Frine, la bellezza sotto accusa

Su Frine di Tespie, la più celebre cortigiana del IV secolo a.C., gli antichi tramandano notizie biografiche talmente romanzesche e romanzate da mettere in difficoltà nel distinguere la realtà dalla finzione. Come per altre figure femminili appartenenti al 𝑑𝑒𝑚𝑖-𝑚𝑜𝑛𝑑𝑒 ellenico, anche Frine fu trascurata dagli scrittori del suo tempo, tranne che dai commediografi, attenti osservatori dei fatti d’attualità, soprattutto se “scandalistici”; ma sarebbe divenuta oggetto dell’incuriosita e a tratti morbosa attenzione di poeti, storici e dossografi ellenistici e romani (Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 129). Fra i moderni c’è chi è persino giunto al punto di dubitare della storicità di questa donna affascinante e inquietante (Rᴏsᴇɴᴍᴇʏᴇʀ 2001, 245) e chi, invece, ha espresso con troppa radicalità una posizione ipercritica nei confronti di alcuni dati tradizionali (Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995). Per ricostruire la figura di Frine occorre valutare con la massima cautela le fonti pervenute – il cui gran numero testimonia la vastissima fama della cortigiana –, considerando che queste ultime si collocano per lo più fra il I e il IV secolo d.C.: esse non sono solo più tarde rispetto ai fatti riportati, ma presumibilmente rispecchiano una tendenza abbastanza tipica degli eruditi antichi all’aneddotica e al sensazionalismo.

Dall’orazione 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 (ἐν τῷ κατὰ Φρύνης) di Aristogitone (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591e = F 7 Tur) e da Plutarco (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a) si ricava che il vero nome di Frine era Μνησαρέτη («Colei che ricorda la virtù»). Stando ad Alceta il Periegeta (Aʟᴋ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 405 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b) il padre di lei si chiamava Epicle. Queste informazioni ricondurrebbero a un’origine libera, se non addirittura nobile, della famiglia, che, verosimilmente, al pari di altri γένη aristocratici tespiesi, dovette affrontare varie traversie al tempo in cui Tebe, in seguito alla clamorosa vittoria sui Lacedemoni a Leuttra (371), conquistava una stupefacente, seppur effimera, egemonia sull’intera Grecia continentale. A detta di Pausania (IX 14, 2-4), alcuni Tespiesi, preoccupati per le antiche tensioni con Tebe e per le conseguenze del recente successo, avrebbero deciso di abbandonare la propria città: si è ipotizzato che questo fosse anche il caso della famiglia di Mnesarete, che emigrò ad Atene, città tradizionalmente disponibile ad accogliere stranieri, anche se fortemente restia a concedere loro i diritti di cittadinanza (Tᴜᴘʟɪɴ 1986, 321-341; Cᴏʀsᴏ 1997-1998, 66).

William Russell Flint, Frine e la serva. Acquerello su lino, 1900-1920 c.

Restano avvolti nell’oblio i primi anni di permanenza ad Atene di Mnesarete; l’unico, forse tendenzioso, riferimento all’adolescenza della profuga tespiese è identificabile in un frammento dalla 𝑁𝑒𝑒𝑟𝑎 del comico Timocle (F 25 Kassel-Austin), in cui uno sfortunato amante della donna ricorda i tempi in cui quest’ultima non era ancora insuperbita dalla ricchezza che in seguito avrebbe conquistato. Presumibilmente messa in scena quando l’ἑταίρα era ormai ricca e famosa, la commedia timoclea rievoca il periodo in cui la giovane tespiese, oppressa dalla povertà e costretta a umili lavori, non esitava ad approfittare con spregiudicatezza dell’aiuto economico di quanti fossero attratti dalla sua bellezza. A quanto pare, fin da allora la ragazza aveva assunto il nomignolo di Φρύνη («ranocchietta»), che secondo gli antichi interpreti sarebbe stato dovuto al colorito pallido-olivastro del suo incarnato (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a), anche se sembra più probabile che si sia trattato di un dispregiativo intenzionalmente assunto in funzione antifrastica, quasi a sottolineare – per contrasto – l’eccezionale avvenenza della giovane donna.

Benché fosse una straniera, profuga e priva di mezzi, Mnesarete era una donna libera e godeva dello statuto di μέτοικος, condizione che le consentiva di acquisire una considerevole posizione economica, a differenza delle cittadine ateniesi: come avrebbe potuto conquistarsi fama e prestigio in una πόλις in apparenza accogliente, ma di fatto saldamente ancorata a rigidi principi di selezione e di esclusione?

All’epoca, benché esistesse una certa differenza tra ἑταίρα e πόρνη (Kᴜʀᴋᴇ 1999, 175-219; MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 11-18), entrambe queste figure professionali erano diventate ormai anche personaggi letterari tipizzati, fatti oggetto di aneddoti faceti, componimenti satirici e battute comiche osé, soprattutto per via della natura essenzialmente carnale della loro professione. Incontinenza verso il vino e il sesso, avidità, slealtà, doppiezza e impudenza erano le caratteristiche più comuni della maschera della “cortigiana/prostituta”, frutto dell’approccio aspramente misogino della cultura ellenica, ma anche della volontà dei commediografi e dei retori di screditare i propri avversari politici o personali. Allora come oggi, la vita privata di un personaggio pubblico rappresentava il suo punto debole, il bersaglio polemico a cui mirare per distruggerne la credibilità e comprometterne la carriera. Paradossalmente, però, la frequentazione di donne di “malaffare” era autorizzata e quasi promossa dalla πόλις, praticata dagli uomini di ogni ceto sociale secondo le proprie disponibilità, sebbene costituisse, in ogni caso, motivo di scandalo e di biasimo, perché sintomo della mancanza di moderazione e della conseguente depravazione morale (il comico Filemone di Siracusa, per esempio, invitava i giovani ateniesi a frequentare i bordelli istituiti da Solone, in cui era possibile appagare le proprie esigenze sessuali in tutta sicurezza e alla cifra irrisoria di un obolo, corrispondente a 1/6 di una dracma: Pʜɪʟᴇᴍ. F 3 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 25, 569d-f).

Queste donne, da parte loro, suscitavano al tempo stesso desiderio e disprezzo, attrazione e ripulsa, venerazione e ostilità; le più belle e le più scaltre non di rado intrecciavano 𝑙𝑖𝑎𝑖𝑠𝑜𝑛𝑠 𝑑𝑎𝑛𝑔𝑒𝑟𝑒𝑢𝑠𝑒𝑠 con uomini di spicco del loro tempo, violando l’assoluto anonimato che caratterizzava la donna greca e conquistandosi così un viatico per l’eternità. E questo fu anche il caso di Mnesarete/Frine.

Sul suo conto, una delle fonti principali è rappresentata da Ateneo di Naucrati, che le ha dedicato un’ampia sezione del libro XIII dei suoi 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑠𝑡𝑎𝑒 (58, 590c-60, 591f). Lo scrittore egizio di epoca imperiale (II-III secolo) si è avvalso di diverse opere di eruditi, tra le quali quella di Ermippo di Smirne († 𝑝𝑜𝑠𝑡 208/4 a.C.; si vd. Bᴏʟʟᴀɴsᴇᴇ 1999), il Περὶ τῶν Ἀθήνησιν ἑταίρων di Apollodoro di Atene (II sec. a.C.), il Περὶ τῶν ἐν τῇ μέσῃ κωμῳδίᾳ κωμῳδουμένων ποιητῶν di Erodico di Babilonia (vissuto al più tardi all’inizio del I secolo a.C., cfr. Gᴜᴅᴇᴍᴀɴɴ 1912) e il Περὶ τῶν ἑταίρων di Callistrato (attivo nella prima metà del II sec. a.C.; 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 348 F 1), e le ha integrate con aneddoti di autori contemporanei ai fatti, e cioè retori (Iperide, Aristogitone, ecc.) e poeti comici (Timocle, Posidippo, ecc.; cfr. Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941).

Sull’aspetto della cortigiana, Ateneo riporta che «Frine era più bella nelle parti che non si vedono; di conseguenza, non era neanche facile vederla nuda» (ἦν δὲ ὄντως μᾶλλον ἡ Φρύνη καλὴ ἐν τοῖς μὴ βλεπομένοις. διόπερ οὐδὲ ῥᾳδίως ἦν αὐτὴν ἰδεῖν γυμνήν). Per accrescere il proprio fascino e solleticare fantasia e curiosità dei potenziali amanti, aveva l’abitudine di indossare «una tunichetta attillata» (ἐχέσαρκον χιτώνιον) e di rado «frequentava i bagni pubblici» (τοῖς δημοσίοις οὐκ ἐχρῆτο βαλανείοις). Accadde, però, una volta che, in occasione delle feste di Poseidone a Eleusi (τῇ δὲ τῶν Ἐλευσινίων πανηγύρει καὶ τῇ τῶν Ποσειδωνίων), Frine, «sotto gli occhi di tutti i Greci riuniti, deposto il mantello e sciolte le chiome, scese in mare» e ne riemerse, simile ad Afrodite, davanti agli astanti attoniti (Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 1999, 54). Quella coreografica e provocatoria immersione ispirò il famoso ζώγραφος Apelle, che dipinse l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐴𝑛𝑎𝑑𝑖𝑜𝑚𝑒𝑛𝑒 («Afrodite che sorge dalle acque»), quadro nel quale la dea è colta nuda, in atto di strizzarsi le chiome bagnate (Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1990, 158-163; Bᴇᴀᴢʟᴇʏ, Asʜᴍᴏʀᴇ 1932, 63-66). L’opera, esposta a Coo, fu celebrata già dagli epigrammi descrittivi di epoca ellenistica (p. es., Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 172 = F 45 Gow-Page; Lᴇᴏɴ. XVI 182 = F 23 Gow-Page) e nel 30 Augusto la acquistò per consacrarla al tempio di Cesare, concedendo in cambio la cancellazione di un tributo di 100 talenti che i Coi dovevano a Roma (cfr. Sᴛʀᴀʙ. XIV 2, 19; Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXV 91-92).

Afrodite Anadiomene. Mosaico, II-III sec. d.C. Antakya, Museo Archeologico ‘Hatay’.

Alla particolare avvenenza di Frine-Mnesarete si riferisce persino un aneddoto riportato dal medico Galeno: «Costei (𝑠𝑐. Frine), una volta a un banchetto, in cui sorse l’idea di fare il gioco che ciascuno a turno comandasse ai convitati ciò che voleva, vide lì delle donne imbellettate con ancusa, biacca e rossetto; fece portare dell’acqua e ordinò che, attingendola con le mani, la portassero così una sola volta al viso e subito dopo la detergessero con un asciugamano; e lei per prima fece questo. Mentre a tutte le altre la faccia si riempì di macchie e si poteva notare una somiglianza con gli spettri, lei apparve più bella, perché sola era senza trucco e bella al naturale, senza aver bisogno di nessun artificio fallace» (Gᴀʟᴇɴ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. 10, 6 Barigazzi = I 26 Kaibel). L’episodio è incluso nell’ampia argomentazione che Galeno utilizza per sostenere l’importanza dell’arte medica: egli illustra come la cosmesi sia affine alla medicina, poiché, mentre quest’ultima persegue il fine di preservare la salute delle persone, la prima conferisca una parvenza di salute a chiunque ne faccia ricorso; tuttavia, benché entrambe siano arti “utili”, la cosmesi appartiene alla categoria del falso e dell’imitazione (una riflessione di chiaro stampo platonico).

A dispetto del nome Mnesarete, che, come si è detto, significa «Colei che ricorda la virtù», Frine è presentata dalla tradizione come tutt’altro che un esempio di specchiata virtù, e anzi spesso si insiste sulla sua incontenibile avidità: un frammento del 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑖𝑔𝑖𝑎𝑛𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖 di Apollodoro di Atene (Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 244 F 212 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591c) testimonia che esistevano due etere di nome Frine, «delle quali l’una era soprannominata “Pianto e riso” (Kλαυσίγελως), l’altra “Pesciolino” (Σαπέρδιον)». Nella fattispecie, “Pianto e riso” lascerebbe intuire che la bella e capricciosa cortigiana vendesse a caro prezzo i propri favori ed è molto probabile che da questo soprannome sia sorto l’aneddoto, riportato da Plinio il Vecchio (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXIV 70), del gruppo statuario di Prassitele che raffigurava una matrona piangente e una etera ridente – naturalmente con le fattezze di Frine. Erodico Crateteo nel sesto libro dei 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑔𝑔𝑖 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑑𝑖𝑒 «sostiene che l’una, detta presso i retori “Sesto” (Σηστὸς), era così chiamata perché passava al setaccio (ἀποσήθειν) e spogliava di tutto quelli che andavano con lei; l’altra era chiamata invece “la Tespiese” (Θεσπική)» (Hᴇʀᴏᴅ. F 7, p. 126 Düring = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591c). Sempre che si sia trattato della stessa persona, essendo Frine un “nome di battaglia” gettonatissimo tra le professioniste anche di generazioni differenti, per alcuni interpreti questo di Erodico sarebbe un riferimento al “setaccio”, in relazione alla rapacità dell’etera, mentre secondo altri un modo per canzonare una coppia di accompagnatrici, Frine e Sinope, chiamate rispettivamente “Sesto” e “Abido”, dal nome delle due città che si fronteggiavano sui Dardanelli.

L’ingordigia di Mnesarete-Frine è ripresa dall’assimilazione comica che ne fa il poeta Anassila nel F 22 Kassel-Austin, vv. 18-19: «Ma ecco Frine, non lontano, a far la parte di Cariddi: / ghermito il nocchiero, l’ha divorato con la nave e tutto il resto» (in Aᴛʜᴇɴ. XIII 6, 558c). La 𝑁𝑒𝑜𝑡𝑡𝑖𝑠 (𝑃𝑜𝑙𝑙𝑎𝑠𝑡𝑟𝑒𝑙𝑙𝑎) è forse il soprannome, o il nome proprio, di un’etera: il passo presenta una rassegna di cortigiane, difficile dire se figure reali note al pubblico o figure fittizie con tipici nomi di battaglia, paragonate a celebri mostri mitologici. Il parallelo si fonda appunto sul luogo comune della pericolosità delle etere, ritenute creature avide, infide e rovinose per i loro amanti, che nacque con la “Commedia di mezzo”, in cui presero forma i tipi della “etera cattiva” e della “etera buona”, destinati a notevole fortuna nel teatro successivo (cfr. Nᴇssᴇʟʀᴀᴛʜ 1990, 322-324); il parallelismo con i mostri si spinge, dunque, sino alla comica evocazione di alcune famose leggende – e qui, nel caso, di Frine è ripreso l’episodio odissiaco dell’incontro con Cariddi! –, ma, a differenza degli antichi eroi, i frequentatori delle cortigiane in genere hanno sempre la peggio (si vd. Hᴀᴡʟᴇʏ 2007, 165).

Anche Macone, commediografo corinzio o sicionio del III secolo, vissuto ad Alessandria in Egitto, tramanda in alcuni trimetri giambici un episodio che ha per protagonista Frine-Mnesarete alle prese con un corteggiatore spilorcio: «Merico stava dietro a Frine, la Tespiese, / ma, quando lei gli domandò una mina, / quello sbottò: “Ma è troppo! Non eri tu che stamattina presto / andasti con uno straniero per due monete d’oro?”. “Bene: dunque, aspetta anche tu – fece lei – fin quando / avrò voglia di scopare! Allora accetterò anche così poco!» (Mᴀᴄʜᴏ 𝐶ℎ𝑟. F 18, vv. 49-54 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 45, 583b-c). L’ἑταίρα chiede al non altrimenti noto Merico la tipica parcella delle professioniste d’alto bordo, 1 mina, equivalente nel sistema attico a 100 dracme (pari a circa 400 g d’argento; cfr. Gᴏᴡ 1965, 120). La controproposta del cliente è molto inferiore, anche se non misera (40 dracme: cfr. Gᴏᴡ 1965, 135), ma equivalente, secondo la donna, a concedersi gratis, come, a modo suo, ella fa presente con la sua risposta pronta. D’altronde, le tariffe più comuni per il noleggio di una auleutride, per i servizi di una πόρνη o per la compagnia di una cortigiana erano piuttosto contenute, più o meno da 2 oboli a 5 dracme (cfr. Sᴀʟʟᴇs 1983, 87; Dᴀᴠɪᴅsᴏɴ 1997, 194-200). La fama professionale di Frine è variamente attestata anche nella letteratura latina: Lucilio in un frammento allude in modo oscuro al trattamento che la cortigiana riservava ai suoi clienti con le parole 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑠 𝑖𝑙𝑙𝑎 𝑢𝑏𝑖 𝑎𝑚𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒𝑚 𝑖𝑚𝑝𝑟𝑜𝑏𝑖𝑢𝑠 𝑞𝑢𝑒𝑚… (Lᴜᴄɪʟ. F 263 Marx; cfr. anche Vᴀʟ. Mᴀx. IV 3, ext. 3: 𝑃ℎ𝑟𝑦𝑛𝑒 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑒 𝐴𝑡ℎ𝑒𝑛𝑖𝑠 𝑠𝑐𝑜𝑟𝑡𝑢𝑚).

La tradizione aneddotica antica riporta anche che la giovane Mnesarete posò come modella di nudo per vari artisti, tra i quali lo scultore Prassitele, attivo tra il 375 e il 330, con il quale pare intrattenesse anche una relazione amorosa (sull’artista e la sua statuaria, si vd. Cᴏʀsᴏ 1988; Cᴏʀsᴏ 1990; Sᴛᴇᴡᴀʀᴛ 1990, I, 176-180; 277-281; II, 492-510; e Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1974, 83; 131; Pᴏʟʟɪᴛᴛ 1990, 84-89; Rɪᴅɢᴡᴀʏ 1990, 90-93; Aᴊᴏᴏᴛɪᴀɴ 1996; Bɪᴇʙᴇʀ 1961, 15-23; Rɪᴄʜᴛᴇʀ 1970, 199-206; Bᴇᴀᴢʟᴇʏ-Asʜᴍᴏʟᴇ 1932, 54-59; Rɪᴢᴢᴏ 1932; Lɪᴘᴘᴏʟᴅ 1954). Con ogni verosimiglianza fu proprio l’incontro con questo maestro dell’arte plastica a imprimere una “svolta” nella carriera di Mnesarete. Si racconta che l’etera «a un corteggiatore spilorcio che faceva mostra di vezzeggiarla con un nomignolo, dicendole: “Tu sei la Piccola Afrodite di Prassitele!”, ella ribatté: “E tu sei l’Eros di Fidia!”» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 49, 585f). In questo caso, il nome del famoso scultore Prassitele potrebbe suonare come “l’Esattore” (Πραξιτέλης, come πρᾶξις τελῶν, “riscossione di tributi”): il corteggiatore dunque vezzeggia Frine solo in apparenza, alludendo invece alla sua rapacità, mentre lei risponde a tono, poiché il nome di Fidia potrebbe suonare come il “Tirchione” (Φειδίας, dal verbo φείδομαι, “risparmiare”).

All’𝑎𝑘𝑚𝑒́ di Prassitele nell’Olimpiade CIV, corrispondente al quadriennio 364-361 a.C. (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXIV 50), andrebbe ascritta la realizzazione della celeberrima 𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, una statua davvero innovativa per il tempo, essendo la prima immagine di nudo femminile di tutta l’arte plastica greca, di cui Frine sarebbe stata la modella. Esiste tuttavia una diversa tradizione, recepita da Clemente Alessandrino (Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 53, 5-6), nonché, sulla scia di quest’ultimo, da Arnobio (Aʀɴ. 𝐴𝑑𝑣. 𝑛𝑎𝑡. 6, 13), secondo la quale lo scultore avrebbe scolpito la famosa statua avvalendosi dei lineamenti di un’altra etera da lui amata, di nome Cratine. Questa notizia, che contrasta con l’abbondante e perfino tediosa aneddotica sulla presunta storia d’amore tra Prassitele e Frine, ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare che l’artista avesse davvero utilizzato, per l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, il volto di Cratine e il corpo di Frine (cfr. Cᴏʀsᴏ 1990, 83; Cᴏʀsᴏ 1997a, 93). Questa tradizione deriverebbe dal Περὶ Κνίδου di un certo Posidippo (Pᴏsɪᴅɪᴘ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 447 F 1), noto solo attraverso Clemente Alessandrino (cfr. Mᴇᴛᴛᴇ 1953); pertanto, si dubita della storicità di Cratine (cfr. Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941, 902; Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 134-135).

Afrodite Cnidia. Statua, marmo bianco, copia romana da un originale del IV secolo a.C. ca di Prassitele. Roma, Musei Vaticani, Museo Pio-Clementino.

L’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 fu commissionata a Prassitele dai cittadini dell’isola di Cnido, dove pare che la nudità della dea avesse una specifica giustificazione cultuale, mentre in altre località greche – e soprattutto ad Atene – era giudicato a dir poco scandaloso che una dea fosse rappresentata senza veli. Lo scultore dovette verosimilmente incontrare non poche difficoltà nella ricerca di una modella per la “sua” 𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒, che dal punto di vista ateniese costituiva un inquietante, se non addirittura “sovversivo” momento di rottura con un’antica e consolidata tradizione. Non è difficile credere che per il corpo nudo e seducente della dea si sia prestata una straniera, ambiziosa e spregiudicata, quale appunto era la giovane Mnesarete. I committenti di Prassitele mandarono ad Atene dei delegati per acquistare l’opera in bottega; giunta a Cnido l’immagine fu posta come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 nel santuario di Afrodite Euplea («Che assicura una prospera navigazione»).

Cnido, città della Caria, affacciata sul Golfo di Coo, sorgeva sull’estremità meridionale della penisola di Triopion, tra Alicarnasso e Rodi; era stata membro della Lega dorica ed era rinomata per la sua scuola medica, per l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 di Prassitele (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 20-21) e il suo santuario (Pᴀᴜs. I 1, 3), nonché per il portico di Sostrato (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 83). Tra la fine del VI e gli inizi del V secolo la città era caduta sotto il controllo persiano, per poi entrare nella Lega di Delo e, infine, trovarsi sotto il dominio tolemaico nel III secolo.

Il simulacro della dea scolpito da Prassitele compare anche su alcune monete locali di età imperiale: ciò ne permise l’identificazione, fin dal 1728, in un tipo scultoreo noto come “Afrodite Belvedere”, documentato non meno da 192 riproduzioni, che ne fanno la statua più copiata dell’antichità (Sᴇᴀᴍᴀɴ 2004). La dea è rappresentata nuda, mentre ha appena terminato il bagno e sta prendendo il peplo deposto su una brocca posata a terra alla sua sinistra; e, come sorpresa da uno sguardo indiscreto, è scolpita in atto di coprirsi le grazie con un lembo della veste (Cʟᴏsᴜɪᴛ 1978; Dᴇʟɪᴠᴏʀʀɪᴀs 1984, 49-52, n. 391-408; Hᴀᴠᴇʟᴏᴄᴋ 1995; Zᴀɴᴋᴇʀ 2004, 144-145; 151-152).

Quello del bagno è un motivo ricorrente nel culto di Afrodite e, secondo la credenza antica, aveva la funzione di rendere nuovamente pura la dea, rigenerandola. Anche la nudità doveva esprimere lo stato di primordiale candore così riacquistato. Insomma, Afrodite si offriva pertanto come paradigma agli umani che dovevano superare l’amore volgare e innalzarsi alla sua dimensione ultraterrena; di conseguenza, Prassitele con la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 avrebbe interpretato proprio questa esigenza. D’altronde, una vicinanza dello scultore a Platone si arguisce innanzitutto dal fatto che suo zio Focione era stato allievo presso l’Accademia, e perciò l’artista dovette aver presente il metodo indicato dal filosofo per giungere alla contemplazione e alla definizione della bellezza; in secondo luogo, lo stesso Prassitele espresse in un epigramma la propria concezione dell’amore, inteso come sentimento presente nella vita interiore del soggetto ed emanato da archetipo assoluto (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591a = Pʀᴀxɪᴛ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 204); infine, due epigrammi che celebrano la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 sono attribuiti niente meno che a Platone stesso (Pʟᴀᴛ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 160-161).

Gli scavi archeologici condotti 𝑖𝑛 𝑠𝑖𝑡𝑢 hanno portato alla luce, sul terrazzamento più alto e occidentale dell’abitato, i resti di un tempio dalla pianta a 𝑡ℎ𝑜̀𝑙𝑜𝑠, luogo nel quale doveva essere verosimilmente collocata l’opera prassitelica: l’edificio mediante due aperture, sulla fronte e sul retro del muro circolare posto tra la statua e il colonnato esterno, consentiva una fruizione visiva completa del corpo della dea al centro della cella (Lᴏᴠᴇ 1970; 1972a; 1972b). L’ubicazione della statua a Cnido si arguisce anche da un epigramma di Antipatro di Sidone (Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 167 = F 44 Gow-Page, v. 1), in cui si afferma che questa Afrodite si ergeva «sopra Cnido rocciosa» (ἀνὰ κραναὰν Κνίδον), con ciò suggerendo che si trovava nell’area più elevata della città; Luciano di Samosata (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 11-17) racconta di un gruppetto di amici che, approdato a Cnido, visita la città e si reca al santuario per ammirare l’opera di Prassitele; il tempietto in cui è collocata era rotondo e chiuso da un unico muro, con porte di fronte e sul retro.

Da Plinio il Vecchio (𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 20-21), tra l’altro, si apprende che «non solo su tutte le statue di Prassitele, ma anche nel mondo intero primeggia la sua Venere, che soltanto per ammirarla molti si recarono a Cnido per mare» (𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑜𝑚𝑛𝑖𝑎 𝑒𝑠𝑡 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑙𝑢𝑚 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑖𝑠, 𝑢𝑒𝑟𝑢𝑚 𝑖𝑛 𝑡𝑜𝑡𝑜 𝑜𝑟𝑏𝑒 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑎𝑟𝑢𝑚 𝑉𝑒𝑛𝑢𝑠, 𝑞𝑢𝑎𝑚 𝑢𝑡 𝑢𝑖𝑑𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡, 𝑚𝑢𝑙𝑡𝑖 𝑛𝑎𝑢𝑖𝑔𝑎𝑢𝑒𝑟𝑢𝑛𝑡 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑢𝑚, XXXVI 20; cfr. VII 127). Si potrebbe dire che la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 diede origine a una sorta di turismo di massa, fenomeno di cui si ha testimonianza fino al IV secolo d.C. (Aᴜsᴏɴ. 𝐸𝑝. 55). Il legame di Afrodite con il mare a Cnido, per cui l’epiclesi di Εὐπλοία, è documentato fin da un episodio “miracoloso” risalente all’alto arcaismo: dei murici nelle loro conchiglie bivalve, sacri alla dea, avrebbero bloccato una nave che portava l’ordine del tiranno Periandro di evirare dei giovani nobili (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. IX 80; cfr. Hᴅᴛ. III 24, 2-4; 49, 2). Inoltre, era opinione comune che la dea garantisse un dolce arrivo nel porto cnidio a chiunque si recasse a vedere l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 di Prassitele (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 11).

I Cnidi, grati allo scultore per la fama arrecata alla città, gli avrebbero conferito la piena cittadinanza (Cᴇᴅʀᴇɴ. 𝐶𝑜𝑚𝑝. ℎ𝑖𝑠𝑡. 322b). Plinio aggiunge che la bellezza dell’opera era tale che Nicomede, re di Bitinia, volle impossessarsi della preziosa statua e si offrì di saldare 𝑡𝑜𝑡𝑢𝑚 𝑎𝑒𝑠 𝑎𝑙𝑖𝑒𝑛𝑢𝑚, 𝑞𝑢𝑜𝑑 𝑒𝑟𝑎𝑡 𝑖𝑛𝑔𝑒𝑛𝑠, 𝑐𝑖𝑢𝑖𝑡𝑎𝑡𝑖𝑠, ma i Cnidi, nonostante fossero afflitti da una grave crisi economica, rifiutarono l’offerta, preferendo affrontare qualsiasi privazione, perché 𝑖𝑙𝑙𝑜 𝑒𝑛𝑖𝑚 𝑠𝑖𝑔𝑛𝑜 𝑃𝑟𝑎𝑥𝑖𝑡𝑒𝑙𝑒𝑠 𝑛𝑜𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎𝑢𝑖𝑡 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑢𝑚. Se si poteva proporre l’acquisto della 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 e il rifiuto era dovuto alla fama arrecata dalla statua, è molto probabile che si sia trattato di una statua votiva, sia perché essa è ritenuta un ἀνάθημα in un epigramma di Luciano (Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 164, v. 1), sia perché fu appunto oggetto della richiesta di acquisto da parte del re di Bitinia: probabilmente fu il primo con questo nome a richiedere la statua, intorno al 260, per impreziosire la sua nuova capitale Nicomedia. Insomma, tutto ciò depone contro l’eventualità che fosse un simulacro di culto.

Per comprendere la vicenda di Prassitele, Frine e la 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎, è opportuno soffermarsi sul significato della nudità femminile nell’arte greca antica, in particolare in connessione al culto di Afrodite. Influenzata dai modelli iconografici delle omologhe mediorientali (Inanna e Išthar), la rappresentazione di nudi femminili aveva fatto una timida comparsa in Grecia già in età arcaica, soprattutto nei culti legati alla fertilità, nella letteratura patetica ed erotica, ma anche nei gesti apotropaici. Siccome la nudità era concepita come condizione di vulnerabilità, debolezza e inferiorità, gli artisti più antichi rappresentavano nudi i fedeli servitori degli dèi: sono così scolpiti i cosiddetti κοῦροι, utilizzati sia come segnacoli funerari sia come 𝑒𝑥 𝑣𝑜𝑡𝑜 nei santuari (Bᴏɴꜰᴀɴᴛᴇ 1989, 551). Sul piano magico-cultuale, la raffigurazione della nudità femminile incarnava il potere erotico delle dee, ma costituiva un tabù: sono noti i miti che raccontano episodi di voyeurismo punito, spesso con la menomazione o la morte dell’indiscreto osservatore.

Ora, l’immagine della dea nuda, esposta allo sguardo dei fedeli, era qualcosa di davvero unico, un gesto che non a caso fu percepito da subito come una sorta di affronto al divino, più che alla morale, e in qualche modo un nuovo approccio all’eros nella rappresentazione plastica. Negli intenti dello scultore, l’idea che la statua fosse l’eco in terra della bellezza di Afrodite, alla cui visione erano finalmente ammessi i mortali, doveva suscitare il desiderio di superare i limiti della condizione umana e di “appropriarsi” di quella divina. Nel già menzionato epigramma di Antipatro di Sidone (Aɴᴛɪᴘ. Sɪᴅ. 𝐴. 𝑃𝑙. XVI 167, v. 2) si dice che l’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 fosse «capace di incendiare le pietre, benché di pietra anch’essa» (ὡς φλέξει καὶ λίθος εὖσα λίθον).

In relazione a questo potere soprannaturale delle statue divine, la storia a cui Plinio (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 21) accenna al termine della sua digressione sulla 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 è quella del tentato rapporto sessuale fra un giovane e la statua, tentativo di cui il simulacro stesso portava traccia sul marmo (𝑒𝑖𝑢𝑠𝑞𝑢𝑒 𝑐𝑢𝑝𝑖𝑑𝑖𝑡𝑎𝑡𝑖𝑠 𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑐𝑒𝑚 𝑚𝑎𝑐𝑢𝑙𝑎𝑚). Questa vicenda scabrosa divenne famosa in epoca ellenistica e imperiale, prendendo a circolare fra i generi letterari più disparati. Valerio Massimo fa eco alla notazione pliniana: «Prassitele, scolpita nel marmo la sposa di questi [𝑠𝑐. Vulcano], la collocò nel tempio dei Cnidi: era talmente bella che non riuscì a proteggersi dall’assalto di un maniaco sessuale» (Vᴀʟ. Mᴀx. VIII 11 ext. 4). L’amore per figure scolpite o dipinte (“agalmatofilia” o “pigmalionismo”; cfr. Lɪɢʜᴛ 1969², 502-504) potrebbe avere il suo archetipo nel ben noto mito di Pigmalione, il re di Cipro che si invaghì di una statua d’avorio raffigurante una donna, e la sposò quando per grazia di Afrodite questa prese vita (Oᴠɪᴅ. 𝑀𝑒𝑡. X 243ss.).

Afrodite Cnidia. Testa, marmo, copia romana da un originale prassitelico di IV sec. a.C., dal Palatino. Roma, Museo del Palatino.

In una lunga sezione sugli “amori impossibili” suscitati da dipinti e sculture trasmessa da Ateneo, Clearco racconta che un certo Cleisofo di Selimbria, «innamoratosi di una statua di marmo pario, a Samo, si chiuse a chiave nel tempio convinto di potersi congiungere con questa; giacché dunque non gli fu possibile, a causa della freddezza e della resistenza opposta dal marmo, subito desistette dal suo desiderio, e avvicinato a sé quel brandello di carne, con esso si congiunse» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 605f = Cʟᴇᴀʀ. F. 26 Wehrli). Clearco narra l’aneddoto con dettagli ignoti alle fonti più antiche, come il nome e la provenienza del protagonista, che peraltro è ignoto e ignoti sono anche il tempio di Samo e la statua. Nel finale Cleisofo si produce in un inedito rapporto sessuale (ἐπλησίασεν) con un brandello di carne (τὸ σαρκίον), preso forse da un animale sacrificale (secondo Aʀɴᴏᴛᴛ 1996, 150, sulla scorta di Sᴏʀ. 𝐺𝑦𝑛. I 18, 1-3, in esso andrebbe riconosciuto un equivoco dettaglio dell’anatomia sessuale femminile).

Ateneo, inoltre, riferisce che un accenno all’episodio di Cleisofo di Selimbria compare anche in due poeti della “Commedia nuova”, ne 𝐼𝑙 𝑑𝑖𝑝𝑖𝑛𝑡𝑜 (Γραφή) di Alessi e in un passo di Filemone, autori entrambi vissuti tra IV e III secolo (rispettivamente Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 605f = Aʟᴇxɪs 𝑃𝐶𝐺 F 41 = 𝐶𝐴𝐹 II 312, F 40; e Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 606a = Pʜɪʟᴇᴍ. 𝑃𝐶𝐺 F 127 = 𝐶𝐴𝐹 II 521, F 139). A quanto pare, le statue femminili non erano le uniche ad aver indotto in “tentazione” qualche giovane impressionabile. L’abile mano di Prassitele aveva modellato anche un 𝐸𝑟𝑜𝑠 nudo, esposto in un tempio di Paro e, come riporta Plinio, «se ne innamorò infatti Alceta di Rodi, che lasciò anche lui sulla statua una traccia del suo amore», così com’era accaduto per la Venere di Cnido (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. XXXVI 39a). Questi e altri episodi di “agalmatofilia” (per cui si vd. Pᴏsɪᴅɪᴘ. FGrHist. 447 F 2 = Cʟᴇᴍ. 𝑃𝑟𝑜𝑡𝑟. IV 57.3 = Aʀɴ. 𝐴𝑑𝑣. 𝑛𝑎𝑡. 6, 22; Lᴜᴄɪᴀɴ. 𝐴𝑚𝑜𝑟. 13-16; 𝐼𝑚𝑎𝑔. 4; Pʜɪʟᴏsᴛʀ. 𝐴𝑝. IV 40, Tᴢ. 𝐻𝑖𝑠𝑡. VIII, 375-387) presentano dei tratti in comune: al centro della vicenda c’è sempre un giovane uomo di buona famiglia (Pʟɪɴ. 𝑁𝑎𝑡. ℎ𝑖𝑠𝑡. VII 127, 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑐𝑖𝑝𝑢𝑒 𝑢𝑒𝑠𝑎𝑛𝑜 𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒 𝑐𝑢𝑖𝑢𝑠𝑑𝑎𝑚 𝑖𝑢𝑢𝑒𝑛𝑖𝑠 𝑖𝑛𝑠𝑖𝑔𝑛𝑖) che, invaghitosi della statua, dopo aver corrotto gli inservienti del tempio, si industria di possedere il simulacro divino con pratiche magiche o giocose; quindi, si rinchiude di notte nel sacello e, dopo aver tentato l’accoppiamento con l’immagine, se non riesce a guarire dalla passione, all’alba, si getta in mare togliendosi la vita. Pare che questi racconti facessero parte di una narratologia attraverso la quale le diverse città del mondo antico tentavano di rendere famosi i propri santuari, inserendoli in una sorta di circuito turistico o devozionale.

Lo scalpore e l’ammirazione suscitati dall’𝐴𝑓𝑟𝑜𝑑𝑖𝑡𝑒 𝐶𝑛𝑖𝑑𝑖𝑎 e dal suo rivoluzionario verismo dovettero produrre fondamentali ripercussioni sulla notorietà di Mnesarete e, verosimilmente, anche sul suo “potere contrattuale”. I contemporanei dovevano essere disposti a pagare forti somme per un incontro con l’ἑταίρα, le cui sembianze erano state immortalate dal celebre Prassitele. In breve tempo, questa donna riuscì a conquistarsi fama e ricchezze, tali da consentirle di avviare quel processo di “autocelebrazione” che, a quanto pare, caratterizzò tutta la sua vita; d’altronde, l’impressione che si ricava dall’esame delle fonti antiche è che il “mito” di Frine sia stato costruito, ancor prima che dai biografi e dai poeti, dall’ἑταίρα medesima, grazie a un abile impiego di frasi provocatorie, destinate a suscitare scalpore, ovvero mediante il ricorso a scenografiche quanto rare e studiate apparizioni pubbliche (cfr. Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 136-137).

A quanto pare, Mnesarete non rinunciava a esporsi con dichiarazioni scandalose: nel suo studio 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 il grammatico Callistrato, contemporaneo di Aristarco di Samotracia, riporta che «Frine divenne ricchissima e promise che avrebbe cinto di mura la città di Tebe, se i suoi abitanti vi avessero apposto un’iscrizione che cita: “Alessandro abbatté queste mura, l’etera Frine le riedificò” (᾽Αλέξανδρος μὲν κατέσκαψεν, ἀνέστησεν δὲ Φρύνη ἡ ἑταίρα)» (Cᴀʟʟɪsᴛʀ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 348 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591d). L’aspetto più interessante dell’aneddoto risiede proprio nella dichiarazione scandalosa della cortigiana, un’evidente provocazione, che non va tuttavia letta come un’estemporanea battuta umoristica: nella supposta correlazione tra la cortigiana e il suo regale contemporaneo, in realtà, andrebbe ravvisato quel violento spirito antimacedone di certi politici ateniesi. Una frase “politica” – una sorta di slogan! –, ma anche un’esplicita sfida al moralismo dei benpensanti, per i quali era inconcepibile che il nome di un’etera fosse inciso su un edificio pubblico. Nel passo di Callistrato il verbo ὑπισχνεῖτο (da ὑπισχνέομαι), che alla lettera è un imperfetto, ha valore iterativo e perciò alluderebbe al fatto che Frine abbia più volte avanzato la proposta, probabilmente con atteggiamento esibizionistico-pubblicitario, volto ad accrescere la propria autorappresentazione, piuttosto che con la reale speranza che l’offerta sarebbe stata accolta dai Tebani. E anche se ciò non fosse stato così, di certo non ne avrebbe sminuito il valore. Come in analoghi episodi di «narratives of benefaction», anche in questo caso il testo della presunta iscrizione giustappone il nome di Alessandro all’inizio del periodo e quello di Frine alla fine, come in una sorta di iperbato, alludendo a un’equipollenza tra il sovrano macedone e la ricca etera. La presunzione che una cortigiana potesse mettersi al pari di un re andava al di là della consueta liceità e un simile atto di autocelebrazione era visto come capace di sovvertire l’ordine precostituito (MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 155-161).

Se si deve credere all’aneddoto, Frine pensava e agiva con spregiudicatezza: prevaricato il limite del genere (una donna che presume di mettersi alla pari con un uomo) e quello politico (l’esponente di un ceto inferiore, una profuga diseredata, che osa paragonarsi perfino a un re!), la scaltra ἑταίρα voleva marcare la propria superiorità tanto sulle concorrenti quanto sulle umili πόρναι da «due oboli». Sul piano sociale, l’uscita di Frine indicherebbe una presa di distanza da quante fossero inferiori a lei, le cui pratiche e la cui reputazione mettevano costantemente a rischio la sua fama e il suo 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑠. Offrirsi di ricostruire le mura di una grande città di tasca propria era forse il modo più chiaro e diretto possibile per sottolineare il divario che la separava dalle mere πόρναι δίδραχμοι. Ma c’è anche un particolare malizioso nelle sue parole. La traduzione rende ἀνέστησεν nel suo significato più letterale, cioè «riedificò, rimise in piedi»; siccome la 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎 𝑎𝑔𝑒𝑛𝑠 è nientemeno che una cortigiana, è possibile che la frase celasse un doppio senso osceno, «fece erigere, rese erette» (cfr. Hᴇɴᴅᴇʀsᴏɴ 1991, 108-130). Benché sia solo un’ipotesi, tuttavia, non è oziosa, dato che le fonti illustrano come fosse piuttosto comune che tanto le ἑταῖραι quanto le πόρναι avessero nomi eroticamente significativi (cfr. MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 59-78). E siccome queste professioniste erano sovente obiettivo degli strali dei commediografi, quanto a Frine, è possibile che l’ἑταίρα intendesse, in questo caso, fare umorismo su se stessa, un umorismo che con la sua eleganza e raffinatezza avrebbe attirato le attenzioni di un sempre maggior numero di potenziali clienti (MᴄCʟᴜʀᴇ 2003, 79-105).

Probabilmente, frutto del calcolo esibizionistico di questa etera era anche l’uso di commissionare numerose statue a Prassitele da dedicare in luoghi “strategici” della grecità. A questo proposito, Pausania (Pᴀᴜs. I 20, 1-2) riferisce un succoso aneddoto a dimostrazione dell’arguzia di cui Mnesarete-Frine si serviva per soggiogare i propri spasimanti. L’etera pregò l’artista di donarle la sua opera più bella e lui acconsentì senza però dirle quale fosse, a suo giudizio, la migliore. Così l’etera mandò un servo da Prassitele ad annunciargli che un incendio aveva irrimediabilmente danneggiato alcune sue opere, e l’artefice, preso dal panico, cominciò a gridare che era rovinato se aveva perso le statue del 𝑆𝑎𝑡𝑖𝑟𝑜 e dell’𝐸𝑟𝑜𝑠. Sopraggiunse Frine stessa per tranquillizzare l’amante e spiegargli che si era trattato solo di un espediente per estorcergli l’informazione desiderata: così ella scelse l’𝐸𝑟𝑜𝑠, forse in precedenza posto ai piedi della scena del teatro di Dioniso ad Atene, e lo consacrò come offerta votiva a Tespie (Pᴀᴜs. IX 27, 1; Cᴀʟʟɪsᴛʀ². 𝑆𝑡𝑎𝑡. 𝑑𝑒𝑠𝑐𝑟𝑖𝑝𝑡. 3, 1; cfr. Fᴜʀᴛᴡᴀɴɢʟᴇʀ 1964, 318-319; Rɪᴄʜᴛᴇʀ 1970, 202). La città, devota al dio e fiera di aver dato i natali a una donna così illustre e pia, fece collocare accanto all’𝐸𝑟𝑜𝑠 un ritratto di Frine, opera dello stesso Prassitele (Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753f; cfr. anche Pᴀᴜs. IX 27, 5; Aʟᴄɪᴘʜʀ. IV 1, 1). La statua del dio godé di grande fama nell’antichità e l’𝐴𝑛𝑡ℎ𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑎 𝑃𝑎𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎 conserva ben cinque epigrammi a essa dedicati, in cui è immancabilmente nominata Frine (Lᴇᴏɴ. F 89 Gow-Page = 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 206; Tᴜʟʟ¹. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. VI 260; XVI 205; Iᴜʟ². 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 203; Pʀᴀxɪᴛ. 𝐴. 𝑃𝑎𝑙. XVI 204; cfr. Cᴏʀsᴏ 1988, 41-42).

Quanto agli abitanti di Tespie, per onorare l’insigne concittadina del prezioso dono ricevuto, a immagine di Frine «fecero realizzare una statua dorata e la dedicarono a Delfi, ponendola su una colonna di marmo pentelico, opera dello stesso Prassitele» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b-c). Non è possibile dubitare dell’esistenza del monumento, dato che Plutarco afferma di averla vista coi propri occhi (Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a; 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753e-f); anche Dione di Prusa conferma di averla adocchiata su una colonna (D. Cʜʀ. 𝑂𝑟. XXXVII 28; ma anche Lɪʙ. XXV 40; cfr. Jᴀᴄǫᴜᴇᴍɪɴ 1999, 166-167; 169). Si può solo immaginare quale e quanto scandalo quella statua potesse suscitare, soprattutto se si considera che non era consuetudine esporre le immagini di etere e prostitute nei luoghi sacri: per di più l’intraprendente Tespiese stava baldanzosamente «in piedi, tutta d’oro, insieme con re e regine» (Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑚𝑎𝑡. 753e).

Quando il cinico Cratete (Cʀᴀᴛ¹. T V H 28 Giannantoni, così in Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝑃𝑦𝑡ℎ. 𝑜𝑟. 401a 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎 Dɪᴏɢ. VI 60, secondo cui si trattava di Diogene di Sinope) «contemplò la statua, sentenziò che si trattava di un’offerta innalzata all’incontinenza dei Greci (τῆς τῶν ῾Ελλήνων ἀκρασίας ἀνάθημα)»: un’uscita divenuta presto proverbiale! La versione di Ateneo (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b) lascia intendere che la statua sarebbe stata eretta a spese dei Tespiesi, mentre in quella di Claudio Eliano (Aᴇʟ. 𝑉𝐻 IX 32) essa sarebbe stata pagata dai «più dissoluti fra i Greci». Sono varianti che, in ultima analisi, portano a una sola, concreta conclusione: committente della costosa statua fu la stessa Frine, grazie alle ingenti ricchezze accumulate in molti anni di lucrosa attività, anche se non è da escludere che l’ardita operazione sia avvenuta con il beneplacito degli aristocratici di Tespie, i quali avrebbero permesso alla donna di far incidere sul basamento questa orgogliosa iscrizione: «Frine, figlia di Epicle, tespiese» (a proposito di questa epigrafe Tᴏᴅɪsᴄᴏ 2020, 212-215, ha espresso alcune perplessità). Verosimilmente, la statua di Delfi rappresenterebbe una fase avanzata della carriera di Mnesarete – con ogni probabilità dopo la terza Guerra sacra (356-346) –, un periodo in cui l’ἑταίρα, ormai forte del proprio potere economico, ma anche dell’appoggio (più o meno dichiarato) dell’aristocrazia tespiese, tendeva a lanciare messaggi “forti” contro nemici, antichi e recenti, della sua stessa patria. A tal proposito, è interessante la notizia dello storiografo macedone Alceta il Periegeta (Aʟᴋ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 405 F 1 = Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 591b; cfr. Jᴀᴄǫᴜᴇᴍɪɴ 1999, 264): quest’ultimo, nel secondo libro del suo Περὶ τῶν ἐν Δελφοῖς ἀναθημάτων (𝑆𝑢𝑖 𝑚𝑜𝑛𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑣𝑜𝑡𝑖𝑣𝑖 𝑎 𝐷𝑒𝑙𝑓𝑖), afferma che la statua di Frine sarebbe stata collocata tra quella di Archidamo, re di Sparta (tradizionale nemica dei Beoti), e quella di Filippo II, figlio di Aminta e re di Macedonia (cfr. anche Pᴀᴜs. X 15, 1). Un simile “schiaffo morale” non poteva sfuggire a un Macedone come Alceta: dopo essere riuscito a fatica a ottenere la legittimazione in seno all’anfizionia delfica, ora Filippo era costretto a veder troneggiare, accanto alla propria immagine, quella di una cortigiana, per di più originaria della Beozia e, ancor peggio, legata ai circoli antimacedoni di Atene (si vd. Cᴏʀsᴏ 1988, 177-122; Cᴏʀsᴏ 1990, 14-15; 16-56; 139-142; Cᴏʀsᴏ 1997, 123-150; Kᴇᴇsʟɪɴɢ 2005, 68; Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 2014, 138-139).

Jose Frappa, Frine. Olio su tela, 1903. Paris, Musée d’Orsay.

Se le cose stanno davvero così, si potrebbe supporre che lo sfacciato esibizionismo di Mnesarete-Frine potrebbe aver contribuito a montare intorno a lei una sempre maggiore ostilità fra gli stessi Ateniesi, attirandole disprezzo e odio inveterato; non si può perciò escludere che proprio il risentimento di una parte della cittadinanza di cui era ospite sia stata fra le cause che le fecero correre il rischio di essere messa a morte.

Secondo una tradizione che risale a Idomeneo di Lampsaco (Iᴅᴏᴍ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 338 F 14) e a Ermippo di Smirne (Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46), Frine fu assolta grazie all’appassionata difesa di Iperide, dichiarato esponente della fazione antimacedone e nientemeno che uno dei suoi tanti amanti: in maniera forse un po’ troppo tendenziosa e non senza intenti calunniosi, Iperide è passato alla storia come un uomo «incline ai piaceri di Afrodite» (πρὸς τὰ ἀφροδίσια καταφερής) e si racconta che, per assecondare la propria libidine in santa pace, avesse perfino cacciato di casa suo figlio Glaucippo, introducendovi Mirrina, «la più costosa fra le etere» (τὴν πολυτελεστάτην ἑταίραν); a dire il vero, sembra che l’oratore mantenesse al Pireo un’altra cortigiana, Aristagora, e in una sua tenuta a Eleusi un’altra ancora, una ragazza tebana di nome Fila, che avrebbe riscattato per 20 mine (equivalenti a 2000 dracme: una somma davvero considerevole!), divenuta custode del suo patrimonio. Nonostante avesse trasferito in casa propria la suddetta Mirrina, Iperide nel suo 𝐼𝑛 𝑑𝑖𝑓𝑒𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝐹𝑟𝑖𝑛𝑒 avrebbe ammesso «di essere innamorato di questa donna e di non essersi mai allontano da questo amore» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 58, 590c-d; cfr. Pʟᴜᴛ. 𝑋 𝑜𝑟𝑎𝑡. 849d). Il discorso pronunciato dal politico ateniese in difesa dell’ἑταίρα purtroppo è andato perduto, ma se ne conserva qualche frammento (Hʏᴘ. LX F 171-180 Jensen), a cui va aggiunta una messe di notizie trasmesse da autori posteriori, propensi a romanzare la vicenda con dettagli pittoreschi: occorre perciò cautela nel vaglio delle fonti.

Il processo contro Frine, collocabile approssimativamente tra il 350 e il 335 a.C. (Rᴀᴜʙɪᴛsᴄʜᴇᴋ 1941, 904), ebbe grande risonanza non solo per via dei personaggi coinvolti, ma anche per alcuni piccanti risvolti, su cui l’aneddotica di epoca successiva si sofferma con esibito compiacimento e forse con l’aggiunta di qualche suggestivo dettaglio. A intentare la causa fu un certo Eutia, un oscuro personaggio descritto come un rancoroso e frustrato ex amante di Frine (Aʟᴄɪᴘʜʀ. 𝐸𝑝. IV 4). È opinione comune che il discorso d’accusa sia stato pronunciato da questo Eutia, ma che sia stato scritto dall’oratore e storico Anassimene di Lampsaco (Aɴᴀxɪᴍ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 72 T 17a-b = Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Εὐθίας Dindorf = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e; cfr. pp. 320-321 Baiter Sauppe). Ora, anche ammesso che l’accusatore fosse stato davvero un amante della donna, come pare insinuare lo stesso Iperide (Hʏᴘ. LX F 172 Jensen), è impensabile che Frine fosse citata in giudizio per una banale questione di gelosia e che lei e il suo difensore fossero, all’epoca del processo, praticamente estranei. A dire il vero, dagli sparuti frammenti iperidei (Hʏᴘ. LX F 171-180 Jensen) si evince che il politico ateniese intrattenesse da tempo una relazione con l’etera e che per questo motivo fosse addirittura sospettabile di complicità. Si potrebbe presumere, invero, che il processo intentato da Eutia non fosse altro che un pretesto da parte degli avversari di Iperide per colpire il retore stesso, la cui presenza doveva risultare scomoda e ingombrante non solo per gli esponenti della fazione filomacedone, ma anche per altri che mal sopportavano la sua intransigenza. Chiunque essi fossero, i nemici del retore si guardarono bene dall’esporsi in prima persona: perciò avrebbero fatto ricorso a un loro 𝑜𝑢𝑡𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟 come Eutia, che godeva fama di essere un «sicofante», cioè un accusatore di professione e un prestanome nei processi (Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Εὐθίας Dindorf = Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46b = Hʏᴘ. LX F 176 Jensen; Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995, 305-306).

Il fatto che a Frine fosse stata mossa l’accusa di empietà (γραφὴ ἀσεβείας), crimine per cui era prevista la pena capitale, ha posto alcuni problemi. Si è ipotizzato che l’imputazione fosse un’altra: per esempio, estorsione o tradimento (γραφὴ εἰσαγγελίας), cui, per il suo carattere estremamente generico, era possibile fare ricorso con maggiore ampiezza rispetto all’accusa di empietà (Cᴏᴏᴘᴇʀ 1995, 310-312). Per esempio, in una delle 𝐿𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑟𝑡𝑖𝑔𝑖𝑎𝑛𝑒 di Alcifrone l’etera Bacchide avverte l’amica Mirrina di non chiedere denaro a Eutia, perché, se fosse stata citata in giudizio, sarebbe stata accusata «di aver dato fuoco agli arsenali e di sovvertire le leggi» (Aʟᴄɪᴘʜʀ. 𝐸𝑝. IV 4, 5). Ora, commettere reati di questo tipo era considerato come attentare alla patria e perciò si era perseguiti per εἰσαγγελία. A quanto pare lo stesso procedimento era stato intentato per lo scandalo della mutilazione delle Erme nel 415 (Aɴᴅᴏᴄ. I 11-12; Pʟᴜᴛ. 𝐴𝑙𝑐. 22, 4), secondo quanto era stato stabilito nel 432 dal decreto di Diopite contro «quelli che non credono agli dèi o che insegnano dottrine sugli argomenti celesti» (Pʟᴜᴛ. 𝑃𝑒𝑟. 32, 2, τοὺς τὰ θεῖα μὴ νομίζοντας ἢ λόγους περὶ τῶν μεταρσίων διδάσκοντας; cfr. Hᴀɴsᴇɴ 1975; MᴀᴄDᴏᴡᴇʟʟ 1978, 183-186; 197-201; Hᴀʀʀɪsᴏɴ 1998, II, 50-59).

Quel poco che si sa circa il discorso di Eutia induce a credere che l’accusa di empietà potesse fondarsi anche su argomenti piuttosto vaghi e pretestuosi. In sostanza, come riassume un l’𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑢𝑠 𝑆𝑒𝑔𝑢𝑒𝑟𝑖𝑎𝑛𝑢𝑠, ovvero Τέχνη τοῦ πολιτικοῦ λόγου (𝐿’𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑡𝑖𝑐𝑜), i capi d’imputazione rivolti a Frine erano i seguenti (I 455 Spengel = Eᴜᴛʜ. F 2 Baiter-Sauppe; cfr. 𝑂𝑟𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝐴𝑡𝑡𝑖𝑐𝑖 58, 2, 320 Sauppe): aver fatto baldoria (ἐκώμασεν) in modo licenzioso e indecente nel Liceo; aver organizzato promiscui θίασοι orgiastici fra uomini e donne (θιάσους ἀνδρῶν καὶ γυναικῶν συνήγαγεν); aver introdotto in città una divinità straniera (καινὸν εἰσήγαγε θεόν), un certo Isodaite, al quale si diceva rendessero onore «le donne pubbliche e per nulla virtuose» (Hʏᴘ. LX F 177 Jensen = Hsᴄʜ, 𝑠.𝑣. Ἰσοδαίτης Schmidt; Hᴀʀᴘ¹. 𝑠.𝑣. Ἰσοδαίτης Dindorf; cfr. Pʟᴜᴛ. 𝐷𝑒 𝐸 389a). Stando a un frammento dell’Ἐφεσία (𝐿𝑎 𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝐸𝑓𝑒𝑠𝑜) del comico Posidippo (Pᴏsɪᴅɪᴘ. ᴄᴏᴍ. F 13 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e-f), la fonte cronologicamente più vicina ai fatti, l’accusa a carico di Frine sembra essere stata di natura economica, per una truffa ai danni dei clienti (v. 4, βλάπτειν δοκοῦσα τοὺς βίους μείζους βλάβας); ma c’è chi ha voluto emendare quel τοὺς βίους con τοὺς νέους, per cui il verso anziché riferire: «Accusata di fare danni abbastanza gravi ai patrimoni», suonerebbe: «Accusata di fare danni abbastanza gravi ai giovani», cioè di corrompere la gioventù; ciò non è del tutto inverosimile, dato che il luogo dei presunti bagordi dell’etera era il Liceo, dove si trovava uno dei γυμνασία più frequentati della città (Sᴇᴍᴇɴᴏᴠ 1935, 275). Comunque stessero le cose, dalla tradizione sembra che si trattasse di maldicenze contro una donna dai costumi trasgressivi, più plateali che realmente offensivi nei confronti delle pubbliche istituzioni. E quindi, perché tanto rancore nei riguardi di Mnesarete? Qualsiasi fossero le reali argomentazioni addotte da Eutia, è ragionevole supporre che l’intenzione di eliminare l’etera fosse dovuta a ragioni ben diverse: forse ella aveva suscitato le invidie dei più tradizionalisti per lo stile di vita spregiudicato e per alcuni atteggiamenti eccessivi, come la sfacciata ostentazione della propria ricchezza – uno “schiaffo morale” per le cittadine ateniesi di buona famiglia! Ma, come si è visto, forse incurante dell’invidia e delle critiche, Frine si era industriata in ogni modo per attirare maggiori attenzioni su di sé, senza risparmiarsi gesti, dichiarazioni e provocazioni eclatanti (cfr. Cᴀᴠᴀʟʟɪɴɪ 1999, 49-55).

Il dibattimento fu molto controverso e, secondo la tradizione accolta da Ateneo, Iperide, «poiché con la sua orazione non otteneva nessun risultato, temendo che i giudici votassero la condanna, accompagnata Frine in un punto bene in vista, le stracciò la tunichetta in modo da denudarle il seno, e declamò la perorazione finale con l’ausilio della visione che lei offriva: riuscì dunque a ottenere che i giudici, pieni di superstizioso timore, indulgessero a pietà e non mandassero a morte la sacerdotessa e ancella di Afrodite» (Aᴛʜᴇɴ. XIII 59, 590e = Hʏᴘ. LX F 178 Jensen). La difesa ebbe successo, ma suscitò molte polemiche, per cui «in seguito a tali fatti si stabilì un decreto in base al quale nessun retore che prendesse la difesa di qualcuno ricorresse a lamenti né che l’imputato – uomo o donna che fosse – fosse giudicato mettendosi in mostra» (μετὰ ταῦτα ψήφισμα μηδένα οἰκτίζεσθαι τῶν λεγόντων ὑπέρ τινος μηδὲ βλεπόμενον τὸν κατηγορούμενον ἢ τὴν κατηγορουμένην κρίνεσθαι). Quanto riportato dall’erudito di Naucrati, attingendo al biografo ellenistico Ermippo di Smirne (Hᴇʀᴍɪᴘ¹. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 46a), è forse il resoconto più dettagliato sulla vicenda, ma non di certo l’unico. Mentre lo Pseudo-Plutarco (Pʟᴜᴛ. 𝑋 𝑜𝑟𝑎𝑡. 849d) descrive l’episodio con lievi differenze rispetto ad Ateneo, il particolare della svestizione di Frine è riferito da altri autori con alcune varianti: secondo Quintiliano (Qᴜɪɴᴛ. II 15, 9), sarebbe stato denudato tutto il corpo dell’imputata, mentre per Sesto Empirico (Sᴇxᴛ. Eᴍᴘ. 𝑀𝑎𝑡ℎ. 2, 4) sarebbe stata la stessa etera a prendere l’iniziativa e, lacerata la veste, a petto nudo, si sarebbe gettata ai piedi dei giudici. In ogni caso, sembra che la storia della denudazione sia sorta da una ipotiposi retorica (forse la patetica scena dell’accusata che si stracciava tragicamente le vesti scoprendo il seno); presa per vera da biografi, poeti ed eruditi di epoca successiva, si tratterebbe di una versione “vulgata” di forte impatto (cfr. Cᴀsᴛᴇʟʟᴀɴᴇᴛᴀ 2013, 107-113).

Jean-Léon Gérôme, Frine davanti l’Areopago. Olio su tela, 1861.

Nel III secolo a.C. le peripezie giudiziarie di Frine erano talmente popolari da ispirare anche la salace parodia di Eronda: nel suo mimiambo, Πορνοβοσκός (𝐼𝑙 𝑙𝑒𝑛𝑜𝑛𝑒), il protagonista Battaro svolge il proprio monologo contro alcuni giovinastri accusati di violenza su una delle sue ragazze, Mirtale; l’improvvisato oratore, nella perorazione finale, chiama a sé la prostituta e la invita a denudarsi davanti alla corte per comprovare la verità delle sue imputazioni (Hᴇʀᴏɴᴅ. 2, 65ss.). Ha tutta l’aria di essere un riecheggiamento in chiave parodica del processo a Frine: qui però la celeberrima etera è abbassata al livello di una volgare prostituta di infima condizione, mentre Battaro, trasformato in un Iperide da bordello, mostra nuda la sua protetta non solo per avallare le proprie argomentazioni, ma anche, e molto probabilmente, per eccitare i bassi istinti dei giurati.  

Tuttavia, la fonte più antica pervenuta, il già citato frammento del commediografo macedone Posidippo (c. 316- 𝑝𝑜𝑠𝑡 279 a.C.), ridimensiona decisamente l’accaduto (Pᴏsɪᴅɪᴘ. ᴄᴏᴍ. F 13 Kassel-Austin = Aᴛʜᴇɴ. XIII 60, 591e-f):

Un tempo Frine fu di gran lunga la più celebre

di noi etere. E anche se sei troppo giovane per quei tempi,

avrai senz’altro sentito parlare del suo processo.

Accusata di far danni abbastanza gravi ai patrimoni,

ella per la sua vita conquistò l’Eliea […]

e, stringendo le mani a ciascuno dei giudici,

a stento salvò la pelle con le lacrime.

Con ogni probabilità, la versione di Posidippo potrebbe essere la più attendibile, dato che, da buon comico, non si sarebbe certo risparmiato di bersagliare l’etera, se l’episodio della denudazione si fosse verificata. Inoltre, nel frammento dell’Ἐφεσία non si fa alcuna menzione dell’accusa di empietà. Invece, quello che più colpisce della versione di Ermippo-Ateneo è l’enfasi posta sulla «pietà» (οἶκτος) e sul «superstizioso timore» (δεισιδαιμονῆσαι) suscitati nei giurati dalla vista epifanica (ἐκ τῆς ὄψεως αὐτῆς) della bellezza di Frine, incarnazione vivente della dea Afrodite, di cui l’etera è detta essere «sacerdotessa e ancella» (ὑποφῆτιν καὶ ζάκορον).

Comunque siano andate le cose, il processo con il quale i nemici suoi e di Iperide volevano toglierla di mezzo, paradossalmente, si risolse in una definitiva consacrazione del fascino di Frine.

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Il mito di Licaone (Paus. VIII 2)

di PAUSANIA, Viaggio in Grecia. Arcadia (libro VIII), a cura di S. RIZZO, Milano 2004, pp. 134-139, e note a pp. 433-436. Testo greco di Pausaniae Graeciae descriptio, vol. 3, ed. F. SPIRO, Leipzig, Teubner, 1903 [perseus.tufts.edu].

 

Λυκάων δὲ ὁ Πελασγοῦ τοσάδε εὗρεν ‹ἢ› ὁ πατήρ οἱ σοφώτερα· Λυκόσουράν τε γὰρ πόλιν ᾤκισεν ἐν τῷ ὄρει τῷ Λυκαίῳ καὶ Δία ὠνόμασε Λυκαῖον καὶ ἀγῶνα ἔθηκε Λύκαια. οὐκέτι δὲ τὰ παρ᾽ Ἀθηναίοις Παναθήναια τεθῆναι πρότερα ἀποφαίνομαι· τούτῳ γὰρ τῷ ἀγῶνι Ἀθήναια ὄνομα ἦν, Παναθήναια δὲ κληθῆναί φασιν ἐπὶ Θησέως, ὅτι ὑπὸ Ἀθηναίων ἐτέθη συνειλεγμένων ἐς μίαν ἁπάντων πόλιν. [2] ὁ δὲ ἀγὼν ὁ Ὀλυμπικὸς — ἐπανάγουσι γὰρ δὴ αὐτὸν ἐς τὰ ἀνωτέρω τοῦ ἀνθρώπων γένους, Κρόνον καὶ Δία αὐτόθι παλαῖσαι λέγοντες καὶ ὡς Κούρητες δράμοιεν πρῶτοι — τούτων ἕνεκα ἐκτὸς ἔστω μοι τοῦ παρόντος λόγου. δοκῶ δὲ ἔγωγε Κέκροπι ἡλικίαν τῷ βασιλεύσαντι Ἀθηναίων καὶ Λυκάονι εἶναι τὴν αὐτήν, σοφίᾳ δὲ οὐχ ὁμοίᾳ σφᾶς ἐς τὸ θεῖον χρήσασθαι. [3] ὁ μὲν γὰρ Δία τε ὠνόμασεν Ὕπατον πρῶτος, καὶ ὁπόσα ἔχει ψυχήν, τούτων μὲν ἠξίωσεν οὐδὲν θῦσαι, πέμματα δὲ ἐπιχώρια ἐπὶ τοῦ βωμοῦ καθήγισεν, ἃ πελάνους καλοῦσιν ἔτι καὶ ἐς ἡμᾶς Ἀθηναῖοι· Λυκάων δὲ ἐπὶ τὸν βωμὸν τοῦ Λυκαίου Διὸς βρέφος ἤνεγκεν ἀνθρώπου καὶ ἔθυσε τὸ βρέφος καὶ ἔσπεισεν ἐπὶ τοῦ βωμοῦ τὸ αἷμα, καὶ αὐτὸν αὐτίκα ἐπὶ τῇ θυσίᾳ γενέσθαι λύκον φασὶν ἀντὶ ἀνθρώπου. [4] καὶ ἐμέ γε ὁ λόγος οὗτος πείθει, λέγεται δὲ ὑπὸ Ἀρκάδων ἐκ παλαιοῦ, καὶ τὸ εἰκὸς αὐτῷ πρόσεστιν. οἱ γὰρ δὴ τότε ἄνθρωποι ξένοι καὶ ὁμοτράπεζοι θεοῖς ἦσαν ὑπὸ δικαιοσύνης καὶ εὐσεβείας, καί σφισιν ἐναργῶς ἀπήντα παρὰ τῶν θεῶν τιμή τε οὖσιν ἀγαθοῖς καὶ ἀδικήσασιν ὡσαύτως ἡ ὀργή, ἐπεί τοι καὶ θεοὶ τότε ἐγίνοντο ἐξ ἀνθρώπων, οἳ γέρα καὶ ἐς τόδε ἔτι ἔχουσιν ὡς Ἀρισταῖος καὶ Βριτόμαρτις ἡ Κρητικὴ καὶ Ἡρακλῆς ὁ Ἀλκμήνης καὶ Ἀμφιάραος ὁ Ὀικλέους, ἐπὶ δὲ αὐτοῖς Πολυδεύκης τε καὶ Κάστωρ. [5] οὕτω πείθοιτο ἄν τις καὶ Λυκάονα θηρίον καὶ τὴν Ταντάλου Νιόβην γενέσθαι λίθον. ἐπ᾽ ἐμοῦ δὲ — κακία γὰρ δὴ ἐπὶ πλεῖστον ηὔξετο καὶ γῆν τε ἐπενέμετο πᾶσαν καὶ πόλεις πάσας — οὔτε θεὸς ἐγίνετο οὐδεὶς ἔτι ἐξ ἀνθρώπου, πλὴν ὅσον λόγῳ καὶ κολακείᾳ πρὸς τὸ ὑπερέχον, καὶ ἀδίκοις τὸ μήνιμα τὸ ἐκ τῶν θεῶν ὀψέ τε καὶ ἀπελθοῦσιν ἐνθένδε ἀπόκειται. [6] ἐν δὲ τῷ παντὶ αἰῶνι πολλὰ μὲν πάλαι συμβάντα, ‹τὰ› δὲ καὶ ἔτι γινόμενα ἄπιστα εἶναι πεποιήκασιν ἐς τοὺς πολλοὺς οἱ τοῖς ἀληθέσιν ἐποικοδομοῦντες ἐψευσμένα. λέγουσι γὰρ δὴ ὡς Λυκάονος ὕστερον ἀεί τις ἐξ ἀνθρώπου λύκος γίνοιτο ἐπὶ τῇ θυσίᾳ τοῦ Λυκαίου Διός, γίνοιτο δὲ οὐκ ἐς ἅπαντα τὸν βίον· ὁπότε δὲ εἴη λύκος, εἰ μὲν κρεῶν ἀπόσχοιτο ἀνθρωπίνων, ὕστερον ἔτει δεκάτῳ φασὶν αὐτὸν αὖθις ἄνθρωπον ἐκ λύκου γίνεσθαι, γευσάμενον δὲ ἐς ἀεὶ μένειν θηρίον. [7] ὡσαύτως δὲ καὶ Νιόβην λέγουσιν ἐν Σιπύλῳ τῷ ὄρει θέρους ὥρᾳ κλαίειν. ἤδη δὲ καὶ ἄλλα ἤκουσα, τοῖς γρυψὶ στίγματα ὁποῖα καὶ ταῖς παρδάλεσιν εἶναι, καὶ ὡς οἱ Τρίτωνες ἀνθρώπου φωνῇ φθέγγοιντο· οἱ δὲ καὶ φυσᾶν διὰ κόχλου τετρυπημένης φασὶν αὐτούς. ὁπόσοι δὲ μυθολογήμασιν ἀκούοντες ἥδονται, πεφύκασι καὶ αὐτοί τι ἐπιτερατεύεσθαι· καὶ οὕτω τοῖς ἀληθέσιν ἐλυμήναντο, συγκεραννύντες αὐτὰ ἐψευσμένοις.

Jan Cossier, Giove e Licaone. Olio su tela, 1640 c. Madrid, Museo Nacional del Prado.

[1] Le innovazioni di Licaone figlio di Pelasgo[1], frutto di una sapienza maggiore ‹di› quella del padre suo, furono le seguenti. Fondò la città di Licosura sul monte Liceo, diede a Zeus il titolo di “Liceo” e istituì delle gare Licee[2]. Ed è mia opinione che, prima delle Licee, non erano state ancora istituite nemmeno le prime Panatenee degli Ateniesi. E dico «prime», perché questa gara si chiamava in quel tempo Atenee, mentre il nome di Panatenee dicono che fu loro dato sotto Teseo, perché organizzate allora dagli Ateniesi ormai riuniti tutti insieme in un’unica città. [2] Per quanto, poi, riguarda il certame olimpico, proprio perché lo fanno risalire a un periodo anteriore al genere umano raccontando che là Crono e Zeus si misurarono nella lotta e che i Cureti disputarono la prima gara di corsa, per questo motivo intendo escluderlo da quanto ora stiamo dicendo[3]. Personalmente ritengo che l’età di Licaone fu la stessa di quella di Cecrope, re degli Ateniesi[4], ma non simile fu la saggezza che essi dimostrarono nei confronti della divinità. [3] L’uno, infatti, fu il primo a chiamare Ipato (sc. “Supremo”) Zeus e, ritenendo giusto escludere dal sacrificio tutto ciò che fosse animato, offrì sull’altare dolciumi fatti alla maniera locale, che ancora ai tempi miei gli Ateniesi chiamano pelánoi (sc. libazioni)[5]. Licaone, invece, portò all’altare di Zeus Liceo un bambino appena nato e lo sacrificò e del suo sangue fece libazione sull’altare e, subito dopo il sacrificio, dicono che da uomo si trasformò in lupo[6]. [4] Per quanto mi riguarda, anch’io credo a questo racconto: esso gode di un’antica tradizione presso gli Arcadi e, inoltre, ha tutto l’aspetto della verisimiglianza[7]. Gli uomini di allora, infatti, grazie alla loro giustizia e religiosa pietà, erano ospiti e commensali degli dèi e da parte degli dèi ricevevano apertamente onore quando erano buoni e allo stesso modo erano colpiti dal loro sdegno quando peccavano. E, in effetti, in quei tempi alcuni da uomini che erano diventavano dèi, e ancor oggi conservano i loro onori, come Aristeo, la cretese Britomarti, Eracle figlio di Alcmena, Anfiarao figlio di Oicle e, oltre a questi, Polluce e Castore[8]. [5] Si potrebbe perciò credere che anche Licaone sia diventato una belva e Niobe di Tantalo una pietra[9]. Ai miei tempi, invece, poiché la malvagità cresceva fino al culmine o occupava tutta quanta la Terra e tutte quante le città, nessuno più da uomo diventava dio se non a parole e per adulazione verso i potenti, mentre la vendetta divina troppo tardi colpisce gli ingiusti e quando già se ne sono andati da questo mondo. [6] Ma in tutto il lungo volgere del tempo coloro che sulla verità costruiscono castelli di menzogne hanno fatto sì che la gente non presti fede ai molti casi verificatisi in antico e ‹a quelli› che ancora succedono. E difatti si dice che dopo i tempi di Licaone, in seguito al sacrificio offerto a Zeus Liceo, un uomo si trasformi ogni volta in lupo: non lo resterebbe, però, per tutta la vita, ma, quando è un lupo, se si astiene dal mangiare carne umana, al decimo anno dicono che di nuovo da lupo ridiventa uomo. Se invece ne assaggia, rimane bestia per sempre[10]. [7] Allo stesso modo, raccontano anche che Niobe sul monte Sipilo piange nella stagione estiva. E altri racconti udii ancora: che i grifoni hanno la pelle maculata come quella dei leopardi e che i Tritoni emettono voce umana. C’è anche chi dice che essi suonano soffiando in una conchiglia perforata[11]. E coloro che prendono diletto ad ascoltare racconti meravigliosi sono soliti aggiungervi anch’essi qualche elemento portentoso e in questo modo corruppero le verità mescolandole con le menzogne.

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Note:

[1] In questo capitolo e fino a tutto il quinto Pausania illustra la successione dei re di Arcadia da Pelasgo ad Aristocrate II, cioè dai tempi mitici alla fine della seconda guerra messenica (668 a.C., secondo Pausania). Questa lista dei re arcadi, i quali avrebbero regnato su tutta l’Argolide (mentre sappiamo per certo che una unità politica arcadica non esistette nei tempi remoti, ma fu il prodotto, completamente attuato con la fondazione di Megalopoli, 370 a.C., della resistenza degli Arcadi all’espansionismo spartano), è probabilmente frutto di composizione di fonti anche tarde e diverse, per lo più a noi non note, alcune delle quali sicuramente scritte (le più antiche), altre orali e raccolte dalle tradizioni locali delle città arcadi (le più recenti) che Pausania visitò, v. J. HEJNIC, Pausanias the Periget and the Archaic History of Arcadia, Prague 1961; F. HILLER VON GAERTRINGEN, Pausanias’ arkadische Königsliste, Klio 21 (1927), 1-13; J. ROY, The Sons of Lycaon in Pausanias’ Arcadian King-List, ABSA 63 (1968), 287- 292, e cfr. cap. 6, 1 e nota 1. Licaone era figlio di Pelasgo e di Melibea, figlia di Oceano o, secondo altri, della ninfa Cillene (Apollod. 3, 8, 1) o di Deianira, figlia di un altro Licaone, figlio di Ezeo (Dion. 1, 11 e 13).

[2] Licosura, la «prima città che il sole vide» (v. cap. 38, 1), ricorda il nome di Licaone. Per il monte Liceo v. cap. 38, 2 sgg. L’epiteto Liceo è qui connesso (Licaone – Licosura – monte Liceo) con la radice del nome greco del lupo più che con quella che indica la luce e rimanda all’aspetto solare del dio. Le gare Licee (v. cap. 38, 5), ricordate da Pindaro (O. 9, 97; 13, 108; N. 10, 48) e paragonate dagli antichi ai romani Lupercalia (Liv. 1, 5, 1 sg.; Dion. 1, 80; Plut. Caes. 61, 1; ecc.), erano considerate da Aristotele le quarte nell’ordine cronologico dopo le Eleusinie, le Panatenee e la gara di corsa istituita da Danao (fr. 637 R.). Ma Pausania, una volta accettate l’autoctonia di Pelasgo e l’attività di «primi civilizzatori» di Pelasgo e di Licaone, reputa, coerentemente, le Licee anteriori a tutte le altre gare famose, anteriori anche alle Eleusinie, dal momento che queste furono istituite per l’invenzione del grano, mentre Pelasgo e Licaone vissero ai tempi in cui gli uomini si cibavano di ghiande. Che le Panatenee (v. 1, 2 nota 7) siano state istituite da Teseo (per il sinecismo, v. App. I, 19) è accennato da Plutarco (Thes. 24, 3) e dato per certo dalla tarda tradizione (Suda, ecc.). Delle Atenee faceva menzione l’attidografo Istro (FGrHist. 334 F4).

[3] Cfr. 5, 7, 6 sgg.

[4] «Personalmente ritengo…»: con questa espressione Pausania propone una sua cronologia, considerando Licaone contemporaneo di Cecrope I, cioè del secondo re dell’Attica (v. 1, 2, 6 e nota 13), così come Licaone è il secondo re dell’Arcadia. E come nel § precedente assegna a Licaone il primato dell’istituzione delle gare (le Licee) contro la tradizione «canonica» (v. nota 2), qui gli assegna la contemporaneità con Cecrope I nell’istituzione del culto di Zeus (v. § 3), ancora contro la tradizione canonica, cfr. Marmor Parium, 17 (che assegna l’istituzione delle Licee e il sacrificio del bambino all’epoca del re ateniese Pandione, figlio di Cecrope II).

[5] Sull’acropoli di Atene c’era l’altare di Zeus Ipato (v. 1, 26, 5), al quale non si sacrificavano esseri viventi. Questo altare era stato eretto da Cecrope (v. Euseb. Praep. Ev. 10, 9, 15).

[6] Questa è la versione di Pausania e probabilmente degli Arcadi suoi contemporanei. Noi possiamo pensare che questo sacrificio conservi il ricordo di antichi (preistorici) sacrifici di vittime umane per Zeus Liceo, però Pausania non fa cenno a questa origine come non fa cenno, a proposito delle «libazioni» di Cecrope, all’origine agricola del sacrificio incruento. Licaone, al contrario di Cecrope, peccò per mancanza di «saggezza» e, per aver offerto sangue umano al dio, fu punito con la trasformazione in lupo. Le varie versioni del mito diffuse in antico, e tutte respinte da Pausania (v. §§ 5-7), sostenevano invece che i figli di Licaone erano empi e superbi, e Zeus, per sincerarsi della loro empietà, andò a visitarli in veste di povero. I figli di Licaone allora, per istigazione di Menalo, gli offrirono insieme ai sacrifici carne umana. Zeus, disgustato, li fulminò tutti, Licaone e i suoi cinquanta figli, tranne l’ultimo, Nittimo, dopo aver rovesciato la tavola (trapeza) nel luogo ora chiamato Trapezunte (Apollod. 3, 8, 1); oppure: Licaone, volendo distogliere i suoi sudditi dall’ingiustizia, diceva che Zeus gli faceva frequenti visite per osservare il comportamento degli uomini. Ma un giorno i figli di Licaone, per accertarsi che l’ospite del padre fosse realmente un dio, mescolarono carni umane a quelle della vittima sacrificale, e Zeus con fulmini e tempeste li uccise tutti (Niccolò di Damasco, FGrHist. 90 F 38; Hyg. 176; Suda). Il bambino offerto in sacrificio sarebbe stato Nittimo (o Arcade), e Zeus avrebbe tramutato in lupi Licaone e molti altri, o i figli di Licaone (Clem. Alex. Potr. 2, 27; Nonn. 18, 20 sgg.; scol. Licophr. 481, che segue, con dettagli diversi, le due versioni sopra citate), o il solo Licaone, che aveva messo alla prova Zeus con l’offerta delle carni di un bambino (Hyg. Astron. 2, 4; Ovid. Met. 1, 215 sgg., per il quale la vittima umana era un prigioniero molosso; Servio, ad Aen. 1, 731).

[7] Pausania vuole dimostrare qui la verisimiglianza della leggenda di Licaone, nei termini in cui la accetta, ricordando che, in origine, gli uomini vivevano vicini agli dèi (cfr. Od. 5, 35; 7, 201 sgg.: i Feaci sono «vicini agli dèi»; con loro gli dèi siedono a mensa) e perciò dagli dèi ricevevano ricompense, se giusti, o punizioni, se ingiusti, subito e direttamente in un rapporto personale, perché gli dèi vigilavano da vicino sulle azioni umane. Ora questo non avviene più a causa dell’ingiustizia e dell’empietà degli uomini diffuse per tutta la Terra e, perciò, nessun uomo oggi per la sua giustizia diventa un dio (le apoteosi degli imperatori romani sono solo finzioni dovute ad adulazione), come nessuno per la sua ingiustizia viene punito direttamente e subito dagli dèi: la punizione è sempre tardiva e spesso colpisce non il colpevole, ma la sua memoria (considerazione, questa, che dà inizio al dialogo plutarcheo De sera numinum vindicta, M. 548d sgg.). Non sembra il caso, quindi, di vedere un contrasto fra questa e altre affermazioni o narrazioni di Pausania circa l’intervento degli dèi nelle vicende umane in aiuto e difesa degli uomini e delle città o per la loro rovina (v. Habicht, pp. 154 sg.; Heer, pp. 263 e 306 sg.).

[8] Ad Aristeo, figlio di Apollo e di Cirene, per i suoi molteplici benefici resi agli uomini (v. 10, 17, 3 sgg.) non solo i barbari, ma anche i Greci attribuirono onori divini (Diod. 4, 82, 6). Per Britomarti v. 2, 30, 3 e nota 4; per Eracle v. App. VIII, 42-43; per Anfiarao v. 1, 34, 2 sgg. e nota 3; per Castore e Polluce v. 3, 13, 1 e nota 2.

[9] Per Niobe v. 1, 21, 3 e nota 5.

[10] Pausania respinge tutte quelle leggende che sono opera della fantasia dei poeti e dei narratori. Queste menzogne corrompono infatti la genuina semplicità del vero e confondono la gente, che di fronte a tante meravigliose e stupefacenti invenzioni non crede più ai fatti realmente avvenuti. Circa la trasformazione dell’uomo in lupo v. 6, 8, 2 e nota 2 e cfr. Hdt. 4, 105: «Io non credo a queste storie».

[11] Omero, infatti, dice che Niobe è tramutata in roccia, ma non dice che la roccia piange (Il. 24, 617), mentre Ovidio (Met. 6, 311 sg.) afferma che «ancor oggi la pietra emette pianto». I grifoni, mostri favolosi con la testa di uccello (aquila) e corpo di felino, rappresentati già dal IV millennio a.C. nel vicino Oriente, in Egitto, a Creta e quindi in Etruria e a Roma (in aspetti vari a seconda dei luoghi e delle età), erano immaginati per lo più come guardiani (v. 1, 24, 6) e simbolicamente interpretati. È naturale perciò che scrittori e artisti li rappresentassero nelle forme più diverse. Per esempio, Ctesia (storico del V-IV secolo a.C., raccoglitore di curiosità persiane) aveva scritto che i grifoni avevano il collo variegato di piume blu (v. Ael. Nat. Animal. 4, 27, che descrive l’aspetto dei grifoni indiani). Lo stesso dicasi per i Tritoni, divinità marine a figura pisciforme dalla vita in giù. Meravigliosi veicoli per il trasporto di eroi e di dèi sul mare nell’epoca più antica, nel periodo classico ed ellenistico sono considerati personaggi del seguito di Poseidone. Che i Tritoni suonassero e usassero a questo fine conchiglie marine è detto da Virgilio (Aen. 6, 171 sgg.; 10, 209 sg.), Plinio (Nat. Hist. 9, 9), Igino (Astron. 2, 23) e da molti altri scrittori antichi, ed è tema molto diffuso nelle opere d’arte ellenistiche e romane. Pausania presta fede alle leggende originarie riferite da antichi autori (Ariste. v. 1, 24, 6, per i grifoni; Hes. Theog. 930 sgg., per Tritone, figlio di Poseidone e Anfitrite), ma non accetta, anzi respinge decisamente tutte le meravigliose invenzioni che, travisando il primitivo significato di queste figure, ne hanno moltiplicato gli esemplari, guastato la forma e sovvertito la verità.

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Bibliografia ulteriore:

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Cineto di Chio alle Delie

di A. Aloni, Cantare glorie di eroi. Comunicazione e performance poetica nella Grecia arcaica, Torino 1998, pp. 65-76.

 

Nel 523 (o 522) a.C., nell’isola di Delo, il rapsodo Cineto di Chio si esibì in una particolarissima performance, in occasione di una festa altrettanto particolare, organizzata dal tiranno Policrate di Samo per onorare Apollo. La particolarità della festa consisteva nel fatto che essa intendeva celebrare, nell’isola cicladica, non solo la locale epiclesi di Apollo, ma anche quella delfica. In questa occasione Cineto, a partire da due diverse composizioni tradizionali, «combinò insieme» (così ritiene Burkert) oppure compose (a mio avviso) un proemio epico di struttura affatto peculiare, in cui le parti celebranti Apollo Delio e Apollo Pizio risultano fuse in un’unica composizione – l’Inno omerico ad Apollo – attraverso una sezione specificamente rivolta a descrivere e celebrare la festa in atto; sezione tanto precisa e puntuale nei contenuti, che di essa si servì in seguito Tucidide (III, 104) per il suo excursus sulla storia più antica delle Delie.
Le fonti che ci tramandano il ricordo dell’iniziativa policratea non dicono assolutamente nulla a proposito della struttura della festa; solo in Zenobio l’evento viene definito agōn. Questo indizio, unito a quanto si dice nell’Inno stesso (soprattutto ai vv. 149-150) e alla descrizione tucididea, ci permette di affermare che la festa composita comprendeva una parte musico-corale, di carattere probabilmente competitivo.
È questo il quadro generale in cui va inserito l’Inno. Sulla funzione pratica degli Inni omerici nel contesto della poesia greca arcaica vi è fra gli studiosi un accordo sostanzialmente unanime, anche se non molto esplicito e talvolta silenzioso. La funzione proemiale dell’Inno ad Apollo sembra assicurata anche dalla coincidenza strutturale e tematica di fondo che esso mostra con gli altri Inni della silloge: come è stato anche recentemente notato, l’Inno non si differenzia che per una particolare elaborazione, e una notevole espansione di talune fra le parti che tradizionalmente compongono un proemio rapsodico.
L’unico elemento anomalo rispetto alla forma tradizionale dei proemi omerici è costituito dai vv. 146-176; l’anomalia, anzi la rottura, è evidente sotto molti punti di vista: dopo una serie di appellazioni dirette al dio, il poeta passa a descrivere i caratteri generali della festa in atto, per appuntare infine la sua attenzione su un gruppo di fanciulle (v. 157); queste formano un coro destinato a cantare, dopo aver celebrato Apollo, Leto e Artemide, le vicende degli uomini e delle donne dei tempi antichi. A questo coro il poeta si raccomanda e gli affida il compito di conservare nel tempo il suo ricordo.
All’inserimento già eccezionale della seconda persona divina, segue l’irrompere in scena dell’”io” del poeta medesimo, e del “voi” del coro, in un’apostrofe in cui sono contemporaneamente presenti valenze descrittive e iussive. Se tutto ciò è eccezionale, addirittura stravagante nel caso dell’innodia epica, la menzione di elementi pragmatici relativi alla performance in atto, almeno per quanto riguarda l’entrata in scena del coro e il rapporto coro-corifeo è invece quasi normale nella lirica, soprattutto nella lirica corale. Tuttavia testimonianze esplicite sia della compresenza, a livello enunciativo nel canto, delle diverse persone del corifeo (= poeta = “io”) e del coro (= “tu”), sia soprattutto di un rapporto pragmatico e iussivo fra i due non sono frequenti neppure nella lirica corale, forse anche per la nostra limitata conoscenza dei testi della lirica corale, forse anche per la nostra limitata conoscenza dei testi della lirica corale cerimoniale e religiosa; è questo il genere dove lo stretto legame tra esecuzione corale e rito apriva le maggiori possibilità di un’esplicita interazione fra i partecipanti all’azione rituale. Le eccezioni non mancano, ma sono relativamente poche, rintracciabili per la lirica arcaica appunto negli sparuti resti della lirica ieratico-cerimoniale, mentre frequenti richieste del poeta – o comunque di un “io” identificabile con il corifeo – nei riguardi di un coro sono presenti solo in alcuni peani epigrafici posteriori all’epoca classica, ma di impianto sicuramente tradizionale. Un rapporto complessivo tra un poeta-corifeo e un coro, paragonabile a quello che compare nei vv. 146-176 dell’Inno ad Apollo, ricorre infine nei due Inni “dorici” di Callimaco (V-VI).

Apollo citaredo. Statua, marmo, copia romana del II sec. d.C. da originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.
Apollo citaredo. Statua, marmo, copia romana del II sec. d.C. da originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.

L’esistenza di un rapporto pragmatico assai simile fra “io” del poeta e “voi” del coro in composizioni tanto diverse da loro e tanto distanti nel tempo e nello spazio non deve indurre a tracciare un’improbabile linea genetica che le colleghi, essa sarà piuttosto un indizio dell’esistenza di uno schema formale diffuso già in epoca arcaica, e collegato a talune caratteristiche e necessariamente devono essersi mantenute identiche nel tempo. In altre parole nulla vieta che uno schema formale permanga nel tempo, pur modificandosi o annullandosi la sua funzione originaria.
In questo quadro, le somiglianze tra il rapporto pragmatico sotteso alla sezione centrale dell’Inno ad Apollo e quello presente nei due Inni callimachei assumono un particolare significato, mettendo ancora in maggiore evidenza l’anomalia che caratterizza l’Inno omerico. Infatti il poeta ellenistico, fino dalla scelta dialettale, intende privilegiare come suo modello non già l’innodia di tipo omerico, bensì – nel quadro, vero o fittizio che sia, di un evento festivo e rituale – la tradizione del canto cerimoniale che, per quanto è dato sapere, si espresse in dorico in tutta l’epoca arcaica e classica, fino all’attico Sofocle.
Se torniamo all’Inno ad Apollo, si pone il problema di una migliore definizione delle performances poetiche inserite nelle feste delie, o meglio ancora delle particolari performances che caratterizzavano la festa istituita da Policrate; questa infatti costituì una rottura del quadro tradizionale, ed è probabile che molte delle innovazioni introdotte dal tiranno non sopravvissero alla sua fine.
A proposito delle Delie in generale, non vi è unanimità fra gli studiosi circa la collocazione temporale della festa e del suo rapporto con le Apollonie. L’opinione più recente, e anche la più diffusa, colloca la festa nel mese di Hieros (all’inizio della primavera) e sostiene l’identità, per il periodo arcaico, fra le due feste.
L’identificazione fra le due feste consente di ascrivere alle Delie anche le notizie, letterarie e soprattutto documentarie, relative alle Apollonie, ampliando così un poco l’insieme di una documentazione assai ristretta. Sulla struttura delle Delie arcaiche le fonti rischiano pericolosamente di ridursi al passo tucidideo più volte citato (essenzialmente basato sull’Inno ad Apollo) e all’Inno medesimo, il testo peraltro del quale si vorrebbe illuminare le valenze pragmatiche e performative. Al fine di evitare, almeno in parte, il rischio della circolarità possiamo per il momento trascurare Tucidide e l’Inno; le altre fonti concordano tutte su un punto: le performances delie sono di tipo corale, e vedono coinvolti cori di entrambi i sessi. Erodoto (IV, 35), Callimaco (Del., 304-305) e Pausania (VIII, 21, 3; I, 18, 5) affermano che nel contesto delle feste di Delo venivano cantate le composizioni dell’antico poeta Olen; questi canti vengono in generale definiti “inni”. In Callimaco ricorre la definizione di nómos: in questo caso però non è certissimo che il canto vada inquadrato nel contesto delle Delie piuttosto che in quello delle Afrodisie. La partecipazione di cori di adolescenti alla festa e la sua prevalente funzione iniziatica vengono più o meno esplicitamente dichiarate da Erodoto (IV, 34), Ateneo (X, 424f), Plutarco (Thes., 21), Pausania (I, 43, 4) e Luciano (de salt., 16). Quest’ultimo chiama “iporchemi” i canti che venivano eseguiti da cori di paîdes con l’accompagnamento della lira e del flauto. Similmente le fonti epigrafiche menzionano costantemente la presenza, alla feste di Delo, di coreghi e di cori, mentre affatto sporadica è la menzione dei rapsodi.

«Apollo Chatsworth», Testa, bronzo, 460 a.C. ca. da Tamasso (Cipro). London, British Museum

Tutto ciò induce a ritenere che gli agoni poetici di Delo si incentrassero su performances di tipo corale; questo potrebbe essere tanto più vero per le Delie, qualora se ne consideri la partecipazione internazionale e il carattere marcatamente spettacolare. Ricorda Plutarco (Nic., 3) che il ricchissimo Nicia, in occasione di una sua coregia a Delo, volle dare particolare splendore alla theōría ateniese: fece sbarcare a Renea uomini e attrezzature il giorno prima della festa, durante la notte fece gettare fra le due isole un ponte di barche attraverso il quale il coro magnificamente abbigliato fece il suo ingresso a Delo cantando. È difficile che qualcuno abbia potuto, anche in seguito, emulare lo sfarzo di Nicia; l’episodio resta tuttavia significativo dell’investimento che le città facevano al momento della loro partecipazione alle Delie.
Anche i testi letterari che in qualche modo possono collegarsi alle Delie sembrano ricondursi a due generi corali: il peana e il ditirambo. Fra i peani di Pindaro il IV (fr. 52 d S.-M.), il V (fr. 52 e S.-M.), e il VIIb (fr. 52 h S.-M.) furono composti per le feste di Delo, il IV sicuramente per una theōría dell’isola di Ceo; dubbi sono invece i committenti degli altri, anche se è probabile una connessione del V con Atene. Fra i ditirambi delii rientrano sia il carme 17 di Bacchilide, anch’esso per i Cei, sia il Memnone di Simonide (PMG 389); quest’ultimo era compreso in una raccolta di ditirambi detta Dēliaká. A proposito della raccolta, sono egualmente possibili due spiegazioni: o essa riuniva i ditirambi composti da Simonide per le feste di Delo, ed era quindi una sottosezione di una – peraltro non attestata – raccolta dei ditirambi di Simonide, oppure era una silloge particolare di provenienza delia, dove il Memnone era inserito insieme ad altri ditirambi di altri poeti. In entrambi i casi è comunque evidente come i ditirambi occupassero un posto di rilievo all’interno delle Delie.
Distinguere i peani dai ditirambi era difficile anche per gli antichi: neppure la presenza o l’assenza del ritornello iḕ paián serve a individuare con certezza un peana. Ancora più difficile appare una distinzione dal punto di vista pragmatico: soprattutto quando, come nel caso di Delo, ditirambi e peani sono inseriti all’interno di feste apollinee.

Autore anonimo. Un aedo canta accompagnandosi alla lira. Pittura vascolare su kyklix attica a figure nere, 515 a.C. ca. Wisconsin, Chazen Museum of Art
Autore anonimo. Un aedo canta accompagnandosi alla lira. Pittura vascolare su kyklix attica a figure nere, 515 a.C. ca. Wisconsin, Chazen Museum of Art.

Tali caratteristiche delle feste delie non sono senza conseguenze per la definizione delle linee complessive della performance di Cineto: restando fisso il carattere proemiale, introduttivo dell’Inno ad Apollo, occorre interrogarsi sulla natura di quanto all’Inno doveva seguire. Una regolare successione di altri canti epici, di argomento eroico e di forma esametrica, pare improbabile per molte ragioni. Infatti, non vi è quasi traccia di un agone rapsodico nella documentazione relativa alla festa, mentre con esso contrastano alcune peculiarità dell’Inno medesimo. Questo infatti si conclude nel modo più stereotipo con due versi che esprimono il saluto del dio e l’intenzione generica di ricordarsi ancora del dio e di un altro canto. Manca qualsiasi accenno di preghiera personale al dio. Questa preghiera contiene sovente – in forma più o meno esplicita – una richiesta di vittoria agonale, che può essere introdotta o addirittura riassunta in un hílēthi (1, 17; 23, 4; cfr. 19, 48), o avere espressione più ampia come nell’Inno a Demetra (v. 494) e negli Inni 30, 18 e 31, 17, dove il poeta chiede la «prosperità che rallegra il cuore», o come negli Inni 11, 5; 15, 9 e 20, 8 contrassegnati da una forma imperativa di dídōmi cui corrispondono predicati diversi: týchē, eudaimonía, aretḗ, ólbos. La richiesta di vittoria è poi affatto esplicita nell’Inno 26 (a Dioniso 12-13), in cui si chiede di tornare felicemente ogni anno alla festa del dio e nell’Inno VI (ad Afrodite, vv. 19-20).
Il fatto che il poeta non accenni ad alcuna richiesta di vittoria non avrebbe in sé molto peso, come ogni altro argomento e silentio: anche l’Inno ad Ermes, fra i maggiori, si conclude con un identico stringatissimo finale. È significativo però che i tre motivi tipici della conclusione abbiano già avuto un’ampia e peculiare trattazione in precedenza, e occupino buona parte della sezione centrale relativa alla festa in atto. Dopo la menzione del coro delle Deliadi (v. 156 sgg.) assistiamo a una sorta di trasferimento al coro delle funzioni proprie del rapsodo o dei rapsodi all’interno degli agoni: dopo aver cantato Apollo, Leto e Artemide esse canteranno le vicende degli uomini e delle donne antichi. La terminologia è generica, ma proprio per questo significativa; ricorrono infatti i temi chiave delle conclusioni: il canto del coro è definito (v. 161) hýmnos e aoidḗ, mentre la produzione poetica è allusa mediante l’azione di “ricordare” (v. 160).
In pratica, i vv. 158-159 riprendono i temi propri del saluto al dio, mentre i vv. 160-161 si riferiscono alla transizione dalle lodi del dio a un altro canto di diverso argomento. La parte relativa alla preghiera e alla richiesta di vittoria riceve infine una trattazione assolutamente straordinaria ai vv. 165-173, che è opportuno esaminare da vicino.

ἀλλ᾽ ἄγεθ᾽ ἱλήκοι μὲν Ἀπόλλων Ἀρτέμιδιξύν,
χαίρετε δ᾽ ὑμεῖς πᾶσαι· ἐμεῖο δὲ καὶ μετόπισθεν
μνήσασθ᾽, ὁππότε κέν τις ἐπιχθονίων ἀνθρώπων
ἐθάδ᾽ ἁνείρηται ξεῖνος ταλαπείριος ἐλθών·
ὦ κοῦραι, τίς δ᾽ ὔμμιν ἀνὴρ ἥδιστος ἀοιδῶν
ἐνθάδε πωλεῖται, καὶ τέῳ τέρπεσθε μάλιστα;
ὑμεῖς δ᾽ εὖ μάλα πᾶσαι ὑποκρίνασθαι ἀφήμως·
τυφλὸς ἀνήρ, οἰκεῖ δὲ Χίῳ ἔνι παιπαλοέσσῃ
τοῦ μᾶσαι μετόπισθεν ἀριστεύσουσιν ἀοιδαί.

Ordunque siate benigni, Apollo con Artemide,
e voi tutti siate felici, e di me anche in futuro
ricordatevi, quando uno degli uomini che vivono sulla terra,
uno straniero, che qui giunga dopo aver molto sofferto, vi chieda:
«O fanciulle, chi è per voi il più dolce fra gli aedi
che qui sono soliti venire, e chi vi è più gradito?»
E voi tutte, concordi, rispondete con parole di lode:
«È un uomo cieco, e vive nella rocciosa Chio:
e tutti i suoi canti saranno sempre i più belli».

(trad. it. di F. Càssola)

 

Vi è un inizio favorevole (v. 165, «siate benigni») in cui si chiede il favore di Apollo e Artemide e dove il verbo sembra aprire la strada al tema della richiesta di protezione e di vittoria; a questo punto invece segue un’improvvisa reduplicazione del tema del saluto, rivolto però alle ragazze del coro (v. 166, «e voi tutte siate felici»); su questa s’innesta una ripresa del tema “ricordare”. Qui lo spostamento dei referenti è completo, oggetto del ricordo non sono altri canti, ma il poeta stesso: si realizza così una forma di preghiera del tutto senza paralleli. L’eccellenza del poeta e del suo canto non fa parte di una richiesta di vittoria, ma è un dato incontestabilmente affermato, e offerto alle Deliadi perché lo proclamino nel futuro (vv. 169-173).
All’interno di questa trama manca insomma ogni accenno alla situazione agonale, e al desiderio del rapsodo di prevalere su altri poeti, pur in presenza di tutti i temi che tradizionalmente vengono impiegati per esprimere questi concetti. Vi è invece in positivo la coscienza della propria eccellenza e della superiorità della tradizione (cioè Omero) che il poeta rinnova nel suo canto. Da cosa può derivare questa coscienza? Tentativamente possiamo pensare che la competizione, se esiste, non riguarda il poeta bensì i cori che succederanno alla sua performance. Se Cineto fu incaricato da Policrate di comporre ed eseguire un inno sostanzialmente nuovo, è chiaro che una scelta di eccellenza doveva essere già stata fatta, e di questo il poeta non poteva non essere cosciente. Il rapsodo epico – in sé il poeta meno occasione, ripetitore fedele delle parole eterne delle Muse e della tradizione – si trova coinvolto in un evento di tipo, per così dire, lirico, condizionato da una committenza esigente, non diversa da quella che dava incarico a Ibico o a Simonide di comporre ditirambi o peani per le occasioni festive dei tiranni e delle città.
Siamo così giunti a una prima definizione del contesto della performance delia di Cineto; l’elemento più interessante, e anomalo, è certamente l’associazione organica dell’esibizione solistica per eccellenza – quella del rapsodo – e di quella corale; al coro delle Deliadi infatti, e non a un rapsodo, spetta il compito di proseguire la performance iniziata dall’aedo. Sembrano cadere a livello delle performance le linee di demarcazione tra forme poetiche epiche e liriche. La cosa è solo in parte eccezionale, basti pensare alla posizione ambigua della citarodia stesicorea, a proposito della quale gli studiosi sono incerti fra esecuzione solistica o corale, e a quanto abbiamo detto a proposito del proemio.

Pitagora di Reggio, statua di suonatore di lira. Copia romana del II secolo a.C., da un originale in bronzo del V secolo a.C. Marmo, 168 cm. Musée du Louvre, Parigi.
Pitagora di Reggio, statua di suonatore di lira. Copia romana del II secolo a.C., da un originale in bronzo del V secolo a.C. Marmo, 168 cm. Musée du Louvre, Parigi.

La festa policratea si caratterizza però in modo peculiare: un’unica performance che comprende esibizioni sia di un poeta epico solista sia di uno o più cori lirici: il punto di contatto consiste nella materia del canto che è per entrambi la narrazione di vicende divine o eroiche.
Diventa così più chiaro il senso dei particolari tratti pragmatici che caratterizzano l’Inno; le frequenti appellazioni al dio, la presenza massiccia di elementi deittico-iussivi nella parte centrale accomunano l’Inno a composizioni proprie della lirica ieratico-rituale. Ciò accade non per scelta soggettiva del poeta, ma proprio perché l’Inno si inquadra in una performance dove essa funge da proemio a una o più composizioni corali, connesse con i riti della duplice festa di Apollo.
Potremmo ancora chiederci che tipo di composizione lirica corale seguisse – parliamo sempre della festa delia del 523 o 522 – il canto rapsodico di Cineto. Naturalmente qualsiasi definizione comporta notevoli margini di dubbio legati all’applicazione all’epoca arcaica di classificazioni operanti solo in epoca successiva, e perciò incongruenti rispetto alle circostanze concrete che presiedevano alle esecuzioni arcaiche. Proprio questa sfasatura fra tassonomia e performances rende poco significativo il testo che con maggiore chiarezza parrebbe definire il canto delle Deliadi. Nell’Eracle euripideo (v. 687 sgg.) il coro dei vecchi si chiede se dovrà cantare un peana, come le Dēliádes che danzano in cerchio. Da un lato non è esplicito il riferimento alle Delie, dall’altro l’attribuzione di un peana a un coro femminile appare in contrasto con il fatto che esso è di norma affidato a un coro maschile. In questo caso penso che, stante il fatto che le due performances sono dal punto di vista funzionale (occasione e destinazione) ampiamente sovrapponibili, il peana venga assegnato alle Deliadi soprattutto per rafforzare l’analogia con il canto che i vecchi (maschi) vorrebbero eseguire. Non è infine da dimenticare che nel V secolo il ditirambo ha ad Atene una precisa caratterizzazione – negli anni Venti i ditirambografi sono già nel mirino di Aristofane – e il suo inserimento nel contesto della tragedia sarebbe probabilmente apparso fuori luogo.
Nel quadro di una festa pensata e voluta, con chiari intenti politici, da un tiranno come Policrate, strettamente collegato con i tiranni ateniesi, l’ipotesi più probabile è che i cori eseguissero dei ditirambi. Una festa caratterizzata da performances ditirambiche verrebbero anche a colmare una sorta di lacuna letteraria e storico religiosa. Delle quattro grandi tirannidi dell’epoca arcaica (Corinto, Sicione, Atene, Samo), quella samia era finora l’unica a non mostrare alcun interesse alle performances ditirambiche, se si eccettua una notizia contenuta in uno scolio all’Andromaca di Euripide, secondo cui l’incontro tra Elena e Menelao durante la presa di Troia era narrato anche da Ibico in un ditirambo.
Questa conclusione non contrasta né con le notizie relative alle performances delle Delie che abbiamo prima esaminato né con quanto si può desumere dall’Inno a proposito del canto del coro. La presenza di esecuzioni e competizioni ditirambiche è ampiamente attestata per le Delie, mentre lo svolgimento di una tematica narrativa eroica coincide con quanto sappiamo a proposito del ditirambo.
Più difficile da spiegare appare il collegamento fra un proemio rapsodico, esametrico e recitato, e un ditirambo. Difficile, tuttavia non impossibile; innanzitutto non si può dubitare dell’esistenza di proemi monodici a performances lirico-corali, caratterizzati da un forte rapporto pragmatico fra “io” del poeta o del corego e “tu”-“voi” del coro: le fonti ne attestano l’esistenza già per Terpandro, benché ne restino imprecise le caratteristiche formali e di contenuto, in assenza di testi esplicitamente ascritti al genere stesso. Inoltre, in un articolo recente, J.L. Malena ha ampiamente argomentato circa l’esistenza di proemi ai ditirambi, cioè di monodie liriche o citarodiche finalizzate a introdurre o avviare il successivo canto del coro. Il proemio ditirambico, che risalirebbe a una fase assai antica della storia del genere, si caratterizzerebbe dal punto di vista dei contenuti come un’invocazione al dio seguita da una serie di ordini al coro; formalmente esso avrebbe andamento metrico prevalentemente dattilico e dizione assai prossima a quella dell’epos, come mostrerebbe un frammento di Terpandro (697 PMG: 4 da): secondo i commentatori antichi il verso, probabilmente il primo di una composizione, riprende modalità tipiche della poesia ditirambica. Analoga funzione proemiale, anche se non collegabile a un ditirambo, avrebbe il fr.84 Calame di Alcmane, dove, ancora in tetrametri dattilici, la Musa è invocata perché dia inizio agli eratá épea.
Ulteriormente significativo è il fr.90 Calame di Alcmane: i quattro esametri del “frammento del cerilo” sono parte di un proemio eseguito dal poeta, o da un corego, a introduzione di una performance corale, probabilmente da parteni.
Altri indizi aiutano a definire meglio il quadro in cui inserire il rapporto fra proemio e ditirambo.
L’unico frammento di Laso di Ermione tramandatoci consiste nell’inizio di un hýmnos in onore di Demetra, Core e Climeno (Athen. 14, 624ef = fr.1 Privitera). Il metro è dattilico e la struttura del primo verso ricorda quella tipica degli Inni omerici. Da Ateneo il frammento è tramandato come parte di un «inno a Demetra ad Ermione»: una definizione in cui si sottolinea la località destinataria del canto e che potrebbe perciò essere connessa con la funzione proemiale del canto, finalizzato a contestualizzare un’intera performance (per esempio i ditirambi) all’interno della festa di Demetra ad Ermione. […]
Il proemio di tipo epico appare dunque una prassi consolidata in relazione alle più antiche performances di ditirambi; da queste la performance delia aperta da Cineto si distingue solamente per il fatto di usare un proemio di tipo non lirico ma rapsodico, non cantato ma recitato. Le ragioni di questa scelta ci sfuggono, e probabilmente nessuna fonte antica sarà mai in grado di illuminarci su essa. Lo impediscono soprattutto le profonde incisioni operate dal corpus della poesia arcaica dalla classificazione alessandrina: opposizioni quali cantato vs recitato, monodico vs corale, utili e sensate da un punto di vista tassonomico e bibliotecario, appaiono sempre più non avere alcuna corrispondenza con le concrete e originarie condizioni di esecuzione.

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Bibliografia:

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Burkert W., Kynaithos, Polykrates and the Homeric Hymn to Apollo, in Arktouros. Hellenic Studies presented to B. Knox (ed. G.W. Bowersock, W. Burkert, M.C.J. Putnam), Berlin-New York 1979, pp. 53-62.
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Janko R., The structure of the Homeric Hymns: A study in genre, «Hermes» 109, 1981, pp. 9-24.
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Le anfizionie

di MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’Età micenea all’Età romana, Milano 2010, pp. 155-160.

Nel quadro degli assetti territoriali e delle ripartizioni regionali del mondo greco vanno considerate quelle caratteristiche associazioni, che definiamo come “anfizionie”. Le anfizionie sono leghe di popoli o di città costituite intorno a un santuario. Bisogna dunque evitare di vedere in esse forme embrionali di unificazione politica, quasi una fase immatura in quel cammino dell’unificazione nazionale e territoriale, che una concezione ottocentesca voleva imporre al mondo greco come sua finalità mai raggiunta. Come abbiamo già detto, il mondo delle póleis nasce, si regge e fiorisce sul principio dell’autonomia: chi volesse imporre modelli ottocenteschi alla variegata realtà del mondo greco, ne mortificherebbe la peculiarità, ne stravolgerebbe l’identità storica. Il tema delle anfizionie si lascia dunque assai bene inquadrare in un capitolo destinato allo studio della formazione della Grecia delle città, perché lo investe comunque, in maniera diretta o indiretta.

Legge anfizionica di Delfi (Syll 483 = CID IV 33). Iscrizione, marmo pentelico, IV sec. a.C. da Egina. Paris, Musée du Louvre.

Un errore che comunemente si commette, a proposito del concetto di anfizionia, è quello di estenderlo al di là delle testimonianze letterarie ed epigrafiche pervenuteci. Certo, queste potrebbero in teoria non rappresentare tutti i casi reali: tuttavia la prudenza è particolarmente raccomandata su questo tema, perché l’anfizionia sembra proprio essere una lega sacrale fra popoli abitanti in uno spazio geografico coerente, che non abbiano già altri motivi per avere un centro sacrale unico. Sembra difficile mettere sullo stesso piano, come talora si fa, le colonie ioniche raccolte intorno al Panionion, cioè al santuario di Poseidone Eliconio al promontorio di Micale, o quelle doriche raccolte intorno al santuario di Apollo Triopio presso Cnido, da un lato, e, dall’altro, quelle associazioni che la tradizione ricorda come «anfizionie» di Delfi, di Delo, di Calauria (un’isola di fronte alla costa orientale dell’Argolide), di Onchesto in Beozia. Di quest’ultima, ricordata soltanto da Strabone, si ammetterà l’esistenza per un’epoca molto arcaica, quando essa avrà avuto la funzione di tener collegati insieme i centri beotici votati a un così spiccato separatismo. Anche dell’anfizionia raccolta intorno al santuario di Poseidone di Calauria (fiorita intorno alla metà del VII secolo a.C.) unico teste è Strabone, che ne ricorda i sette membri componenti: la minia Orcomeno, Atene, Epidauro, Egina, Ermione, Nauplia e, sulla costa occidentale del golfo Argolico, Prasie; in termini geografici, il centro è l’area del golfo Saronico. La lega di Calauria, vista la sua struttura territoriale, le sue componenti, l’epoca della sua fioritura, potrebbe anche aver fornito il quadro a scambi e attività mercantili, potrebbe insomma aver operato come fattore di stimolo dell’economia[1].

Queste due quasi misteriose anti-anfizionie sono centrate intorno a santuari di Poseidone. Intorno a santuari di Apollo si raccolgono invece altre due leghe definibili come anfizionie in base alla tradizione: quella di Delfi, la più famosa (e la più autentica), e quella di Delo (se è dimostrativo di un titolo originario l’uso del termine amphiktýones [“anfizioni”] per gli amministratori ateniesi del tempio di Apollo nel IV secolo a.C.). A Delo si svolgeva tradizionalmente la panḗgyris (“il grande raduno”, tenuto ogni anno in primavera) degli Ioni delle isole tutt’intorno (e della stessa Atene), ben descritto nell’omerico Inno ad Apollo (146 sgg.). Ma è con l’anfizionia delfica che tocchiamo un terreno sicuro. Nel corso del VII secolo, forse già nell’VIII secolo, la lega religiosa, etnicamente composita (Tessali e perieci dei Tessali), ma evidentemente ancora non troppo eterogenea, che si raccoglieva intorno al santuario di Demetra ad Antela, ingloba il santuario di Apollo di Delfi. Questo evento corrisponde da un lato a un momento di particolare prestigio e potenza dei Tessali nella Grecia centrale (momento che si protrarrà per buona parte del VI secolo a.C., e che conosce la fine, o una battuta d’arresto, con la sconfitta subita a Ceresso, presso Tespie, ad opera dei Beoti)[2]; ma, dall’altro, è anche un momento di allargamento notevole della precedente lega tessalica e peri-tessalica. Se solo adesso la Demetra di Antela riceveva l’epiteto di Anfizionide che Erodoto (VII 200) le attribuisce, non è dato sapere: se fosse così, il nome di anfizioni (“circonvicini”) si attaglierebbe particolarmente a una lega sacra, nella quale fanno capo allo stesso santuario (o agli stessi santuari) popoli diversi, appartenenti a un’area vasta e coerente. Gli anfizioni sono in prima istanza i popoli membri della lega, poi, di conseguenza, i rappresentanti nel sinedrio, il cui titolo è propriamente quello di ieromnemoni (anche con varianti dialettali del termine), coadiuvati dai pilagori. Nel sinedrio ciascuno dei popoli (questa è l’entità ivi rappresentata) dispone di due delegati, cioè di due voti. Il numero complessivo dei popoli anfizionici è dodici (un numero tipico, nel quale opera ancora una volta il gusto greco di un’aritmetica politica): di questi già sette sono i Tessali, se presi insieme con i loro sei popoli perieci (Magneti, Perrebi, Dolopi, Achei Ftioti, Eniani, Malii), con i quali dispongono della maggioranza assoluta (14 voti su 24).

Pittore di Ippolito. Scena di combattimento. Pittura vascolare a figure nere da un cratere a colonnine, c. 575-550 a.C. da Corinto. Paris, Musée du Louvre.

Non sembra si possa affermare che il fatto che i Tessali dispongano di due voti, come ciascuno dei popoli, riporti le origini dell’anfizionia a un’epoca in cui i Tessali ancora non avevano assoggettato i loro vicini: la prova contraria è che nemmeno nei momenti di più sicuro dominio i Tessali toccarono questa struttura, che è sacrale e non politica, e in cui la presenza di tanti perieci dei Tessali è sentita dalla stessa tradizione antica come un’immediata espressione della potenza tessalica e non come un suo limite. Due volte l’anno (a primavera e in autunno, ad Antela, presso le Termopili, e a Delfi) si hanno le riunioni ordinarie dell’anfizionia, che si chiamavano entrambe pylaîai ( < pýlai, “porte”), anche se a rigore il nome spetterebbe solo alla riunione delle Termopili (letteralmente, le «Porte calde»). Accanto a questi sette popoli ci sono ancora i Beoti, i Locresi, i Focesi, gli Ioni e i Dori. È significativo del grado di sviluppo cittadino dell’ambiente ionico e dorico il modo in cui essi gestiscono la loro partecipazione all’anfizionia: dei due voti ionici l’uno spetta agli Euboici (forse componenti originari, sino alla prima guerra sacra), l’altro agli Ateniesi; dei due voti dorici l’uno tocca ai Dori di Metropoli, l’altro ai Dori del Peloponneso (e, secondo la dottrina tradizionale, Sparta figurerebbe qualche volta sotto l’etichetta di “Dori del Peloponneso”, per altri essa utilizzerebbe invece il voto dei Dori della Metropoli, residenti alle pendici dell’Eta)[3].

Apollo ed Ercole si contendono il Tripode delfico. Bassorilievo, marmo, I-II sec. d.C. Baltimore, Walters Art Museum.

Nel primo decennio del VI secolo la prima guerra sacra vede i Tessali, sotto il tago Euriloco, gli Ateniesi, guidati da Alcmeone e consigliati da Solone, e il tiranno di Sicione, Clistene, alleati fra loro e impegnati contro i Focesi di Crisa, che disturbano i pellegrini diretti al santuario: di qui, la distruzione di Crisa, la consacrazione al tempo del corridoio verso il mare (cioè della piana di Cirra, località divenuta ormai il porto di Delfi), la proibizione di coltivare la terra sacra, che colpisce i Focesi, nel cui territorio sorge Delfi (il santuario e la città dovranno costantemente difendere la loro autonomia e il loro ruolo internazionale da quella provincializzazione eccessiva che comporterebbe la riduzione a santuario dei Focesi), e gli stessi Locresi (occidentali) di Anfissa. La vittoria anfizionica significò il rafforzamento dei Tessali nella Grecia centrale, comportò l’ammissione di Atene nell’anfizionia, e la riorganizzazione degli agoni pitici (da Pythò, l’antico nome di Delfi) nel 582 a.C.[4] La prima guerra sacra costituisce un momento significativo per la storia di tutto il versante orientale della Grecia: è un segnale della crescita di Atene, com’è un momento di ulteriore rafforzamento dei Tessali, che prelude però ad altri, a essi meno favorevoli, sommovimenti nell’area.

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Note

 

[1] Strab., VIII C.373 sg.; Paus., II 33, 2; Kelly T., The Calaurian Amphictiony, AJA 70 (1966), 113-121.

[2] Sulla battaglia di Ceresso, vd. Plut., Cam. 19, 4; De Herod. 866 f; Paus., IX 14, 2 sg. C’è discordanza tra l’indicazione (in verità chiara e netta) di Plutarco nella Vita Camilli (più di 200 anni prima di Leuttra, cioè prima del 571 a.C.) nel De Herodoti malignitate (poco tempo prima delle guerre persiane).

[3] Bürgel H., Die pyläisch-delphische Amphiktyonie, München 1877 [archive]; Wüst F.R., Amphiktyonie, Eidgenossenschaft, Symmachie, Historia 3 (1954), 129-153 [Jstor]; Parke H.W. – Wormell D.E.W., The Delfic Oracle, I, Oxford 1956; Daux G., Remarques sur la composition du Conseil amphictionique, BCH 81 (1957), 95-120 [persee.fr]; Parke H.W., Greek Oracles, London 1969, 33-43 sulla Delfi delle origini (presenze di abitazioni e di culti già dal Tardo Elladico III, nuovo inizio con l’VIII secolo a.C.).

[4] I testi sulla I guerra sacra appartengono tutti, non a caso, al periodo della III guerra sacra e più ancora alla (IV) guerra, condotta da Filippo II di Macedonia contro i Locresi di Anfissa (cfr. in particolare Aesch. II 115; III 109 s.). Non è dunque escluso che ci si trovi, per vari aspetti, di fronte ad anticipazioni e retroiezioni. È da tener presente però che proprio nel IV secolo si ristabiliscono condizioni non certo identiche, ma latamente simili, e quelle del tardo arcaismo (situazione storica di policentrismo, ruolo della Grecia centrale e dell’area, naturalmente meno urbanizzata, degli éthnē).

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Bibliografia

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Il culto di Tyche

di M. Marconi, Culto della dea nel mondo ellenistico, in Enciclopedia delle religioni (a cura di M. Eliade), vol. XI – Religioni del Mediterraneo e del Vicino Oriente antico, 2002.

Il termine ellenistico indica non tanto una cultura, quanto piuttosto un’epoca. Non si può utilizzare, infatti, un unico termine per descrivere nella sua totalità uno sviluppo storico così complesso, e ancor meno per comprendere l’esperienza religiosa di quel tempo, poiché ogni forma religiosa, per sua stessa natura, va ben oltre i confini di una rigida classificazione. In verità, ancora prima dell’epoca ellenistica, concezione di carattere religioso avevano già cominciato a circolare in quella grande koiné che caratterizzava la civiltà che si estendeva dal fiume Indo fino alla penisola iberica; e fu proprio sulle sponde del Mediterraneo che questa civiltà raggiunse il suo massimo splendore. Così alcuni culti cosiddetti “stranieri” non vennero avvertiti come estranei, ma, al contrario, furono invece accolti da un significativo numero di seguaci: basta pensare a quanto fossero ampiamente diffusi il culto di Cibele e quello di Iside. Questi fatti giustificano anche il motivo per cui fu possibile che Tyche, un nome caro al pensiero filosofico, in origine indicasse una dea del lontanissimo pantheon degli Egei.

Tyche. Busto, marmo, II sec. d.C. da Perge. Antalya, Arkeoloji Müzesi.

Il mito di Tyche è piuttosto povero di elementi; ne veniamo a conoscenza non tanto attraverso testi scritti, ma piuttosto grazie al nome stesso che significa “fato”, “destino”. In Esiodo (Teogonia, 346 ss.), Tyche viene presentata come figlia di Teti e di Oceano: si tratta pertanto di una delle Oceanine, le antichissime figlie (πρεσβύταται κουραί) di quella lontana coppia di divinità. La prima di queste figlie esercitava il suo potere sull’acqua del mare, mentre la seconda su quella dei fiumi. Pindaro (Olimpica 12) ci illumina sulla questione: Τύχη Σώτειρα (“Tyche, la Salvatrice”), che, al tempo di Pindaro, era stata trasformata in una figlia di Zeus, fu chiamata a difendere la città siciliana di Imera. Era lei che vegliava sul destino delle navi, delle battaglie e delle riunioni dei cittadini. Non si può forse intravedere in questa figura una riproduzione di Atena Poliade? In realtà si credeva che il destino della πόλις dovesse necessariamente subire un’evoluzione, che poteva essere tanto verso un futuro prospero, quanto verso un terribile declino e si attribuiva tale evoluzione a Tyche, la dea degli eventi: in questo senso, dunque, Tyche si dimostrò un’efficiente protettrice della città per gli abitanti di Imera.

Statua di Iside-Tyche-Pelagia. Marmo, I-II sec. d.C. ca. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Secondo il poeta che viene richiamato da Pausania (VII, 26, 8), Tyche non è semplicemente una delle Moire, ma, al contrario, è di esse la più potente: per questo motivo era venerata con l’appellativo di “potnia” (“regina”); in altri termini: una grande dea. Nell’opera omerica, la Moira assumeva un ruolo ancora più importante di quello di Zeus stesso. Tracce di un culto in suo onore sono ravvisabili nelle statue ritrovate in diversi santuari greci; secondo le descrizioni lasciateci da Pausania, a volte la divinità regge il cosiddetto corno di Amaltea (IV, 30, 6; VII, 26, 8), che simboleggia l’abbondanza, mentre in altre occasioni porta in braccio il piccolo Pluto, che rappresenta una garanzia di ricchezza. Pausania osservava (IX, 16, 2) che «ella sembra quasi la sua balia da latte»: simili immagini diffondono grazia, proprio come suggerisce l’epiteto ἀγαθή (“buona”) che, diceva sempre Pausania (V, 15, 6), richiama alla mente anche l’idea della grazia e rivela la dea nella maniera più adeguata e la riscatta da quella oscura ambiguità che rimane implicitamente sottintesa, in modo tanto evidente, nel significato del suo nome.

Sempre secondo la testimonianza di Pausania (IX, 39, 5), a Lebadea in Beozia, nei pressi del sito oracolare (μαντεῖον) di Trofonio, si trova un luogo che è dedicato contemporaneamente a Τύχη Ἀγαθή e a un demone non meglio precisato, che si potrebbe presentare quale controparte maschile della sorte. Anche costui è qualificato con l’attributo di Ἀγαθός. Ma queste due figure possono essere considerate una coppia astratta solamente in apparenza, dal momento che in realtà erano esseri estremamente concreti, connotati da una magia positiva che difendeva e proteggeva dal male. È inoltre importante sottolineare che in quel luogo chiunque volesse consultare Trofonio veniva trattenuto affinché si preparasse. Risulta altrettanto significativo il fatto che a Tebe, secondo Pausania (IX, 16, 2), il santuario (ἱερόν) dedicato a Tyche si trovava accanto a quello di Tiresia: ancora una volta la divinità del destino era posta vicino a un oracolo capace di predire gli eventi.

Statua di Tyche. Marmo, seconda metà del II secolo a.C. Paul Getty Museum.

A Roma, la dea Fortuna sembrava particolarmente adatta per incarnare la traduzione del nome Tyche: infatti, la si considerava figlia di Giove, proprio come Tyche era stata fatta discendere da Zeus. Inoltre la dea Fortuna, implicitamente, portava con sé tutte quelle importanti analogie formali che, nel corso del tempo, avrebbero poi permesso la nascita di una forma di sincretismo religioso. Anche Fortuna era legata a una realtà arcaica mitica e rituale, che in origine aveva il suo centro a Praeneste (l’attuale Palestrina), dov’era venerata non soltanto con gli attributi di una dea materna (sono state trovate numerose statue di terracotta raffiguranti figure femminili che allattano neonati), ma anche con quelli di una dea della profezia, funzione questa che rispondeva alla sua naturale vocazione. Il culto che le veniva tributato a Praeneste contemplava tre diverse cerimonie che avevano luogo ad aprile, mentre a Roma, alle calende dello stesso mese, durante le celebrazioni dei Veneralia, le donne ricordavano anche il culto della Fortuna Virile, che in seguito venne confusa con Venere Verticordia. L’epiteto Virilis, inoltre, è uno dei molti ricordati da Plutarco quando, appunto, descriveva il culto di Tyche (Quaestiones Romanae, 74).

Tyche e Fortuna subirono un graduale impoverimento tanto nel mito quanto nel rito, proprio perché i loro stessi nomi le facevano apparire quali divinità legate agli eventi e pertanto manifestavano in questo modo il loro innegabile potere di agire su una realtà che è di per se stessa fugace e precaria. Non sorprende, quindi, che il pensiero filosofico si sia appropriato del nome di Tyche (così come quello di Fortuna), e che lo abbia separato dal suo contesto religioso per farle rappresentare solamente quella dimensione di inevitabilità del destino che gravita intorno all’umanità: in fondo, non l’aveva già previsto re Edipo, quando (1080 ss.) definì se stesso un figlio della Tyche?
Nuovi atteggiamenti religiosi si diffusero anche in Grecia, dove apparvero divinità che, pur non essendo di origine greca, tuttavia non erano così straniere come a prima vista si potrebbe pensare. La talassocrazia minoica aveva inaugurato nuove rotte marine che collegavano Creta all’Egitto fin dalla lontana preistoria; i Micenei avevano viaggiato lungo queste rotte e le avevano migliorate, tanto da renderle anche delle vie che consentissero il passaggio di elementi culturali.

Ricostruzione grafica del Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina, II secolo a.C.

In questo modo si cominciò a delineare una vera e propria koiné mediterranea, di cui possediamo una buona documentazione grazie sia ai ritrovamenti archeologici che alla decifrazione della Lineare B. Tale koiné era ancora in piena attività in epoca storica: Erodoto (II, 155 s.), più o meno consapevolmente, ce lo ha dimostrato nel momento in cui ha tracciato i contorni di quell’interpretatio Graeca delle divinità degli Egizi secondo la quale il dio Horus sarebbe stato il corrispettivo del greco Apollo, Iside di Demetra, Bubastis di Artemide. Per Leto, la dea dell’oracolo di Buto, situato nel delta del Nilo, Erodoto non trovò nessuna corrispondenza, o, forse meglio, non la cercò affatto. Questo fatto piuttosto insolito venne spiegato da Uberto Pestalozza (in uno studio dedicato a Leto e successivamente inserito nel volume Pagine di religione mediterranea, Milano 1942) nella maniera seguente: Leto era la divinità più antica e più importante, che esprimeva i suoi giudizi ricorrendo al suo potere oracolare; «di conseguenza, sia il suo nome che il suo culto furono ereditati intatti dall’Egitto dinastico… e in Egitto Leto fu sempre Leto, dall’età mediterranea fino a quella ellenistica e romana». Alla luce di una tale esperienza religiosa non può risultare del tutto nuova o inattesa quell’altra forma di koiné che si diffuse durante l’epoca ellenistica e che esercitò una così grande influenza storica e culturale e che in un primo momento interessò la sola Grecia e, in seguito, riguardò tanto la Grecia quanto Roma. Quando si esamina il significato culturale di questo fenomeno, si richiama spesso il fatto che esso comportò un passaggio da Oriente a Occidente; ma forse non si è prestata un’attenzione adeguata a quel movimento che si registrò invece in direzione opposta, e che portò la lingua greca, e con essa anche la cultura greca, in Egitto e in Persia e addirittura fino ai confini dell’India.

Bisogna inoltre pensare che probabilmente l’istituzione e la diffusione di quei culti misterici, che non erano propriamente di origine greca, siano attribuibili a una sorta di disagio interiore, che risultava tanto evidente durante l’epoca ellenistica. Tali culti misterici ruotavano intorno al dramma della morte, sofferta e infine vinta, della divinità e per questo incoraggiavano i fedeli a sperare nell’esistenza di qualche cosa dopo la morte. I Greci si erano già trovati a stretto contatto con i drammi esistenziali di due grandi divinità di origine cretese. In primo luogo con le vicende della dea duali, ovvero della madre e della figlia (Demetra e Kore), le quali fecero la loro esperienza attraverso l’evento del matrimonio, che va interpretato come la morte della κόρη (“vergine”), che rivive infine come νύμφη (“moglie”) nell’aldilà accanto ad Ade. In secondo luogo con il dramma del dio Dioniso, che da bambino sopportò un pericolo pari a quello della morte. Nella religione greca, inoltre, si potevano trovare alcune altre figure cretesi minori: per esempio quella di Croco, il giovane che, secondo il mito, fu incidentalmente ucciso da Hermes proprio come Giacinto lo fu da Apollo: dal sangue degli eroi defunti nacquero le piante bulbose che, molto prima che si iniziasse ala coltivazione del grano, potevano già evocare l’idea di una resurrezione annuale. Anche i Greci, perciò, conservavano il ricordo di antichi racconti mitici grondanti di lacrime e sangue, ed è pertanto storicamente fuorviante credere, secondo quanto afferma lo stesso Omero a proposito degli abitanti dell’Olimpo, che la religione sia caratterizzata da divinità perfettamente «felici e immortali»; questa presentazione offertaci da Omero, peraltro, non risulta veritiera neppure nell’ambito della sua stessa opera, come ben dimostra già il libro I dell’Iliade.

Fortuna e un uomo nudo accovacciato fra due serpi, con graffito (cacator cave malu[m]). Affresco. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Storie sacre come quelle appena ricordate avevano peraltro l’umanità di accettare culti provenienti da paesi lontani, che traessero la loro origine da eventi di cui fossero protagoniste figure divine, ma nient’affatto privi di sangue e di lacrime. Così avvenne a proposito del mito di Iside e di Osiride, che, dopo aver lasciato la sua terra natia (l’Egitto), si mosse in direzione dell’Asia Minore, raggiunse la Grecia (il punto di arrivo fu Corinto) e in seguito l’Italia e, nel I secolo a.C., fu introdotto anche a Roma. Il mito, che faceva di fratello e sorella una coppia di sposi non turbava minimamente la sensibilità religiosa dei Greci, i quali, pur avendo condannato da ormai molto tempo i matrimoni consanguinei all’interno della loro società, tuttavia continuavano a venerare Zeus ed Hera, entrambi figli di Crono e di Rea, come la coppia di sposi par excellence.

Era questo il motivo da cui traeva ispirazione la tragedia di Eschilo, il poeta che, secondo Mario Untersteiner (in Le origini della tragedia e del tragico, dalla preistoria ad Eschilo, Torino 1955), «scopre e canta la natura contraddittoria della realtà». Probabilmente anche il modo in cui Osiride affrontava la morte non doveva turbare affatto la sensibilità religiosa dei Greci: al contrario, si riconosceva qualche cosa di prodigioso nella capacità dimostrata dal dio di fecondare la propria sposa, Iside, che giaceva prona su di lui. Ma di che cosa erano capaci gli dèi? Horus, nato da questa unione, divenne il vendicatore del padre. L’immagine di Iside che tiene in braccio il bambino Horus rende la dea immediatamente familiare e questa iconografia più recente la libera dalla sua originaria severità ieratica.

In modo analogo a quanto avvenne con Tyche, anche ad Iside venne attribuito il corno dell’abbondanza. Veniva chiamata Isityche: un appellativo che lasciava trasparire il potere da lei detenuto nella sua terra natia, per esempio a File, dove prometteva ai suoi fedeli che avrebbe prolungato loro la vita. Da questo punto di vista, dunque, appariva molto più potente di quanto non fossero le divinità greche o romane, fatto questo che non bisognerebbe trascurare quando si considera il prestigio di cui godette nel mondo in cui era immigrata. Tuttavia fu proprio in questo ampio mondo della sua diffusione – fatta eccezione per il periodo in cui si svolgevano le due principali solennità in suo onore: il Navigium Isidis, in primavera, quando si tributavano onori a Iside come esperta di navigazione (non viene forse in mente Atena?), e la Inventio Osiridis, in autunno, quando invece si ricordava la dea totalmente coinvolta dalle vicissitudini del dio Osiride – ; fu proprio in questo mondo della sua diffusione che il culto egizio introdusse un’importante novità, costituita da una forma di culto che doveva essere svolta quotidianamente dai suoi sacerdoti, i quali erano tenuti a ripetere tutta una serie di gesti e di litanie nel corso dell’intera giornata, dal mattino fino al tramonto. Questo esempio è unico e non paragonabile nemmeno all’assiduo servizio religioso prestato dalle Vestali: la religione greca e quella romana si caratterizzavano entrambe proprio per il fatto di non essere scandite da una serie di giorni festivi periodici, e non da azioni di devozione regolari e compiute quotidianamente.
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