Il “Commentariolum petitionis”: una guida per le elezioni consolari

Il Commentariolum petitionis, attribuito a Quinto Tullio Cicerone, costituisce un documento di eccezionale importanza, un vero e proprio manuale su come vincere le elezioni. L’autore fornisce al fratello Marco, candidatosi per il consolato del 63 a.C., una serie di consigli e raccomandazioni, descrivendo nei minimi dettagli ogni comportamento e gesto che avrebbe dovuto tenere nei confronti dell’elettorato. Per conseguire la magistratura suprema l’interessato doveva assicurarsi solide basi che sostenessero la sua causa e, in particolare, non poteva fare a meno dell’appoggio degli amici: allargare la propria cerchia di conoscenti voleva dire guadagnarsi nuovi alleati, persone con le quali solo in certi casi si creavano dei legami affettivi che trascendessero l’aspetto politico; era fondamentale, oltretutto, ottenere l’amicitia di uomini di ogni ceto sociale e soprattutto riscuotere il favore delle personalità più cospicue, le quali solo con il loro nome potevano accrescere il prestigio del candidato, e quello degli elettori più influenti nelle centuriae, capaci di spostare molti voti. Pochi anni prima, durante la sua praetura nel 66, Marco era intervenuto a favore della lex Manilia sul conferimento del comando mitridatico a Gneo Pompeo Magno e ciò gli aveva attirato le simpatie «di quell’uomo potentissimo» (Comm. Pet. 5, eum qui plurimum posset).

Per procurarsi il supporto necessario, inoltre, il candidato doveva fare leva sull’emotività delle persone attraverso i beneficia, la speranza riposta nelle promesse e la contiguità d’animo e d’intenti. Spesso anche un piccolo beneficio, un aiuto era sufficiente a guadagnarsi l’amicizia di qualcuno e Marco, che da più di un decennio esercitava abilmente l’avvocatura, poteva valersi di una lunga lista di debitori, che adesso potevano restituirgli il favore appoggiandolo nella campagna elettorale: Cicerone poteva sfruttare l’amicitia di quanti aveva difeso e scagionato negli anni precedenti, ovvero Gaio Fundario, Gaio Orchivio, Gaio Cornelio e Quinto Gallo – tutti processati de peculatu (Comm. Pet. 19-20).

Uomo togato. Statua, marmo, c. 125-250 d.C., da Roma.

In altri casi, era la speranza a muovere l’animo della gente, e solo il pensiero di poter conseguire un guadagno futuro era già una motivazione valida per stringere un accordo, anche se alla fine l’utile concreto non sarebbe mai venuto: le promesse dovevano essere fatte in modo generale e allusivo, in modo che ciascun interessato potesse interpretarle come meglio credesse e il candidato potesse giocare sulle molteplici interpretazioni, se, una volta eletto, non facesse seguire i fatti. L’aspirante, poi, doveva dimostrare un impegno costante nei confronti degli amici, a riprova che il beneficium era duraturo e che il legame con il futuro magistrato avrebbe potuto consolidarsi e trasformarsi in un rapporto più familiare e personale. A tal proposito, Quinto osservava: «… tra tutti gli altri fastidi la candidatura ha pure questo vantaggio: puoi onorevolmente – cosa che non riusciresti a fare in tutte le altre circostanze della vita – associare alla tua amicizia tutte le persone che vuoi, con le quali, se in altro frangente vieni a trattative, affinché abbiano rapporti con te, dai l’impressione di agire in modo stonato; invece, nel caso di una candidatura, se non svolgi questa trattativa sia con molte persone sia con cura scrupolosa, dai l’impressione di non essere affatto un candidato» (Comm. Pet. 25, … in ceteris molestiis habet hoc tamen petitio commodi: potes honeste, quod in cetera vita non queas, quoscumque velis adiungere ad amicitiam, quibuscum si alio tempore agas ut te utantur, absurde facere videare, in petitione autem nisi id agas et cum multis et diligenter, nullus petitor esse videare).

Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.

Quinto assicurava al fratello che la candidatura gli avrebbe portato nuove conoscenze, valide a battere gli altri concorrenti: godere dell’appoggio degli uomini più influenti avrebbe allargato il consenso di Cicerone, perciò era necessario non lasciare nulla al caso e catturare il favore dei ceti emergenti. Così l’autore raccomandava: «Per questo motivo, mediante numerose e svariate amicizie, procura di avere dalla tua parte tutte le centurie. E prima di tutto, cosa che balza all’occhio, lega a te senatori e cavalieri romani, le persone premurose e influenti di tutti gli altri ceti. Molti uomini laboriosi che vivono in città, molti liberi influenti e attivi, frequentano il foro; quelli che per opera tua, quelli che per mezzo degli amici comuni potrai avvicinare, datti da fare con estrema cura, affinché siano tuoi appassionati simpatizzanti: brama questo incontro, fa’ le tue deleghe, mostra di sentirti colmato di un sommo beneficio. Poi tieni conto dell’intera città, della associazioni, dell’area dei colli, dei quartieri periferici, delle zone circonvicine; se renderai partecipi della tua amicizia gli uomini più in vista di quella compagine, con il loro intervento avrai facilmente in tuo potere le rimanenti persone. Successivamente fa’ in modo di tenere a mente e nella memoria l’intera Italia ripartita in tribù e abbracciata nel suo insieme, per non consentire che ci sia nessun municipio, nessuna colonia, nessuna prefettura – insomma, nessun luogo d’Italia – nel quale tu non abbia quanto possa bastare di valido appoggio…» (Comm. Pet. 29-30, Quam ob rem omnis centurias multis et variis amicitiis cura ut confirmatas habeas. Et primum, id quod ante oculos est, senatores equitesque Romanos, ceterorum ‹ordinum› omnium navos homines et gratiosos complectere. multi homines urbani industrii, multi libertini in foro gratiosi navique versantur; quos per te, quos per communis amicos poteris, summa cura ut cupidi tui sint elaborato, appetito, adlegato, summo beneficio te adfici ostendito. Deinde habeto rationem urbis totius, collegiorum, montium, pagorum, vicinitatum; ex his principes ad amicitiam tuam si adiunxeris, per eos reliquam multitudinem facile tenebris. postea totam Italiam fac ut in animo ac memoria tributim discriptam comprehensamque habeas, ne quod municipium, coloniam, praefecturam, locum denique Italiae ne quem esse patiare in quo non habeas firmamenti quod satis esse possit…).

Per quanto concerne l’aspetto propagandistico, nel periodo di campagna elettorale il candidato riuniva attorno a sé un seguito di individui che lo accompagnava ovunque andasse. Quinto classifica questi «simpatizzanti» in tre categorie: salutatores, deductores e adsecatores.

M. Tullio Cicerone (presunto ritratto). Statua (dettaglio del busto), marmo bianco, I sec. d.C. Oxford, Ashmolean Museum.

I salutatores erano coloro che si recavano di buon’ora a casa dei candidati per porgere omaggi: l’interessato, per scalzare la concorrenza e avere più salutatores possibili, doveva mostrarsi amichevole e rassicurante nei loro confronti; i deductores scortavano il proprio beniamino nel foro e lo annunciavano alla folla ovunque andasse; gli adsectatores erano gli accompagnatori assidui, che, volontari o prezzolati, seguivano il candidato in ogni apparizione pubblica: agli uni andava l’eterna gratitudine dell’aspirante, dagli altri si pretendeva un impegno e una partecipazione costanti, al punto che, in caso di indisponibilità, dovevano delegare un parente, affinché il beniamino potesse sempre sfoggiare una gran folla con forte impatto visivo (Fezzi 2007, 20-22).

D’altra parte, frequentare la gente poteva far incappare in un’insidia, cioè trovarsi in mezzo ad agguerriti nemici: quanti erano stati danneggiati da un’arringa giudiziaria e coloro che, supportando altri aspiranti in lizza, non erano legati da amicitia con il candidato. Nei confronti di queste persone occorreva adottare una linea morbida: con i primi bisognava scusarsi direttamente e assicurare che ci si sarebbe occupati anche dei loro affari in cambio dell’amicitia; con i secondi era opportuno infondere loro speranza di agire nel loro interesse, una volta eletti, e provare ad assumere un atteggiamento benevolo nei confronti dell’avversario stesso (Comm. Pet. 40).

Benché fosse usanza comune denigrare il competitore, stando pur sempre nei limiti del possibile, per far cadere su di lui sospetti di ogni tipo, Quinto consigliava a Marco di perseguire la strada del riappacificamento, trattando i concorrenti e i loro sostenitori con rispetto, rivolgendo anche a loro favori e promesse per appianare i contrasti.

Il cosiddetto «Arringatore». Statua, bronzo, fine II-inizi I sec. a.C., da Perugia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

Da oltre un secolo e mezzo il Commentariolum è stato oggetto dell’analisi di molti studiosi e fin dalla sua scoperta all’interno dei codici contenenti le Epistulae ad Quintum fratrem. Contro l’attribuzione della paternità al fratello di Cicerone si pronunciò per primo Eussner (1892), che evidenziò forti analogie tra il manuale e l’orazione di Marco In toga candida, e si convinse che il Commentariolum fosse opera di un falsario. Gli fece eco Hendrickson (1892; 1904), che trovò delle incongruenze tra il linguaggio tipico di Quinto e quello usato nel testo, sostenendo che fosse riconducibile piuttosto allo stile di Marco. Così Henderson (1950) mise in dubbio la veridicità di alcune sezioni del manualetto, nel quale, per esempio, si sarebbe erroneamente attribuita la povertà del padre di Catilina scambiandolo con quello di Clodio, come allo stesso Clodio e non a Catilina sarebbe imputabile l’accusa di stupro a danno della sorella. A favore dell’attribuzione si schierarono, invece, già Tyrell e Purser (1904); in effetti, gli strali contro l’autenticità, lanciati da Nisbet (1961), non riuscirono a demolire la fiducia della maggioranza degli studiosi nella paternità dello scritto. Comunque, è stato Nardo (1970), in un contributo denso e perspicuo, a fornire una valutazione a favore dell’autenticità del Commentariolum e attribuirlo a Quinto, stabilendo che una certa somiglianza con In toga candida costituisca la prova di una collaborazione pragmatica e ideologica tra i fratelli Cicerone; d’altronde, dal momento che questi ultimi nutrivano un rapporto di stima e di amicizia con Attico, è verosimile che il Commentariolum fosse stato concepito da Marco, scritto da Quinto e pubblicato da Attico. Tra gli assertori di questa teoria, Alexander (2009) ha proposto un’interpretazione originale, definendo l’operina «un vero e proprio attacco satirico alle campagne elettorali romane e non un insieme di consigli sui comportamenti da tenere».

Fin dall’esordio del manuale Quinto sottolineava la novità più clamorosa del fratello: l’essere un homo novus. A tal proposito, lo esortava a ripetersi: «Io sono un homo novus, aspiro al consolato, la comunità è Roma» (Comm. Pet. 2, “Novus sum, consulatum peto, Roma est”). Per raggiungere lo scopo, inoltre, Marco doveva saper giocare e far leva sulla nominis novitas, elevandola con la dicendi gloria (l’eloquenza), l’arte fondamentale di tutti i successi forensi: grazie a questa Cicerone aveva difeso molti publicani e cavalieri, i quali adesso avevano l’occasione di dimostrargli la propria riconoscenza sostenendolo. Oltre a ciò, Quinto raccomandava al fratello di procurarsi il favore di nobiles e consulares, comportandosi in modo tale da apparire al loro cospetto degno della posizione cui aspirava. Infine, lo esortava ad attirare alla sua causa gli adulescentes nobiles, il cui supporto gli avrebbero conferito un prestigio ancor più grande (Comm. Pet. 4-6).

L. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. Ar. 3,70 gr. Rovescio: Longin(us) IIIV(ir). Cittadino in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella contrassegnata con U(ti rogas) in una cista.

Quanto ai concorrenti – Gaio Antonio Ibrida e Lucio Sergio Catilina –, per poterli battere sarebbe stato opportuno ricordare alla gente chi fossero: non solo parlare delle origini familiari e della carriera politica di costoro, ma anche e soprattutto puntare il dito contro i reati da quelli commessi per provocare scandalo e denigrarli (Comm. Pet. 8-12).

Durante la campagna elettorale, l’aspirante magistrato naturalmente doveva tenere in massima considerazione anche l’opinione pubblica e garantirsi il favore popolare. A tal proposito, Quinto spiegava che fosse necessario munirsi di un nomenclator (il servo incaricato di ricordare al dominus i nomi delle persone incontrate), dimostrare abilità nel lusingare, assiduità, benevolenza, disporre di voci di propaganda e fare bella apparenza in pubblico (Comm. Pet. 41). In altre parole, il candidato doveva mettere in luce la propria volontà di conoscere le persone (homines noscere), fingendo al punto da dare l’impressione di agire secondo talento naturale. In effetti, a Marco – riconosce il fratello – non mancava «quell’affabilità che è degna di un uomo onesto e dolce di carattere» (comitas… ea quae bono ac suavi homine digna est), ma nel corso della campagna elettorale gli sarebbe stata indispensabile la blanditia («l’arte della lusinga»): il candidato doveva modificare «sia la fronte, sia la linea del volto, sia la conversazione» (et frons et vultus et sermo), adattando al modo di pensare e al volere delle persone che avrebbe incontrato (Comm. Pet. 42).

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa di Giulia Felice (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Per rafforzare la propria adsiduitas e dimostrare benignitas nei confronti dell’elettorato, oltre a offrire banchetti sia agli amici sia a invitati passim et tributim («presi qua e là dalle tribù»), Marco doveva consentire agli altri un facile accesso, spalancando loro tanto le porte di casa quanto i recessi del proprio animo, dato che la gente non vuole che le si facciano soltanto promesse ordinarie, ma si sia disposti a largheggiare. Quindi, occorreva chiarezza su ciò che si sarebbe voluto fare, dichiarando di essere pronti a compierlo con zelo e volentieri, ma anche trasparenza su ciò che non si voleva o non si poteva fare, opponendo un garbato rifiuto o non dichiarando alcunché. Le persone, in genere, desiderano che alle parole seguano i fatti; perciò, per non attirarsi l’ira popolare è bene evitare di fare promesse o di accettare richieste che non sarebbe possibile attuare. Se l’elettore, per qualche ragione, si indisporrà, sarà opportuno che ciò accada dopo l’entrata in carica che prima; certamente sarà meno scontento colui che non vedrà realizzata una promessa, se lo si convincerà che la causa della mancata realizzazione è stata un grave imprevisto. In estrema sintesi, Quinto sostiene che «tutto sommato, il primo comportamento è proprio di un uomo onesto, l’altro di un buon candidato» (Comm. Pet. 45, quorum alterum est tamen boni viri, alterum boni petitoris).

L’autore conclude la propria esposizione facendo richiami all’eloquenza del fratello, augurandogli di condurre una campagna elettorale splendida e decorosa, raccomandandogli di mettere in luce gli atteggiamenti sospetti dei suoi competitori, senza dimenticare di sottolineare in pubblico il successo derivatogli dall’oratoria.

***

Riferimenti bibliografici:

M.C. Alexander, The Commentariolum Petitionis as an Attack on Election Campaign, Athenaeum 97 (2009), 31-57; 369-395.

J.P.V.D. Baldson, The Commentariolum Petitionis, CQ 13 (1963), 242-250.

A.J.E. Bell, Cicero and the Spectacle of Power, JRS 87 (1997), 1-22.

F.R. Berno, A. Cucchiarelli, R. Degl’Innocenti Pierini, Y. Baraz, L. Fezzi, S. Petrucciani, Intorno al Commentariolum petitionis. Suggestioni interdisciplinari a partire dal commento di François Prost, BSL 49 (2019), 602-642.

L. Biondetti (ed.), Quinto Cicerone. Piccolo manuale per una campagna elettorale, Milano 1993.

T.R.S. Broughton, Candidates Defeated in Roman Elections: Some Ancient Roman “Also-Rans”, TAPhS 81 (1991), I-VI; 1-64.

R. Chesnais, Châsse aux électeurs dans la Rome antique, Médiaspouvoirs 38 (1995), 120-121.

G. Clemente, Tradizioni familiari e prassi politica nella Repubblica romana: tra mos maiorum e individualismo, in AA.VV., Parenté et stratégies familiales dans l’Antiquité romaine. Actes de la table ronde des 2-4 octubre 1986, Paris, Maison des sciences de l’homme, Roma 1990, 595-608.

C. Damon, Comm. Pet. 10, HSCPh 95 (1993), 281-288.

J.-M. David, S. Demougin, E. Deniaux, D. Ferey, J.-M. Flambard, C. Nicolet, Le Commentariolum petitionis de Quintus Cicéron. Etat de la question et étude prosopographique, ANRW I 3 (1973), 239-277.

F. De Marco, Un nuovo codice del «Commentariolum Petitionis» di Quinto Cicerone, Aevum 31 (1957), 269-273.

S. Demougin, Quo descendat in campo petitor. Élections et électeurs à la fin de la République et au début de l’Empire, in AA.VV., L’Urbs : espace urbain et histoire (I ͤ ͬ siècle av. J.-C. – III ͤ ͫ ͤ siècle ap. J.-C.). Actes du colloque international de Rome (8-12 mai 1985), Roma 1987, 305-317.

E. Deniaux, De l’ambito à l’ambitus : les lieux de la propagande et de la corruption électorale à la fin de la République, , in AA.VV., L’Urbs : espace urbain et histoire (I ͤ ͬ siècle av. J.-C. – III ͤ ͫ ͤ siècle ap. J.-C.)…, Roma 1987, 279-304.

O. Di Paola, The Building of Consensus in Ancient Rome: Analysed from the Commentariolum Petitionis of Quintus Cicero, EPEKEINA 7 (2016), 1-11.

A. Duplá Ansuántegui, Novus sum, consulatum peto, Roma est: el Commentariolum petitionis de Quinto Ciceron, SHHA 6 (1988), 107-116.

M. Edelman, Politics as a Symbolic Action, New York 1971.

A. Eussner (ed.), Commentariolum petitionis: examinavit et ex Buecheleri recensione passim emendatum, Würzburg 1872.

R.J. Evans, Candidates and Competition in Consular Elections at Rome between 218 and 49 BC, ActaClass 34 (1991), 111-116.

P. Fedeli (ed.), Quinto Tullio Cicerone. Manualetto di campagna elettorale (Commentariolum petitionis), Roma 2006.

L. Fezzi, Il Commentariolum petitionis: sguardi delle democrazie contemporanee, Historia 56 (2007), 14-26.

P. Freeman (ed.), How to Win an Election: An Ancient Guide for Modern Politicians, Quintus Tullius Cicero, Princeton 2012.

J.L. Gómez-Pantoja, Una guía para ganar las elecciones, Historia 164 (1989), 65-77.

J. Granet, Être électeur à Rome à l’époque de Cicéron, Pallas 46 (1997), 327-339.

M.I. Henderson, De commentariolo petitionis, JRS 40 (1950), 8-21.

G.L. Hendrickson, On the Authenticity of the Commentariolum Petitionis of Quintus Cicero, AJPh 13 (1892), 200-212.

G.L. Hendrickson, The Commentariolum Petitionis Attributed to Q. Cicero, Chicago 1904.

M. Jehne, Le système électoral des Romaines et le désespoir des candidats, RHDFE 87 (2009), 495-513.

W. Kierdorf, Comm. Pet. 9 und die Bedeutung von “Corroboratus”, Hermes 94 (1966), 443-449.

G. Laser, Klientelen und Wahlkampf im Spiegel des Commentariolum Petitionis, GFA 2 (1999), 179-192.

G. Laser (ed), Quintus Tullius Cicero. Commentariolum petitionis, Darmstadt 2001.

R. Laurence, Rumour and Communication in Roman Politics, G&R 41 (1994), 62-74.

A. Lintott, Electoral Bribery in the Roman Republic, JRS 80 (1990), 1-16.

F. Lucrezi, La corruzione elettorale nel Commentariolum petitionis, Fundamina 17 (2011), 83-100.

G. Mazzoleni, La comunicazione politica, Bologna 1998.

W.C. McDermott, Commentariolum Petitionis 2, Historia 19 (1970), 384-385.

W.C. McDermott, Q. Cicero, Historia 20 (1971), 702-717.

R. Morstein-Marx, Publicity, Popularity, and Patronage in the “Commentariolum Petitionis”, ClassAnt 17 (1998), 259-288.

D. Nardo, Il Commentariolum petitionis. La propaganda elettorale nella Ars di Quinto Cicerone, Padova 1970.

R.G.M. Nisbet, The Commentariolum Petitionis: Some Arguments against Authenticity, JRS 51 (1961), 84-87.

T. Nótári, On Quintus Tullius Cicero’s Commentariolum Petitionis, AJH 51 (2010), 35-53.

F. Prost, Quintus Cicéron conseiller de Marcus, DHA Suppl. 17 (2017), 453-464.

J.T. Ramsey, A Reconstruction of Q. Gallius’ Trial for “Ambitus”: One Less Reason for Doubting the Authenticity of the “Commentariolum Petitionis”, Historia 29 (1980), 402-421.

J.S. Richardson, The “Commentariolum Petitionis”, Historia 20 (1971), 436-442.

D.R. Shackleton Bailey, Comm. Pet. 10, HSCPh 96 (1994), 197-199.

W.J. Tatum, Q. Cicero, Commentariolum Petitionis, 33, CQ 52 (2002), 394-398.

R. Till, Ciceros Bewerbung uns Konsulat (Ein Beitrag zum Commentariolum Petitionis), Historia 11 (1962), 315-338.

L. Traversa, Comunicazione e partecipazione politica: il Commentariolum petitionis, AFLF 52-53 (2009-2010), 115-152.

R.Y. Tyrell, L.C. Purser, The Correspondence of Marcus Tullius Cicero, I, Dublin 1904³.

L. Waibel, Das Commentariolum petitionis – Untersuchungen zur Frage der Echtheit, München 1969.

W.S. Watt, Notes on the Text of the Commentariolum Petitionis, CQ 8 (1958), 32-44.

J. Wikarjak, Brochure électorale de Quintus Cicéron, Varsovie 1966.

T.P. Wiseman, The Ambitions of Quintus Cicero, JRS 56 (1966), 108-115.

A. Yakobson, Secret Ballot and its Effects in the Late Roman Republic, Hermes 123 (1995), 426-442.

A. Yakobson, Elections and Electioneering in Rome: A Study in the Political System of the Late Republic, Stuttgart 1999.

Gaio Sallustio Crispo

di G.B. CONTE, E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, 448-457

Il primo grande storico

Sallustio è il primo grande storico della letteratura latina di cui si possono leggere per intero le opere principali, essendo andate perdute le Origines di Catone. La sua novità consiste nell’aver scelto di narrare non un lungo periodo della storia romana, ma singoli avvenimenti (la congiura di Catilina e la guerra di Giugurta) che, pur essendo stati di breve durata, gli sembrarono decisivi per le conseguenze che avrebbero avuto sugli sviluppi successivi. Sallustio scelse dunque il genere della monografia, ovvero della «trattazione isolata».

In realtà, la monografia (dal greco μόνος, «singolo, isolato», e γράφειν, «scrivere») non è un vero e proprio genere letterario, ma un sottogenere della storiografia, che corrisponde alla scelta di trattare non una lunga epoca, ma un periodo circoscritto, un evento o un luogo isolato, che sembrano di particolare interesse per l’autore. Il modello ispiratore della scelta, in questo come in altri ambiti, fu Omero, che nell’Iliade narrò la guerra di Troia, per di più concentrandosi sugli eventi accaduti in cinquantuno giorni dell’ultimo anno di conflitto. Questa abilità di selezione fu lodata già da Aristotele, anche riguardo all’Odissea, in diversi passi della Poetica (p. es., 59a 30-37).

Venendo alla storiografia vera e propria, l’iniziatore della monografia fu l’ateniese Tucidide (c. 460-400 a.C.). Contrapponendosi al suo grande predecessore Erodoto, che aveva narrato la storia e le usanze di più popolazioni dalle origini fino alle guerre persiane, Tucidide decise di raccontare soltanto la guerra del Peloponneso (431-404), affermando nel proemio di aver capito (e a ragione) fin dall’inizio che si trattava di un fatto senza precedenti (I 1). Per sottolineare la novità di questo conflitto rispetto ai precedenti, dopo il proemio Tucidide inserì un lungo excursus sulla storia più antica – chiamato «archeologia» –, una scelta che sarebbe stata imitata da Sallustio nei capp. 6-13 del De Catilinae coniuratione.

Altri storici contemporanei di Tucidide scelsero la forma monografica in base non tanto all’evento, quanto al luogo: così Ellanico di Lesbo e Damaste di Sigeo scrissero opere su singoli Paesi e popoli ricche di notazioni etnografiche o su singole genealogie di eroi, mentre Ippia di Reggio e Antioco di Siracusa si concentrarono sull’Italia meridionale. Nel IV secolo il genere monografico continuò a fiorire (in particolare, i numerosi autori di storie dell’Attica presero il nome di attidografi); alla fine del III secolo vi si affiancarono le monografie dedicate alle straordinarie imprese di Alessandro il Grande (tra gli autori si ricordano Tolemeo, Nearco e Callistene), che però scaddero ben presto nel romanzesco.

Com’è noto, la prima storiografia romana fu di tipo annalistico, ovvero di ampio respiro e scandita anno per anno, fosse essa scritta in poesia (gli Annales di Ennio) o in prosa (le Origines di Catone). Il primo scrittore romano che optò per l’impianto monografico fu Celio Antipatro (II secolo a.C.), autore di un’opera – andata perduta – sulla seconda guerra punica.

La scelta di Celio Antipatro rimase alquanto isolata, finché non fu ripresa da Sallustio, che dedicò le sue due più importanti opere alla congiura di Catilina (63) e alla guerra contro Giugurta (111-105), affermando esplicitamente di voler scrivere «su argomenti scelti» (carptim… perscribere, Cat. 4, 2). Dopo queste due monografie, l’autore praticò anche l’annalistica componendo le Historiae, che narravano i fatti avvenuti dal 78 a.C. in poi.

Anche il più grande storico di età imperiale, Tacito, che ebbe Sallustio come modello di composizione, etica e stile, praticò entrambi i generi: oltre agli Annales e alle Historiae, che raccontano gli accadimenti dalla morte di Augusto, Tacito compose anche una monografia etnografica sui Germani (De origine et situ Germanorum) e un breve De vita Iulii Agricolae, che, pur essendo di per sé un elogio funebre, è in realtà un quadro monografico sul principato di Domiziano.

Insomma, ad avvenimenti brevi Sallustio dedicò opere brevi; malgrado questa caratteristica, le monografie contengono riflessioni che mostrano una lucidità e un’intelligenza proprie di chi ha partecipato attivamente alla vita politica per un lungo tratto della sua vita. il cupo pessimismo dell’autore e la sua tragica visione della Storia si riflettono in uno stile personalissimo, che rifugge dall’eleganza esornativa ciceroniana e fa largo uso di forme poetiche e arcaiche.

Maestro di Marradi. L’espulsione di Tarquinio il Superbo e di suo figlio Sesto da Roma. Tempera e oro su tavola, XV secolo. Collezione privata.

La vita: dalla politica attiva all’otium letterario

Gaio Sallustio Crispo nacque ad Amiternum, in Sabina (oggi vicino a L’Aquila), il 1 ottobre 86, da una famiglia facoltosa che però non aveva mai dato magistrati alla res publica; egli era perciò un homo novus, come il suo conterraneo Marco Porcio Catone il Censore, che fu per lui importante esempio ideologico e letterario. Sallustio compì probabilmente gli studi a Roma, dove i suoi interessi cominciarono a gravitare verso la politica, in un’epoca abbastanza convulsa per lo Stato romano. Una notizia non troppo certa lo vuole questore nel 55 o nel 54. Si legò inizialmente ai populares: tribuno della plebe nel 52, condusse una campagna accanita contro l’uccisore di Clodio, Milone, e contro Cicerone che lo appoggiava. Poco dopo dovette subire la vendetta degli optimates: nel 50 fu espulso dal Senato per indegnità morale.

Dopo lo scoppio della guerra civile, Sallustio combatté per la causa di Cesare e fu riammesso nel venerando consesso dopo la vittoria di quest’ultimo: la sua carriera politica riprese rapida, tanto che nel 46 era già arrivato a essere pretore. Una volta sconfitti i pompeiani anche in Africa a Tapso, Cesare nominò Sallustio governatore della nuova provincia, costituita in gran parte dalle annessioni dal regno di Numidia, tolto a Giuba che aveva appoggiato il nemico. Sallustio dette tuttavia prova di malgoverno e di rapacità, e al suo rientro a Roma, a fine mandato, fu colpito dall’accusa de repetundis. Per evitargli una sicura condanna e una nuova espulsione dal Senato, probabilmente Cesare gli consigliò di ritirarsi una volta per tutte dalla vita politica. Fu da quel momento in poi che, presumibilmente, Sallustio si dedicò alla storiografia. La morte lo colse nel 35 o nel 34, nella sua lussuosa residenza con grande parco tra il Quirinale e il Pincio (i cosiddetti Horti Sallustiani), facendo sì che restasse incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Le opere

Sallustio, dunque, si dedicò alla storiografia quando le circostanze gli impedirono di partecipare ancora alla vita politica. Questo dato biografico è il punto di partenza della riflessione sulla Storia e sul ruolo dello storico che egli svolge nei proemi delle due monografie, il De Catilinae coniuratione e il Bellum Iugurthinum, composte e pubblicate forse fra il 43 e il 40. Egli segue una prassi propria della storiografia classica, consistente nell’esordire svolgendo alcuni temi di carattere generale e affermando, prima di tutto, l’utilità della Storia: essa è per lo storico latino tanto più importante, rispetto ai suoi predecessori greci, in quanto la mentalità romana considerava assolutamente primaria la partecipazione alla vita pubblica e guardava con sospetto alle attività intellettuali che comportassero il distacco dalla res publica e il prevalere degli interessi privati.

Appunto contro le resistenze di questo sistema di valori tradizionali Sallustio vuole rivendicare l’importanza dell’opera dello storico. Per tale processo di legittimazione egli parte da premesse filosofiche e precisamente dal tema platonico del dualismo dell’essere umano, composto da animus e corpus: il primo è di origine divina ed è chiamato a funzioni di guida, mentre il secondo, che è mortale e che l’uomo ha in comune con gli altri animali, deve obbedire al primo. È dunque solennemente proclamata la superiorità della parte spirituale dell’uomo su quella fisica: all’animus, appunto, l’autore riconduce tutte le occupazioni nobili ed elevate, quelle apportatrici di fama, che consentono di trascendere i limiti mortali della vita umana.

Un’opera di più vasto respiro, le Historiae, iniziata intorno al 39 e rimasta incompiuta al libro V, copriva il periodo fra il 78 e il 67, cioè dalla morte di Silla alla conclusione della guerra piratica di Pompeo, riallacciandosi alla narrazione di Cornelio Sisenna (c. 120-67 a.C.); ne restano numerosi frammenti, fra i quali alcuni di vaste dimensioni ( parte del proemio, quattro discorsi e due lettere). Opere spurie sono considerate le due Epistulae ad Caesarem senem de re publica e l’Invectiva in Ciceronem.

Come si è visto, dopo un’iniziale, intensa partecipazione attiva alla vita pubblica, ovvero al negotium, Sallustio si ritirò a vita privata e si dedicò all’attività letteraria, ovvero all’otium. Poiché i Romani concepivano l’otium in maniera potenzialmente negativa, cioè come tempo sottratto alla cura degli affari e della politica, Sallustio sentì il bisogno di giustificarsi per il passaggio dal negotium all’otium, e lo fece nei due lunghi proemi che antepose alle sue monografie. Sebbene si nutrano di luoghi comuni della filosofia divulgativa, questi proemi rispondono all’esigenza profonda di dare conto della propria attività intellettuale di fronte a un pubblico come quello romano, fedele alla tradizione per cui fare storia era compito più importante che scriverne. Giustificazioni analoghe aveva più volte dovuto fornire Cicerone – anch’egli in testi proemiali – a proposito delle sue opere filosofiche; ma in Cicerone la rivalutazione dell’attività intellettuale è compiuta con un orgoglio senz’altro superiore a quello di Sallustio, che alla storiografia attribuisce un valore di gran lunga inferiore a quello della politica, e comunque non le conferisce un significato “autonomo”. Per Sallustio la storiografia resta infatti strettamente legata alla prassi politica, e la sua maggiore funzione è individuata nel contributo alla formazione dell’uomo politico. Tuttavia, l’attività politica non è più praticabile, a detta di Sallustio, perché a Roma trionfa ormai la corruzione.

I pochi cenni autobiografici contenuti nei proemi di Sallustio sono volti a spiegare l’abbandono della vita politica con la crisi che ha irrimediabilmente corrotto le istituzioni e la società. Sallustio denuncia l’avidità di ricchezza e di potere come i mali che avvelenano la vita pubblica dei cittadini, e in ciò si fa evidente il contrasto fra la pagina scritta e quanto si sa della sua carriera disonesta di amministratore. Ma la cosa più importante è che la stessa storiografia sallustiana tende a configurarsi come indagine sulla crisi. Questo approccio serve a dare conto dell’impianto monografico delle due prime opere storiche, che costituiva una novità quasi totale nella storiografia latina. Proprio l’impostazione monografica serviva in maniera eccellente a delimitare e a mettere a fuoco un singolo problema storico sullo sfondo di una visione organica della storia di Roma. Così il De Catilinae coniuratione illumina il punto più acuto della crisi, il delinearsi di un pericolo sovversivo di qualità fino ad allora ignota alla res publica; il Bellum Iugurthinum, invece, affronta direttamente, attraverso una vicenda paradigmatica, il nodo costituito dall’incapacità della nobilitas ormai corrotta a difendere lo Stato, e insiste sulla prima resistenza vittoriosa dei populares. Contemporaneamente, l’impianto monografico risentiva dell’esigenza di opere brevi di raffinata fattura stilistica, acuitasi dopo l’esperienza neoterica della poesia e la scelta della monografia portò Sallustio a elaborare un nuovo stile storiografico.

Jan Bruegel il Giovane, Allegoria della guerra. Olio su tela, c. 1640. Collezione privata.

Il De Catilinae coniuratione

Sallustio sceglie come argomento della sua prima monografia la congiura di Lucio Sergio Catilina, repressa da Cicerone console nel 63, perché vi scorge una pericolosa novità: il tentativo di coalizzare contro lo strapotere del Senato una sorta di “blocco sociale” costituito dalle masse di diseredati del proletariato urbano, dei poveri delle campagne, dai membri decaduti del patriziato, forse persino da frotte di servi. Il fenomeno catilinario aveva suscitato nei gruppi dirigenti dell’Urbe timori che possono apparire eccessivi, ma senza la paura dei ceti possidenti nei confronti degli strati inferiori della società non si comprende l’importanza che fu attribuita alla congiura.

Sallustio, come molti suoi contemporanei, vedeva nel sovversivismo catilinario uno dei sintomi della ben più grave malattia di cui soffriva la società romana. A essa lo storico, interrompendo la narrazione, dedica un ampio excursus, quasi all’inizio dell’opera (capp. 6-13): si tratta della cosiddetta «archeologia», che, sul modello tucidideo, traccia una rapida storia dell’ascesa e della decadenza di Roma. Anche se con il senno di poi la congiura di Catilina può sembrare un evento di modesta portata, ingigantito da Cicerone per aumentare i propri meriti e da Sallustio per finalità storiografiche, resta il fatto che fece una grande impressione presso i contemporanei. A partire dall’epoca di Gracchi (133-120 a.C.), passando per i tumulti di Saturnino (100) e Druso (91) e per lo scontro tra Mario e Silla (88-82), la violenza civile a Roma era aumentata a dismisura e in modo incontrollato, finché Catilina non fece il grande passo: per la prima volta qualcuno tramava segretamente contro la res publica. Catilina era pronto a massacrare in un attimo i membri di quel Senato che frequentava abitualmente e i magistrati con cui si intratteneva ogni giorno come se nulla fosse. Sallustio, dunque, si è chiesto come sia stato possibile giungere a tanto. Mentre uno storico moderno spiegherebbe i fatti attraverso motivazioni economiche, politiche e sociali, Sallustio – storico moralista e “tragico” – addita una causa di natura collettiva, cioè la decadenza morale di tutta Roma e una di natura individuale, cioè la malvagità d’animo del protagonista e di tutti coloro che avevano scelto di seguirlo.

I capitoli 9-11, che espongono la prima delle due ragioni, sono estratti dalla cosiddetta «archeologia», l’excursus che presenta l’ascesa di Roma dal periodo della fondazione al presente dell’autore. La tesi di Sallustio è che fino alla distruzione di Cartagine (146) i Romani, valorosi in guerra e giusti e miti in tempo di pace, abbiano mantenuto boni mores; ma, una volta scomparso il grande rivale, l’Urbe è precipitata in un baratro di corruzione e violenza, culminato nella dittatura di Lucio Cornelio Silla.

[9.1] Igitur domi militiaeque boni mores colebantur, concordia maxuma, minuma avaritia erat; ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura valebat. [2] iurgia discordias simultates cum hostibus exercebant, cives cum civibus de virtute certabant. in suppliciis deorum magnifici, domi parci, in amicos fideles erant. [3] duabus his artibus, audacia in bello, ubi pax evenerat aequitate, seque remque publicam curabant. [4] quarum rerum ego maxuma documenta haec habeo, quod in bello saepius vindicatum est in eos, qui contra imperium in hostem pugnaverant quique tardius revocati proelio excesserant, quam qui signa relinquere aut pulsi loco cedere ausi erant; [5] in pace vero quod beneficiis magis quam metu imperium agitabant et accepta iniuria ignoscere quam persequi malebant.

[10.1] Sed ubi labore atque iustitia res publica crevit, reges magni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Carthago aemula imperi Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. [2] qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. [3] igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere. [4] namque avaritia fidem probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. [5] ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aestumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere. [6] haec primo paulatim crescere,interdum vindicari; post ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum.

[11.1] Sed primo magis ambitio quam avaritia animos hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat. [2] nam gloriam honorem imperium bonus et ignavos aeque sibi exoptant; sed ille vera via nititur, huic quia bonae artes desunt, dolis atque fallaciis contendit. [3] avaritia pecuniae studium habet, quam nemo sapiens concupivit: ea quasi venenis malis inbuta corpus animumque virilem effeminat, semper infinita ‹et› insatiabilis est, neque copia neque inopia minuitur. [4] sed postquam L. Sulla armis recepta re publica bonis initiis malos eventus habuit, rapere omnes, trahere, domum alius, alius agros cupere, neque modum neque modestiam victores habere, foeda crudeliaque in civis facinora facere. [5] huc adcedebat, quod L. Sulla exercitum, quem in Asia ductaverat, quo sibi fidum faceret, contra morem maiorum luxuriose nimisque liberaliter habuerat. Loca amoena, voluptaria facile in otio ferocis militum animos molliverant: [6] ibi primum insuevit exercitus populi Romani amare potare, signa tabulas pictas vasa caelata mirari, ea privatim et publice rapere, delubra spoliare, sacra profanaque omnia polluere. [7] igitur ei milites, postquam victoriam adepti sunt, nihil relicui victis fecere. [8] quippe secundae res sapientium animos fatigant: ne illi conruptis moribus victoriae temperarent.

Scena di vendita e trasporto delle merci. Rilievo, calcare, III sec. Arlon, Musée Luxembourgeois.

[9.1] In pace e in guerra, dunque, era onorata la buona condotta; regnava la concordia, non si conosceva brama di arricchire. Il diritto e l’onestà erano osservati non in forza di leggi ma per impulso naturale. [2] Alterchi, discordie, contese se ne avevano solo con i nemici esterni: tra concittadini si gareggiava soltanto per il valore. Erano splendidi nel culto reso agli dèi, parsimoniosi nella loro vita privata e leali agli amici. [3

]Sia nella vita privata sia in quella pubblica, si attendevano a due principi, spietati in guerra, erano equi quando era tornata la pace. [4] Sono cose di cui potrei addurre documenti irrefutabili, perché in guerra è accaduto di dover punire soldati per essersi lanciati sul nemico contro gli ordini o attardati a combattere dopo il segnale della ritirata, più spesso che per aver disertato o ceduto terreno sotto la pressione degli avversari. [5] In tempo di pace, d’altro canto, esercitavano il loro dominio più con la benevolenza che con il terrore e preferivano perdonare alle offese ricevute anziché punirne i responsabili.

[10.1] Ma come la res publica, con la tenacia e la giustizia, si espanse e i re più potenti furono soggiogati e le genti barbare e le grandi nazioni sottomesse con la forza, e la rivale dell’impero romano, Cartagine, fu rasa al suolo dalle fondamenta e si erano aperti tutti quanti i mari e le terre, la sorte cominciò a infierire e a sovvertire ogni cosa. [2] Per quelle stesse persone che avevano sopportato senza un lamento fatiche, pericoli, sorti incerte e avverse, la tranquillità e il benessere, beni d’altro canto desiderabili, si trasformarono in travagli e sciagure. [3] La brama di ricchezza e di potere aumentò e con essa, si può dire, divamparono tutti i mali. [4] Fu la cupidigia a spazzar via la buona fede, la rettitudine e tutte le norme del vivere onesto, indusse la gente all’arroganza, alla crudeltà, alla noncuranza verso gli dèi, alla convinzione che non ci fosse cosa che non fosse in vendita. [5] L’ambizione indusse molti a fingere, a tener chiuso in cuore un pensiero e ad averne un altro pronto sulla lingua, a considerare amici e nemici non per i loro reali meriti, ma secondo il proprio tornaconto, a sembrare onesti più che a esserlo davvero. [6]

 Sulle prime, questi vizi aumentarono lentamente; a volte, furono anche puniti. Ma più il contagio si diffuse come una pestilenza, la città mutò volto e quel governo che era il più giusto, il migliore, divenne crudele e intollerabile.

[11.1] Nei primi tempi, peraltro, più della cupidigia tormentava gli animi l’ambizione, un difetto sì ma non molto lontano dal pregio. [2] Infatti, alla gloria, agli onori, al potere aspirano tutti allo stesso modo, l’uomo di valore e l’incapace; ma i primi vi tendono percorrendo la retta via, i secondi, privi di qualità, cercano di raggiungere la meta con la frode e il raggiro. [3] L’avidità contiene in sé la brama di denaro, che nessun sapiente ha mai desiderato e desidera. Essa, quasi fosse intrisa di veleni mortali, infiacchisce il corpo e l’anima più virile; non conosce limiti né sazietà, non si attenua né per abbondanza né per difetto. [4] Ma, dopo che Lucio Silla, preso il potere con le armi, fece seguire fatti atroci nonostante i fausti inizi, tutti si diedero a commettere stupri e rapine, chi bramava una casa, chi i poderi, i vincitori non conoscevano freno né misura, compivano atrocità e crudeltà contro i concittadini. [5] A ciò si aggiungeva il fatto che Lucio Silla aveva lasciato vivere nel lusso e trattato con eccessiva liberalità, contrariamente al costume degli avi nostri, l’esercito che aveva condotto con sé in Asia per renderselo leale. L’amenità e la molle piacevolezza dei luoghi avevano rapidamente fiaccato nell’ozio lo spirito fiero di quei soldati. [6] Laggiù per la pima volta un esercito del popolo romano sperimentò piaceri che non conosceva, ad amoreggiare, a bere smodatamente, ad apprezzare opere d’arte, statue, quadri e vasellame cesellato, e incominciò a rubarli dalle case private e dai luoghi pubblici, a spogliare i templi, a profanare ciò che apparteneva agli dèi e agli uomini. [7] Quei soldati, dopo la vittoria, non lasciarono niente ai vinti. [8] La prosperità corrompe perfino l’animo del saggio: figuriamoci se quei degenerati avrebbero saputo moderarsi nella vittoria!

L. Cornelio Silla. Aureo, campagna orientale, 84-83 a.C. AV 10, 76. Recto: L(ucius) Sulla. Testa diademata di Venere voltata a destra con Cupido stante, reggente una foglia di palma.

Nella visione pessimistica di Sallustio, la società romana del suo tempo era ormai minata da un processo irreversibile di degenerazione morale, che aveva rovesciato i boni mores che un tempo avevano fatto la grandezza di Roma. In quest’ottica, un episodio come la congiura di Catilina rappresenta il culmine di una “malattia” che ha progressivamente corroso il tessuto sociale, e per capirne le implicazioni è necessario rileggere lo sviluppo storico che ha portato dagli antichi fasti all’attuale decadenza della res publica. È questa, come più volte si è detto, la funzione della cosiddetta «archeologia», in cui, sul modello dell’analoga digressione di Tucidide, Sallustio interrompe la linea narrativa della monografia per tracciare una sorta di “storia morale” di Roma, dall’età mitica fino al suo presente, una storia di progressiva, inesorabile decadenza.

Mentre i primi quattro capitoli dell’excursus sono dedicati all’elogio della moralità arcaica, gli ultimi quattro, in perfetta simmetria, descrivono la china “discendente” di questa parabola. Il punto di svolta, per l’autore, è la distruzione di Cartagine (10, 1), e da qui in poi si apre l’elenco delle “tappe della rovina”. Sallustio è attento alla scansione temporale dei fenomeni, come mostra l’abbondanza di indicatori cronologici. L’autore cita questo evento come coronamento delle vittorie ottenute da Roma, fra III e II secolo a.C., contro reges magni (Pirro d’Epiro, Perseo di Macedonia e Antioco di Siria), nationes ferae e populi ingentes. L’idea che a partire da questo fatto fosse iniziata la decadenza dell’Urbe circolava già da qualche tempo: nel II secolo, infatti, lo storico Polibio di Megalopoli aveva notato come la paura per il nemico stimolasse la concordia fra i concittadini, mentre il benessere che segue alla sconfitta del nemico e alla conquista di nuovi territori avviasse un processo di decadenza (è la cosiddetta “teoria del metus hostilis”). In quest’ottica, però, è interessante notare come Sallustio attribuisca all’azione della fortuna l’inizio del rovinoso processo, o meglio al fatto che la virtus, indebolendosi, lasciò spazio al gioco della fortuna. Inoltre, i primi segni della decadenza sono l’insorgere della cupido pecuniae e poi della cupido imperii (10, 3), ai cui effetti, avaritia e ambitio, sono dedicati i successivi paragrafi. Si inserisce, a questo punto, il secondo evento cruciale, cioè la dittatura di Silla (11, 4-7), che, nella visione di Sallustio, diede modo all’avaritia di scatenarsi senza più ritegno, tra proscrizioni, permissività nei confronti di militari corrotti, e crudeltà crescente fra concittadini. In chiusura, una frase sentenziosa denuncia il carattere inevitabile di tale processo e l’inconciliabilità delle secundae res con la conservazione dei boni mores (11, 8).

L’immagine della Roma antica che emerge da questa pagina sallustiana è fortemente idealizzata: l’autore evita di fare qualsiasi cenno alle lotte fra patrizi e plebei, che ebbero luogo nei primi secoli della storia repubblicana, per aumentare il contrasto fra questa età e la successiva decadenza, macchiata da ben più cruente stragi fra i cives. Di quel periodo Sallustio ricorda solo gli episodi più edificanti, per quanto sconcertanti, come si scorge in 9, 4: l’immagine del soldato romano che rischia di essere punito più per un eccesso di ardimento che per essere fuggito allude all’episodio di Tito Manlio Torquato, console nel 340, che condannò all’esecuzione capitale il proprio figlio per aver combattuto contravvenendo ai suoi ordini. Il paragrafo 9, 5, invece, celebra l’imperialismo romano come un dominio basato sulla benevolenza e la mitezza, piuttosto che su un regime di terrore nei confronti delle popolazioni sottomesse.

Anche l’idea che i boni mores vigessero più per istinto naturale che per la forza delle leggi è un elemento fortemente idealizzante, che si ritrova nell’immagine “aurea” del virgiliano regno di Saturno (Verg. Aen. VII 203) e diventa ben presto luogo comune (per es., Hor. Carm. III 24, 35-36). Un altro tratto elogiativo è il contrasto fra la parsimonia privata e la magnificenza del culto divino, per cui Sallustio trae probabilmente spunto da un’orazione di Demostene (Dem. 3, 25), che opponeva il fasto dei templi all’umiltà delle abitazioni private nell’antica Atene.

Catilina incarna in sé, portandoli al massimo grado, i vizi della società contemporanea: le sue colpe sono le stesse della civitas, come Sallustio riconosce verso la fine del ritratto del protagonista (5). Perciò, al termine dell’excursus “archeologico”, ecco di nuovo e subito Catilina, che questa degenerazione ricapitola e impersona (14).

[14.1] In tanta tamque conrupta civitate Catilina, id quod factu facillumum erat, omnium flagitiorum atque facinorum circum se tamquam stipatorum catervas habebat. [2] Nam quicumque inpudicus adulter, ganeo manu ventre pene bona patria laceraverat, quique alienum aes grande conflaverat, quo flagitium aut facinus redimeret, [3] praeterea omnes undique parricidae sacrilegi convicti iudiciis aut pro factis iudicium timentes, ad hoc quos manus atque lingua periurio aut sanguine civili alebat, postremo omnes quos flagitium, egestas, conscius animus exagitabat, ii Catilinae proxumi familiaresque erant. [4] Quod si quis etiam a culpa vacuos in amicitiam eius inciderat, cotidiano usu atque inlecebris facile par similisque ceteris efficiebatur. [5] Sed maxume adulescentium familiaritates adpetebat: eorum animi molles et aetate fluxi dolis haud difficulter capiebantur. [6] Nam ut cuiusque studium ex aetate flagrabat, aliis scorta praebere, aliis canis atque equos mercari; postremo neque sumptui neque modestiae suae parcere, dum illos obnoxios fidosque sibi faceret. [7] Scio fuisse nonnullos, qui ita existumarent iuventutem, quae domum Catilinae frequentabat, parum honeste pudicitiam habuisse; sed ex aliis rebus magis quam quod cuiquam id compertum foret haec fama valebat.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

[14.1] In una città così grande e così corrotta, non era stato difficile a Catilina raccogliersi attorno tutti i dissipati e i criminali e farne, si può dire, la sua guardia del corpo. [2] Non c’era, infatti, degenerato, adultero, puttaniere, scialacquatore del patrimonio al gioco, al bordello, a tavola, non c’era uno indebitato fino al collo per riscattarsi dall’infamia o dal delitto, [3] non c’era un parricida o un sacrilego d’ogni paese, condannato o in attesa di sentenza, non uno di quei sicari e spergiuri che prosperano sul sangue dei cittadini, non c’era infine coscienza inquieta per il disonore, il bisogno, i rimorsi che non fosse tra i suoi. [4] E se capitava a qualcuno, ancora immune da colpe, di entrare nel giro, i rapporti quotidiani, le tentazioni, ben presto lo facevano diventare come gli altri. [5] Cercava, soprattutto, di attirare i giovani: le loro menti ancora informi e malleabili cadevano facilmente nella pania. [6] Infatti egli li assecondava nelle loro passioni, a uno procurava donne, a un altro comperava cani e cavalli, insomma non lesinava denaro né badava alla dignità pur di farsene amici fidati. [7] So che alcuni hanno sospettato di costumi disonesti i giovani che frequentavano la casa di Catilina; ma erano voci, congetture basate su tutto il contorno, non su fatti accertati.

In questo breve capitolo Sallustio mostra come un Catilina si trovasse perfettamente a suo agio in mezzo alla corruzione di Roma, essendone alimentato e alimentandola a sua volta con i suoi misfatti. In particolare, qui l’autore allude all’immoralità sessuale dei suoi seguaci, sulla quale Catilina poteva fare leva per attirarli: con lui c’era ogni inpudicus, adulter e quicumque… pene bona patria laceraverat, perciò a Catilina bastava scorta praebere («procurare prostitute»). Queste accuse erano sicuramente gravi per la rigida morale sessuale dei Romani, ma ancora tollerabili: la prostituzione era accettata, purché non mettesse in discussione la famiglia e restasse nell’ambito eterosessuale.

L’accusa più grave è quella di pederastia contenuta in 14, 7, espressa per litote con parum honeste pudicitiam habuisse. Sallustio, però, ne prende onestamente le distanze, definendola basata genericamente ex aliis rebus, ben sapendo che nella lotta politica il pettegolezzo sessuale contro gli avversari (soprattutto su forme di sessualità eterodossa) era un’arma diffusissima. Cicerone nell’orazione pro Caelio (56 a.C.) avrebbe riportato le voci sull’amore incestuoso di Clodia (la catulliana Lesbia) con il fratello Clodio, il tribuno che lo aveva mandato in esilio; a sua volta, Cicerone fu accusato di intrattenere rapporti incestuosi con l’amatissima figlia Tullia. E già un secolo prima, il grande commediografo Terenzio era stato accusato di essere l’amasio di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio, e di farsi comporre le commedie proprio da loro.

Un secondo excursus, collocato al centro dell’opera (capp. 37-39), denuncia la degenerazione della vita politica romana nel periodo che va dalla dittatura sillana alla guerra civile fra Cesare e Pompeo. La condanna coinvolge in pari modo le due parti in lotta, i populares e gli optimates: da un lato i demagoghi, che con elargizioni e promesse alla plebe ne aizzano l’emotività per farne il piedistallo delle proprie ambizioni; dall’altro i nobiles e gli equites, che si fanno paladini della dignità del Senato, ma combattono in realtà solo per consolidare e ampliare i propri privilegi. Sallustio scorge un legame organico fra la faziosità delle parti contrapposte e il pericolo di sovversione sociale; abolire la “conflittualità” diffusa è necessario per mettere i ceti possidenti definitivamente al riparo da quel pericolo.

La condanna del «regime delle factiones» è in questo senso coerente con le aspettative che Sallustio ripone in Cesare. Da parte di quest’ultimo, lo storico auspicava probabilmente l’attuazione di una politica per certi aspetti non diversa da quella che Cicerone si riprometteva dal suo princeps: un regime autoritario che sapesse porre fine alla crisi della res publica, ristabilendo l’ordine, rinsaldando la concordia fra i ceti possidenti, restituendo prestigio e dignità a un Senato ampliato con uomini nuovi provenienti dall’élite di tutta Italia. La divergenza principale fra l’ideale di Sallustio e la politica effettivamente perseguita da Cesare riguardava probabilmente la funzione che questi aveva attribuito all’esercito: Sallustio – anche qui non troppo diversamente da Cicerone – doveva sentirsi disgustato dall’inquinamento del Senato con l’immissione di personaggi provenienti dai ranghi militari. Questa impostazione generale spiega la parziale deformazione che nel De coniuratione Sallustio ha compiuto del personaggio di Cesare, purificandolo, per così dire, da ogni contatto e legame con i catilinari ed evitando la condanna esplicita della sua politica come capo dei populares.

Nel riferire la seduta del Senato del 5 dicembre 63 a.C., in cui fu decisa la condanna a morte dei complici del complotto (Cat. 51), Sallustio fa pronunciare a Cesare un lungo discorso che, per sconsigliare l’estremo supplizio, fa largo appello a considerazioni legalitarie. Il discorso “rifatto” da Sallustio non è, a quanto pare, una sostanziale falsificazione; ma l’insistenza sulle tematiche legalitarie, se anche trovava qualche appiglio nell’intervento effettivamente pronunciato da Cesare in quell’occasione, è soprattutto coerente con la propaganda cesariana degli ultimi anni, quale mostrano i Commentarii, e con l’ideale politico sallustiano. La preoccupazione per l’ordine e la legalità conteneva, agli occhi dello storico, un valore perenne: mostrandola operante nel pensiero di Cesare fin dal 63, Sallustio implicitamente suggeriva la coerenza e la continuità della sua linea politica.

Immediatamente dopo la narrazione della seduta del Senato, l’autore delinea i ritratti di Marco Porcio Catone e di Cesare, che in quell’occasione avevano espresso pareri opposti (Cat. 54). L’idea del confronto fra i due personaggi non è senza rapporti con la polemica su Catone che si era sviluppata dopo il suo suicidio in Utica, e alla quale aveva preso parte lo stesso Cesare con l’Anticato. Sallustio sembra essere stato il primo a tentare una riflessione pacata, che approda a una sorta di ideale “conciliazione” fra i due personaggi. Il ritratto di Cesare si sofferma da un lato sulla sua liberalità, munificentia, misericordia, e dall’altro sull’infaticabile energia che sorregge la sua brama di gloria; le virtù tipiche di Catone sono invece quelle, radicate nella tradizione, di integritas, severitas, innocentia. Malgrado ciò, «pari era in loro la grandezza d’animo, pari era la fama» (magnitudo animi par, item gloria). Differenziando i mores dei due personaggi, Sallustio voleva affermare che entrambi erano positivi per lo Stato romano, anzi nelle loro virtù individuava aspetti complementari; in particolare, nei principi etico-politici affermati da Catone, Sallustio – al di là dei dissensi sul ruolo del ceto nobiliare cui Catone dava voce – riconosceva un fondamento irrinunciabile per la res publica.

Indicando in Cesare e in Catone i più grandi Romani dell’epoca, Sallustio non perseguiva certo l’intento di denigrare Cicerone; ma è un fatto che, dalla narrazione dei fatti, la figura del console, che si era trovato a reprimere il complotto, appare alquanto ridimensionata a chi abbia presenti i vanti che lo stesso Arpinate si era largamente prodigato. Il Cicerone di Sallustio non è il politico che domina gli eventi grazie alla lucidità della propria mente, ma un magistrato che fa il suo dovere, pur non essendo un eroe, superando inquietudini e incertezze.

Attinge, invece, una sua grandezza, sia pure malefica, il personaggio di Catilina stesso, del quale l’autore delinea un ritratto a tinte forti e contrastanti (Cat. 5), sottolineandone da un lato l’energia indomabile, dall’altro la facile consuetudine con ogni forma di depravazione. Ne emerge il tipo dell’«eroe nero», che con la sua tensione verso il male mette in moto nella Storia le dinamiche più rovinose.

[5.1] L. Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque. [2] Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuere, ibique iuventutem suam exercuit. [3] Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae supra quam cuiquam credibile est. [4] Animus audax, subdolus, varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator, alieni adpetens sui profusus, ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. [5] Vastus animus inmoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat. [6] Hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae; neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat.[7] Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque iis artibus auxerat, quas supra memoravi. [8] Incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.

Cesare Maccari, Cicerone denuncia la congiura di Catilina in Senato (dettaglio). Affresco, 1882-88. Roma, Palazzo di Villa Madama.

[5.1] Lucio Catilina, di nobile stirpe, fu d’ingegno vivace e di corpo vigoroso, ma d’animo perverso e depravato. [2] Sin da giovane era portato ai disordini, alle violenze, alle rapine, alla discordia civile; in tali esercizi trascorse i suoi anni giovanili. [3] Aveva un fisico incredibilmente resistente al digiuno, al freddo, alla veglia; [4] uno spirito intrepido, subdolo, incostante, abile a simulare e a dissimulare. Avido dell’altrui, prodigo del proprio; ardente nelle passioni, non privo d’eloquenza, ma di poco giudizio; [5] un animo sfrenato, sempre teso a cose smisurate, incredibili, estreme. [6] Finito il dispotismo di Lucio Silla, egli fu preso dalla smania di impadronirsi del potere; pur di raggiungerlo, non aveva scrupoli. [7] Quell’animo impavido era turbato ogni giorno di più dalla penuria di denaro e da cattiva coscienza, rese più gravi dalle male abitudini cui ho accennato. [8] Lo spingeva inoltre su quella china la corruzione della città, nella quale imperavano ormai due vizi diversi ma parimenti funesti, il lusso e la cupidigia.

I ritratti sono dedicati a personalità illustri ed eccezionali, nel bene e nel male; ciò corrisponde a una visione della Storia che è fatta soprattutto dal confronto e dallo scontro di grandi uomini, più che da fattori socio-economici e politici, ai quali uno storico moderno darebbe maggiore importanza. Sicuramente in queste scelta giocano un ruolo notevole anche le esigenze della storiografia antica, comunemente concepita più come operazione letteraria e artistica che come attività divulgativa di tipo scientifico. I ritratti dei grandi personaggi del passato costituiscono un elemento di comune impiego nelle opere storiografiche antiche, dove fornivano esempi illustri ai quali i lettori avrebbero potuto conformarsi. Ebbene, tale funzione paradigmatica in Sallustio viene per lo più a cadere: ciò che egli vuole imprimere nel suo pubblico è l’ammirazione per le potenti manifestazioni di grandi personalità, tanto che anche un personaggio del tutto negativo come Catilina non manca di suscitare una certa forma di rispetto per la sua grandezza perversa e per la sua virtus, benché rivolta al male. Il giudizio morale è netto e senza appello: Catilina, patrizio decaduto, ex sillano, divenuto un popularis estremista in cerca di appoggi presso i diseredati e addirittura fra gli schiavi, non trova benevolenza presso un moderato come Sallustio.

L’introspezione prende la forma dell’antitesi: lo stile raffigura con evidenza il conflitto interiore di aspetti contrari compresenti in una stessa personalità. Per rendere questa opposizione interiore l’autore si serve di una prosa concitata, in cui la variatio riflette la frantumazione della personalità. Infatti, man mano che il ritratto prende forma, anche il soggetto grammaticale non è più il personaggio, ma i singoli elementi che lo compongono (corpo, animo, passioni, ecc.): dopo aver scomposto Catilina in corpus e animus, nella parte conclusiva del ritratto, dove il periodare si fa più disteso, sono le passioni a divenire il soggetto: lubido, inopia e conscientia scelerum “invadono” il personaggio e dilagano sulla pagina.

Il Bellum Iugurthinum

All’inizio della sua seconda monografia, Sallustio spiega che la guerra contro Giugurta (svoltasi tra il 111 e il 105 a.C.) fu la prima occasione in cui «si osò andare contro l’insolenza della nobiltà». In effetti, il Bellum Iugurthinum è largamente indirizzato a mettere in luce le responsabilità della classe dirigente romana nella crisi della res publica.

Giugurta, infatti, dopo essersi impadronito con il crimine del regno di Numidia, aveva corrotto con il denaro gli esponenti dell’aristocrazia capitolina inviati a combatterlo in Africa, riuscendo così a concludere una pace vantaggiosa. Quinto Cecilio Metello, inviato in Africa, aveva ottenuto successi notevoli, ma non decisivi; Gaio Mario, suo luogotenente, dopo lunghe insistenze ottenne da lui il permesso di recarsi a Roma per presentare la candidatura al consolato. Eletto sommo magistrato per il 107, Mario riceve l’incarico di portare a termine la guerra in Africa e modifica la composizione dell’esercito, arruolando i capite censi. Il conflitto riprese con alterne vicende e si concluse solo quando il re di Mauritania, Bocco, tradì Giugurta, suo potente alleato e suocero, e lo consegnò ai Romani.

Nella narrazione sallustiana, la guerra contro l’usurpatore numida acquista rilievo sullo sfondo della rappresentazione della degenerazione della vita politica romana: l’opposizione antinobiliare, cui Sallustio si riallaccia, rivendicava contro le classi superiori corrotte il merito della politica di espansione, della difesa del prestigio di Roma. Come nella monografia precedente, lo storico inserisce al centro dell’opera un excursus (Iug. 41-42), che indica nel «regime delle fazioni» (mos partium et factionum) la causa prima della lacerazione e nella rovina della res publica; ma la condanna è probabilmente più sfumata e, per così dire, meno equanime che nel De coniuratio. Nella seconda monografia, il bersaglio polemico è la nobilitas e nell’excursus traspare, per esempio, la preoccupazione di non condannare la politica graccana in maniera globale, ma solo nei suoi eccessi.

Per certi aspetti, il quadro che emerge dal Bellum Iugurthinum è piuttosto deformante: al fine di rappresentare la nobilitas come un blocco unico guidato da un gruppo corrotto, Sallustio trascura di parlare dell’ala dell’aristocrazia favorevole a un impegno attivo nella guerra, la frangia più legata al mondo degli affari e più incline alla politica di imperialismo espansionistico.

Le linee direttive della politica dei populares sono esemplificate nei discorsi che Sallustio fa tenere dal tribuno Gaio Memmio (Iug. 31) per protestare contro l’operato inconcludente di certa parte del Senato, e successiva da Gaio Mario (Iug. 85), quando quest’ultimo convince la plebe ad arruolarsi in massa. Per Sallustio, ambedue gli interventi rappresentano i migliori valori etico-politici espressi dalla causa mariana nella lotta contro lo strapotere della nobilitas. Memmio invita il popolo alla riscossa contro l’arroganza dei pauci ed enumera i mali del loro regime: il tradimento degli interessi della cosa pubblica, la dilapidazione del denaro pubblico, il monopolio sulle ricchezze, sulle risorse e sulle cariche politiche.

Nel discorso di Mario, d’altra parte, il motivo centrale è fornito dall’affermazione di una nuova aristocrazia, l’aristocrazia della virtus, che si fonda non sulla nascita, ma sui talenti naturali, sulle qualità e le competenze di ciascuno e sul tenace impegno a svilupparli (Iug. 85, 18-30). Mario si richiama ai valori antichi che avevano fatto la grandezza di Roma, quei valori che in un’epoca remota avevano permesso di emergere agli stessi capostipiti delle gentes patrizie, ormai tralignanti e caratterizzate solo da inettitudine.

Presunto ritratto di Gaio Mario. Testa, marmo, I secolo a.C. München, Glyptothek.

[85.18] Invident honori meo: ergo invideant labori, innocentiae, periculis etiam meis, quoniam per haec illum cepi. [19] Verum homines conrupti superbia ita aetatem agunt, quasi vostros honores contemnant; ita hos petunt, quasi honeste vixerint. [20] Ne illi falsi sunt, qui divorsissumas res pariter exspectant, ignaviae voluptatem et praemia virtutis. [21] Atque etiam, cum apud vos aut in senatu verba faciunt, pleraque oratione maiores suos extollunt: eorum fortia facta memorando clariores sese putant. [22] Quod contra est: nam quanto vita illorum praeclarior, tanto horum socordia flagitiosior. [23] Et profecto ita se res habet: maiorum gloria posteris quasi lumen est, neque bona neque mala eorum in occulto patitur. [24] Huiusce rei ego inopiam fateor, Quirites; verum, id quod multo praeclarius est, meamet facta mihi dicere licet. Nunc videte quam iniqui sint. [25] Quod ex aliena virtute sibi adrogant, id mihi ex mea non concedunt, scilicet quia imagines non habeo, et quia mihi nova nobilitas est, quam certe peperisse melius est quam acceptam corrupisse. [26] Equidem ego non ignoro, si iam mihi respondere velint, abunde illis facundam et compositam orationem fore. Sed in vostro maxumo beneficio cum omnibus locis me vosque maledictis lacerent, non placuit reticere, nequis modestiam in conscientiam duceret. [27] Nam me quidem ex animi mei sententia nulla oratio laedere potest: quippe vera necesse est bene praedicet, falsam vita moresque mei superant. [28] Sed quoniam vostra consilia accusantur, qui mihi summum honorem et maxumum negotium inposuistis, etiam atque etiam reputate, num eorum paenitendum sit. [29] Non possum fidei causa imagines neque triumphos aut consulatus maiorum meorum ostentare; at, si res postulet, hastas vexillum phaleras, alia militaria dona, praeterea cicatrices advorso corpore. [30] Hae sunt meae imagines, haec nobilitas, non hereditate relicta, ut illa illis, sed quae egomet meis plurumis laboribus et periculis quaesivi.

[85.18] Sono invidiosi della mia posizione: e che lo siano dunque anche della fatica, dell’integrità che me l’hanno procurata! [19] Invece, uomini bacati dall’ambizione, vivono come se avessero a disdegno le cariche che voi conferite e le brigano come se vivessero onestamente. [20] Quanto s’ingannano nel pretendere di conseguire insieme due cose incompatibili, il piacere dell’ozio e i premi della virtù! [21]Aggiungo che, quando si alzano a parlare davanti a voi o in Senato, riempiono i loro interventi delle lodi degli antenati, convinti di accrescere il proprio lustro con il ricordo delle gesta di quelli. [22] Accade invece l’esatto contrario: quanto più è illustre la gloria degli avi, tanto più è infame la viltà dei posteri! [23] Giacché questa è la verità: la gloria degli antenati, per i discendenti, è una specie di fiaccola che non lascia nell’ombra virtù né vizi. [24] Confesso, o Quiriti, che questa fiaccola mi manca: eppure, cosa molto più onorifica, io sono in grado di elencare le mie proprie gesta! [25] Constatate, ora, l’iniquità del loro atteggiamento: quel che si arrogano in nome del merito altrui non vogliono concedermelo in nome del mio! [26] E il motivo? Io non possiedo stemmi nobiliari ed è di fresco conio la mia nobiltà: ma resta pur vero che è meglio acquistarsela di persona che disonorarla dopo averla ricevuta in eredità! [27] Che con tutto questo riconosco che, se volessero controbattere, avrebbero larga scelta fra discorsi eloquenti e ben elaborati: tuttavia, poiché offendono me e voi a proposito di una carica da voi generosamente conferita, non ho voluto tacere, temendo che il mio silenzio potesse essere interpretato come un’ammissione di colpevolezza! [28] Del resto, sono profondamente convinto che nessun discorso potrebbe nuocermi: giacché, se veritiero, dovrebbe dir bene di me, se falso, sarebbe senz’altro smentito dalla condotta della mia vita. ma, dacché si è messa sotto accusa la vostra decisione di conferirmi la più alta magistratura e il più difficile degli incarichi, esaminate a fondo se dobbiate pentirvene. [29] È vero: non sono in grado di offrirvi in garanzia ritratti, trionfi o consolati di antenati illustri; bensì, se sarà il caso, lance, stendardi, piastrine e altre decorazioni militari, per non parlare delle ferite ricevute in pieno petto! [30] Questi sono i miei stemmi, questa la mia nobiltà: sono titoli che non ho ereditato, come è stato per i miei detrattori, ma che ho acquistato di persona fra sacrifici e rischi innumerevoli!».

Gaio Mario. Busto, marmo, c. I secolo a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’oratore si rivolge ai convenuti chiamandoli con l’appellativo che li indicava nella loro totalità: Quirites, che i Romani derivavano da Quirinus, nome con cui Romolo fu assunto tra gli dèi, ma che deriva, in realtà, da *co-viri, «uomini riuniti». Mario non intende fare come gli altri politici, che, quando cercano voti e consensi, sono pronti a mille promesse e, una volta eletti, se ne dimenticano, diventando da affabili boriosi. Piuttosto, egli vuole presentarsi come l’esatto opposto: per lui la vera fatica non è la campagna elettorale, ma comincia dopo, quando si entra in carica; dovrà dimostrarsi all’altezza dell’incarico affidatogli, perché i suoi rivali aspetteranno solo un suo passo falso, e non potrà difendersi dietro alla gloria della sua stirpe. Ma egli ammette di sentirsi tranquillo da questo punto di vista, perché ha dalla sua l’esperienza pratica. Egli è un homo novus, che non può vantare tra i propri avi nessun console o pretore o edile curule. Il suo discorso ruota attorno all’antitesi fra la presunta nobiltà degli aristocratici, fatta solo di teoria e vuote parole, e la virtus di chi, come Mario, si è fatto da sé. Anzi, a ogni supposta gloria degli avversari egli contrappone, con gesto plateale e quasi patetico, ben altri tipi di trionfo: medaglie, cicatrici e forza fisica. E, siccome Mario tiene questo discorso per convincere il popolo ad arruolarsi, sottolinea con forza che questo è ciò che saprà insegnare a chi vorrà seguirlo.

Nel complesso, l’intervento di Mario esprime soprattutto le aspirazioni dell’élite italica a una maggiore partecipazione al potere; tuttavia, il giudizio complessivo di Sallustio su di lui rimane segnato da ambivalenze e sfumature spesso difficili da cogliere nella loro reale portata. L’ammirazione per l’uomo che ha saputo opporsi all’arroganza dei pauci è in qualche modo limitata dalla consapevolezza delle responsabilità che in futuro Mario si sarebbe assunto nelle guerre civili; ma già l’arruolamento dei capite censi getta ombre inquietanti sulla sua figura. Sallustio non sembra approvare il provvedimento – in cui si individuava comunemente l’origine degli eserciti personali e professionali che avrebbero distrutto la res publica – e pare anzi che egli veda come inquinata dall’affermarsi del proletariato militare quell’aristocrazia della virtus che Mario (con piena coscienza di homo novus) esalta nel proprio discorso. Il fondamentale moderatismo fa sì che Sallustio non possa accantonare importanti riserve sull’uomo che, nella lotta antinobiliare, non aveva esitato ad agitare la feccia plebea e a porre quasi le sorti dello Stato nelle mani del popolino.

Non si può abbandonare la trattazione del Bellum Iugurthinum senza accennare al ritratto di Giugurta (Iug. 6-8): come già nei confronti di Catilina, Sallustio non nasconde la propria perplessa ammirazione per l’energia indomabile che è sicuro segno di virtus, anche se di una virtus depravata. Una differenza importante rispetto al ritratto di Catilina è che la personalità del re numida è rappresentata, per così dire, in evoluzione: la sua natura non è corrotta fin dall’inizio, ma lo diventa progressivamente. Il seme della degenerazione è gettato in lui durante l’assedio di Numantia, da nobili e da homines novi romani. Per il suo personaggio, Sallustio non ha comunque scusanti o attenuanti, né si sforza mai di illuminare la situazione dal punto di vista di Giugurta: quest’ultimo, una volta che la sua indole si è ormai irrimediabilmente traviata, è solo un piccolo e perfido tiranno, ambizioso e privo di scrupoli. Non è certo l’eroe dell’indipendenza numidica che alcuni interpreti hanno creduto di ravvisare in lui: agli occhi dello storico romano le ragioni dell’imperialismo erano tanto evidenti da apparire indiscutibili.

Regno di Numidia. Dramma, Cirta c. 118-106 a.C., AR 3,14 g. Recto: Testa laureata di Giugurta voltata a sinistra.

Le Historiae

La maggiore opera storica di Sallustio rimase incompiuta per la morte dell’autore: le Historiae iniziavano con il 78 a.C., riallacciandosi alla narrazione di Sisenna, ma non è chiaro fino a che punto Sallustio si ripromettesse di condurre il racconto (i frammenti che restano non vanno comunque oltre il 67). Dopo gli esperimenti monografici, l’autore si cimentava ora in un’impresa di vasto respiro: si imponeva il ritorno alla forma annalistica, che del resto anche in seguito avrebbe dato prova di tenace vitalità nella storiografia latina. L’opera (per i moderni perduta, ma nota almeno fino al V secolo) influenzò molto la cultura dell’età augustea. Alcuni frammenti superstiti sono particolarmente ampi. Si tratta di quattro discorsi – per esempio, quello del tribuno Gaio Licinio Macro per la restaurazione della tribunicia potestas, nel 73; quello di Marco Emilio Lepido contro il sistema di governo dei sillani; quello di Lucio Marcio Filippo, una violenta reazione al demagogismo dell’intervento di Lepido – e di un paio di lettere, una di Gneo Pompeo Magno e una di re Mitridate VI Dionisio Eupatore del Ponto. Di queste lettere ha particolare importanza quella che l’autore immagina scritta proprio dal sovrano orientale (Hist. IV F 69 Maurenbrecher): dalle sue parole, infatti, affiorano chiaramente i motivi delle lagnanze dei popoli soggiogati e dominati da Roma e la sola ragione che i Romani hanno di portare guerra a tutte le nazioni è la loro inestinguibile sete di ricchezze e di potere (cupido profunda imperii et divitiarum). Le Historiae dipingono un quadro in cui dominano le tinte cupe: la corruzione dei costumi dilaga senza rimedio; a parte poche nobili eccezioni (come Sertorio, campione di libertas, che, ribelle a Silla e al prepotente potere degli optimates, aveva fondato nella Penisola iberica una nuova res publica), sulla scena politica si affacciano soprattutto avventurieri, demagoghi e nobili corrotti. In generale, il pessimismo sallustiano sembra acuirsi nell’ultima opera: dopo l’uccisione di Cesare e la frustrazione delle aspettative riposte nel dittatore, lo storico non ha più una parte dalla quale schierarsi né aspetta più alcun salvatore.

Mitridate VI del Ponto, con leontea. Busto, copia romana del I sec. d.C. da originale greco di sec. a.C. Paris, Musée du Louvre.

Lo stile

L’epoca che aveva portato alla massima elaborazione formale sia la prosa artistica sia la poesia si aspettava anche la nascita di un nuovo stile storico. A questo riguardo, Cicerone pensava a uno stile armonioso e fluido e considerava la storiografia opus oratorium maxime («un genere che dev’essere più di tutto oratorio»): un’idea che risaliva al retore Isocrate, maestro di alcuni storici molto apprezzati dai Romani e che appare tanto più comprensibile se si pensa che a Roma l’oratoria aveva raggiunto la sua maturità almeno una generazione prima della storiografia.

E, invece, fu proprio Sallustio a fissare lo stile della futura storiografia (anche se non in modo esclusivo): nutrendosi della lezione di Tucidide e di Catone il Censore, egli elaborò uno stile fondato sull’inconcinnitas (il contrario della ricerca ciceroniana della simmetria, il rifiuto di un discorso ampio e regolare, proporzionato), sull’uso frequente di antitesi, asimmetrie, e variationes. Il difficile equilibrio fra questo dinamismo inquieto da una parte e un vigoroso controllo che sapesse frenarlo dall’altra produceva un effetto di gravitas austera e maestosa, un’immagine di meditata essenzialità di pensiero.

A tale gravitas contribuisce parecchio la ricca patina arcaizzante. L’arcaismo, però, non è solo nella scelta di parole desuete, ma anche nella ricerca di una concatenazione delle frasi di tipo paratattico. I pensieri così si giustappongono l’uno all’altro come blocchi autonomi di una costruzione; è evitato il periodare per subordinazione sintattica, in cui un pensiero dipende da un altro come un’espansione ordinata gerarchicamente; sono evitate le strutture bilanciate e le clausole ritmiche care al discorso oratorio elaborato. Estrema è l’economia dell’espressione (asindeti e, in genere, omissione di legami sintattici, ellissi di verbi ausiliari); ma alla condensazione del discorso reagisce il gusto per l’accumulo asindetico di parole quasi ridondanti (con effetto intensivo). L’allitterazione frequente dà colore arcaico, ma potenzia anche il senso delle parole. Uno stile arcaizzante, insomma, ma al contempo innovatore, perché il suo andamento spezzato è del tutto anticonvenzionale e perché lessico e sintassi contrastano di fatto quel processo di standardizzazione che si stava verificando nel linguaggio letterario. Sul piano della tecnica narrativa, l’esigenza di sobrietà e di austerità imponeva la rinuncia a tutta una serie di effetti drammatici tipici della storiografia “tragica”, incline a suscitare emozioni e, perciò, ispirata a uno stile di narrazione vivace e, per così dire, “realistico”. Ma la limitazione approda a una drammaticità più intensa proprio perché più controllata, meno effusa. I protagonisti delle due monografie, Catilina e Giugurta, sono personaggi “tragici”; e gli argomenti delle due opere, oltre che per il loro interesse come sintomi rivelatori della crisi, sono scelti anche in funzione della varietà e della drammaticità dei casi che lo storico può mettere in scena. Lo stile elaborato nelle due monografie doveva acquisire più piena maturità artistica nelle Historiae, tanto da costituire uno dei modello

Per una definizione della «polis»

di C. BEARZOT, La polis greca, Bologna 2009, 9-15.

La storia della Grecia antica è caratterizzata, com’è noto, dalla centralità dell’esperienza politica vissuta nell’ambito della comunità cittadina, la πόλις. Essa costituisce, per i Greci, la principale forma di Stato, tant’è vero che il pensiero politico greco si concentra quasi interamente sulla πόλις e sulle sue forme costituzionali. Il celebre dibattito erodoteo sulle costituzioni, il cosiddetto λόγος τριπολιτικός (Hdt. III 80-82) verte, non a caso, sulle costituzioni della πόλις; nella Politica, Aristotele si preoccupa quasi esclusivamente della πόλις, senza dare significativo spazio a questioni che riguardino, per esempio, gli Stati federali. Nello stesso senso ci indirizza la terminologia: la costituzione è detta πολιτεία, in quanto avvertita come elemento fondamentale della πόλις, mentre il termine che designa il cittadino è πολίτης, come se appunto la πόλις fosse l’unica forma di Stato.

Il mondo greco, in realtà, conobbe anche altre forme di organizzazione politica: gli Stati federali, i cosiddetti κοινά o ἔθνη, presenti accanto alle πόλεις fin dall’arcaismo, e gli Stati territoriali, dalla Siracusa di Dionisio I ai regni ellenistici. Tali forme sono alternative della πόλις e ne mettono in discussione alcuni limiti, come la «gelosia della cittadinanza», l’incapacità di dar vita a un equilibrio internazionale stabile, il carattere di «società chiusa». Ma il pensiero politico greco, come mostra anche l’incertezza terminologica relativa a Stati federali e territoriali, non sembra considerare altre forme di Stato che la πόλις medesima.

Eracle uccide l’Idra di Lerna. Rilievo, marmo, c. III sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il termine πόλις, infatti, ha diverse valenze e può significare «cittadella fortificata», «acropoli», «centro urbano», ma anche «entità statale» dotata di centro politico e soprattutto κοινωνία πολιτική, «comunità» nella sua dimensione politica. Le fonti antiche segnalano con grande insistenza il carattere non tanto urbanistico, quanto sociale e istituzionale della πόλις. Che la città sia, prima di tutto, una comunità di uomini associati fra loro lo mostra un topos letterario molto comune, quello secondo cui sono gli uomini, i cittadini, a costituire la realtà cittadina. Già Alceo (F 112, 10 Lobel-Page) afferma che «sono gli uomini la torre che difende la città» (ἄνδρες γὰρ πόλι]ο̣ς πύργος ἀρεύ[ιος). Analoga impostazione offre Tucidide (VII 77, 7), quando fa dire allo stratega ateniese Nicia, in un discorso pronunciato durante la spedizione di Sicilia, che i soldati ateniesi devono essere coraggiosi e capaci di sfuggire ai nemici, se vogliono che le sorti di Atene si risollevino: egli ricorda che «gli uomini infatti costituiscono la città, non le mura o le navi vuote d’uomini» (ἄνδρες γὰρ πόλις, καὶ οὐ τείχη οὐδὲ νῆες ἀνδρῶν κεναί).

Allo stesso modo, Temistocle, quando, nel 480, durante la seconda guerra persiana, il corinzio Adimanto gli rinfaccia di essere un ἄπολις, un uomo senza πόλις, perché Atene è stata distrutta dall’attacco persiano, e di non poter quindi parlare né dare il proprio voto nell’assemblea panellenica, risponde (Hdt. VIII 61) dimostrando «come gli Ateniesi avessero una città e una terra più grandi dei Corinzi, finché avessero duecento navi in assetto di guerra: nessuno dei Greci infatti avrebbe potuto respingere l’attacco» (ὡς εἴη καὶ πόλις καὶ γῆ μέζων ἤ περ ἐκείνοισι ἔστ’ ἂν διηκόσιαι νέες σφι ἔωσι πεπληρωμέναι· οὐδαμοὺς γὰρ Ἑλλήνων αὐτοὺς ἐπιόντας ἀποκρούσεσθαι).

Questi passi inducono a definire la πόλις prima di tutto come una comunità politica di cittadini insediata su un territorio. La prevalenza della dimensione politica è ben illustrata da un passaggio di Pausania (X 4, 1), in cui si afferma che la città focese di Panopeo – priva di strutture urbanistiche adeguate, giacché gli abitanti non possiedono archivi né ginnasio né teatro né agorà, né strutture di servizio o abitazioni degne di questo nome – sembrerebbe non meritare il nome di πόλις: eppure, essa va considerata tale, perché gli abitanti «sono divisi dai vicini da confini e mandano anch’essi delegati all’assemblea dei Focesi» (ὅμως δὲ ὅροι γε τῆς χώρας εἰσὶν αὐτοῖς ἐς τοὺς ὁμόρους, καὶ ἐς τὸν σύλλογον συνέδρους καὶ οὗτοι πέμπουσι τὸν Φωκικόν).

Oplita che balza dal carro (ἀποβάτης). Rilievo votivo con iscrizione (SEG I 131), marmo pentelico, V sec. a.C. dal tempio di Anfiarao a Oropos. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

È dunque la dimensione politica, unita a quella territoriale, a definire la πόλις e, quando i Greci si soffermano sul problema del rapporto fra l’uomo e lo Stato, è alla πόλις che pensano. Un passo del Filottete di Sofocle, in cui l’eroe lamenta di essere stato reso «ἄπολις, un morto tra i vivi», evidenzia bene il rapporto fra l’uomo greco e la πόλις. Nella stessa prospettiva possono essere richiamate le celebri definizioni aristoteliche, che parlano dell’uomo come di un animale «che per natura vive nella πόλις» e ritengono quest’ultima una struttura il cui fine è di «far vivere bene» l’uomo (Aristot. Pol. I 1253a).

A riprova di quanto detto, si osservi che tracce di riflessione sugli Stati federali, che pure accompagnano la storia dei Greci fin dall’arcaismo, sono molto modeste nel pensiero politico ellenico. Aristotele vi dedica uno spazio limitatissimo, arrivando addirittura a negare che uno Stato federale possa avere una vera e propria costituzione (Aristot. Pol. VI 1326b). Discutendo delle dimensioni dello Stato ideale, il filosofo afferma infatti che una città che abbia un numero troppo esiguo di cittadini non può bastare a sé stessa e tradisce così la sua natura di città, mentre quella che ne ha troppi, pur bastando a sé stessa come un ἔθνος, non è una πόλις, perché difficilmente potrà avere una costituzione (πολιτεία). Se Aristotele coglie qui un elemento caratteristico delle federazioni, la forza demografica, finisce tuttavia, sottolineando l’assenza di πολιτεία, per negarne il carattere di vero e proprio Stato. Qualche traccia di riflessione sul federalismo si trova nel IV secolo, nelle Elleniche di Ossirinco (cap. 19, 2-4, pp. 32-33 Chamers) e in Senofonte (Hell. V 2, 12-19), e poi soprattutto in Polibio (II 37 ss.), che attribuisce all’ordinamento federale la crescita della potenza degli Achei in età ellenistica; ma si tratta sempre di interventi piuttosto modesti in confronto alla riflessione sulla πόλις.

Quanto agli Stati territoriali, una riflessione in merito è praticamente assente: non si arrivò mai, infatti, a elaborare una teoria dello Stato ellenistico, che valorizzasse aspetti come, per esempio, la funzione di elementi etnici diversi. Nelle definizioni presenti nelle fonti letterarie ed epigrafiche sembra essere sottolineata una delle caratteristiche principali dello Stato territoriale, ovvero la complessità politica e sociale e l’articolazione fra realtà diverse all’interno del territorio: τὰ πράγματα indica l’insieme degli affari ed è di carattere assai vago: «re, amici, forze armate» (βασιλεύς, φίλοι, δυνάμεις) esprime l’ideologia della monarchia militare; βασιλεῖς, δυνάσται, πόλεις ed ἔθνη comprende l’intero mondo ellenistico nelle sue forme statali. Queste definizioni evidenziano un’articolazione tra elementi centralizzanti (sovrano, esercito) e realtà locali (πόλεις, ἔθνη, φίλοι), cogliendo la complessità dello Stato ellenistico.

Né nel caso degli Stati federali né nel caso di quelli territoriali, dunque, abbiamo una riflessione che possa essere lontanamente paragonata a quella sulla πόλις: non a caso, il celebre saggio di Victor Ehrenberg dal titolo Der Staat der Griechen (1965) era interamente dedicato alla πόλις. Tuttavia, la storiografia più recente sia è sottratta al condizionamento degli antichi: sono ormai numerosi i contributi moderni dedicati anche agli Stati federali e territoriali, e sintesi recenti sulle forme dello Stato antico, come quella di Alexander Demandt (Antike Staatsformen. Eine vergleichende Verfassungsgeschichte der Alten Welt, 1995), mostrano un pieno superamento della posizione poleocentrica.

Una pur breve storia della storiografia moderna sulla πόλις richiederebbe uno spazio enorme: si intende qui, pertanto, solo richiamare alcune delle più recenti riflessioni su questo tema, che continua ad attirare l’attenzione degli studiosi. Se il problema delle origini della πόλις sembra, di fatto, non risolvibile in modo soddisfacente allo stato attuale, si è però sviluppata una serie di riflessioni su altri temi non meno significativi, dal problema della divisione/organizzazione dello spazio e del rapporto con il territorio (la χώρα) a quello, ricco di sfumature, del significato della πόλις come comunità cittadina.

Il tentativo di ridiscutere il concetto di πόλις nel senso di «città-Stato» e la sua adeguatezza a cogliere pienamente il fenomeno storico cui fa riferimento, condotto da Wilfrid Gawantka (Die sogenannte Polis, 1985), ha messo in evidenza la necessità di verificare la validità di concetti interpretativi che rischiavano ormai di diventare veri e propri luoghi comuni (un «mito storiografico», come è stato sottolineato da Maurizio Giangiulio in Alla ricerca della polis, 2001). La nozione di città-Stato elaborata dai moderni (che la intendono come forma di Stato per antonomasia nel mondo greco e ne sottolinea l’assoluta preminenza sull’individuo) non sarebbe necessariamente corrispondente alla nozione greca di πόλις e sarebbe comunque troppo rigida per esprimere le diverse realtà locali in cui era frazionata la Grecia antica: il termine πόλις sembra infatti far riferimento a una grande varietà di forme di insediamento e di comunità politiche e a livelli cronologici troppo diversi.

Senocratea presenta il proprio figlio al dio-fiume Cefiso alla presenza degli dèi. Rilievo su stele votiva, marmo pentelico, c. 410 a.C. dal Falero. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

La ridiscussione del concetto di πόλις, dopo la provocazione di Gawantka, non è certo mancata: particolarmente intensa è stata la discussione sollevata, soprattutto in area anglosassone, sul carattere non statuale dell’esperienza poleica. L’idea di una «stateless polis» è stata anticipata da alcuni interventi volti a sottolineare il carattere prevalentemente «sociale» della città greca. Robin Osborne (Demos: The Discovery of Classical Attika, 1985) ha sottolineato che nella πόλις mancano tanto una vera e propria «autorità statale» che monopolizzi la coercizione, quanto un potere esecutivo vero e proprio; sulla stessa linea, Paul Cartledge (Kosmos: Essays in Order, Conflict, and Community in Classical Athens, 1998) ha osservato che la πόλις ignora la distinzione tra governanti e governati e le nozioni di «diritti dell’individuo» e di «tolleranza», mentre conosce una serie di forme di controllo sociale, cui si affida per il mantenimento dell’ordine costituito. In seguito, la riflessione è stata approfondita da Moshe Berent (The Stateless Polis: towards a Re-evaluation of the Classical Greek Political Community, 1994; Anthropology and the Classics: War, Violence, and the Stateless Polis, 2000): muovendo da modelli antropologici, egli sostiene che la πόλις non corrisponda ai criteri necessari per poter parlare di «Stato» in senso hobbesiano e weberiano. Essa, infatti, non presenterebbe una adeguata distinzione fra popolo e potere esecutivo; non avrebbe il monopolio della coercizione (essendo priva di esercito permanente e di polizia), con la conseguente necessità di affidare la tutela dell’ordine pubblico all’iniziativa individuale e al controllo sociale; mancherebbe inoltre di aspetti essenziali, come una territorialità ben definita e un’adeguata burocrazia. La πόλις non era dunque una «città-Stato», ma una «stateless community»: non nel senso di una comunità tribale tenuta insieme dalla parentela, come vorrebbe l’antropologia (una prospettiva di questo genere sarebbe inaccettabile nell’interpretazione della πόλις greca), ma nel senso di una comunità di guerrieri, la cui coesione dipendeva dalla tattica di combattimento oplitico.

Una prima obiezione potrebbe riguardare l’opportunità di valutare la statualità della πόλις sulla base di confronti con uno Stato di tipo moderno, alcuni aspetti del quale risalgono a non prima del XIX secolo, e sono quindi posteriori alla stessa riflessione di Hobbes. Ma soprattutto, posizioni come quella di Berent sembrano sottovalutare aspetti importanti della πόλις, dalla complessità della struttura istituzionale alla territorialità. Una critica serrata alle posizioni di Berent è venuta da uno dei massimi studiosi di storia delle istituzioni greche e in particolare della democrazia ateniese, Mogens H. Hansen (A Comparative Study of Thirty City-state Cultures: An Investigation, 2002).

Prima di considerare gli argomenti di Hansen, vale la pena di richiamare il prezioso contributo offerto, nell’ambito degli studi sulla πόλις, dal Copenaghen Polis Centre, che ha operato sotto la sua guida dal 1993 al 2005. Le ricerche del CPC hanno preso l’avvio dalla riconosciuta necessità di evitare una discussione su basi esclusivamente teoriche e di raccogliere preventivamente una documentazione più ampia possibile sulla πόλις, per poter poi, sulla base dell’analisi di un materiale davvero esaustivo, mettere a fuoco i diversi problemi che la riguardano. Nei numerosi volumi prodotti dal centro di ricerca troviamo una raccolta delle fonti per la storia della πόλις, un prezioso «inventario» delle medesime e gli atti di vari convegni dedicati alle più diverse problematiche concernenti la πόλις. Sulla base di questo ampio lavoro preparatorio, il carattere statuale della πόλις viene rivendicato con convinzione da Hansen e dal suo gruppo di ricerca; la stessa traduzione di πόλις con «città-Stato», tanto contestata, è apparsa ad Hansen sostanzialmente corretta («city-State is the best possible equivalent to polis», in Polis and City-State: an Ancient Concept and its Modern Equivalent, 1998, 123).

Corcira e Atene (personificate) di fronte a Zeus in trono sanciscono un’alleanza. Rilievo, marmo, c. 375 a.C. da una stele iscritta. Atene. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Nella sua polemica con Berent, Hansen sottolinea prima di tutto come non si possa restringere la discussione al concetto di Stato come «governo», concentrandosi su problemi come la monopolizzazione dell’uso della coercizione, ma si debba piuttosto considerare anche lo Stato come «territorio» e come «corpo politico». Ora, già non sarebbe corretto parlare di totale assenza di istituzioni di governo nella πόλις; se poi si considerano le altre due prospettive, le differenze tra Stato antico e Stato moderno tendono a indebolirsi. Il territorio, pur non costituendo certo la parte fondamentale della πόλις, ne è infatti un elemento di rilievo, come mostrano diversi aspetti, dalla problematica del confine alle dispute territoriali ai provvedimenti di bando, che implicano un riferimento al concetto di territorio. Quanto allo Stato come corpo politico, è questa una sicura caratteristica della πόλις che non è però affatto assente negli Stati moderni; per contro non manca, nel pensiero, l’idea che la πόλις sia non solo il corpo cittadino, ma anche qualcosa di impersonale, distinguibile dai πολῖται (la documentazione proposta da Hansen mette in luce come l’azione di un cittadino o di un organo di governo, intrapresa «a favore» o «per conto» della πόλις, evidenzi una distinzione fra il singolo individuo e la comunità nel suo complesso, intesa in senso istituzionale). Ciò consente di non enfatizzare il problema della mancata distinzione tra popolo ed esecutivo, fra governanti e governati, che caratterizzerebbe la πόλις: la sovrapposizione tra depositari della sovranità e detentori del potere esecutivo è in effetti un elemento presente nella città greca, e in particolare in quella democratica, ma è anche vero che non si è mai governanti e governati contemporaneamente, in quanto il cittadino, quando diviene magistrato, assume comunque uno statuto particolare.

Per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia, Hansen osserva innanzitutto che alcune caratteristiche, come l’assenza di forze di polizia, il ricorso all’autodifesa da parte del cittadino, la sua possibilità di intervenire con azioni suppletive come l’arresto sommario, l’uso dell’iniziativa popolare nella promozione dell’azione legale, non sono esclusive della πόλις, ma sono riscontrabili anche in molti Stati europei del XVIII secolo; a questo rilievo egli aggiunge che non si può affermare che l’ordine pubblico nella πόλις fosse garantito dal solo controllo sociale, essendo prevista una serie di complessi meccanismi giuridici. Quanto, invece, all’assenza di un esercito stabile come indizio di assenza di statualità, prima di tutto bisogna tener conto di una serie di eccezioni (ta cui, come ammette lo stesso Berent, Sparta, Atene e le città rette da regimi tirannici; ma Hansen menziona altri casi: la Siracusa democratica, Tebe, Argo, la Lega arcadica, l’Elide); inoltre, occorre piuttosto valutare il grado di militarizzazione della società, molto elevato nelle città greche, in cui i cittadini potevano essere spesso chiamati alle armi e in cui le spese militari erano notevoli. Anche il livello progredito delle relazioni internazionali e degli istituti delle diplomazia non depone a favore dell’interpretazione della πόλις come «stateless society».

A parere di Hansen, insomma, le differenze tra πόλις e Stato moderno finiscono per risultare modeste, se si considera la documentazione nel suo complesso senza selezionarla indebitamente allo scopo di costruire quello che egli definisce «a skewed model», un modello distorto. Ciò che accomuna Stato moderno e πόλις, al di là delle inevitabili differenze, è la nozione di «cittadinanza»: cioè l’appartenenza di un individuo a uno Stato, in virtù della quale egli, come cittadino, gode di una serie di privilegi in campo politico, economico e sociale e di adeguate forme di tutela (nonostante l’assenza, spesso sottolineata, della nozione di «diritti dell’individuo»). Dunque, la πόλις può essere considerata uno Stato, perché assomma le seguenti caratteristiche: è un potere pubblico legittimo con giurisdizione su un territorio definito, che si manifesta nella costituzione e nelle leggi ed è in grado di monopolizzare l’uso della forza; inoltre, conosce una chiara separazione fra Stato e società, fra pubblico e privato.

Demos (personificazione) incorona un cittadino meritevole. Rilievo, marmo pario, fine IV sec. a.C. da una stele onorifica. Atene, Museo dell’Agorà.jpg

Se dunque Berent tenta di escludere il carattere statuale della πόλις sulla base di un improprio confronto con lo Stato moderno, è anche vero che Hansen, da parte sua, tende talora a sovrapporre Stato moderno e πόλις: le due visioni contengono entrambe elementi anacronistici. La πόλις, in realtà, non era né una «stateless community», né uno Stato nel senso moderno del termine, come ha evidenziato Michele Faraguna (Individuo, Stato, comunità. Studi recenti sulla polis, 2000). Com’è stato sottolineato da Giangiulio (Stato e statualità nella polis, 2004), è certamente legittimo parlare di statualità della πόλις, ma in senso del tutto peculiare, perché peculiare è il rapporto tra ambito sociale e ambito politico nella mentalità greca. la città in senso politico-istituzionale e la città intesa come società, in realtà, coesistevano, come nella riflessione aristotelica, in un rapporto complesso che non poteva prescindere dal legame con il territorio.

Ancora, il carattere fortemente «politico» dell’esperienza della πόλις è stato rivendicato anche da Oswyn Murray (Cities of Reason, 1991; The Greek City: from Homer to Alexander, 1993), il quale ha proposto un’idea della πόλις come «città della ragione», in cui ogni decisione è assunta in seguito all’applicazione della procedura razionale della decisione. La πόλις, benché appaia certamente diversa da forme organizzative moderne, si presenta pertanto non come una società tribale, ma come un contesto in cui si esprime pienamente una forma di razionalità politica: essa offre la possibilità di «vivere secondo ragione», di «vivere bene» in senso aristotelico, in base a un ordine non imposto dall’alto, ma concordato dalla comunità.

Per concludere, se alcune discussioni, spesso condotte in base a modelli mutuati dall’antropologia e a confronti non sempre convincenti con esperienze moderne, appaiono talora poco produttive, merito indiscusso di questa serie di ricerche è stato soprattutto di mettere in luce le molteplici e non univoche dinamiche che caratterizzano la πόλις greca, di sottoporne a verifica alcuni contenuti tradizionalmente dati per scontati (per esempio, il concetto di autonomia) e, insieme, di mostrare come la complessità delle realtà poleiche non implichi che si debba rinunciare al concetto di πόλις come modello, purché del suo carattere di modello si abbia consapevolezza.

L’eccezionalità della “res publica” romana (Polyb. VI 11, 11-13; 12-14)

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, 555-559; cfr. Polibio, Storie, vol. III (libri V-VI), eds. D. Musti, M. Mari, J. Thornton, 294-303.

Polibio muove la sua analisi affermando di voler completare un aspetto finora carente nella sua trattazione, per colmare una lacuna che potrebbe attirargli il rimprovero dei lettori o di storiografi forse non troppi competenti, ma pronti a criticare, anche senza fondati motivi, l’operato altrui. L’autore precisa soprattutto che la sua indagine sulle forme della costituzione della res publica romana si riferisce agli immediatamente successivi alla battaglia di Canne (216 a.C.), un momento talmente critico da costituire un’eccellente pietra di paragone per evidenziare la solidità e le capacità di ripresa dei Romani.

Scena di sacrificio (𝑠𝑢𝑜𝑣𝑒𝑡𝑎𝑢𝑟𝑖𝑙𝑖𝑎). Affresco, 𝑎𝑛𝑡𝑒 79 d.C. dall’agro pompeiano, loc. Moregine, edificio B.

[11. 11] Ἦν μὲν δὴ τρία μέρη τὰ κρατοῦντα τῆς πολιτείας, ἅπερ εἶπα πρότερον ἅπαντα· οὕτως δὲ πάντα κατὰ μέρος ἴσως καὶ πρεπόντως συνετέτακτο καὶ διῳκεῖτο διὰ τούτων ὥστε μηδένα ποτ’ ἂν εἰπεῖν δύνασθαι βεβαίως μηδὲ τῶν ἐγχωρίων πότερ’ ἀριστοκρατικὸν τὸ πολίτευμα σύμπαν ἢ δημοκρατικὸν [12] ἢ μοναρχικόν. καὶ τοῦτ’ εἰκὸς ἦν πάσχειν. ὅτε μὲν γὰρ εἰς τὴν τῶν ὑπάτων ἀτενίσαιμεν ἐξουσίαν, τελείως μοναρχικὸν ἐφαίνετ’ εἶναι καὶ βασιλικόν, ὅτε δ’ εἰς τὴν τῆς συγκλήτου, πάλιν ἀριστοκρατικόν· καὶ μὴν εἰ τὴν τῶν πολλῶν ἐξουσίαν θεωροίη τις, [13] ἐδόκει σαφῶς εἶναι δημοκρατικόν. ὧν δ’ ἕκαστον εἶδος μερῶν τῆς πολιτείας ἐπεκράτει, καὶ τότε καὶ νῦν ἔτι πλὴν ὀλίγων τινῶν ταῦτ’ ἐστίν.

[12. 1] Οἱ μὲν γὰρ ὕπατοι πρὸ τοῦ μὲν ἐξάγειν τὰ στρατόπεδα παρόντες ἐν Ῥώμῃ πασῶν εἰσι κύριοι τῶν [2] δημοσίων πράξεων. οἵ τε γὰρ ἄρχοντες οἱ λοιποὶ πάντες ὑποτάττονται καὶ πειθαρχοῦσι τούτοις πλὴν τῶν δημάρχων, εἴς τε τὴν σύγκλητον οὗτοι τὰς [3] πρεσβείας ἄγουσι. πρὸς δὲ τοῖς προειρημένοις οὗτοι τὰ κατεπείγοντα τῶν διαβουλίων ἀναδιδόασιν, οὗτοι τὸν ὅλον χειρισμὸν τῶν δογμάτων ἐπιτελοῦσι. [4] καὶ μὴν ὅσα δεῖ διὰ τοῦ δήμου συντελεῖσθαι τῶν πρὸς τὰς κοινὰς πράξεις ἀνηκόντων, τούτοις καθήκει φροντίζειν καὶ συνάγειν τὰς ἐκκλησίας, τούτοις εἰσφέρειν τὰ δόγματα, τούτοις βραβεύειν τὰ δοκοῦντα [5] τοῖς πλείοσι. καὶ μὴν περὶ πολέμου κατασκευῆς καὶ καθόλου τῆς ἐν ὑπαίθροις οἰκονομίας σχεδὸν αὐτοκράτορα [6] τὴν ἐξουσίαν ἔχουσι. καὶ γὰρ ἐπιτάττειν τοῖς συμμαχικοῖς τὸ δοκοῦν, καὶ τοὺς χιλιάρχους καθιστάναι, καὶ διαγράφειν τοὺς στρατιώτας, καὶ [7] διαλέγειν τοὺς ἐπιτηδείους τούτοις ἔξεστι. πρὸς δὲ τοῖς εἰρημένοις ζημιῶσαι τῶν ὑποταττομένων ἐν τοῖς ὑπαίθροις ὃν ἂν βουληθῶσι κύριοι καθεστᾶσιν. [8] ἐξουσίαν δ’ ἔχουσι καὶ δαπανᾶν τῶν δημοσίων ὅσα προθεῖντο, παρεπομένου ταμίου καὶ πᾶν τὸ προσταχθὲν [9] ἑτοίμως ποιοῦντος. ὥστ’ εἰκότως εἰπεῖν ἄν, ὅτε τις εἰς ταύτην ἀποβλέψειε τὴν μερίδα, διότι μοναρχικὸν ἁπλῶς καὶ βασιλικόν ἐστι τὸ πολίτευμα. [10] εἰ δέ τινα τούτων ἢ τῶν λέγεσθαι μελλόντων λήψεται μετάθεσιν ἢ κατὰ τὸ παρὸν ἢ μετά τινα χρόνον, οὐδὲν ἂν εἴη πρὸς τὴν νῦν ὑφ’ ἡμῶν λεγομένην ἀπόφασιν.

[13. 1] Καὶ μὴν ἡ σύγκλητος πρῶτον μὲν ἔχει τὴν τοῦ ταμιείου κυρίαν. καὶ γὰρ τῆς εἰσόδου πάσης αὕτη [2] κρατεῖ καὶ τῆς ἐξόδου παραπλησίως. οὔτε γὰρ εἰς τὰς κατὰ μέρος χρείας οὐδεμίαν ποιεῖν ἔξοδον οἱ ταμίαι δύνανται χωρὶς τῶν τῆς συγκλήτου δογμάτων [3] πλὴν τὴν εἰς τοὺς ὑπάτους· τῆς τε παρὰ πολὺ τῶν ἄλλων ὁλοσχερεστάτης καὶ μεγίστης δαπάνης, ἣν οἱ τιμηταὶ ποιοῦσιν εἰς τὰς ἐπισκευὰς καὶ κατασκευὰς τῶν δημοσίων κατὰ πενταετηρίδα, ταύτης ἡ σύγκλητός ἐστι κυρία, καὶ διὰ ταύτης γίνεται τὸ [4] συγχώρημα τοῖς τιμηταῖς. ὁμοίως ὅσα τῶν ἀδικημάτων τῶν κατ’ Ἰταλίαν προσδεῖται δημοσίας ἐπισκέψεως, λέγω δ’ οἷον προδοσίας, συνωμοσίας, φαρμακείας, δολοφονίας, τῇ συγκλήτῳ μέλει περὶ τούτων. [5] πρὸς δὲ τούτοις, εἴ τις ἰδιώτης ἢ πόλις τῶν κατὰ τὴν Ἰταλίαν διαλύσεως ἢ (καὶ νὴ Δί’) ἐπιτιμήσεως ἢ βοηθείας ἢ φυλακῆς προσδεῖται, τούτων πάντων ἐπιμελές [6] ἐστι τῇ συγκλήτῳ. καὶ μὴν εἰ τῶν ἐκτὸς Ἰταλίας πρός τινας ἐξαποστέλλειν δέοι πρεσβείαν τιν’ ἢ διαλύσουσάν τινας ἢ παρακαλέσουσαν ἢ καὶ νὴ Δί’ ἐπιτάξουσαν ἢ παραληψομένην ἢ πόλεμον ἐπαγγέλλουσαν. [7] αὕτη ποιεῖται τὴν πρόνοιαν. ὁμοίως δὲ καὶ τῶν παραγενομένων εἰς Ῥώμην πρεσβειῶν ὡς δέον ἐστὶν ἑκάστοις χρῆσθαι καὶ ὡς δέον ἀποκριθῆναι, πάντα ταῦτα χειρίζεται διὰ τῆς συγκλήτου. πρὸς δὲ τὸν [8] δῆμον καθάπαξ οὐδέν ἐστι τῶν προειρημένων. ἐξ ὧν πάλιν ὁπότε τις ἐπιδημήσαι μὴ παρόντος ὑπάτου, [9] τελείως ἀριστοκρατικὴ φαίνεθ’ ἡ πολιτεία. ὃ δὴ καὶ πολλοὶ τῶν Ἑλλήνων, ὁμοίως δὲ καὶ τῶν βασιλέων, πεπεισμένοι τυγχάνουσι, διὰ τὸ τὰ σφῶν πράγματα σχεδὸν πάντα τὴν σύγκλητον κυροῦν.

[14. 1] Ἐκ δὲ τούτων τίς οὐκ ἂν εἰκότως ἐπιζητήσειε ποία καὶ τίς ποτ’ ἐστὶν ἡ τῷ δήμῳ καταλειπομένη [2] μερὶς ἐν τῷ πολιτεύματι, τῆς μὲν συγκλήτου τῶν κατὰ μέρος ὧν εἰρήκαμεν κυρίας ὑπαρχούσης, τὸ δὲ μέγιστον, ὑπ’ αὐτῆς καὶ τῆς εἰσόδου καὶ τῆς ἐξόδου χειριζομένης ἁπάσης, τῶν δὲ στρατηγῶν ὑπάτων πάλιν αὐτοκράτορα μὲν ἐχόντων δύναμιν περὶ τὰς τοῦ πολέμου παρασκευάς, αὐτοκράτορα δὲ τὴν ἐν [3] τοῖς ὑπαίθροις ἐξουσίαν; οὐ μὴν ἀλλὰ καταλείπεται μερὶς καὶ τῷ δήμῳ, καὶ καταλείπεταί γε βαρυτάτη. [4] τιμῆς γάρ ἐστι καὶ τιμωρίας ἐν τῇ πολιτείᾳ μόνος ὁ δῆμος κύριος, οἷς συνέχονται μόνοις καὶ δυναστεῖαι καὶ πολιτεῖαι καὶ συλλήβδην πᾶς ὁ τῶν ἀνθρώπων [5] βίος. παρ’ οἷς γὰρ ἢ μὴ γινώσκεσθαι συμβαίνει τὴν τοιαύτην διαφορὰν ἢ γινωσκομένην χειρίζεσθαι κακῶς, παρὰ τούτοις οὐδὲν οἷόν τε κατὰ λόγον διοικεῖσθαι τῶν ὑφεστώτων· πῶς γὰρ εἰκὸς [6] ἐν ἴσῃ τιμῇ [ὄντων] τῶν ἀγαθῶν τοῖς κακοῖς; κρίνει μὲν οὖν ὁ δῆμος καὶ διαφόρου πολλάκις, ὅταν ἀξιόχρεων ᾖ τὸ τίμημα τῆς ἀδικίας, καὶ μάλιστα τοὺς τὰς ἐπιφανεῖς ἐσχηκότας ἀρχάς. θανάτου δὲ κρίνει [7] μόνος. καὶ γίνεταί τι περὶ ταύτην τὴν χρείαν παρ’ αὐτοῖς ἄξιον ἐπαίνου καὶ μνήμης. τοῖς γὰρ θανάτου κρινομένοις, ἐπὰν καταδικάζωνται, δίδωσι τὴν ἐξουσίαν τὸ παρ’ αὐτοῖς ἔθος ἀπαλλάττεσθαι φανερῶς, κἂν ἔτι μία λείπηται φυλὴ τῶν ἐπικυρουσῶν τὴν κρίσιν ἀψηφοφόρητος, ἑκούσιον ἑαυτοῦ καταγνόντα [8] φυγαδείαν. ἔστι δ’ ἀσφάλεια τοῖς φεύγουσιν ἔν τε τῇ Νεαπολιτῶν καὶ Πραινεστίνων, ἔτι δὲ Τιβουρίνων πόλει, καὶ ταῖς ἄλλαις, πρὸς ἃς ἔχουσιν [9] ὅρκια. καὶ μὴν τὰς ἀρχὰς ὁ δῆμος δίδωσι τοῖς ἀξίοις· ὅπερ ἐστὶ κάλλιστον ἆθλον ἐν πολιτείᾳ καλοκἀγαθίας. [10] ἔχει δὲ τὴν κυρίαν καὶ περὶ τῆς τῶν νόμων δοκιμασίας, καὶ τὸ μέγιστον, ὑπὲρ εἰρήνης [11] οὗτος βουλεύεται καὶ πολέμου. καὶ μὴν περὶ συμμαχίας καὶ διαλύσεως καὶ συνθηκῶν οὗτός ἐστιν ὁ βεβαιῶν ἕκαστα τούτων καὶ κύρια ποιῶν ἢ τοὐναντίον. [12] ὥστε πάλιν ἐκ τούτων εἰκότως ἄν τιν’ εἰπεῖν ὅτι μεγίστην ὁ δῆμος ἔχει μερίδα καὶ δημοκρατικόν ἐστι τὸ πολίτευμα.

C. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. 𝐴𝑟. 3,75 gr. Rovescio: 𝐿𝑜𝑛𝑔𝑖𝑛(𝑢𝑠) 𝐼𝐼𝐼𝑉(𝑖𝑟). Cittadino in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella contrassegnata con 𝑈(𝑡𝑖 𝑟𝑜𝑔𝑎𝑠) in una cista.

“Erano dunque tre gli elementi dominanti nella costituzione, che ho tutti citati in precedenza; ogni settore dell’amministrazione in particolare era stato disposto e veniva regolato per mezzo di loro in modo così equo e conveniente che nessuno, nemmeno tra i cittadini stessi, avrebbe potuto dire con sicurezza se questo sistema politico nel suo complesso fosse aristocratico, democratico o monarchico. Ed era naturale che la pensassero così. A fissare lo sguardo sull’autorità dei consoli, infatti, esso ci sarebbe apparso senz’altro monarchico e regale; considerando invece il potere del Senato, aristocratico; se, invece, ci fossimo soffermati su quello del popolo, sarebbe sembrato chiaramente democratico. Ciascuna di queste componenti aveva le sue competenze di governo e, salvo alcune modifiche, sia allora che oggi sono le seguenti.

I consoli, prima di guidare le legioni per una spedizione militare, quando si trovano a Roma esercitano la loro autorità su tutti gli affari pubblici. Infatti, tutti gli altri magistrati, a accezione dei tribuni della plebe, sono subordinati e obbediscono a loro, i quali introducono anche le ambascerie straniere in Senato. Oltre a quanto si è già detto, sono loro a proporre le deliberazioni urgenti e a curare per intero l’attuazione dei decreti. Per di più, tocca a loro provvedere a tutte le questioni concernenti gli affari pubblici, che devono essere trattate con l’intervento del popolo: proporre i decreti, dirigere l’esecuzione delle decisioni dei più. Ancora, hanno un’autorità quasi assoluta nei preparativi di guerra e, in generale, nella condotta sul campo. Hanno infatti facoltà di dare ai contingenti alleati le disposizioni che ritengono opportune, di nominare i tribuni militari, di arruolare i soldati e scegliere quelli idonei. Oltre a quanto si è detto, sul campo hanno l’autorità di infliggere punizioni a chi vogliono, tra i loro subordinati. Sono anche autorizzati a investire, del denaro pubblico, le cifre che stabiliscono: un questore li accompagna ed esegue prontamente ciò che gli è stato ordinato. Perciò, se qualcuno prendesse in considerazione questi aspetti, potrebbe a buon diritto affermare che l’organizzazione politica sia veramente monarchica e regia. E se alcune di queste cose o di quelle che sto per dire subirà qualche cambiamento o nel presente o fra qualche tempo, non smentirebbe quanto affermiamo ora.

Il Senato, da parte sua, esercita la sua autorità in primo luogo sull’erario: esso controlla infatti tutte le entrate e, analogamente, le uscite. I questori, infatti, non possono fare alcuna spesa, per esigenze particolari, senza decreto senatorio, a eccezione degli investimenti destinati ai consoli; sulla spesa di gran lunga più importante e gravosa di tutte – quella che i censori fanno ogni cinque anni per restaurare o costruire opere pubbliche – il Senato esercita il proprio controllo, e da esso viene la concessione ai censori. Nello stesso modo, di tutti i reati commessi in Italia che richiedano un’inchiesta pubblica – mi riferisco, per esempio, a tradimenti, congiure, venefici, omicidi – si occupa il Senato. Inoltre, se un privato, o un’intera città italica, ha bisogno di un arbitrato o magari di una censura, o di soccorso, oppure ancora di sorveglianza, di tutto ciò si occupa sempre il Senato. Per di più, se bisogna inviare un’ambasceria all’estero o per un’opera di pacificazione, o per avanzare richieste, o magare per dare ordini, o per accettare sottomissioni, o per dichiarare guerra, esso vi provvede puntualmente. Allo stesso modo, ancora, è il Senato a stabilire come si debbano trattare tutte le delegazioni che giungono a Roma e quale risposta si debba dare loro. In nessuna di queste faccende interviene il popolo. In conseguenza di ciò, quando qualche straniero soggiorna in città in assenza dei magistrati, la forma di governo può sembrargli compiutamente aristocratica. E di ciò sono convinti anche molti dei Greci e dei re, perché il Senato ha la competenza di quasi tutti i loro affari.

Visto e considerato tutto ciò, è lecito domandarsi quale sia mai la parte lasciata al popolo in questo ordinamento, dal momento che il Senato ha il controllo su tutte le questioni particolari delle quali abbiamo parlato e che – l’aspetto più importante – regolamenta tutte le entrate e le uscite, mentre i consoli, da parte loro, detengono pieni poteri sui preparativi di guerra e autorità assoluta in battaglia. Ebbene, anche al popolo viene lasciata una parte, e assai rilevante. Soltanto il popolo, infatti, in questa costituzione, ha il controllo degli onori e delle pene, le sole cose dalle quali sono tenuti uniti gli imperi, le città e, insomma, la vita della gente! Dove tale distinzione o non è conosciuta o, pur essendo nota, è praticata male, infatti, nessuna questione può essere risolta con criterio: e come potrebbe, visto che i buoni sono considerati alla stregua dei cattivi? Il popolo, dunque, spesso giudica una causa che prevede sanzioni pecuniarie, quando l’ammenda per il reato sia considerevole, e soprattutto giudica coloro che hanno ricoperto cariche importanti. È il solo a deliberare sulle cause capitali. Riguardo a quest’uso, avviene presso di loro una cosa degna di lode e di menzione. A coloro che vengono giudicati in una causa capitale, infatti, appena vengono condannati, il costume vigente presso di loro concede la facoltà di allontanarsi apertamente se resta anche una sola tribù, tra quelle che emanano il giudizio, a non aver ancora votato, condannandosi all’esilio volontario. Gli esuli sono al sicuro nelle città di Napoli, Preneste e Tivoli, e nelle altre con le quali hanno stretto patti giurati. Per di più, il popolo assegna le cariche a chi n’è degno: questa, in un ordinamento politico è la più bella ricompensa per la rettitudine di un uomo! Il popolo esercita la sua autorità anche sull’approvazione delle leggi e il dato più notevole è che sia esso a decidere della pace e della guerra. Per giunta, riguardo a un’alleanza, a un trattato di pace e alla stipula di patti, è il popolo a ratificare e a rendere operante o meno ciascuno di questi atti. Così, ancora, da ciò si potrebbe a buon diritto concludere che il popolo romano detenga un ruolo importantissimo nel sistema politico e che questo sia a tutti gli effetti democratico”.

Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.

L’analisi dell’ordinamento romano operata dallo storico greco coincide con il momento di massima efficienza della res publica, che, uscita poi vincitrice dalla durissima prova delle guerre contro Cartagine, non aveva trovato ostacoli degni di nota alla sua espansione nel bacino orientale del Mediterraneo. Questo stato di cose non solo indusse Polibio a tentare di convincere i propri connazionali a cedere di buon grado alla nuova potenza, ma lo spinse anche ad approfondire lo studio delle istituzioni e delle usanze romane, allo scopo di mettere in luce quei caratteri che, secondo lui, dopo aver facilitato la rapida ascesa dell’Urbe, avrebbero anche garantito la solidità e la lunga durata (non l’eternità e l’immutabilità) della sua egemonia. Questo tipo di indagine non era nuovo presso i Greci: l’esempio più antico e autorevole si trova infatti in Erodoto (Hdt. III 80-83), in un celebre passo nel quale Dario e i suoi compagni, Otane e Megabizo, stroncata la congiura dei Magi, discutono fra loro su quale sia la migliore forma di governo (λόγος τριπολιτικός). Tale analisi, poi ripresa in forma molto più estesa e approfondita nei vasti sistemi filosofici di Platone e di Aristotele, aveva finito con giungere a una schematizzazione teorica, fondata su una duplice tripartizione, che valutava gli aspetti positivi e negativi di ciascun ordinamento statale: monarchia e tirannide, aristocrazia e oligarchia, democrazia e oclocrazia, evidenziandone la dinamica e le cause di mutamento e degenerazione. Dopo aver constatato, attraverso la considerazione dei fatti storici, che ciascuna di questi regimi contenesse in sé, per natura, i germi del proprio cambiamento e della propria distruzione, si era approdati alla convinzione che la costituzione migliore fosse quella mista, che riuniva in sé le caratteristiche più valide delle tre forme positive. Fino a Polibio, il modello ideale era stato identificato nella costituzione degli Spartani stabilita da Licurgo, fondata sull’interazione del potere dei due re (δυαρχία), della γερουσία (consiglio degli anziani) e degli ἔφοροι (guardiani del popolo), che controllavano l’operato dei re. Polibio segue questa stessa linea di ricerca, senza pretesa di originalità, ma affermando di voler chiarire, verificare e completare le conclusioni a cui erano giunti tutti i suoi predecessori con il concreto appoggio della sua diretta esperienza. Infatti, avendo vissuto in un periodo di grandi e rapidi mutamenti politici, la compatta solidità con cui i Romani avevano reagito a momenti estremamente difficili della loro storia, come la sconfitta del Trasimeno o quella, ancor più disastrosa, di Canne, lo aveva convinto a vedere nell’ordinamento quiritario un modello perfetto di costituzione mista, pur ammettendo che anch’essa avrebbe potuto modificarsi nel tempo, essendo soggetta – come ogni fatto umano – all’eterna legge del divenire.

Le osservazioni dello storico megalopolitano sull’assetto politico dei Romani suscitano nel lettore l’impressione che l’autore provasse un’incondizionata ammirazione per questa forma istituzionale, che sembra avere, ai suoi occhi, soltanto caratteristiche positive. Ciò è dovuto probabilmente al fatto che egli ebbe modo di fare le sue valutazioni in un periodo in cui il governo della res publica aveva raggiunto il massimo grado di funzionalità, mentre le questioni che ne avrebbero in seguito determinato la decadenza erano ancora abbastanza lontane e indefinite. Alla mente di Polibio, tesa a una visione universale del divenire storico, le vicende di Roma apparivano del tutto diverse da quelle di altri popoli e civiltà; nessun’altra delle nazioni di cui egli aveva seguito la parabola, dapprima in ascesa e poi sempre più declinante verso l’inevitabile decadenza, aveva avuto la forza di coesione, la disciplina, le capacità di reazione dei Romani, né tantomeno aveva avuto le qualità necessarie per attirare nella propria orbita le altre potenze del mondo antico. Queste peculiarità meritavano un’indagine più approfondita sia per soddisfare l’interesse dello storico, posto per la prima volta di fronte a una realtà nuova, sia per l’utilità dei suoi lettori, fine ultimo del suo lavoro.

Un console (𝑐𝑜𝑛𝑠𝑢𝑙) in tenuta da campagna, con il suo seguito di scribae e lictores. Illustrazione di A. McBride.

Fedele alla concretezza che permea tutta l’opera, Polibio evita considerazioni di carattere puramente teorico e ideologico, calandosi nella realtà dei fatti. In quest’ottica, lo statuto misto di Roma viene presentato come un solido e ben connesso organismo, le cui parti interagiscono attivamente, grazie alle possibilità di intervento e di veto di cui dispongono, pur nel rispetto delle specifiche competenze attribuite a ciascuna, in un sistema di complementarietà saldamente equilibrata. Anziché disquisire in maniera astratta sulle possibilità, sulle caratteristiche e sugli effetti delle varie organizzazioni statali (come, per esempio, aveva fatto Erodoto), o di dar vita all’utopia dello “Stato ideale”, lasciandosi vincere dal fascino della speculazione filosofica, Polibio si cala nel cuore di una realtà empirica senza idealizzarla, presentandola nei suoi meccanismi e nei suoi obiettivi utilitaristici.

Condizione irrinunciabile perché ciascuna delle tre componenti, minuziosamente analizzate nei poteri e nei compiti specifici, possa funzionare nel migliore dei modi in collaborazione con le altre è l’esistenza di un chiaro fine comune, che implichi per tutte uguali responsabilità e uguali vantaggi. Poiché la validità di questi principi si può saggiare soprattutto nelle situazioni più difficili, le guerre puniche costituirono, agli occhi dello storico, un eccellente banco di prova per dimostrare la tenuta dell’ordinamento romano, derivata dalla volontà di tutte le sue componenti di affrontare ogni sacrificio per la sopravvivenza di un organismo in cui sia la collettività sia i singoli cittadini si identificavano con egual convinzione.

Paradossalmente, per un autore come Polibio, deciso a rifiutare con assoluta coerenza qualsiasi forma di teorizzazione distaccata dalla realtà storica, l’utopia dello “Stato perfetto” sembra incarnarsi proprio nel Senatus popolusque Romanus. Forse, finché lo storico visse (scomparve nel 124 o nel 118 a.C.), la stabilità delle istituzioni fu tale da alimentare in lui la certezza di una lunga durata nel tempo; ma già nel 129, la morte violenta e misteriosa del suo fraterno sodale, Publio Cornelio Scipione Emiliano, preannunciava i sintomi di una crisi non solo istituzionale, ma anche politica e morale, che avrebbe corroso dall’interno quell’ordinamento che, fino ad allora, aveva resistito con granitica compattezza a ogni attacco esterno, anche quando, dopo Canne, i suoi cittadini avevano gridato per le strade: Hannibal ad portas!

La filosofia politica a difesa della 𝑟𝑒𝑠 𝑝𝑢𝑏𝑙𝑖𝑐𝑎

di G. Gᴀʀʙᴀʀɪɴᴏ, M. Mᴀɴᴄᴀ, L. Pᴀsǫᴜᴀʀɪᴇʟʟᴏ, De te fabula narratur. 1. Dalle origini all’età di Cesare, Milano-Torino 2020, 572-575.

Come alla prassi oratoria, anche a quella politica Cicerone accompagna una riflessione teorica, sviluppando in modo personale spunti offerti dalla filosofia greca (la politica, nel mondo antico, non era distinta dalla filosofia ma ne rappresentava uno dei principali campi d’indagine). Le opere filosofico-politiche di Cicerone, pur diverse nella struttura e negli argomenti, sono simili tra loro nell’impostazione di fondo, orientata non alla riflessione astratta, ma alla soluzione di problemi concreti posti con drammatica urgenza dall’attualità. Esse sono infatti accomunate dall’intento dell’autore di usare gli strumenti concettuali offerti dalla filosofia per sostenere e difendere strenuamente le istituzioni della res publica oligarchica dalle spinte, ormai inarrestabili, di quella “rivoluzione romana” che avrebbe portato, di lì a poco, all’instaurazione del regime imperiale.

Domenico Ghirlandaio, Decio, Scipione e Cicerone. Affresco, 1482-1484. Firenze, Palazzo Vecchio

Nel 54 a.C. Cicerone compose il De re publica, un’opera vasta e ambiziosa di filosofia politica in cui discusse i problemi che più gli stavano a cuore: l’organizzazione della res publica, la migliore forma di governo e le istituzioni politiche romane.

Il dialogo, in sei libri, si presenta ispirato fin dal titolo al precedente di Platone, l’opera in dieci libri chiamata correntemente “La repubblica” (in greco Πολιτεία). Cicerone, tuttavia, con il pragmatismo che lo contraddistingue, non si propone di delineare la forma perfetta di uno Stato ideale, bensì di affrontare i problemi politico-istituzionali concretamente e storicamente, ponendosi da un punto di vista specificamente romano. Il testo si è conservato soltanto in parte: restano i primi due libri, con lacune, e frammenti degli altri tre; è inoltre pervenuta per intero la parte finale del libro VI, ossia la chiusa dell’opera, detta Somnium Scipionis, tramandata separatamente per l’interesse che suscitò nella tarda antichità e nel Medioevo.

Protagonista del dialogo è Publio Cornelio Scipione Emiliano, l’uomo politico più ammirato da Cicerone, che proiettò su di lui, in questa e in altre opere, i propri ideali e le proprie aspirazioni. L’introduzione narrata presenta Scipione impegnato nel 129 a.C. (poco prima della morte) in una conversazione con un gruppo di amici, tra cui l’inseparabile Gaio Lelio. Nel libro I Scipione dà la sua definizione di res publica, cioè «cosa del popolo» (res populi), e il popolo viene definito come «l’aggregazione di un gruppo di persone unite da un accordo sui reciproci diritti (iuris consensus) e da interessi comuni (utilitatis communio)». Presenta poi e discute le tre forme di governo – monarchia, aristocrazia, democrazia – e le loro rispettive degenerazioni – tirannide, oligarchia, demagogia – rifacendosi a Polibio (206-124 a.C.), lo storico greco vissuto a lungo a Roma, che aveva inserito all’interno delle sue Storie un’ampia digressione su questo argomento. Dopo aver affermato il primato della monarchia sulle altre forme costituzionali “semplici”, Scipione sostiene che la costituzione migliore di tutte è quella “mista” (come per Polibio): questa assomma i vantaggi ed evita i difetti delle tre forme semplici, assicurando quel perfetto equilibrio di poteri che garantisce la stabilità dello Stato. Esempio eccellente di tale forma mista è la costituzione romana, in cui il potere monarchico è rappresentato dai consoli, quello aristocratico dal Senato, quello democratico dalle assemblee popolari.

Nel libro II sono delineati l’origine e gli sviluppi di Roma, da Romolo ai tempi recenti, con particolare attenzione alle riforme che ridussero progressivamente il potere del Senato, cioè dell’aristocrazia, a favore del popolo. Il libro III (molto lacunoso) trattava della virtù politica per eccellenza, la iustitia. Venivano riportate le argomentazioni del filosofo Carneade contro l’esistenza di un fondamento naturale di essa: non sulla giustizia, che prescrive di dare a ciascuno il suo, ma sulla sopraffazione dei più deboli, i popoli dominatori, e Roma stessa, fondano i loro imperi. Questo aveva affermato il filosofo greco, aggiungendo provocatoriamente che se i Romani avessero voluto essere giusti, avrebbero dovuto restituire a tutti gli altri popoli ciò di cui li avevano privati con la forza, ritornando alle capanne e alla miseria delle loro origini. Lelio assumeva, invece, la difesa della giustizia naturale, sostenendo la legittimità morale del dominio di Roma, in quanto esercitato a vantaggio dei popoli sottoposti.

Quasi interamente perduti sono il libro IV, dedicato alla formazione del buon cittadino, e il V, in cui era delineata la figura del governante perfetto. Del libro VI si conserva soltanto il finale, ossia il Somnium Scipionis. Scipione Emiliano vi racconta un sogno in cui gli era apparso l’avo adottivo, Scipione Africano; questi, dopo avergli predetto le future imprese gloriose e la morte prematura, gli aveva mostrato lo spettacolo grandioso delle sfere celesti e la dimora celeste che i grandi uomini politici, benefattori della patria, raggiungono subito dopo che l’anima si è liberata dalla prigione del corpo. Il testo, conservato indipendentemente dal resto dell’opera, fu molto apprezzato nel Medioevo per lo spirito religioso che lo pervade; ma il sentimento prevalente che lo anima è quello politico: in esso è celebrato infatti il senso di dedizione allo Stato come valore supremo, che ha comunque una sua ricompensa in cielo, se non in Terra.