad Atene e alla caduta di quella creatura di Lisandro che fu il governo dei Trenta; ora il vincitore di Egospotami aveva in Agesilao il mezzo per combattere eventuali spinte di opposizione da quella parte, potendo disporre dell’appoggio del sovrano Euripontide. Questi gli eventi. È adesso il momento di verificare il modo con cui sono essi trattati nell’Agesilao. Tutte le informazioni finora citate provengono in massima parte da Senofonte, ma con alcune cospicue eccezioni; inoltre, non tutte sono presenti nell’Agesilao, che per questo periodo, così come per altri, è molto meno ricco di notizie rispetto alle Elleniche.
Oplita spartano. Illustrazione di P. Connolly.
Tra i particolari che lo scrittore ateniese tace in entrambe le opere c’è, innanzitutto, il rapporto omoerotico tra Agesilao e Lisandro, sul quale è il solo Plutarco a darci dei ragguagli[16]. Le ragioni del suo silenzio non vanno cercate molto lontano: pesano su tutto la rottura dei rapporti tra Agesilao e Lisandro, la parzialità di Senofonte a favore dell’amico re, la circostanza che riconosce una simile origine per l’amicizia fra i due uomini aggraverebbe, agli occhi dei lettori, il repentino strappo. Bisogna comunque ammettere che il legame non rientra nei tempi trattati dal Senofonte storico e, se proprio vogliamo cercare una giustificazione per il suo silenzio, nulla obbligava lo scrittore a menzionare questo particolare privato. A parte questa significativa eccezione, per tutti gli aspetti salienti della contesa dinastica che aprì ad Agesilao la strada verso il potere sono le Elleniche a garantire l’informazione più completa: Plutarco e Pausania, oltre a qualche dato non fondamentale[17], aggiungono alcune notizie sull’origine adulterina di Leotichida, che, se genuine, delineerebbero al più la cornice dell’evento; la mancanza di esse nel resoconto senofonteo non sembra motivata da preoccupazioni ideologiche. L’ideologia è invece la ragione sicura per l’assenza di alcune informazioni nell’Agesilao. Nell’ordine: la contesa è appena sfiorata[18], le voci con le quali Agide fu screditato taciute, la disputa sul trono presentata in modo tale che Agesilao sembri asceso al potere non per intrighi dinastici, ma per la vittoria in un’onestissima gara di nobiltà; dell’azione di Lisandro nessuna traccia, e d’altronde questo nome poco gradito nell’Agesilao non compare mai. Il quadro di un Agesilao nobile e senza macchia, che diviene re per merito e non in quanto creatura di un politico, è quello che ci aspettiamo da un encomio. Stesso discorso vale per l’esaltazione del potere di Sparta fatta in questo contesto: tutti i problemi nati dal sovvertimento del kósmos scompaiono per lasciar posto all’immagine di Sparta nobile dominatrice della Grecia e culla ideale di tanto grande eroe. In breve: Senofonte esalta nel suo elogio postumo le note positive, ma solo per via di quelle ovvie preoccupazioni encomiastiche che nelle Elleniche dimostra di non possedere.
Il primo atto di Agesilao durante il suo regno è la soppressione di una nascente congiura contro l’ordine costituito; in collaborazione con gli efori il sovrano scopre il responsabile, un non-spartiate di nome Cinadone, si sincera dei suoi piani e annulla il tentativo punendo i complici. L’episodio è significativo per la storia della società spartana in questi anni di rivoluzioni, ma nella vita di Agesilao non è una tappa particolarmente importante[19]. Denso di conseguenze sarà invece il suo primo atto politico, benché nato ancora all’ombra del potere di Lisandro. Non molto dopo l’insediamento di Agesilao arriva in città la notizia che il gran re starebbe allestendo una grande flotta in Fenicia, con un obiettivo che non può che essere Sparta (397 a.C.)[20]: i rapporti del gran re con l’ammiraglio ateniese Conone, allora in esilio ma alla ricerca di rivalse sugli Spartani, non erano certamente un mistero[21]. Per prevenire l’attacco si decide di anticipare il nemico colpendolo in Asia Minore. Qui Sparta era impegnata da circa tre anni in difesa delle città ioniche che, dopo l’appoggio dato a Ciro il Giovane nel fallito tentativo di spodestare il fratello Artaserse, temevano ritorsioni da parte del gran re. Rispetto alle spedizioni asiatiche precedenti, affidate a generali abili come Tibrone e Dercillida ma condotte con contingenti ridotti e senza dispendio di risorse finanziarie, l’impresa del 397 a.C. viene organizzata più in grande stile e con intenti, dichiarati e occulti, ben differenti. Se in pubblico Agesilao proclama di voler dissipare il pericolo persiano con un’azione rapida, che frutti la libertà ai Greci d’Asia, dietro le quinte è ancora Lisandro – scelto tra i trenta spartiati che accompagneranno il re nell’impresa – a manovrare l’amico, con scopi meno nobili del panellenismo di facciata propagandato dai vertici Spartani. Non molto tempo prima, infatti, gli efori avevano decretato la fine delle decarchie, i governi di dieci uomini istituiti da Lisandro nelle città entrate nell’orbita spartana dopo la fine del conflitto peloponnesiaco e venuti quasi subito in odio agli abitanti[22]. Evidentemente Lisandro sperava di riattivare le sue clientele con l’intervento in Asia e di portare nuovamente al potere i suoi fedeli, contando sulla giustificazione dello stato di guerra aperta: il fatto che, oltre a spingere Agesilao verso il comando, egli riservasse un posto per sé al vertice della forza impiegata nella missione non lascia dubbi al riguardo[23]. Comunque sia, la campagna asiatica era destinata a deludere fin dal primo momento tutti i suoi fautori. Il primo spiacere per Sparta, ma soprattutto per Agesilao, fu la scarsa presa che la retorica panellenica ebbe sugli altri Greci; ancora peggiore fu però lo smacco subito dalle autorità spartane in occasione dell’inaugurazione ufficiale della spedizione. Agesilao, riunito il proprio contingente, aveva deciso di celebrare un sacrificio propiziatorio in Aulide, con una scelta che può apparire ingenua o presuntuosa, ma che fu in ogni caso un eloquente messaggio “panellenico”: l’Aulide, in territorio beotico, era la base attribuita dal mito alla prima grande spedizione di tutti i Greci contro il continente asiatico, quella di Agamennone contro Troia; riproducendo le stesse condizioni di partenza, il re spartano chiedeva implicitamente ai suoi connazionali di lasciare da parte le divisioni interne per rinnovare i fasti di quella grande impresa, sotto la guida di Sparta e in nome della comune identità culturale. Ma egli non fa in tempo a completare il sacrificio che i beotarchi (magistratura della Beozia) intervengono e interrompono a metà la cerimonia. Possediamo due versioni leggermente differenti dell’episodio: nelle Ellenichedi Senofonte (III, 4, 3–4) l’azione dei magistrati non riceve una motivazione esplicita, mentre Plutarco (Vita di Agesilao VI, 6-11) sottolinea che Agesilao, compiendo personalmente il sacrificio, aveva prevaricato i diritti dei propri alleati e provocato la reazione dei beotarchi. Come che sia, il gesto di questi ultimi è di una gravità troppo evidente perché lo si possa attribuire solo al comportamento di Agesilao: è chiaro che Tebe non gradiva né la politica né la retorica spartana, e con questo contrasto diplomatico scopriva senza remore la propria disapprovazione di fronte al potente alleato. Agesilao lascia la Beozia turbato dall’infausto presagio e carico di un odio verso i Tebani che la tradizione antica definisce concordemente inestinguibile[24]; predisposto alla partenza il contingente nel porto di Gerasto, salpa alla volta dell’Asia.
Pittore di Dario. Combattimento fra Greci e Persiani. Pittura vascolare da un 𝑘𝑟𝑎𝑡𝑒𝑟 apulo a figure rosse, IV sec. a.C. da Canosa di Puglia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Lo sbarco e l’insediamento nella base di Efeso, anziché tranquillizzare il re, gli offrono nuovi motivi d’inquietudine: Lisandro, che in Asia ha vecchi compagni e clienti fedeli, monopolizza l’attenzione di tutti i referenti greci e mette ovviamente in ombra le autorità presenti, Agesilao compreso. È a questo punto che si consuma la rottura fra questi e il suo mentore: Agesilao, esasperato dal ruolo di comprimario cui Lisandro lo relega, comincia a ostacolarne i favoriti e a dare segni sempre più manifesti di ostilità, finché l’attrito tra i due non sfocia in un diverbio pubblico e nell’inevitabile allontanamento di Lisandro da Efeso[25]. Bisogna rendere giustizia alle fonti greche, che individuano nei dissapori personali, nella fiera gelosia del primato da parte di Agesilao e nel suo conseguente comportamento stizzoso le ragioni del dissidio: l’aspetto caratteriale pesò certo non poco nella vicenda. A un osservatore attento non dovrebbe comunque sfuggire come questo distacco non solo impediente, ma anche sensibilmente diversa da quella del suo protettore di un tempo: se Lisandro aveva usato il suo prestigio e i suoi appoggi ingaggiando vere e proprie prove di forza con i circoli più conservativi della politica spartana, Agesilao persegue piuttosto lo scopo di conciliarsi le autorità, ostentando più volte obbedienza agli ordini e inserendosi, per quanto possibile, nel solco della tradizione; inoltre, se il primo aveva approfittato del prestigio accumulato in guerra per instaurare regimi contestati come le decarchie, il secondo ama richiamarsi alle sirene del panellenismo che, a dispetto di una politica contraddittoria di Sparta e di gravi incongruenze da parte dello stesso Agesilao, susciteranno alcune simpatie nella Grecia dell’epoca e non solo. In breve: l’ipotesi che Agesilao avesse colto il momento opportuno per sganciarsi dall’orbita lisandrea e imboccare una propria via in politica va tenuta nella debita considerazione. Ormai libero da vincoli e padrone della forza stanziata in Asia, Agesilao predispone le operazioni con freschezza ed energia rimarchevoli in un uomo ormai vicino alla cinquantina. Dato che era stato già stipulato un armistizio con Tissaferne, il potente satrapo di Caria con il quale dovrà scontrarsi[26], cerca di preparare al meglio l’esercito; quando l’avversario dimostra di sfruttare la tregua per acquisire nuove forze, reagisce efficacemente e senza scomporsi per il comportamento fraudolento del Persiano.
Farnabazo II, satrapo di Cilicia. Statere, Tarsos, 380-373 a.C. ca. 𝐴𝑟. 10, 78 gr. 𝑅𝑒𝑐𝑡𝑜: BLTRZ; Il dio Baaltars assiso, voltato a sinistra, con scettro nella destra.
Con l’invasione della Frigia inaspettata per il nemico riesce a razziare indisturbato una gran quantità di beni e con gli uomini a sua disposizione ottiene una serie di successi strategici, senza però poter indurre l’avversario a un confronto in campo aperto[27]. Attraverso un saggio sistema di reclutamento, rimedia in qualche modo alla mancanza di forze a cavallo e, tornato a Efeso nella primavera del 395 a.C. fa della città la sua base; da qui invade la piana del Meandro, sorprendendo nuovamente i Persiani, e con sortite occasionali procede fino alla regione circostante Sardi[28]. Qui ottiene anche il maggior successo militare della campagna, mettendo in fuga le truppe avversarie in prossimità del fiume Pattolo e impadronendosi dell’accampamento dei nemici e di un considerevole bottino[29]: lo smacco subito e l’inimicizia della madre del re Parisatide procurarono al satrapo Tissaferne la perdita del potere e della vita per ordine di Artaserse, che invia al suo posto Titrauste[30]. Mentre questi si insedia nei suoi nuovi territori, Agesilao continua la sua campagna; a seguito di un momentaneo accordo di non belligeranza con Titrauste, attacca la Frigia, conseguendo anche in questo caso piccoli vantaggi tattici che inducono alla tregua il satrapo della regione Farnabazo (394 a.C.)[31]. A questo punto però la sua impresa viene interrotta dall’ingiunzione di tornare in patria, arrivata dalla Grecia con un corriere urgente: l’opposizione antispartana, rinfocolata e dotata di mezzi dal denaro persiano, è ormai sfociata in una guerra aperta da parte di Atene, Argo, Tebe, Corinto e varie altre póleis[32]; dopo un insuccesso psicologicamente significativo presso le mura di Corinto (395 a.C.), che era costato la vita a Lisandro[33], Sparta aveva deciso di correre ai ripari e richiamare la forza impegnata in Asia, rinunciando così al progetto di “liberare” i Greci sottomessi al Gran Re.
I negoziati tra Agesilao e Farnabazo. Illustrazione da E. Ollier, 𝐶𝑎𝑠𝑠𝑒𝑙𝑙’𝑠 𝑖𝑙𝑙𝑢𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑒𝑑 𝑈𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎𝑙 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑦, I, London-Paris-New York 1882, 433.
Ligio al dovere, Agesilao si lascia alle spalle l’Asia e i sogni di gloria panellenica per tuffarsi in un conflitto che vede ancora una volta Greci contrapporsi ad altri Greci. Percorsa con straordinaria rapidità la strada che dall’Ellesponto arriva alla Tessaglia passando per la Macedonia, si trova coinvolto in qualche scaramuccia lungo la via e, ormai su terra greca, riesce con abilità a sconfiggere un contingente di cavalleria dei Tessali (estate 394 a.C.). Passato in Beozia, si trova di fronte a Coronea una cospicua forza militare composta da contingenti beotici, argivi e ateniesi, oltre che da distaccamenti di quasi tutte le città ostili a Sparta. Attaccata battaglia, si trova ben presto in condizioni di vantaggio tattico, dato che la sua ala destra ha sconfitto gli Argivi; anziché lasciare libero corso ai nemici Tebani, a loro volta vittoriosi sull’ala sinistra di Agesilao, rinnova lo scontro con questi e, dopo averne fiaccato la resistenza, si trova in possesso indiscusso della vittoria (agosto 394 a.C.)[34]. Lo scontro, che gli procura molte ferite, gli garantisce l’entrata nella storia e resterà l’apice della sua lunga carriera di stratega. […]
Dalla vittoria di Coronea alla vigilia della “pace del re”
[…] Dopo aver brillantemente portato a termine la battaglia, Agesilao fa mostra di magnanimità, rifiutandosi di violare l’impunità di quanti tra i nemici erano riusciti a rifugiarsi nel vicino tempio di Atena Itonia; l’atto gli vale le lodi dei contemporanei, riflesse nelle principali fonti a partire dalle Elleniche senofontee[35]. Dopo la vittoria, senza dubbio grande, ma tutt’altro che risolutiva, torna in patria; qui, a quanto pare, riesce a conservare le abitudini assunte prima della partenza per la spedizione e a consolidare, con tale atteggiamento, la posizione di prestigio conquistata a suon di vittorie militari. Alcune condizioni favoriscono la sua definitiva ascesa. Sparta non ha più Lisandro a cui guardare: il vincitore della guerra peloponnesiaca aveva chiuso la sua esistenza un anno prima (395 a.C.), presso le mura di Corinto. Neppure eventuali contrapposizioni con la casa regnante degli Agiadi si prospettavano come temibili: dopo l’esilio (tra il 395 e il 393 a.C.) di Pausania II, apparso troppo fiacco nelle sue azioni belliche, il giovane figlio di questi, Agesipoli, non poteva rappresentare un ostacolo significativo. Infine, Sparta si trovava immersa in un conflitto di proporzioni temibili contro buona parte delle póleis greche, e la guida di un generale già copertosi di gloria come Agesilao doveva essere fortemente desiderata da una vasta porzione della società spartana. Naturalmente Agesilao fa del suo meglio per arrogarsi il posto, provvidenzialmente vacante, di guida ideologica della città.
Battaglia di Coronea. Illustrazione di A. Hook.
La sua condotta ostentatamente modesta è semplicemente quello che la migliore tradizione spartana pretenderebbe da un sovrano, ma proprio questa circostanza enfatizza piuttosto che smorzare l’effetto positivo esercitato sui cittadini: non solo nomi infami del passato – Pausania I su tutti[36] –, anche esempi frequenti dalla contemporaneità dimostravano che, una volta staccatisi dal nido delle leggi licurghee, molti Spartani si affrancavano per sempre dai valori in seno ai quali erano stati nutriti e tornavano dal grande mondo inguaribilmente “delaconizzati”. Agesilao, ormai all’apice del suo successo come generale, deve dunque dimostrare che i lunghi soggiorni al di fuori del Peloponneso non hanno intaccato le virtù laboriosamente impresse in lui dall’agoghḗ né inoculato il pericoloso morbo della disobbedienza. Anche sotto quest’aspetto il suo successo è notevole, perché il suo stile di vita morigerato e il suo rispetto per i poteri costituiti gli aprono la strada per una posizione di preminenza assoluta. Il carattere e la formazione di Agesilao contribuiscono certo in maniera determinante a questo risultato, né si può dare torto alle fonti antiche che riconducono alla sua innata peithárcheia (“obbedienza ai superiori”) le molte dimostrazioni di modestia di questo periodo. D’altro canto, la convivenza politica si accompagna troppo manifestamente a quest’atteggiamento per credere che esso sia del tutto ingenuo e disinteressato. Sappiamo che l’influenza di Agesilao su Sparta tocca il suo punto più alto esattamente dopo il ritorno dall’Asia, e non è un segreto che il mezzo da lui prediletto per consolidare la propria posizione di preminenza in politica sia cercare l’accordo con gli efori e l’élite dirigente della città: quale via, allora, poteva condurre a quest’effetto più rapidamente che esibire dopo i più grandi successi il contegno della persona «che non abbia mai varcato l’Eurota»[37]? Plutarco ci riferisce anche che Agesilao avrebbe di proposito caldeggiato l’affidamento di missioni esterne ad alcuni dei suoi avversari, con lo scopo di denigrare la condotta nel caso – evidentemente non infrequente – che la vita fuori dei confini li avesse sviati dai costumi aviti; l’autorità di chi è rimasto immune alle lusinghe delle apodēmíai (“soggiorni fuori patria”) gli consegnava infatti questa efficace arma propagandistica. Ammissibilmente, la machiavellica idea di inviare all’estero i propri oppositori proprio per indurli in tentazione può essere una spiegazione post eventum, elaborata da Plutarco o dalla sua fonte e poi presentata come dato di fatto; ma le accuse contro gli spartiati “corrotti” dalla lontananza e il confronto col presente, ben differente, comportamento hanno l’aria di essere reali, e si inseriscono agevolmente nel quadro della tattica politica adottata all’epoca da Agesilao.
Il mondo greco nel 394 a.C. durante la Guerra di Corinto.
Pare, per altro, che in questi anni[38] gli si presenti l’occasione per chiudere definitivamente i conti col vecchio protettore Lisandro. Certo, l’amico di un tempo è morto, ma la memoria delle sue azioni è viva nella città e il circolo dei suoi fedelissimi può ancora contare su forze che Agesilao potrebbe temere. Così, secondo parte della tradizione antica[39], egli sarebbe pronto a rendere di pubblico dominio il libello sovversivo che Lisandro si fece scrivere da Cleone di Alicarnasso per indurre gli Spartani a un cambio costituzionale in direzione democratica, libello appena venuto alla luce tra le carte del defunto generale; solo l’intervento degli efori, che non vedrebbero di buon occhio la memoria di un tale simbolo bollata col marchio della rivoluzione, lo avrebbe distolto dal suo intento. Presentato in questo modo l’episodio è particolarmente favorevole ad Agesilao, la cui immagine di uomo ubbidiente si consolida una volta di più, per altro a detrimento del defunto Lisandro; tant’è che quest’ultimo, a dispetto dell’impegno profuso dagli efori, non è sfuggito alla condanna postuma della storia. Forse proprio per questo è legittimo sospettare che i fatti siano andati in maniera diversa, anche ammettendo che le accuse avanzate non discordino con alcune caratteristiche della figura di Lisandro[40]. Il collegio degli efori, che in questo periodo è probabilmente in armonia con Agesilao, potrebbe aver elaborato l’accusa senza avere basi materiali, rinnovando i fasti di calunnie post mortem non inedite a Sparta; persino il possesso del libello da parte di Lisandro, ammesso che un tale pamphlet esistesse davvero, aveva forse ragioni innocenti, oscurate dalla versione maligna diffusa sottobanco dalle autorità; infine; la mancata denuncia ufficiale può interpretarsi come mossa astuta del circolo vicino ad Agesilao, che a un tempo diffondeva su Lisandro il sospetto più infamante per uno spartiate e, confinando la vicenda alle voci senza conferma, si sottraeva abilmente a ogni contraddittorio. Comunque sia, Agesilao è in questo momento l’uomo più importante a Sparta, e forse – come affermò un suo quasi contemporaneo[41] – nella Grecia intera. Il modo più vantaggioso per spendere il credito acquisito è quello di impiegarlo sui campi di battaglia, e Agesilao, favorito dal protrarsi della guerra di Corinto, non tarda a calcare il terreno prediletto con la consueta energia. Sono anni di spedizioni aggressive contro gli avversari di Sparta o in favore dei suoi alleati, durante i quali la fiducia accordata al re guerriero viene continuamente rinnovata dalla città, nella speranza di piegare definitivamente l’opposizione degli altri Greci. A questo tentativo di risolvere la crisi armi alla mano si contrappone da subito, in seno alla politica spartana, il desiderio di procedere per vie diplomatiche venendo a patti con la Persia: alla fine sarà questa seconda strada a prevalere, ma nel frattempo la guerra continua.
Corinto. Tempio di Apollo. Ordine dorico, metà VI sec. a.C.
Tra il 391 e il 390 vengono allestite due spedizioni contro il cuore della guerra, Argo e Corinto[42], con le quali Agesilao si ripromette di spezzare l’unità territoriale creata dagli Argivi con la parte democratica dei Corinzi e di restituire la città agli oligarchi filo-spartani, espulsi dalla fazione prevalente. La pressione esercitata dal re sul territorio corinzio e la sua superiorità militare sugli avversari gli garantiscono alcuni risultati, comunque non decisivi. Tipico è, in questo senso, l’incidente delle Istmiche del 390 a.C. Dopo aver sorpreso gli Argivi intenti a organizzare la competizione istmica, Agesilao interrompe d’autorità i preparativi mettendo in fuga i nemici e affida agli esuli corinzi la celebrazione dell’agone panellenico, che ha effettivamente luogo; è però sufficiente che egli si allontani perché gli Argivi e i Corinzi democratici rinnovino i preparativi per la festa e celebrino la stessa per la seconda volta, lasciando alla posterità il poco edificante esempio di gare eseguite per due volte e vinte ora dalla stessa persona, ora da un atleta differente[43].
Il 390 è anche l’anno di una pesante débacle per gli Spartani, sulla quale Senofonte si dilunga nelle Elleniche[44]. È un disastro imprevedibile per Agesilao. Grazie a un abile uso degli armati alla leggera il condottiero ateniese Ificrate (attivo sul territorio corinzio assieme al collega Callia) attacca e fa letteralmente a pezzi un’intera divisione (móra) di spartiati, distaccatisi dal resto del contingente per scortare un gruppo di uomini che tornava in patria. Per Sparta il danno inflitto è considerevole, sia per la morte di molti cittadini dotati di pieno diritto (una élite drammaticamente piccola per numero di individui, ma vitale per lo Stato), sia sotto il profilo psicologico, compromettendo la fama di imbattibilità che i dominatori del Peloponneso amavano mettere sul tavolo in occasione di trattative diplomatiche[45]; esso, per altro, macchia l’intero sistema oplitico spartano con l’onta con la sconfitta contro i peltasti[46]. Per lo stesso Agesilao il colpo arriva estremamente inopportuno. Poco prima dell’evento degli ambasciatori si erano fatti avanti da Tebe e altre città, i primi con serie proposte di pace; ma il re spartano aveva ostentato indifferenza, mosso dall’odio contro Tebe – come vuole parte degli autori antichi – o semplicemente confidando di poter ottenere condizioni più vantaggiose se, rimanendo accampato presso Corinto, avesse conseguito un successo definitivo e liberato il proprio contingente per azioni nel resto della Grecia. L’inciampo che gli si era parato davanti all’improvviso vanificava le vittorie parziali ottenute in precedenza, come gli dimostrò immediatamente il mutato atteggiamento dell’ambasceria beotica; questa, ammessa finalmente per un abboccamento (forse nella speranza che non fosse informato del disastro della móra), accantonò subito il tema della pace, chiedendo invece di essere condotta a Corinto. Agesilao tenta di rimediare all’incidente con una prova di forza, devastando alla presenza degli ambasciatori il territorio corinzio e dimostrando che anche il provvisorio successo di Callia e Ificrate non aveva né cambiato i rapporti tra le forze in campo né risollevato gli occupanti di Corinto dal timore che essi nutrivano per gli Spartani; dopo non molto, tuttavia, egli lascia un distaccamento a guardia del territorio e ritorna a Sparta senza aver dato al conflitto un esito decisivo. Nei due anni successivi (389-388 a.C.) l’attività militare di Agesilao si rivolge a una regione periferica, l’Acarnania, dove egli interviene su richiesta degli Achei. L’azione non ha più un collegamento diretto con la guerra di Corinto – che non è conclusa[47] –, ma non si può considerare slegata dal conflitto in corso, visto che gli Acarnani sono alleati dei Beoti e degli Ateniesi e hanno ottenuto da questi ultimi delle forze di supporto; essa persegue poi lo scopo, non meno importante, di consolidare la fiducia di un alleato, e fa fede dell’impegno spartano di fungere da arbitro – non imparziale – dei conflitti sull’intero scacchiere greco. Gli eventi di questi anni dimostrano infatti che Sparta consuma uomini e risorse in simili imprese per consolidare ideologicamente il ruolo di forza egemone del quale l’esito della guerra del Peloponneso l’aveva investita: una tale motivazione resta probabile per la spedizione in Acarnania anche se si accetta che gli Achei abbiano ottenuto l’aiuto richiesto con il velato ricatto di abbandonare l’alleanza spartana. La spedizione – che si esaurisce in pratica nel saccheggio del territorio avversario – si conclude senza soddisfare gli Achei, scontentati anche dalla decisione di Agesilao di tornare in patria piuttosto che rimanere e impedire agli Acarnani la semina dei campi. L’impresa raggiunge comunque la conclusione sperata: con la primavera successiva (388 a.C.) si allestisce a Sparta un’ulteriore spedizione affidata ad Agesilao, alla qual notizia gli Acarnani, per timore di restare privati del raccolto per il secondo anno di seguito, accondiscendono alle condizioni dettate dagli Achei ed entrano nell’alleanza spartana. […]
La “pace del re”
Dalle fonti non ci arriva notizia esplicita di contestazioni della dirigenza spartana contro Agesilao; tuttavia è chiaro dagli eventi di questi anni e dallo stesso emergere di uomini opposti a lui per tendenza politica che al sua azione non soddisfaceva e che la fede nella risoluzione dei problemi diplomatici con la Machtpolitik non era grande. Ad anni di distanza dall’inizio della guerra di Corinto, Sparta assisteva all’assedio ostile di buona parte del mondo greco, alla rinnovata ascesa di Atene – che dopo l’annichilimento della guerra del Peloponneso aveva recuperato mura, flotta e parte degli alleati –, alla irrecuperabile perdita della supremazia sul mare per via della flotta messa a disposizione di Conone dalla Persia: troppo, perché non si cercassero soluzioni alternative alla politica belligerante di cui Agesilao era interprete e, probabilmente, fautore. La radice del problema era il Gran Re, il cui oro aveva dato forza al partito anti-spartano in Grecia e le cui navi avevano frantumato le fragili ambizioni della flotta spartana, formatasi d’altronde proprio grazie ai fondi del “Barbaro”. Non desta allora stupore la mossa di riallacciare i rapporti dinamici con la Persia, compromessi dai tempi dell’impegno in Asia, tanto più che la chimera di una guerra contro di essa si era dissolta nel momento stesso in cui Agesilao era stato richiamato in Grecia.
Combattimento tra cavalieri e fanti. Rilievo, pietra locale, 375-360 a.C. c. dal sarcofago della Tomba di Payava, da Xanthos, Lycia. London, British Museum.
L’uomo del momento è Antalcida, un avversario politico di Agesilao che già in passato (392 a.C.) aveva tentato di disarmare la ribellione dei Greci riportando la Persia dalla parte di Sparta; all’epoca egli, recatosi a Sardi, aveva intavolato delle trattative con il satrapo Tiribazo, promettendo da parte di Sparta la completa rinuncia alla difesa delle città greche d’Asia; l’interlocutore persiano era rimasto più che soddisfatto della proposta e aveva cercato di intercedere col gran re Artaserse, ma l’intervento di diplomatici tebani e ateniesi e vari altri fattori avevano mandato a monte la trattativa[48]. Adesso, dopo alcune scaltre manovre nell’Ellesponto, Antalcida esibisce nuovamente la sua proposta, tramite il medesimo mediatore, al re persiano, e lo persuade che proporsi come arbitro della pace tra i Greci sia più conveniente che finanziare una delle due fazioni combattenti (387/86 a.C.); la contropartita che lo Spartano offre al sovrano è, come nel 392 a.C., il diritto di disporre a piacimento delle città greche d’Asia, alla cui difesa per fini di prestigio Sparta è costretta a rinunciare dalle difficoltà in Grecia. Il re accetta, probabilmente convinto che soffocare le rinascenti ambizioni imperiali degli Ateniesi tramite Sparta sia la scelta più vantaggiosa, e con effetto pressoché immediato la sua decisione segna la fine del conflitto di Corinto: la fazione anti-spartana perde mordente e quasi da subito le parti in causa si affaticano nel dimostrare di aderire al principio, sancito nelle condizioni di pace, che «tutti lascino in autonomia le città». Sparta si è così divincolata dalle tenaglie della guerra a prezzo di una colossale disfatta ideologica, avendo lasciato nelle mani dei “barbari” le città asiatiche che Atene, al tempo del suo Impero, aveva molto meglio protetto. Gli anni successivi dimostrano che questa scelta spiana la strada alla propaganda degli avversari[49], ma per il momento il predominio dello Stato lacedemone sulla Grecia è riaffermato imperiosamente e con la clausola sull’autonomia è stata sottratta agli avversari più pericolosi, come i Tebani, la libertà di organizzarsi in blocchi potenzialmente minacciosi; Sparta stessa, spalleggiata dalla Persia, è ben lungi da applicare a se stessa il principio rinunciando al dominio sulla Messenia. Molti elementi della cosiddetta “pace del re” (o “pace di Antalcida”) dovevano risultare sgraditi ad Agesilao, che oltre ad assistere impotente al successo diplomatico del suo avversario Antalcida, vedeva cadere miseramente molti dei capisaldi della sua politica: la retorica panellenica che aveva inaugurato la spedizione in Asia; la speranza di raccogliere gloria militare con grandi imprese, in Grecia o fuori; l’insistenza sulla necessità di risolvere militarmente i guai di Sparta con gli altri Greci. Pare comunque che egli abbia, ancora una volta, pronunciato il personale “obbedisco” e accettato una soluzione alla quale non poteva opporre nulla di sostanziale: poco tempo dopo il raggiungimento dell’accordo fra Artaserse e Antalcida lo troviamo attivo in difesa della clausola sull’autonomia, della quale impone orgogliosamente il rispetto a Tebe (386 a.C.). Anche per quest’episodio affiora nelle fonti il fondato sospetto che, quale che fosse il pensiero di Agesilao sulla soluzione “diplomatica” alla guerra, i danni inflitti alla potenza tebana dalle condizioni di pace lo abbiano persuaso a farsene entusiasta avvocato; certamente il suo comportamento tronfio e aggressivo verso gli ambasciatori tebani si spiega al meglio così. Vero è anche che l’obbligo di autonomia sembra studiato appositamente non solo per ostacolare la ricostruzione dell’Impero ateniese – un evento che era ormai nell’aria, temuto da Sparta e dalla Persia in egual misura – , ma anche per neutralizzare in Tebe il più tenace avversario della guerra di Corinto: in quanto tale esso doveva far parte anche del piano originale di Antalcida, tant’è che le trattative del 392 erano naufragate proprio per l’opposizione di Tebani e Ateniesi a questa condizione[50]; ciò dimostra che l’ostilità fra Sparta e Tebe ha ragioni più profonde che il risentimento e le antipatie personali di uno dei re spartani. […]
La Grecia, anche dopo la pacificazione forzata, ferve di odio contro Sparta; tuttavia l’appoggio persiano consente alla città dell’Eurota di controllare la situazione senza eccessive angosce, con interventi mirati sui punti nevralgici per il mantenimento del predominio. Praticamente per un quinquennio il fuoco dell’insoddisfazione greca cova sotto le ceneri. Sparta agisce con un risoluto attivismo militare al manifestarsi del minimo segno di insubordinazione: nel 385 a.C. a Mantinea, venuta in sospetto al regime, viene immediatamente sottratta ogni possibilità di nuocere con la dissoluzione della pólis in piccole città separate; in questa occasione Agesilao rifiuta il comando dell’operazione in quanto legato da un rapporto di ospitalità con la città attaccata, e la missione viene affidata al re Agesipoli[51]. Poco dopo il sorgere di una forza potenzialmente ostile in Olinto viene ugualmente stroncato con le armi, anche se l’impresa impegna l’esercito di Spartani e alleati per un tempo maggiore (382-379 a.C.)[52]. Agesilao è impegnato in questo tempo nel tentativo di instaurare un governo oligarchico a Fliunte, sfociato poi nel 382/81 a.C. in un assedio che si concluderà, circa due anni più tardi, con la capitolazione della città[53]. Tra la fine di questo decennio e l’inizio del successivo due eventi gravidi di conseguenze scuotono l’opinione pubblica greca con notevole danno per Sparta, e in entrambi Agesilao, pur non giocando un ruolo di primo piano nelle azioni, dimostra nella gestione delle conseguenze una significativa mancanza di tatto.
Generale spartano. Illustrazione di A. Slapsys.
È il 382 quando lo spartiate Febida, alla guida di un contingente destinato a rafforzare le forze stanziate per l’intervento in Grecia settentrionale contro Olinto, raccoglie l’invito di alcuni Tebani filo-oligarchici e occupa a sorpresa la Cadmea o rocca di Tebe; dall’acropoli era possibile tenere in scacco l’intera città, che veniva così ridotta all’arbitrio dello Spartano e dei Tebani a lui favorevoli. Il colpo di mano, compiuto in un momento di pace e in patente spregio del diritto internazionale, suscita una forte opposizione anche nella stessa Sparta, dove si levano accuse gravi contro Febida e la sua nociva intraprendenza[54]. Per avere un’idea della portata dell’evento basti pensare che quando, a distanza di molti anni, il filo-spartano Senofonte riferisce delle conseguenze di questo atto, egli è costretto a qualificarlo come empio e contrario a tutti i principi di correttezza, tale insomma da attirare su Sparta la giusta vendetta degli dèi attraverso lo strumento di Tebe[55]. Tuttavia Agesilao, di fronte all’assemblea chiamata a decidere sul tema, suggerisce ai concittadini di valutare i vantaggi provenienti dall’occupazione prima di pronunciare una condanna sull’uomo e – con cavillosa interpretazione dell’accusa – protesta che per procurare un bene alla patria «si può ben improvvisare»[56]. Dopo di lui arringa i presenti il tebano Leontiade, che ha invitato Febida all’occupazione per accettare l’annullamento dell’atto; sono forse le sue fredde considerazioni sulla convenienza strategica di una Tebe sottomessa a convincere gli Spartani alla ratifica della situazione, ma questo non cancella le colpe di Agesilao, il cui parere orienta certo l’assemblea in maniera determinante. Sparta mantiene la guarnigione sull’acropoli e aiuta Leontiade a installare un governo oligarchico che fa subito le prime vittime tra gli oppositori, e che si sgretolerà dopo due anni tra il plauso generale dei Greci. Non c’è quasi bisogno di dire come buona parte della tradizione antica motivi lo sconcertante intervento di Agesilao: odio contro Tebe. Mai come in questo caso si è tentati di accettare incondizionatamente la spiegazione psicologica, tanto avventato fu l’avvallo dell’azione di Febida: che le ragioni esposte davanti all’assemblea spartana da Leontiade fossero intimamente sentite anche da Agesilao, e che egli giudicasse opportuno tenere Tebe sotto controllo a qualsiasi costo, è perfettamente possibile, ma nel volgere di pochi anni le conseguenze di questa prepotenza dimostreranno che un simile calcolo era lontanissimo dal cogliere il bene di Sparta. Se diamo valore alla testimonianza di Plutarco[57], il sospetto che Agesilao sia stato addirittura il promotore occulto dell’impresa circolava già all’epoca dei fatti, corroborato dalla proverbiale ostilità contro lo Stato beotico; tuttavia il racconto di Senofonte, che qui non sembra deformato dalla tendenziosità in favore di Sparta[58], è esplicito nell’affermare che servì l’appello di Leontiade perché Febida si convincesse dell’impresa[59]; essa quindi fu improvvisata sul momento. Non passa molto tempo e una seconda grave macchia intacca il prestigio spartano, rovinando, dopo quelli con Tebe, anche i rapporti con Atene. Nel 379 a.C. la Cadmea era stata liberata da un piccolo gruppo di esuli che, grazie al celato sostegno di Atene, avevano espulso la guarnigione spartana e restaurarono in città la democrazia; subito dopo l’evento una spedizione affidata da Sparta al re Cleombroto avrebbe dovuto punire Tebe per il suo atto, ma si concluse con un imbarazzante nulla di fatto[60]. È allora che lo spartiata Sfodria, armosta lasciato a Tespie da Cleombroto, decide di propria iniziativa di tentare un colpo analogo a quello di Febida, occupando senza preavviso il Pireo: la ricostruzione delle mura del porto da parte degli Ateniesi aveva fin da subito innervosito gli Spartani, e Sfodria sperava evidentemente di rendersi benemerito verso la città annullando a modo suo questo problema. La scelta è così malaugurata che secondo il racconto delle Elleniche di Senofonte fu addirittura ispirata dai Tebani, desiderosi di screditare Sparta, e viene messa in atto in maniera così maldestra che il fallimento è totale: per un errore sui tempi di marcia Sfodria manca di cogliere di sorpresa gli Ateniesi, e deve ritirarsi senza altro risultato che quello di aver palesato le proprie intenzioni ostili. Atene, che dopo il rientro degli esuli tebani aveva ostentato solidarietà con Sparta[61], ha ora solide ragioni per convertirsi a una politica anti-spartana. A Sparta Sfodria è atteso – e non potrebbe essere altrimenti – da un processo, dato che gli Spartani non hanno alcun interesse a mostrarsi così incuranti del diritto internazionale senza ricavarne neppure un qualche vantaggio. La condanna a morte appare tanto più sicura in quanto lo stesso Agesilao appartiene al partito politico ostile all’uomo[62], ma è proprio dal re che, a sorpresa, arriva un’apertura che gli salva la vita. Le cause sono puramente personali: il figlio di Agesilao[63], legato da un rapporto omoerotico con quello di Sfodria, intercede presso il padre e ottiene che questi muova la propria clientela per evitare la condanna. […] Ciò non fa che amplificare l’enormità del suo sbaglio, visto che il trattamento di favore concesso a Sfodria porta definitivamente gli Ateniesi, furenti per il torto subito, dalla parte dei Tebani[64]. Ad Atene si allestisce il Pireo per la difesa, si preparano navi e si fanno convergere tutti gli sforzi verso il supporto a Tebe. Passa meno di un anno e la creazione della seconda lega navale ateniese ripresenta a Sparta lo spettro di un Impero sul mare da fronteggiare con enorme dispendio di energia e di uomini. Visto l’atteggiamento degli ultimi tempi, non resta che una possibilità, ed è la risposta contro le armi. Nei due anni successivi […] (378 e 377) vengono messe in atto due ulteriori spedizioni contro Tebe, affidate naturalmente ad Agesilao e conclusesi in maniera frustrante per gli Spartani, che non sono capaci di obbligare gli avversari a un confronto decisivo. Durante il ritorno dalla missione del 377 Agesilao è colto da un ascesso alla gamba sana, che ne mette in immediato pericolo la vita e lo rende invalido per le azioni militari: non più giovane, si asterrà dai combattimenti per molto tempo; è così che la spedizione contro Tebe dell’anno successivo, persino meno fruttuosa delle precedenti, viene affidata all’altro re, Cleombroto.
Battaglia di Leuttra. Illustrazione di J. Shumate.
Gli anni trascorsi da Agesilao lontano dai campi di battaglia vedono Sparta nuovamente impegnata in un conflitto dalle sorti alterne in differenti zone della Grecia, che pare finalmente vicino a una conclusione quando, su iniziativa ateniese, si arriva a una conferenza di pace a Sparta (371 a.C.). Atene guarda ormai con sospetto all’accrescersi della potenza tebana, e ha intuito che con Sparta si può trattare, a patto di giocare sull’elasticità del concetto di “pace” comune: si offre la fine delle ostilità e si chiede in cambio la revoca degli armosti e il richiamo dei contingenti militari; si riafferma inoltre la clausola, gradita allo Stato lacedemone, che le città greche siano lasciate indipendenti. Gli Spartani accettano e, al solito, depositano un giuramento per sé e per gli alleati come se il principio di autonomia non li riguardasse. Gli Ateniesi, più fedeli alla lettera del patto, giurano per sé soli, lasciando agli alleati la possibilità di fare altrettanto: questo perché la seconda lega navale, che concede formale indipendenza a tutti i membri pur avendo il fulcro in Atene, non è un organismo contrario alla clausola dell’autonomia. In un primo momento anche Tebe fa mosse di giurare per proprio conto e lasciare agli altri Beoti la scelta su di sé; poi però, con un atto che equivale a una dichiarazione di guerra, chiede di farlo in nome di tutta la comunità beotica. Agesilao, presenta alla ratifica degli accordi, raccoglie la provocazione e minaccia i Tebani con l’esclusione dalla tregua, ciò che era d’altronde inevitabile per il peso attribuito da Sparta al principio messo in discussione. L’assemblea spartana, convocata poco dopo, dimostra di condividere a pieno i sentimenti del vecchio re e invia ordini a Cleombroto perché lasciata la Focide, dov’era di stanza, invada immediatamente la Beozia e riduca gli avversari a più miti consigli. L’ennesimo ricorso alle armi non è destinato a concludersi con un nuovo pareggio. In prossimità di Leuttra la superiore tattica dei Tebani guidati da Epaminonda spazza via Cleombroto e buona parte dei preziosi spartiati che lo avevano seguito, mettendo fine alla trentennale egemonia spartana e assestando il colpo mortale allo Stato lacedemone (371 a.C.)[65]. […]
Gli ultimi anni
La sconfitta di Leuttra decreta il collasso del sistema di potere faticosamente sostenuto da Sparta a partire dalla vittoria nella guerra del Peloponneso, con gli alleati meno convinti che si distaccano progressivamente o entrano in aperto conflitto e i Tebani che si apprestano a ridurre i nemici a uno stato di totale inoffensività. Unica consolazione per Sparta è il fatto che Atene decide di non infierire sull’antica avversaria e, col tempo, diventerà una discreta alleata – non senza qualche atteggiamento contraddittorio – in funzione anti-tebana. All’indomani della catastrofe (371 a.C.) Agesilao è ancora troppo debole per poter partecipare alla spedizione con la quale Sparta si affretta – invano – a salvare il salvabile; si affida perciò il comando a suo figlio Archidamo[66]. L’anno successivo (370 a.C.), ristabilitosi, è impegnato a impedire il riformarsi di un centro politico ostile nel cuore del Peloponneso, in quella Mantinea della quale Sparta aveva dissolto l’unità territoriale una quindicina d’anni prima; la forza, ma soprattutto l’impressione prodotta sugli avversari della potenza spartana non sono più sufficienti a sostenere una simile impresa, che fallisce e, quel che è peggio, attira nel Peloponneso l’esercito tebano. Gli Arcadi hanno, infatti, capito che il mezzo più sicuro per contrastare l’aggressione spartana è l’alleanza con lo Stato beotico[67]. Agesilao si vede così protagonista dell’estrema difesa di Sparta contro i soldati tebani, penetrati a fondo nella Laconia – fatto inaudito – sotto la guida di Epaminonda (370/69 a.C.). Se la città, che per mancanza di mura è alla mercé dei nemici, riesce a salvarsi, il merito è del sangue freddo ed del talento organizzativo del suo vecchio re; nel momento di maggior pericolo egli trova anche la forza d’animo sufficiente a spegnere le prime scintille di una sedizione con un intervento discreto ma deciso. Rallegrarsi della salvezza materiale di Sparta è un lusso che l’azione risoluta di Epaminonda non lascia ad Agesilao: dopo essersi allontanato dalla città il generale tebano punta sulla Messenia e affranca questa regione dalla secolare sottomissione a Sparta, in modo da sottrarre ai nemici le forze residue scardinandone la struttura sociale (primavera 369 a.C.). Come Epaminonda aveva previsto, la perdita della forza lavoro rappresentata dagli iloti messenici precipita lo Stato lacedemone nella sua crisi più profonda, ingigantita dopo poco da una seconda invasione beotica. Sparta si salva anche questa volta, ma è in agonia.
Archidamo III di Sparta. Busto, marmo bianco. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Gli anni successivi vedono Tebe, padrona del campo, invadere per due volte il Peloponneso, mentre la città dell’Eurota è disperatamente impegnata nel tentativo di recuperare la perduta potenza e ostinatamente decisa a respingere qualsiasi proposta di pace che imponga la rinuncia alla Messenia. La seconda circostanza accresce fatalmente l’isolamento di Sparta.
Per Agesilao si possono registrare alcune azioni significative e, soprattutto, una dedizione alla causa patria e un senso del sacrificio personale decisamente ammirevoli. Nel 367 a.C. impiega il suo prestigio diplomatico in una vicenda asiatica, intervenendo in favore del satrapo di Frigia, Ariobarzane, allora in contrasto con il Gran Re. La missione è un successo: l’influsso del re spartano dissuade i fedeli del gran re, tra cui Mausolo di Alicarnasso e il re dei traci Odrisi, Kotys, da azioni contro il ribelle, e questo nonostante gli ottimi rapporti che allora intercorrono tra i Tebani e il Gran Re. Il ricco premio in denaro riscosso per il suo impegno gli consentì, una volta tornato in patria, di risollevare una Sparta ormai disorientata[68]. Agesilao difende nuovamente la patria in occasione della quarta invasione del Peloponneso da parte dei Tebani, poco prima della battaglia di Mantinea (362 a.C.); anche in questo caso la sua saggia tattica preserva la città dalla rovina[69]. La battaglia di Mantinea non vede la sua partecipazione, ma egli è il primo a opporsi alla pace, che comporterebbe per Sparta la rinuncia alle ambizioni di possesso sulla Messenia. L’atto conclusivo della vita di Agesilao è una spedizione in favore di Teos, sovrano dell’Egitto per un breve tempo in anni di complessi movimenti in tutto l’Oriente. Questi si era ribellato al potere del re di Persia e, cercando supporto nella sua guerra per il primato, aveva chiamato a sé personaggi come l’ateniese Cabria, allora esule, e lo stesso Agesilao. Per Sparta lo scopo di questa missione è manifestamente quello di procurarsi fondi nella disperata condizione economica in cui l’aveva precipitata la perdita della Messenia[70]. La spedizione egiziana fa molto onore ad Agesilao, che per il bene della patria si accolla gli oneri di una spedizione mercenaria in età avanzata, meno a Sparta, che svende i gioielli dell’educazione militare al primo offerente perché incapace di adattarsi alla perdita della Messenia e di trovare un sistema di sostentamento alternativo allo sfruttamento degli iloti.
Nectanebo II. Testa, grovacca, Periodo tardo, XXX dinastia (380-332 a.C.). Lyon, Musée des beaux-arts
Agesilao si fa valere come stratega, ma tiene un comportamento inqualificabile: forse deluso dalla scarsa attenzione riservatagli dal committente, lo abbandona a guerra in corso e passa improvvisamente dalla parte del cugino di questi, Nectanebo II, che sostiene militarmente con un certo successo; il re, soddisfatto, lo lascia andare con ricche prebende, destinate a dare respiro a una Sparta in bancarotta. Di ritorno dalla spedizione egiziana, Agesilao si spegne sulla costa della Libia e da qui il suo corpo viene ricondotto in patria, cosparso di cera affinché si conservi durante il viaggio (circa 360 a.C.); a Sparta egli ricevette sicuramente gli onori straordinari tributati in questa città ai re morti, in pomposi funerali che, possiamo ben immaginare, furono malinconici come mai altri nella pólis di Licurgo.
[3] L’infermità, ancorché visibile, non poteva essere grave, perché gli autori antichi affermano concordemente che Agesilao completò con successo il percorso educativo tipico per i giovani spartani: una riuscita in un contesto in cui la fisicità giocava un ruolo tanto importante è impensabile per una persona parzialmente inabile.
[6] Da Plutarco, Vita di Agesilao II 1 ricaviamo che Lisandro aveva il ruolo di amante (erastḗs), riservato al più anziano della coppia; sempre secondo Plutarco, il rapporto iniziò mentre Agesilao era educato tra i ragazzi, quindi adolescente.
[13] Sull’influenza degli efori nelle questioni sulla genuinità di uno dei sovrani cfr. Platone, Alcibiade 121b–c. Un’analisi moderna del tema è in Luria S., op.cit., pp. 406 sgg.
[22] Cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 2; Plutarco, Vita di Lisandro XXI 2-3.
[23] L’interpretazione è già in Senofonte, Elleniche III 4, 2-3.
[24] Cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 4; Plutarco, Vita di Agesilao VI 11.
[25] Sulla lite tra Agesilao e Lisandro cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 7-10; Plutarco, Vita di Agesilao VII 1-8, 6; Vita di Lisandro XXIII 5-XXIV 2.
[26] L’armistizio precede la lite con Lisandro, cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 5-6.
[27] Sull’attacco alla Frigia cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 11-15; Diodoro, XIV 79, 3.
[28] Sulla campagna nella regione di Sardi cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 20-29; Elleniche di Ossirinco 11-13; Diodoro, XIV 80, 1.
[29] Sulle differenze tra il racconto di Senofonte e quello degli altri autori limitatamente alla battaglia del Pattolo, cfr. Luppino Manes E., op.cit., pp. 125-126.
[30] Sulla sostituzione e morte di Tissaferne cfr. Senofonte, Elleniche III 4, 25; Diodoro, XIV 80, 6-8; Plutarco, Vita di Agesilao X 5-7; Vita di Artaserse XXIII 1.
[31] Cfr. Senofonte, Elleniche IV 1, 1-41; Elleniche di Ossirinco 24; Diodoro, XIV 80, 8; Plutarco, Vita di Agesilao XI 1-12, 7.
[32] Cfr. Senofonte, Elleniche IV 2, 1-8; Diodoro, XIV 83, 1; Plutarco, Vita di Agesilao XV 1-8.
[33] Cfr. Senofonte, Elleniche III 5, 6; Diodoro, XIV 81, 2; Plutarco, Vita di Lisandro XXVIII 1-12.
[34] cfr. Senofonte, Elleniche IV 3, 3-9; Plutarco, Vita di Agesilao XVI 5-8.
[38] Plutarco (Vita di Agesilao XX 3) colloca l’evento tra la battaglia di Coronea e la spedizione contro Argo e Corinto del 391 e 390 a.C. Dalle altre fonti non si può dedurre un’indicazione concreta sulla data.
[39] Plutarco, Vita di Agesilao XX 3-7; Vita di Lisandro XXV 1; 30, 3; Cornelio Nepote, Vita Lysandri V 3; Diodoro, XIV 13, 1-8.
[40] Plutarco, Vita di Lisandro XXIV 1-XXVI 6 attribuisce a Lisandro una congiura di proporzioni colossali, preparata dal generale fin nei minimi particolari: alcuni elementi nel suo racconto non possono essere frutto di invenzioni malevole. Uomo notoriamente ambizioso, Lisandro vedeva un limite alle sue possibilità di successo politico nel suo status di semplice spartiate, perché il comando supremo e la massima autorità in guerra erano a Sparta prerogative dei soli re. Né grande doveva essere la sua affezione per il kósmos licurgheo: la sua grande vittoria sugli Ateniesi era stata conseguita con mezzi che nessuno avrebbe detto tipici della tradizione spartana, dalla preponderanza concessa al conflitto per mare e di logoramento rispetto alle battaglie terrestri e “agonali” fino alla manipolazione di ingenti capitali provenienti dalla Persia (si questi temi resta sempre ammirevole la sintesi di Berve H, op.cit., pp. 175-185). Si aggiunga che, dopo l’incidente in Asia, egli si vedeva privato del sostegno di Agesilao, trasformatosi da amico in avversario, e costretto a recuperare terreno dopo evidenti segni di ostilità da parte delle autorità. Infine, la congiura di Cinadone faceva pensare che a Sparta fossero attivi i fermenti per un mutamento radicale dell’ordine costituito. Giocare la carta della rivoluzione a questo punto avrebbe avuto senso, anche se bisogna ammettere che una simile azione, portata avanti in maniera tanto clamorosa, sembrerebbe in contrasto con la prudenza usualmente dimostrata da Lisandro.
[41] Teopompo di Chio (FGrH 115 F 231). Plutarco cita questa affermazione nel corso della descrizione della campagna asiatica di Agesilao (395/94 a.C.); è probabile che già nell’originale una tale considerazione si riferisse al prestigio di Agesilao nel periodo immediatamente precedente o successivo alla battaglia di Coronea.
[42] La prima spedizione, che aveva come obiettivo primario Argo, si concluse con una devastazione del territorio corinzio. La seconda era fin dall’inizio rivolta contro la città dell’Istmo. Il racconto più dettagliato è in Senofonte, Elleniche IV 4, 19-5, 18; da confrontare Diodoro, XIV 86, 5.
[44] Senofonte, Elleniche IV 5, 11-18; Diodoro, XIV 91, 2.
[45] Se ne avverte un’eco nell’orazione che il retore ateniese Andocide pronunciò, probabilmente prima della trattativa per la pace tenutasi nel 392 a.C., per convincere i suoi concittadini a venire a patti con Sparta; non sarebbe, infatti, stato opportuno persistere nell’ostilità contro gli Spartani che «hanno già vinto tre volte in battaglia», ossia a Corinto, a Coronea e presso il Léchaion «senza mai essere stati sconfitti» (Andocide, Sulla pace con Sparta, 18-19).
[46] Il contingente di stanza presso Corinto, dalle cui fila proveniva la móra distrutta, aveva fino a poco tempo prima ostentato sdegnoso disprezzo verso i peltasti in attività sul territorio corinzio (Senofonte, Elleniche IV 4, 17).
[47] Proprio nel 389, in contemporanea con l’impegno di Agesilao in Acarnania (Senofonte, Elleniche IV 6, 1-4; 7 1), il re della linea Agiade, Agesipoli, compie una spedizione contro Argo.
[49] Basti pensare che con una contestazione della politica spartana si apre il documento di fondazione della Seconda Lega Navale ateniese (377 a.C.: SIG3 I, 147).
[64] Senofonte (Elleniche V 4, 34) sposta l’attenzione su quanti fra gli Ateniesi parteggiavano per i Beoti, e li descrive intenti a spiegare al popolo che gli Spartani «avevano fatto ben altro che punire Sfodria: lo avevano addirittura encomiato». In realtà, il popolo ateniese non aveva bisogno di essere sobillato dai filo-tebani: la reazione sconsiderata al colpo di mano di Sfodria dimostrava che Sparta non meritava più alcuna fiducia come alleato. La memoria dell’evento e la rabbia per l’avvenuto rimangono immutate negli Ateniesi anche a distanza di qualche anno: cfr. Senofonte, Elleniche V 4, 63.
[65] Cfr. Diodoro, XV 53, 1 sgg.; Senofonte, Elleniche VI 3, 6-15; Plutarco, Vita di Pelopida XXIII 1 sgg.
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