Una guerra necessaria per evitare il “crac” economico

di G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 238

 

La Pro lege Manilia, successivamente pubblicata con il titolo De imperio Gnaei Pompei, è un’orazione, pronunciata nel 66 a.C., che ha spesso attirato a Cicerone l’accusa di opportunismo: l’oratore avrebbe mirato soltanto a conciliarsi la benevolenza di Pompeo Magno per ottenere il suo appoggio nella propria candidatura al consolato. In realtà, sostenere la proposta del tribuno Manilio significava soprattutto sostenere la necessità di una guerra da molti ritenuta indispensabile per difendere gli interessi dei ceti finanziari e della classe degli equites, che si vedevano minacciati dalle mire espansionistiche di re Mitridate VI Eupatore del Ponto.

Elencando i motivi per cui fosse giusto combattere una guerra contro Mitridate (parr. 17-19), infatti, Cicerone focalizzava l’attenzione degli uditori sugli interessi economici che i Romani avevano in Asia: il Senato doveva preoccuparsi di tutelare le rendite fiscali, che erano come i nervi della Res publica, e insieme i publicani e gli equites che si occupavano della loro riscossione, in modo da evitare un “crac” finanziario generalizzato. Questa netta presa di posizione a favore del ceto equestre fu, dunque, anche un invito alla collaborazione fra le due classi più alte per la gestione della cosa pubblica: si può qui vedere in nuce il progetto ciceroniano della concordia ordinum.

Banco dell’argentarius. Bassorilievo, I-II sec. d.C.

 

[17] Ac ne illud quidem uobis neglegendum est quod mihi ego extremum proposueram, cum essem de belli genere dicturus, quod ad multorum bona ciuium Romanorum pertinet; quorum uobis pro uestra sapientia, Quirites, habenda est ratio diligenter. Nam et publicani, homines honestissimi atque ornatissimi, suas rationes et copias in illam prouinciam contulerunt, quorum ipsorum per se res et fortunae uobis curae esse debent. Etenim, si uectigalia neruos esse rei publicae semper duximus, eum certe ordinem qui exercet illa firmamentum ceterorum ordinum recte esse dicemus. [18] Deinde ex ceteris ordinibus homines gnaui atque industrii partim ipsi in Asia negotiantur, quibus uos absentibus consulere debetis, partim eorum in ea prouincia pecunias magnas conlocatas habent. Est igitur humanitatis uestrae magnum numerum ciuium calamitate prohibere, sapientiae uidere multorum ciuium calamitatem a re publica seiunctam esse non posse. Etenim illud primum parui refert, uos publicanis amissa uectigalia postea uictoria reciperare; neque enim isdem redimendi facultas erit propter calamitatem neque aliis uoluntas propter timorem. [19] Deinde quod nos eadem Asia atque idem iste Mithridates initio belli Asiatici docuit, id quidem certe calamitate docti memoria retinere debemus. Nam tum, cum in Asia magnas permulti res amiserunt, scimus Romae solutione impedita fidem concidisse. Non enim possunt una in ciuitate multi rem ac fortunas amittere ut non pluris secum in eandem trahant calamitatem: a quo periculo prohibete rem publicam. Etenim – mihi credite id quod ipsi uidetis – haec fides atque haec ratio pecuniarum quae Romae, quae in foro uersatur, implicata est cum illis pecuniis Asiaticis et haeret; ruere illa non possunt ut haec non eodem labefacta motu concidant. Qua re uidete num dubitandum uobis sit omni studio ad id bellum incumbere in quo gloria nominis uestri, salus sociorum, uectigalia maxima, fortunae plurimorum ciuium coniunctae cum re publica defendantur.

[17] E c’è pure un’altra questione che non dovete trascurare, una questione che, accingendomi a parlare della particolare natura di questa guerra, che coinvolge gli averi di molti cittadini romani, mi ero proposto di esaminare per ultima: ebbene, Romani, voi, con quella saggezza che vi distingue, dovete tenerne particolarmente conto. Sono anzitutto i pubblicani – tutte persone assai rispettabili e facoltose – che hanno trasferito in quella provincia i loro interessi e i loro capitali, e proprio ai loro affari e ai loro patrimoni dovreste, anche prescindendo dall’interesse pubblico, rivolgere le vostre cure; se infatti abbiamo sempre considerato le entrate tributarie come il fulcro della Res publica, allora diremo senza timore di essere smentiti che quella classe che ne ha la gestione è il sostegno delle altre. [18] Vi sono poi cittadini appartenenti ad altri ceti che, pieni d’attività e di iniziativa, hanno i loro affari in Asia, parte dedicandosi a essi personalmente – e a voi corre l’obbligo di provvedere alla loro sicurezza, benché lontani –, parte investendo in quella provincia grossi capitali. Come dunque il vostro senso di umanità vi impone di impedire la rovina di un così gran numero di concittadini, così il vostro senno politico di capire che la rovina di molti dei nostri concittadini coinvolge inevitabilmente quella della Res publica. Ha infatti scarsissimo peso la considerazione che a noi, se lasciamo andare in rovina i pubblicani, è sempre possibile recuperare, in seguito a una nuova vittoria, il gettito fiscale; ché da una parte gli attuali appaltatori non avranno più i mezzi, a causa del tracollo subito, per assicurarsi l’appalto delle imposte, dall’altra non ci saranno altri a voler concorrere all’aggiudicazione per timore di fare la stessa fine. [19] Dobbiamo, inoltre, tenere ben fissa nella mente, se non altro perché la sventura ci è stata maestra, la lezione venutaci sempre dall’Asia e sempre da Mitridate all’inizio di questo conflitto: quando in Asia moltissimi uomini d’affari perdettero ingenti capitali, a Roma – lo sappiamo bene – la sospensione dei pagamenti alle relative scadenze determinò il crollo del credito, poiché, quando in una città sono in molti a rimetterci beni e liquidità, è inevitabile che si tirino dietro nella stessa sorte parecchi altri. Ecco il pericolo che dovete allontanare dalla Res publica, e credetemi pure – del resto, è una cosa che vedete con i vostri stessi occhi! –: il credito e il movimento di capitali, il cui centro è costituito dall’Urbe, e propriamente dal Foro, sono strettissimamente connessi con i fondi stanziati in Asia; non ci potrebbe essere un crollo senza il contemporaneo crollo, sotto la spinta di quella rovina, delle nostre finanze. Considerate, dunque, se si debba da parte vostra esitare un attimo a dedicare tutto l’impegno in una guerra che costituisce l’unica difesa della gloria del vostro imperium, della salvezza degli alleati, di un elevatissimo reddito fiscale, nonché del patrimonio di moltissimi concittadini, cui sono strettamente connessi gli interessi della nostra Res publica (trad. it. G. Bellardi).

 

M. Tullio Cicerone

di G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 234-265.

Un pilastro della storia politica e culturale di Roma

Cicerone fu uno dei massimi protagonisti delle vicende politiche e culturali della Roma del I secolo a.C. La sua instancabile attività di oratore, studioso e politico, a cui corrisponde una sterminata produzione letteraria, ha avuto ben pochi eguali nella storia romana e costituisce lo specchio di quelle profonde trasformazioni che cambiarono il volto della res publica nel suo ultimo secolo di vita. La sua attiva partecipazione a tutte le più importanti vicende pubbliche dell’epoca e i suoi vastissimi interessi culturali, fanno di Cicerone il simbolo stesso di tutti gli ideali e i principi su cui si fondava la tradizione etico-politica dell’uomo romano.

M. Tullio Cicerone. Busto, marmo. Roma, Musei Capitolini.

 

La vita: una carriera lunga e impegnata

Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpinum, da agiata famiglia equestre. Compì ottimi studi di retorica e di filosofia a Roma e iniziò a frequentare il foro sotto la guida del grande oratore Lucio Licinio Crasso (cos. 95), di Quinto Mucio Scevola l’Augure (cos. 117) e di Quinto Mucio Scevola il Pontefice (cos. 95). Con Tito Pomponio Attico strinse un’amicizia destinata a durare tutta la vita. Nell’89 prestò servizio militare durante la Guerra sociale agli ordini di Gneo Pompeo Strabone, il padre di Pompeo Magno. Nel’81, o forse prima, debuttò come avvocato; nell’80 difese a causa di Sesto Roscio Amerino, il che lo mise in conflitto con importanti esponenti del regime sillano. Tra il 79 e il 77 compì un viaggio in Grecia e in Asia, dove approfondì le sue conoscenze di filosofia e (sotto la guida del celebre Apollonio Molone di Rodi) studiò retorica.

Al ritorno sposò Terenzia, dalla quale gli nacquero Tullia (nel 76) e Marco (nel 65). Nel 75 fu questore in Sicilia e cinque anni dopo sostenne trionfalmente l’accusa dei Siciliani contro l’ex governatore Verre, conquistandosi la fama di principe del foro. Nel 69 fu edile, nel 66 pretore; diede il suo appoggio alla proposta di concedere a Pompeo un imperium extra ordinem per la lotta contro Mitridate VI, re del Ponto. Nel 63 Cicerone fu eletto console e represse la congiura di Catilina. Guardò alla formazione del primo triumvirato con preoccupazione, dal momento che si trattava di un’alleanza politica fra il potere militare di Pompeo, la ricchezza grandiosa di Crasso e la crescente popolarità di Cesare, proprio perché siglata come patto privato, gli appariva insidiosa per l’autorità del Senato; da allora il suo astro iniziò a declinare. Nel 58 dovette recarsi in esilio, con l’accusa di aver messo a morte senza processo i complici di Catilina; la sua casa fu rasa al suolo. Richiamato a Roma, vi tornò trionfalmente l’anno successivo.

Fra il 56 e il 51 Cicerone tentò una difficile collaborazione con i triumviri, continuando a svolgere l’attività forense. Compose il De oratore, il De re publica e iniziò a lavorare al De legibus. Nel 51 fu governatore in Cilicia, pur accettando controvoglia di allontanarsi dall’Urbe. Allo scoppio della Guerra civile, nel 49, aderì con lentezza alla causa di Pompeo. Si recò in Epiro con altri senatori, ma non fu presente alla battaglia di Farsalo nel 48. Dopo la sconfitta di Pompeo, Cicerone ottenne il perdono di Cesare.

Nel 46 scrisse il Brutus e l’Orator; divorziò da Terenzia e sposò la sua giovane pupilla Publilia, dalla quale si sarebbe separato dopo pochi mesi. Nel 45 gli morì la figlia Tullia. Iniziò la composizione di una lunga serie di opere filosofiche, mentre il dominio di Cesare lo tenne lontano dagli affari pubblici. Nel 44, dopo l’uccisione del dictator, Cicerone tornò alla vita politica e intraprese, a partire dalla fine dell’estate, una strenua lotta contro Antonio (di cui sono testimonianza le celebri orazioni chiamate Filippiche). Dopo il voltafaccia di Ottaviano, che, abbandonata la causa del Senato, si strinse in triumvirato con Antonio e Lepido, il nome di Cicerone venne inserito nelle liste di proscrizione e l’Arpinate fu assassinato dai sicari di Antonio il 7 dicembre 43.

 

M. Tullio Cicerone. Busto, marmo, copia di B. Thorvaldsen da originale romano. København, Thorvaldsens Museum.

 

Le opere: una molteplicità di interessi

Cicerone è di gran lunga l’autore classico latino di cui si possieda il maggior numero di opere. La sua vasta e molteplice produzione letteraria, infatti, spazia dalle orazioni pronunciate nel corso della sua lunga carriera forense e politica, alle opere trattatistiche nel campo della retorica, della politica e della filosofia, alle prove poetiche, fino a quello straordinario documento che è l’epistolario, che raccoglie centinaia di lettere sue e dei suoi corrispondenti, e, in effetti, costituisce l’unico epistolario “reale” (cioè formato da veri testi privati, non composti in vista di una pubblicazione) tramandato dall’antichità.

 

 

Un nuovo progetto politico e sociale

Per la posizione che occupa nella cultura romana e per il valore straordinario della sua esperienza intellettuale, Cicerone rappresenta un protagonista e un testimone d’eccezione della crisi che portò al tramonto della Repubblica. A quei mutamenti egli cercò di rispondere e porre rimedio elaborando un progetto etico-politico capace di tenere insieme tradizione e innovazione. La sua rimase tuttavia un’ottica di parte, solidale con il progetto di egemonia di un blocco sociale (sostanzialmente quello dei ceti possidenti), disegno le cui possibilità di affermazione all’interno della società romana sarebbero state in gran parte legate all’uso abile e accorto delle tecniche di comunicazione più efficaci. In un contesto di questo tipo, Cicerone mise a frutto la sua sapiente e persuasiva eloquenza nelle orazioni e provvide a organizzarne i presupposti teorici nei trattati a carattere retorico; la sua ars dicendi si rivelò così una tecnica raffinatissima, funzionale al dominio dell’uditorio e alla regia delle sue passioni. Si rifletteva, d’altronde, in questo una condizione di fondo della cultura romana, per la quale l’oratoria costituiva il modello fondamentale non solo di un’educazione elevata, ma anche, in notevole misura, dell’espressione letteraria stessa.

Al proprio progetto politico-sociale Cicerone ha cercato di dare concreta applicazione anche adattandolo, talora opportunisticamente, alla situazione contingente (come testimoniano diverse orazioni); ma, procedendo negli anni e nelle delusioni, egli ha sentito sempre più forte la necessità di riflettere, sulla scorta del pensiero ellenistico, sui fondamenti della politica e della morale. Il fine delle sue opere filosofiche è dunque lo stesso che ispira alcune delle orazioni più significative: dare una solida base ideale, etica e politica, a una classe dominante il cui bisogno di ordine non si traducesse in ottuse chiusure, il cui rispetto per la tradizione capitolina (mos maiorum) non impedisse l’assorbimento della cultura greca. Cicerone, in altre parole, pensava a una classe dominante che fosse capace di assolvere ai suoi doveri verso la res publica senza divenire insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e di letteratura. Egli propose così uno stile di vita garbatamente raffinato che si riassumeva nel termine humanitas: quella coscienza culturale che era frutto dell’incivilimento, che era capacità di distinguere e di apprezzare ciò che è bello, giusto e conveniente.

In questo senso, gran parte dell’opera ciceroniana può essere letta come la ricerca di un difficile equilibrio tra istanze di ammodernamento e necessità di conservare i valori tradizionali. Dietro la vicenda intellettuale di Cicerone, infatti, si profila una società attraversata da spinte contrastanti, spesso laceranti: l’afflusso di ricchezze dai paesi conquistati aveva da tempo reso anacronisticamente improponibile la rigida morigeratezza delle origini; ma il veloce distacco dalle virtù e dai valori che avevano fatto la grandezza di Roma metteva ora in discussione la stessa sopravvivenza della res publica.

M. Tullio Cicerone. Statua, marmo, I sec. a.C. ca. Oxford, Ashmolean Museum.

 

La parola come strumento di lotta politica: le orazioni

L’attività oratoria di Cicerone si intreccia indissolubilmente con le vicende politiche di Roma: non è un caso, dunque, che le orazioni, al di là dei fatti specifici di cui trattano, lascino sempre intravedere sullo sfondo fatti e personaggi di primo piano, che segnarono la vita pubblica romana. Pertanto, nell’esaminarle, si procederà secondo una sequenza cronologica lineare che, scandendo la successione dei discorsi, segua anche la storia e le agitate fasi politiche dell’ultimo cinquantennio della Repubblica.

 

Gli esordi. | Dopo aver debuttato come avvocato nell’81 – o forse anche prima –, Cicerone, già nell’80, affrontò una causa molto difficile, probabilmente la prima importante della sua ancor giovane carriera: accettò il rischioso compito di difendere Sesto Roscio, accusato di parricidio da potenti figure dell’entourage del dittatore Lucio Cornelio Silla, il crudele capo della fazione degli optimates allora padrone di Roma. Il padre di Sesto Roscio era stato assassinato su mandato di due suoi parenti in accordo con Lucio Cornelio Crisogono, potente liberto del dittatore, che aveva fatto inserire poi il nome dell’ucciso nelle liste di proscrizione per poterne acquistare all’asta, a un prezzo irrisorio, le cospicue proprietà terriere. Gli assassini cercarono quindi di sbarazzarsi in un colpo solo anche del figlio, con una falsa accusa.

Prenderne le parti (poi l’imputato fu assolto), fu per Cicerone un delicatissimo banco di prova, poiché dovette ritorcere le accuse a personaggi molto potenti; e forse fu proprio la paura di mostrarsi ribelle al regime sillano a spingerlo a coprire il dittatore di lodi di maniera. Non va comunque dimenticato che Cicerone, per tutta la sua vita fautore dell’ordine, non era ostile a quel governo; eppure, come molti altri, anche di estrazione patrizia, avrebbe preferito porre un freno agli arbitri e alle proscrizioni che la fine della Guerra civile – quella che aveva portato Silla al potere – aveva trascinato con sé.

Forse per il timore di rappresaglie, dopo il successo della propria orazione, Cicerone si allontanò da Roma un paio di anni tra il 79 e il 77, viaggiando per la Grecia e l’Asia Minore. Una buona ragione per compiere il viaggio dovette essere in ogni caso anche quella di perfezionarsi nelle prestigiose scuole di retorica della zona: non a caso, infatti, alcuni tratti stilistici presenti nella pro Sexto Roscio Amerino in seguito sarebbero stati accuratamente evitati dal Cicerone purista degli anni più maturi; per quanto già raffinato, lo stile di questa orazione mostra infatti un rapporto ancora molto stretto con gli schemi dell’asianesimo allora di moda e si caratterizza dunque per un eccesso di metafore e per il ricorso a neologismi.

La quaestura in Sicilia. | Rientrato a Roma dopo la morte di Silla, Cicerone ricoprì la quaestura in Sicilia nel 75 a.C. Là si conquistò la fama di amministratore onesto e scrupoloso, tanto che pochi anni dopo, nel 70, i Siciliani gli proposero di sostenere l’accusa nel processo da loro intentato contro l’ex propraetor Lucio Licinio Verre, il quale aveva sfruttato la provincia con incredibile rapacità. Cicerone, rivelando grande energia, raccolse le prove in tempo brevissimo, anticipando così le fasi del processo, che altrimenti si sarebbe svolto in condizioni politicamente molto più favorevoli all’imputato: il difensore di Verre, infatti, Quinto Ortensio Ortalo, celeberrimo avvocato di scuola asiana, era uno dei candidati designati per il consolato del 69. Al dibattimento Cicerone non fece in tempo a esibire per intero l’imponente massa di prove e di testimonianze che aveva raccolto e organizzato, e poté pronunciare solo la prima delle due actiones in Verrem: dopo solo pochi giorni, infatti, Verre, schiacciato dalle accuse, fuggì dall’Italia e venne condannato in contumacia.

Cicerone pubblicò successivamente, in forma di orazione accusatoria, la cosiddetta Actio secunda in Verrem, divisa in cinque libri, che rappresenta, fra l’altro, un documento storico di primaria importanza per conoscere i metodi di cui si serviva l’amministrazione romana nelle province. Quello di Verre costituiva certo un caso eclatante, ma l’avidità dello sfruttamento era comunque la regola: il governatorato di una ricca provincia era un’occasione di facili guadagni per gli aristocratici romani, che avevano bisogno di ingenti quantità di denaro per finanziare le forme di liberalità (cioè di corruzione dei singoli e delle masse) necessarie a promuovere la loro carriera politica, e avevano inoltre bisogno di incrementare i propri consumi e usi privati per reggere il passo con i nuovi stili di vita che si erano imposti dall’età delle conquiste.

La vittoria su Ortensio, il difensore di Verre, fu, tra l’altro, anche una vittoria in campo letterario: di fronte alla naturalezza con la quale il giovane competitore padroneggiava tutte e sfumature della lingua, l’esasperato manierismo asiano di Ortensio dovette risultare alquanto stucchevole. Lo stile delle Verrine è già pienamente maturo; Cicerone ha eliminato alcune esuberanze e ridondanze, ma senza per questo accostarsi all’eloquenza secca e scarna degli atticisti. Il periodare è perlopiù armonioso, architettonicamente complesso; ma la sintassi è estremamente duttile, e Cicerone non rifugge, quando è il caso, da un fraseggio conciso e martellante.

La gamma dei registri è dominata con piena sicurezza, dalla narrazione semplice e piana al racconto ricco di colore, dall’ironia arguta al pathos tragico. E anche qui Cicerone si rivela maestro nell’arte del ritratto: sono straordinari quelli di alcuni personaggi più o meno squallidi dell’entourage dell’ex governatore, ma soprattutto quello dello stesso Verre, raffigurato come un tiranno avido di averi e del sangue dei suoi sudditi, e contemporaneamente come un dissoluto pigramente disteso sulla propria lettiga, sempre intento ad annusare una reticella di rose.

Cn. Pompeo Magno. Solis-Pompeiopolis, 66-50 a.C. ca. Dracma, AE 7, 16 gr. Recto: testa nuda di Pompeo, voltata a destra.

L’ingresso in Senato. | Dopo la questura, Cicerone entrò in Senato. Nel 66 a.C., infatti, l’anno della sua praetura, con l’orazione dal titolo Pro lege Manilia, nota anche come De imperio Gnaei Pompei, parlò in favore del progetto di legge presentato dal tribuno Gaio Manilio, che prevedeva la concessione a Pompeo di poteri straordinari su tutto l’Oriente: un provvedimento reso necessario dall’urgenza di eliminare in modo efficace e definitivo la minaccia costituita da Mitridate, re del Ponto, le cui ambizioni egemoniche da tempo disturbavano gli interessi economici del popolo romano nei territori orientali. Cicerone, parlando di fronte alla civitas riunita in favore della proposta di legge, insistette soprattutto sull’importanza dei vectigalia che affluivano dalle province orientali: la popolazione di Roma sarebbe stata privata di tale beneficio se il monarca pontico avesse continuato indisturbato nella sua azione.

Nella Pro lege Manilia, in seguito “ripudiata” dallo stesso autore, si è voluto vedere il punto di massimo avvicinamento dell’Arpinate alla politica dei populares, indirizzata a gratificare e a corrompere le masse cittadine con elargizioni e, contemporaneamente, a prevaricare l’autorità del Senato, favorendo l’emersione di spregiudicate personalità. In realtà, a essere minacciati, in Asia Minore, erano soprattutto gli interessi di equites e publicani, il ceto imprenditoriale e finanziario cui Cicerone era legato. Erano loro ad avere spesso in appalto la riscossione delle imposte nelle province, e proprio in Asia i cavalieri avevano avviato molte lucrose attività commerciali, che da poco più di vent’anni l’espansionismo di Mitridate minacciava di mandare in rovina.

D’altronde, Cicerone e Pompeo avevano entrambi bisogno dell’appoggio del ceto equestre per conquistare alte posizioni nello Stato, ma, a differenza del condottiero, l’Arpinate non era disposto a fare elargizioni demagogiche che i populares gli chiedevano di appoggiare. In particolare, egli era contrario a qualsiasi programma di redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dai debiti. Infatti, Cicerone cominciava a scorgere la via d’uscita dalla crisi che minacciava la res publica nell’accordo fra i ceti più abbienti, i senatori e gli equites: ed era appunto questa concordia ordinum a diventare il fondamento del progetto politico ciceroniano.

Cesare Maccari, Cicerone denuncia la congiura di Catilina in Senato. Affresco, 1882-88. Roma, Palazzo di Villa Madama.

 

Il consolato. | Fu proprio contando sulla natura politicamente moderata di Cicerone che una parte della nobilitas decise di coalizzarsi con il ceto equestre, e di appoggiare nella candidatura al consolato il brillante homo novus arpinate (63 a.C.).

Le più celebri fra le orazioni “consolari” di Cicerone sono le quattro In Catilinam, con le quali egli svelò le trame sovversive del Lucio Sergio Catilina, patrizio decaduto di parte sillana, che, dopo essere stato sconfitto nella competizione elettorale per la massima carica, aveva ordito una congiura per raggiungere il potere. E Cicerone, assumendosi la responsabilità delle indagini, riuscì a soffocare il tentativo eversivo, costringendo Catilina a fuggire da Roma e giustificando la propria decisione di giustiziarne i collaboratori senza processo regolare. Quella concordia ordinum che aveva portato Cicerone al consolato, comunque, segnò così una prima importante affermazione attraverso il successo politico del suo teorizzatore.

Sul piano artistico, spicca la prima Catilinaria, in cui Cicerone attaccò l’avversario di fronte al Senato riunito. I toni sono veementi, minacciosi e ricchi di pathos; il console fece anche ricorso a un artificio retorico che in precedenza non aveva mai adottato: l’introduzione di una prosopopea («personificazione») della Patria, che si immagina rivolgersi a Catilina con parole di biasimo. Né si può inoltre dimenticare, nella seconda Catilinaria, il ritratto del sovversivo e dei suoi seguaci corrotti dal lusso e dai vizi.

Nei giorni che intercorsero fra la prima e la seconda Catilinaria, cioè quando l’esito dello scontro era ancora incerto, Cicerone si trovò a dover difendere da un’accusa di broglio elettorale Lucio Licinio Murena, console designato per l’anno successivo. L’accusa era stata intentata dal candidato risultato sconfitto, Servio Sulpicio Rufo, e sorretta dal prestigio di cui godeva Marco Porcio Catone (il futuro Uticense), discendente di Catone il Censore. Proprio Catone il Giovane, nel suo rigorismo morale fondato sui principi della scuola stoica, aveva assunto una posizione particolarmente intransigente nelle questioni che riguardavano il rapporto fra res publica e interessi economici privati; ciò lo portava a trovarsi spesso in conflitto con i publicani (coloro i quali, appunto, avevano rapporti d’affari con lo Stato romano) e con l’ordine equestre, nonché a scontrarsi con il progetto politico ciceroniano ispirato all’ideale della concordia ordinum.

Nella Pro Murena Cicerone sceglie la via dell’ironia e dello scherzo, trovando sapientemente i toni di una satira lieve e arguta, che non scade mai nella derisione o nella beffa volgare. Ma l’interesse dell’orazione risiede soprattutto nella nuova morale che l’autore inizia a elaborare e proporre alla società romana. Prendendo posizione nei confronti dell’arcaico moralismo catoniano, Cicerone incomincia infatti a tratteggiare le linee di un nuovo modello etico la cui definizione lo avrebbe occupato per il resto della vita: si tratta di una dimensione in cui il rispetto per il mos maiorum è contemperato da quell’addolcimento dei costumi, da quell’apertura alle gioie della vita, che ormai concedevano le nuove abitudini della società romana.

IL SENATORE ROMANO | romanoimpero.com

Il primo triumvirato e lo scontro con Clodio. | Con il tempo, la posizione di Cicerone a Roma tese a indebolirsi molto: la formazione del cosiddetto primo triumvirato fra Cesare, Pompeo e Crasso segnò infatti un rapido declino delle fortune politiche dell’Arpinate. Un tribuno di parte popolare, Publio Clodio Pulcro, che nutriva verso di lui anche rancori di origine personale, nel 58 a.C. presentò una legge in base alla quale doveva essere condannato all’esilio qualsiasi magistrato avesse fatto mettere a morte cittadini romani senza provocatio ad populum. La legge mirava evidentemente a colpire proprio l’operato di Cicerone nella repressione dei catilinari. Allora, tra l’altro, non più sostenuto dalla nobilitas che, compulsato il pericolo di Catilina, poteva fare a meno di lui e abbandonato persino da Pompeo, che doveva tener conto delle esigenze dei triumviri suoi alleati, Cicerone dovette soccombere all’attacco portatogli da Clodio e prendere la via dell’esilio, trascorrendolo soprattutto fra Tessalonica e Durazzo.

Richiamato dall’esilio solo l’anno dopo, Cicerone trovò l’Urbe in preda all’anarchia: si fronteggiavano, in continui scontri di strada, le opposte bande di Clodio e di Milone (quest’ultimo era il difensore della causa degli optimates e amico personale dell’Arpinate). Fu in questo clima che nel 56 Cicerone, trovandosi a difendere Sestio, un tribuno accusato da Clodio di atti di violenza (Pro Sestio), espose una nuova versione della propria teoria sulla concordia ordinum: infatti, come semplice intesa fra classe equestre e aristocrazia senatoria, il progetto si era rivelato fallimentare; così Cicerone ne dilatò il concetto in concordia omnium bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti, amanti dell’ordine pubblico (politico e sociale), pronte all’adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della famiglia. I boni – una categoria che attraversava verticalmente tutti gli strati sociali, senza identificarsi con alcuno di essi in particolare – sarebbero stati, da allora in poi, il principale destinatario della predicazione etico-politica dell’Arpinate.

I nemici dell’ordine, d’altra parte, erano identificati in coloro che soprattutto l’indigenza o l’indebitamento spingeva a desiderare rovesciamenti sovversivi. Dovere dei boni, dunque, sarebbe stato quello di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati, ma fornire sostegno attivo a tutti gli uomini politici che rappresentassero la loro causa. L’esigenza, largamente avvertita a Roma, di un governo più autorevole spinse tuttavia Cicerone a desiderare che il Senato e i boni, per superare le loro discordie, si affidassero alla guida di personaggi eminenti, di grande prestigio: una teoria che sarebbe stata ripresa e approfondita, poi, nel De re publica.

In quest’ottica si spiega, probabilmente, l’avvicinamento che Cicerone compì in quegli anni verso il triumvirato e che non va inteso assolutamente come un tradimento della nobilitas. L’intenzione doveva essere quella di condizionare l’operato dei triumviri per evitare che il loro potere prevaricasse quello del Senato e far sì che si mantenesse nei limiti delle istituzioni della res publica. Questo periodo, tuttavia, fu per l’Arpinate piuttosto denso di incertezze e di oscillazioni politiche: da un lato, continuò ad attaccare il facinoroso Clodio e i populares (per esempio, nella In Pisonem, una violenta invettiva contro il suocero di Cesare, ritenuto da Cicerone uno dei responsabili del suo esilio); dall’altro, diede il proprio assenso alla politica dei triumviri: nel 56, infatti, parlò in favore del rinnovo dell’imperium di Cesare in Gallia (De provinciis consularibus) e difese in tribunale vari personaggi legati al triumviro (Pro Balbo, nel 56; Pro Rabirio Postumo, nel 54; ecc.).

A ogni modo, fra le orazioni “anticlodiane” un ruolo particolare occupa quella in difesa di Marco Celio Rufo (56 a.C.), un giovane brillante, amico dell’Arpinate. Celio era stato l’amante di Clodia, sorella del tribuno Clodio (la Lesbia di Catullo!), una delle dame eleganti e corrotte di cui abbondava la Roma patrizia del tempo. Contro Celio era stata accumulata una congerie di accuse, fra cui quella di un tentativo di avvelenamento nei confronti della donna. Fu un processo in cui i rancori personali di tutte le parti in causa si intrecciarono strettamente con questioni politiche di rilevanza molto più generale. Attaccando Clodia, in cui indicò l’unica regista di tutte le manovre contro Celio, Cicerone ebbe modo di sfogare il suo astio anche nei confronti del fratello di lei: la donna è dipinta come una volgare meretrice ed è accusata perfino di rapporti incestuosi con Clodio. L’orazione, per la pittoresca varietà dei toni – che spaziano da quello disincantato dell’uomo di mondo al pathos funereo – è fra le più riuscite di Cicerone.

Non solo la felice vena satirica avvicina la Pro Caelio alla Pro Murena, ma anche il maturare della proposta di nuovi modelli etici: rievocando le tappe della vita del giovane difeso, Cicerone ha modo di tratteggiare uno spaccato della società del proprio tempo, e si sforza di giustificare agli occhi dei giudici i nuovi costumi che la gioventù aveva assunto da tempo e che avrebbero potuto destare scandalo soltanto agli occhi dei più arcigni moralisti, troppo attaccati al passato. Le virtù che un tempo avevano reso grande la res publica Romana non si trovavano più nemmeno nei libri. Era ormai tempo di allentare le briglie ai giovani, purché essi non perdessero di vista alcuni principi fondamentali; sarebbe arrivato il momento in cui, sbolliti gli ardori e divenuti adulti, avrebbero saputo tornare sulla nobile via del mos maiorum. Se il divario tra il rigore “arcaizzante” e le nuove opportunità offerte da una Roma in piena trasformazione si fosse troppo approfondito, si avrebbe corso il rischio di una dissoluzione di tutto il connettivo ideologico della società: i giovani sarebbero andati incontro a un totale rovesciamento dei valori, che avrebbe finito con il sostituire la ricerca dei piaceri al servizio verso la comunità. Il modello culturale che Cicerone proponeva, dunque, mirava a ricondurre i nuovi comportamenti all’interno di una scala valoriale che continuasse a essere dominata dalle virtù della tradizione, spogliate tuttavia del loro eccessivo rigore e rese più flessibili alle esigenze di un mondo in trasformazione.

Francesco Giudici il Francabigio e Alessandro Allori, Il ritorno di Cicerone dall’esilio. Affresco, 1520. Poggio a Caiano, Villa Medici.

 

Gli ultimi anni. | Gli scontri fra le bande di Clodio e di Milone si protrassero a lungo, finché nel 52 Clodio rimase ucciso. Cicerone assunse così la difesa di Milone, il principale indiziato dell’omicidio; l’orazione (Pro Milone) scritta per l’occasione è considerata è considerata uno dei suoi capolavori, per l’equilibrio delle parti e l’abilità delle argomentazioni, basate sulla tesi della legittima difesa e sull’esaltazione del tirannicidio. Ma il testo, nella forma in cui si è conservato, rappresenta una radicale rielaborazione compiuta in tempi successivi al processo. Di fronte ai giudici, Cicerone riportò un clamoroso insuccesso (e Milone fu costretto a fuggire in esilio): gli cedettero i nervi, a causa della situazione di estrema tensione in cui si trovava l’Urbe, razziata dai partigiani di Clodio, con le truppe di Pompeo che cercavano di riportare l’ordine con la forza.

Nel 49 a.C., allo scoppio della guerra civile, Cicerone aderì senza entusiasmo alla causa di Pompeo: era consapevole infatti che, qualunque fosse stato l’esito, il Senato sarebbe risultato indebolito di fronte al dominio schiacciante del vincitore. Dopo la vittoria di Cesare, Cicerone ne ottenne il perdono e, nella speranza di contribuire a renderne il regime meno autoritario, ricercò, in un primo momento, forme di collaborazione e accettò di perorare di fronte al dictator le cause di alcuni pompeiani “pentiti” (le cosiddette orazioni “cesariane”).

Dopo l’assassino di Cesare, che salutò con giubilo, Cicerone tornò a essere un uomo politico di primo piano, ma i pericoli per la res publica non erano certo finiti: il più stretto collaboratore del dittatore, Marco Antonio, mirava infatti ad assumerne il ruolo, mentre sulla scena politica romana si affacciava anche il giovane Gaio Ottaviano, l’erede designato da Cesare, con un intero esercito di fedelissimi ai propri ordini. La manovra politica di Cicerone tendeva a tenere divisi Ottaviano e Antonio e a riportare il primo sotto le ali protettrici del Senato.

Per indurre l’autorevole consesso a muovere guerra ad Antonio, dichiarandolo nemico pubblico, l’Arpinate pronunciò contro di lui, a partire dall’estate del 44 a.C., le orazioni Filippiche, in numero forse di diciotto (ma ne restano solo quattordici). Il titolo, che allude alle celeberrime requisitorie di Demostene di Atene contro re Filippo di Macedonia, è abbastanza controverso: alcuni scrittori antichi le hanno chiamate Antonianae, mentre il nome Philippicae venne effettivamente usato dal loro autore nella sua corrispondenza privata, in senso ironico.

Per la veemenza dell’attacco e i toni di indignata denuncia, si distingue soprattutto la seconda Filippica (l’unica che non venne effettivamente pronunciata, ma solo fatta circolare privatamente nella redazione scritta: un discorso che ispira odio, in cui Antonio, con una violenza satirica pari soltanto a quella verso certi personaggi della In Pisonem, viene presentato come un tiranno dissoluto, un ladro di fondi pubblici, un ubriacone «che vomita per il tribunale pezzi di cibo fetidi di vino».

La manovra politica dell’Arpinate era comunque destinata a fallire. Con un brusco voltafaccia, il giovane Ottaviano, sottraendosi alla tutela dell’anziano consolare e del Senato, strinse un accordo con Antonio e un altro cesariano, Marco Emilio Lepido, e formò quello che viene definito secondo triumvirato. I tre divennero così i nuovi padroni assoluti di Roma e del suo dominio e Antonio pretese e ottenne la morte di Cicerone (il suo nome fu iscritto nelle liste di proscrizione). Ai primi di dicembre del 43 a.C., dunque, dopo aver interrotto un tentativo di fuga, Cicerone fu raggiunto dai sicari del triumviro presso Formia: come monito la sua testa mozzata fu appesa ai rostra nel Foro romano.

Léon Comeleran, L’assasinio di Cicerone. Cromografia, 1881.

 

Il bilancio di una straordinaria esperienza intellettuale e politica

Nonostante le molte oscillazioni, la carriera politica di Cicerone seguì un filo coerente, che si è cercato di ripercorrere attraverso la sua attività oratoria. L’homo novus si accostò alla nobilitas nel contesto di un generale riavvicinamento fra Senato ed equites, e pure in seguito rimase fedele all’ideale della concordia e alla causa del Senato. Il tentativo di collaborazione con i triumviri del 60 fu una risposta al diffuso bisogno di un governo autorevole e, anche in questo caso, Cicerone si preoccupò di salvaguardare il prestigio e le prerogative del consesso. In questa stessa prospettiva bisogna inquadrare persino il momentaneo riavvicinamento a Cesare, dopo la guerra civile, dettato dal desiderio di mitigarne le tendenze autocratiche e di mantenerne il potere nel solco delle tradizioni avite.

Il progetto della concordia dei ceti abbienti (prima concordia ordinum, poi concordia omnium bonorum) significò, in ogni caso, un tentativo almeno embrionale di superare, in nome dell’interesse comune – o di quella che Cicerone riteneva la parte “sana” della civitas –, la lotta di gruppi e di fazioni che dominava la scena politica romana. Il fallimento del suo progetto ebbe molteplici motivi: da un lato, a Cicerone mancarono le condizioni per crearsi un seguito clientelare o militare necessario a far trionfare la sua linea politica; dall’altro, egli – e non fu il solo fra i suoi contemporanei – sottovalutò il peso che gli eserciti personali avrebbero avuto nella soluzione della crisi. E forse si fece anche fin troppe illusioni sui presunti boni: a tempo della guerra civile, infatti, i ceti possidenti ritennero, in larga parte, che le loro esigenze fossero meglio garantite dalla politica popolare di Cesare (come dimostra, del resto, il fatto stesso che, successivamente alla morte dell’Arpinate, costoro non fecero mancare il proprio consenso al regime di Ottaviano, che segnò definitivamente la trasformazione delle istituzioni repubblicane).

Ragazzo togato. Statua, marmo, I sec. d.C. Museo Archeologico di Milano.

 

La parola e chi la usa: le opere retoriche

Cicerone scrisse quasi tutte le sue opere retoriche a partire dal 55 a.C. (un paio d’anni dopo il ritorno dall’esilio), spinto dal bisogno di dare una sistemazione teorica a una serie di conoscenze ed esperienze e soprattutto una risposta culturale e politica alla profonda crisi dei suoi tempi. In quest’ottica va inquadrata la sua ampia riflessione sull’importanza e sul taglio della formazione dell’oratore, il cui potere di trascinare e convincere l’uditorio implicava un’enorme responsabilità sociale. Si trattava, comunque, di un problema dibattuto da tempo anche nel mondo greco, dove già si era aperta la discussione sulla questione della formazione necessaria all’oratore, se questi dovesse accontentarsi della conoscenza di un certo numero di regole retoriche o gli fosse invece indispensabile una larga cultura nel campo del diritto, della filosofia e della storia.

Lo stesso Cicerone, del resto, aveva iniziato in gioventù, ma senza portarlo a termine, un trattatello di retorica, il De inventione, per il quale aveva largamente attinto alla quasi contemporanea Rhetorica ad Herennium. Un interesse particolare lo presenta il proemio, in cui il giovane avvocato si pronuncia in favore di una sintesi tra eloquentia e sapientia (cultura filosofica), quest’ultima ritenuta necessaria alla formazione della coscienza morale dell’oratore: l’eloquentia priva di sapientia (cosa tipica dei demagoghi e degli agitatori delle masse) ha portato più di una volta gli imperi alla rovina. Su questa soluzione, pensata esplicitamente per la società romana, Cicerone sarebbe tornato molti anni dopo, discutendo tematiche analoghe nel De oratore.

Cicerone pronuncia la sua invettiva contro M. Antonio davanti al Senato. Illustrazione di P. Dennis.

Responsabilità e formazione dell’oratore. | Il De oratore fu composto nel 55 a.C., durante un ritiro dalla scena politica, mentre Roma era in balia delle bande di Clodio e di Milone. L’opera, che è ambientata nel 91, al tempo dell’adolescenza dell’autore, è scritta nella forma di un dialogo a cui prendono parte alcuni fra i più insigni oratori dell’epoca, fra i quali spiccano Marco Antonio (143-87 a.C.), nonno del triumviro, e Lucio Licinio Crasso (quest’ultimo, sostanzialmente, il portavoce dello stesso Cicerone autore).

Nel I libro Crasso sostiene, per l’oratore, la necessità di una vasta formazione culturale. Antonio gli contrappone l’ideale di un oratore più naïve e autodidatta, la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali, sulla pratica del foro e sulla dimestichezza con l’esempio degli oratori precedenti. Nel libro II si passa alla trattazione di questioni più analitiche. Compare anche un personaggio spiritoso e caustico, Cesare Strabone, al quale è assegnata una lunga e piacevole digressione sulle arguzie e i motti di spirito. Nel III libro Crasso discute le questioni relative alla elocutio e alla pronuntiatio, cioè in genere all’actio (quasi «recitazione») dell’oratore, non senza ribadire la necessità di una vasta cultura generale e della formazione filosofica.

Cercando di conservare la verosimiglianza della caratterizzazione dei propri personaggi, l’Arpinate si è sforzato di ricreare l’atmosfera degli ultimi giorni di pace della Repubblica. A scelta dell’anno 91 a.C. per l’ambientazione del dialogo, lungi dall’essere casuale, ha infatti un significato preciso: è l’anno stesso della morte di Crasso (pochi giorni dopo quelli in cui si immagina avvenuto il dialogo) e precede di poco la Guerra sociale e la lunga lotta civile fra Mario e Silla, nel corso dei quali rimasero crudelmente uccisi gli altri interlocutori principali, fra cui lo stesso Antonio. La crisi della res publica è un’ossessione incombente su tutti i partecipanti e stride volutamente con l’ambiente sereno e raffinato in cui essi si riuniscono per conversare: la villa tuscolana di Crasso. La consapevolezza dell’imminente e terribile fine di tutti i partecipanti al dialogo conferisce una nota tragica ai proemi che precedono i singoli libri.

Il modello formale a cui il De oratore si ispira è quello de dialogo platonico: con gesto “aristocratico”, alle strade e alle piazze di Atene viene sostituito il giardino della villa di un nobile romano. La ripresa di questo modello per un’opera retorica, comunque, costituisce un notevole scarto rispetto agli aridi manuali greci del tempo e a quelli usciti dalla scuola dei cosiddetti “retori latini”, che si limitavano a enunciare regole: Cicerone ha saputo creare un’opera viva e interessante che, per quanto basata su una perfetta conoscenza della letteratura specialistica greca, si nutre dell’esperienza romana e conserva uno strettissimo rapporto con la pratica forense (dalla vita romana e dal foro sono tratti quasi tutti gli esempi che servono a illustrare le teorie greche).

Quanto ai temi trattati, la tesi principale dell’opera consiste nell’affermare che il talento, la tecnica della parola e del gesto e la conoscenza delle regole retoriche non possono ritenersi sufficienti per la formazione dell’oratore: è indispensabile una vasta formazione culturale. È la posizione di Crasso, il quale lega strettamente la preparazione soprattutto filosofica dell’oratore (nell’ambito della quale venga privilegiata la morale) alla sua affidabilità etico-politica. La versatilità dell’oratore, la sua capacità di sostenere pro e contro su qualsiasi argomento, riuscendo a convincere e a trascinare il proprio uditorio, possono costituire un pericolo grave, qualora non siano controbilanciate dal correttivo di virtù che le mantengano ancorate al sistema di valori tradizionali, in cui la gente “perbene” si riconosce. Crasso insiste perché probitas e prudentia siano saldamente radicate nell’animo di chi dovrà apprendere l’arte della parola: consegnarla a chi mancasse di queste virtù equivarrebbe a mettere delle armi nelle mani di forsennati.

La formazione dell’oratore, dunque, viene in tal modo a coincidere con quella dell’uomo politico, un uomo di cultura non specialistica (gli uomini del ceto dirigente non dovevano esercitare alcuna professione: per queste c’erano i liberi di condizione inferiore), ma di vasta cultura generale, capace di padroneggiare l’arte del dire e di persuadere i propri ascoltatori. Egli dovrà servirsi della sua abilità non per blandire il popolo con proposte demagogiche, ma per piegarlo alla volontà dei boni: nel De oratore Cicerone ha esposto, in realtà, lo statuto ambiguo di un’ars continuamente oscillante fra la sapientia etico-politica e la nuda tecnica del dominio.

Nel 46 a.C. l’Arpinate (che, intanto, nel 54 aveva composto per suo figlio una sorta di manualetto scolastico, le Partitiones oratoriae, concepito in forma di domande e risposte) riprese le tematiche del De oratore in un trattatello più esile, l’Orator, aggiungendovi una sezione sui caratteri della prosa ritmica. Disegnando il ritratto dell’oratore ideale, Cicerone sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi: probare, delectare, flectere. A questi, a loro volta, corrispondono tre registri stilistici che l’oratore deve saper alternare: umile, medio ed elevato (o “patetico”) – quest’ultimo è particolarmente opportuno nella parte finale di ogni discorso (peroratio).

Abel de Pujol, Cicerone difende Q. Ligario davanti a Cesare o La clemenza di Cesare. Olio su tela, 1808.

Lo stile dell’oratore e le polemiche tra atticismo e asianesimo. | La rivendicazione della capacità di muovere gli affetti come compito sommo dell’oratore nasceva dalla polemica nei confronti della tendenza atticista, i cui sostenitori rimproveravano a Cicerone di non aver preso sufficientemente le distanze dall’asianesimo. Tali accuse si riferivano alle ridondanze del suo stile oratorio, al frequente ricorso alle figure retoriche, all’accentuazione dell’elemento ritmico, all’abuso di facezie. Gli avversari dell’Arpinate privilegiavano invece uno stile semplice, asciutto e scarno, di cui individuavano i modelli negli oratori attici e principalmente in Lisia. Sul contrasto Cicerone prese posizione proprio nel 46 a.C. nel dialogo Brutus, dedicato, come l’Orator, a Marco Giunio Bruto, uno dei più insigni rappresentanti delle tendenze atticiste.

Nell’opera l’autore, assumendo il ruolo di principale interlocutore – gli altri due sono lo stesso Bruto e l’amico Attico –, tratteggia una storia dell’eloquenza greca e romana, dimostrando doti di storico della cultura e di fine critico letterario. Dato il carattere fondamentalmente autoapologetico del testo, si comprende come la storia della retorica culmini in una rievocazione delle tappe della carriera oratoria dello stesso Cicerone (dal ripudio dell’asianesimo giovanile al raggiungimento della piena maturità dopo la quaestura in Sicilia).

L’ottica in cui l’Arpinate guarda al passato è quella di una rottura degli schemi tradizionali che contrapponevano i generi di stile cui asiani e atticisti erano tenacemente attaccati. E questa rottura rispecchia una tendenza di fondo della pratica oratoria dell’autore: le varie esigenze, le diverse situazioni richiedevano l’uso di alternare registri differenti; il successo dell’oratore davanti all’uditorio è il criterio fondamentale in base al quale valutare la sua riuscita stilistica. Gli atticisti sono criticati per il carattere troppo freddo e intellettualistico dei loro discorsi, che di rado riescono efficaci: essi ignorano l’arte di trascinare l’ascoltatore. La grande oratoria “senza schemi” ha il suo modello principe in Demostene: anche lui un “attico”, ma di tendenze ben diverse da quelle di Lisia o di Iperide.

Magistrato intento al census (dettaglio). Bassorilievo, marmo, II sec. a.C., dall’Ara di Domizio Enobarbo (Campo Marzio, Roma). Paris, Musée du Louvre.

 

Per un’organizzazione della res publica: le opere politiche

Il turbolento periodo di aspre lotte che visse la Repubblica romana nei suoi ultimi decenni di vita trovò in Cicerone un protagonista di primo piano, impegnato nella difesa e nel puntellamento delle fondamenta dello Stato. Nell’ambito di questo sforzo, teso, se non a fermare, quantomeno a governare le profonde trasformazioni che premevano sulla società del tempo, si colloca la riflessione teorica che l’Arpinate riversò nelle sue opere di carattere più strettamente politico, il De re publica e il De legibus.

 

La forma di Stato migliore. | Nel De re publica Cicerone riprende sia nella forma sia nei temi l’omonimo dialogo di Platone, certamente fra le opere più significative e complesse del filosofo ateniese: scritto secondo una struttura dialogica, il trattato si compone di dieci libri in cui si esamina a fondo il tema politico della forma e del funzionamento dello Stato ideale, anche se gli argomenti discussi sono molteplici e di varia natura. Il dialogo è ambientato nella casa del padre di Lisia, dove vari interlocutori discutono con Socrate sulle diverse questioni. Cicerone, dal canto suo, lavorò lungamente al proprio De re publica, fra il 54 e il 51 a.C. In quest’opera egli riflette sulla forma di Stato più adatta e, a differenza di quanto aveva fatto il suo modello (che aveva cercato di costruire a tavolino uno Stato ideale), si proietta nel passato, per identificare la migliore costituzione con quella del tempo degli Scipiones.

La struttura del dialogo, che si immagina svolto nel 129 a.C. nella villa suburbana di Scipione Emiliano, è purtroppo di incerta e ipotetica ricostruzione, soprattutto in alcune sezioni, a causa delle condizioni estremamente frammentarie in cui l’opera è stata conservata: una parte cospicua fu ritrovata, agli inizi del XIX secolo, dal futuro cardinale Angelo Mai in un palinsesto vaticano; alcuni brani di altre sezioni sono stati trasmessi attraverso le citazioni di autori tardo-antichi come Agostino, mentre la sezione finale dell’opera, il cosiddetto Somnium Scipionis, è giunta indipendentemente dal resto.

La teoria del regime “misto” esposta da Scipione nel I libro risaliva, attraverso Polibio, al peripatetico Dicearco e allo stesso Aristotele. Nella versione di Scipione, il contemperamento delle tre forme fondamentali non avviene tuttavia in proporzioni paritetiche. All’elemento democratico il Romano guarda con evidente antipatia, considerandolo soprattutto come una “valvola di sicurezza” per far scaricare e sfogare le passioni irrazionali del popolo. L’elogio del regime misto si risolve, pertanto, in un’esaltazione della res publica aristocratica di età scipionica.

Date le condizioni lacunose in cui è giunta la parte relativa dell’opera, è difficile precisare in che modo fosse delineata la figura del princeps e come essa si collocasse nell’organismo statale. Alcuni punti, tuttavia, possono ritenersi assodati: il singolare si riferisce al “tipo” dell’uomo politico eminente, non alla sua unicità; in altre parole, Cicerone sembra pensare a una élite di personaggi eminenti che si ponga alla guida del Senato e dei boni, e si raffigura probabilmente il ruolo del princeps sul modello di quella che quasi un secolo prima aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano. Ciò significa che l’Arpinate non prefigura esiti “augustei” – anche se interpretazioni in questo senso non sono mancate –, ma intende mantenere il ruolo del princeps all’interno dei limiti della costituzione repubblicana: non pensa a una riforma istituzionale, ma alla coagulazione del consenso collettivo intorno a leader prestigiosi. L’autorità del princeps non è alternativa a quella del Senato, ma ne è il sostegno necessario per salvare la res publica.

Perché la sua autorità non travalichi i limiti istituzionali, dunque, il princeps dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni “egoistiche” e principalmente contro il desiderio di potere e di ricchezza: è questo il senso di disprezzo verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai governanti (sulla questione Cicerone sarebbe poi ritornato nel De officiis, trattando della magnitudo animi). L’Arpinate, dunque, disegna così l’immagine di un governante-asceta, rappresentante in terra della divinità, rinsaldato nella dedizione al servizio verso lo Stato dalla propria despicentia («disprezzo») verso le passioni umane. L’ideale ciceroniano tuttavia era inevitabilmente di difficile realizzazione: come si è già avuto modo di ricordare, probabilmente proprio la convinzione dell’urgenza di un governo più autorevole e, d’altra parte, la consapevolezza dei pericoli che avrebbe comportato l’accentramento della potestas nelle mani di pochi capi spinsero Cicerone a tentare un avvicinamento a Pompeo Magno e ai triumviri, nella speranza di convogliarne l’operato sotto il controllo del Senato. Ma gli eventi, che innalzavano i vari “signori della guerra”, avrebbero rapidamente portato alla dissoluzione dell’assetto repubblicano.

Scena di attività pubblica, con sacrificio e census. Bassorilievo, marmo, II sec. a.C., dall’Ara di Domizio Enobarbo (Campo Marzio, Roma). Paris, Musée du Louvre

 

Le leggi dello Stato. | Ispirandosi ancora all’esempio platonico, Cicerone completò il discorso iniziato nel De re publica con il De legibus, un’opera sempre in forma dialogica (iniziata nel 52 e probabilmente pubblicata postuma) in cui si discute dei fondamenti del diritto e delle leggi, con riferimento alla tradizione giuridica quiritaria. Proprio in questo, ovvero nel basare la discussione sulla considerazione di un concreto corpus legislativo, risiede la differenza principale rispetto a Platone, che si era invece occupato di una legislazione utopistica, concentrando la propria riflessione sul problema dell’educazione dei cittadini e sull’organizzazione delle istituzioni.

Dell’opera ciceroniana si sono conservati i primi tre libri interi e alcuni frammenti del IV e del V. Mentre nel De re publica il dialogo si svolgeva in un’epoca passata, nel De legibus l’azione è collocata nel presente e interlocutori sono lo stesso Cicerone, suo fratello Quinto e l’amico Attico. L’incontro è ambientato nella villa di Arpinum, nei boschi e nelle campagne del circondario, raffigurati secondo una modulazione del motivo topico del locus amoenus (il modello qui è il Fedro di Platone). I personaggi sono caratterizzati con naturalezza e realismo: così Quinto è rappresentato come un optimas estremista, Cicerone come un conservatore moderato e Attico come un epicureo che quasi si vergogna delle proprie scelte filosofiche.

Nel I libro Cicerone espone la tesi stoica secondo la quale la legge non è sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini e, perciò, è data dalla divinità. Nel libro successivo l’esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore dei regimi si fonda – qui sta la differenza principale da Platone – non su una legislazione utopistica, ma sul mos maiorum, che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale. Nel III libro Cicerone presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze.

M. Giunio Bruto. Denario, Ar. 54 a.C. Roma. Verso: Brutus. Un magistrato scortato da due littori e preceduto da un accensus.

 

Dolori privati e difficoltà politiche: le opere filosofiche

Cicerone, che in gioventù aveva seguito le lezioni di vari maestri, coltivò l’interesse per la filosofia per tutta la vita, ma a scriverne cominciò assai tardi – probabilmente soltanto verso il 46 a.C. –, con l’operetta Paradoxa Stoicorum, dedicata a Marco Bruto (un’esposizione delle tesi stoiche maggiormente in contrasto con l’opinione comune). Dall’anno successivo i lavori filosofici dell’autore si fecero notevolmente più fitti e ciò in coincidenza con eventi molto dolorosi, che lo colpirono sia nella sfera privata sia in quella pubblica: nel febbraio del 45, infatti, gli venne a mancare la figlia Tullia (fatto che lo spinse a scrivere una perduta Consolatio per attenuare l’acutissimo dolore), mentre la dictatura di Cesare lo aveva ormai privato di qualsiasi possibilità di intervento negli affari pubblici. Furono queste difficili circostanze a spingere Cicerone verso una vita appartata e dedita alla composizione di opere maggiormente meditative e filosofiche.

All’avvio di questa nuova fase della sua vita risale significativamente l’Hortensius, un testo quasi interamente perduto (che, però, ebbe grande influenza in età imperiale e colpì molto Agostino), che esortava il lettore allo studio della filosofia sul modello del Protrettico di Aristotele. L’Arpinate, tuttavia, non concepì le proprie opere filosofiche come semplice momento di riflessione personale, ma certamente si prefisse anche lo scopo di presentare e offrire ai contemporanei una summa della tradizione filosofica greca, discussa e selezionata in rapporto alla concreta realtà romana.

Per quanto riguarda i temi e le finalità di tale impegno intellettuale, in queste opere Cicerone ripensa a tutto il corpus di metodi e di teorie sviluppato dalle scuole filosofiche ellenistiche e affronta vari aspetti della tradizione speculativa: la morale, la religione, la gnoseologia. Ogni volta l’approccio ciceroniano è di tipo soprattutto moralistico e non dimentica i doveri del cittadino nei confronti della collettività. L’autore intende infatti offrire un punto di riferimento etico-culturale alla classe dirigente romana, nella prospettiva di ristabilirne l’egemonia sulla società; non guarda pertanto solo ai problemi immediati, ma affronta questioni che coinvolgono i fondamenti stessi della crisi sociale, politica e morale, nel tentativo di escogitare soluzioni di lungo periodo. In questa prospettiva va collocata una caratteristica che accomuna e distingue le opere filosofiche ciceroniane: l’interesse a cercare sempre, anche nei più raffinati problemi teoretici, la conseguenza pratica, la ricaduta in termini di azione e di partecipazione politica.

In rapporto alle finalità appena indicate le opere filosofiche di Cicerone, benché – per sua stessa ammissione (Ad Att. XII 52, 3) – abbiano in gran parte carattere compilativo rispetto alle fonti greche, risultano tuttavia originali nella scelta dei temi e nel taglio degli argomenti: poiché nuovi e differenti sono i problemi che la società presentava, nuovi erano gli interrogativi che l’autore si poneva. L’obiettivo, in generale, appare quello di “ricucire”, per così dire, le membra lacerate del pensiero ellenistico, per trarne una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana.

Come già nelle opere retoriche e politiche, inoltre, anche nei trattati filosofici Cicerone adotta perlopiù la forma dialogica ispirata all’esempio platonico, anche se la maniera di esporre richiami in alcuni casi piuttosto lo stile di Aristotele, che, senza rinunciare del tutto al metodo dialettico, propone una lunga dissertazione e un personaggio che ne trae le conclusioni.

M. Tullio Cicerone. Busto, marmo. Madrid, Museo del Prado

L’eclettismo come metodo argomentativo-espositivo. | Prima di addentrarsi nello studio delle opere filosofiche ciceroniane, sembra opportuno mettere a fuoco la logica espositivo-argomentativa che le sorregge e le struttura. Quello del metodo seguito per trattare i problemi di maggiore rilievo rappresenta un tema fondamentale su cui lo stesso Cicerone si sofferma esplicitamente in un celebre passo delle Tuscolanae disputationes (5, 83): astenendosi dal formulare egli stesso un’opinione precisa, si sforza di esporre le diverse argomentazioni possibili e di metterle a confronto per verificare se alcune siano più coerenti e più probabili di altre. L’eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce dunque alle esigenze di un metodo rigoroso, che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo costruttivo.

La stessa ideologia dell’humanitas, alla cui elaborazione l’autore diede un contributo notevolissimo, invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza. Ciò si riflette anche nella regia dei dialoghi filosofici ciceroniani, che, del resto, rispecchia i comportamenti della buona società romana: lo spuntarsi della vis polemica, la rinuncia a qualsiasi asprezza nel contraddittorio, la tendenza a presentare le proprie tesi solo come opinioni personali, l’uso insistito di formule di cortesia, l’attenzione a non interrompere il ragionamento altrui. Sono tutti tratti rivelatori dei costumi di una cerchia sociale elitaria, preoccupata di elaborare un proprio codice di “buone maniere”.

C’è, però, un caso in cui il contraddittorio e la confutazione, pur senza scadere nella zuffa, si fanno talora più violenti e indignati: l’eclettismo ciceroniano mostra una chiusura radicale verso l’Epicureismo. I motivi di tale avversione sono soprattutto due, fra loro strettamente connessi: in primo luogo, la filosofia del Giardino porta l’individuo al disinteresse per la politica, mentre dovere dei boni è l’attiva partecipazione alla vita pubblica; in secondo luogo, l’Epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità (per quanto non ne neghi l’esistenza), indebolendo così i legami con la religione tradizionale, che per Cicerone resta la base imprescindibile dell’etica.

 

La ricerca morale. | Quanto allo studio e alla ricerca in ambito etico, l’Arpinate orientò sempre la propria riflessione e il proprio impegno su un doppio livello: da un lato, cercò di raccogliere e organizzare la vasta tradizione filosofica ellenica perché fosse più fruibile al pubblico romano e, dall’altro, puntò alla costruzione di un sistema valoriale adeguato alla società del proprio tempo, sul quale la classe dirigente (intesa, in senso più ampio, come consensus omnium bonorum) potesse operare di volta in volta le sue scelte concrete in rapporto alla realtà del momento. È questa la prospettiva da tenere costantemente presente per inquadrare le opere morali di Cicerone.

Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.

Teoria e pratica della morale. | Il centro della speculazione morale ciceroniana è costituito dalla volontà di determinare il sommo bene e dunque il fondamento della felicità; di conseguenza, stabilire le norme di comportamento adeguate al civis Romanus. Questa complessa riflessione, con cui Cicerone rielabora in parte il pensiero stoico, accademico e peripatetico, dispiega i suoi ragionamenti innanzitutto in due opere fondamentali e tra loro complementari: il De finibus bonorum et malorum e le Tuscolanae disputationes (entrambe del 45 a.C.).

Il De finibus, dedicato a Bruto, è considerato da alcuni studiosi il capolavoro di Cicerone filosofo e certo è tra le sue opere più eleganti e armonicamente costruite. Il testo, diviso in cinque libri comprendenti tre dialoghi, tratta del problema del sommo bene e del sommo male, vagliando le posizioni di epicurei, stoici e accademico-peripatetici. Nel primo (libri I-II) è esposta la teoria degli epicurei, cui segue la confutazione dell’autore; nel secondo (libri III-IV) si mette a confronto la teoria stoica con quelle accademiche e peripatetiche; nel terzo (libro V) è discussa la teoria eclettica di Antioco di Ascalona, maestro di Cicerone e di Varrone, la più vicina al pensiero dell’autore.

Il confronto fra i diversi sistemi di pensiero, che si esplica attraverso l’intero corpus dei dialoghi ciceroniani, trova nel De finibus uno sviluppo particolarmente esteso. Dopo che sono state confutate in modo netto e senza appello le tesi epicuree, Catone il Giovane si assume nel III libro la difesa dello Stoicismo tradizionale, nei confronti del quale la posizione dell’autore, però, fu sempre di sostanziale perplessità (si pensi alla Pro Murena): Cicerone, dal canto suo, riconosceva che lo Stoicismo forniva la base morale più solida all’impegno dei cittadini verso la civitas, ma da un pensatore intransigente come Catone, o da un accademico dalla rigida morale come Bruto, si sentiva lontano per cultura e per gusti; il rigore etico di costoro gli appariva anacronistico, scarsamente praticabile in una società che, dopo l’epoca delle grandi conquiste, era andata incontro a radicali trasformazioni.

Nel nuovo clima socio-culturale della Roma del tempo, l’eclettismo ciceroniano punta, sulla base teorica del probabilismo accademico, alla conciliazione tra il rigore e la solidità delle posizioni stoiche e l’apertura a un piacere moderato di quelle peripatetiche. In quest’ottica, il sommo bene viene identificato, pur tra qualche incertezza e contraddizione, con il bene dell’anima che coincide con la virtù: è solo la virtù a poter garantire la felicità all’uomo.

L’organico quadro teorico costruito nel De finibus cerca quindi un’applicazione pratica nelle Tuscolanae: qui la virtù dovrà provare la sua capacità di sostenere e orientare l’anima nel concreto rapporto con i turbamenti alimentati dalla realtà esterna. L’opera, dedicata anch’essa a Bruto, è divisa in cinque libri e ha forma di dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore (con la finzione di porre le varie questioni morali discusse dall’autore), la cui evanescente figura lascia prendere al testo piuttosto la forma di una lezione espositiva sulla traccia del dialogo aristotelico. La discussione è ambientata nella villa di Cicerone a Tusculum, donde il titolo dell’opera.

Nei singoli libri sono trattati, rispettivamente, i temi della morte, del dolore, della tristezza, dei turbamenti dell’animo e della virtù come garanzia della felicità: si è dunque di fronte a una grande summa dell’etica antica, a un vasto trattato sul tema della felicità, e in questo senso i vari libri costituiscono una trattazione organica che nel complesso si presenta come una terapia per liberare l’animo dalle sue afflizioni. Nell’opera, del resto, è possibile intravedere il tentativo di Cicerone di dare una risposta anche ai suoi personali interrogativi e una soluzione ai propri dubbi. Da ciò deriva la profonda partecipazione emotiva dell’autore agli argomenti trattati, che conferisce allo stile del discorso un’accorata solennità e fa raggiungere ad alcune pagine un’intensità lirica che trova pochi riscontri nella prosa latina. In questo quadro si colloca l’ispirazione essenzialmente storica con cui l’autore affronta i suoi argomenti e che, nonostante la sua abituale tendenza a posizione eclettiche, segna in quest’opera il punto di massimo avvicinamento allo Stoicismo più rigoroso.

Le Tuscolanae hanno comunque anche un intento divulgativo che non va sottaciuto: nelle introduzioni ai singoli libri Cicerone indica infatti la necessità che i Romani acquisiscano un’ampia e adeguata cultura filosofica e la impieghino anche per orientarsi nella vita pratica. Non rinuncia inoltre ad accennare alla storia dell’introduzione della filosofia a Roma e allo sviluppo del pensiero fino a Socrate.

Napoli, Biblioteca Nazionale. Ms. IV. G. 31bis (1450-60 c.). Pagina miniata dalle Tuscolanae disputationes.

Una morale per la classe dirigente. | La stesura del De officiis, iniziata probabilmente nell’autunno del 44 a.C., venne conclusa molto rapidamente: mentre stava combattendo Antonio, colui che ai suoi occhi stava portando la patria alla rovina definitiva, Cicerone cercò nella filosofia i fondamenti di un progetto di più vasto respiro, indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che permettesse all’aristocrazia romana di riacquisire il pieno controllo della società. Ora Cicerone voleva impegnarsi in una riflessione conclusiva sulla possibilità di individuare riferimenti etici sicuri in una società travolta dal turbolento tramonto delle istituzioni tradizionali: il De officiis rappresenta quindi una sorta di testamento spirituale dell’autore. Non a caso l’opera, nonostante le pecche stilistiche ed espositive (verosimilmente legate alle difficili condizioni in cui fu composta), fu tra i testi ciceroniani che maggiore influenza ebbero nelle epoche successive.

Il testo, dedicato al figlio Marco, allora studente ad Atene, è un trattato di etica – considerata nei suoi risvolti pratici in rapporto all’azione politico-sociale – e comprende, dunque, anche una dettagliata precettistica sui comportamenti da tenere nelle più diverse circostanze. Il titolo usa un termine, officium (propriamente l’azione adeguata in rapporto a un ruolo preciso), che traduce la parola greca usata dagli stoici per definire l’azione perfetta e razionale, il καθῆκον («ciò che si conviene»): in questo senso, esso fa riferimento alla discussione sui doveri legati all’esercizio della virtù e quindi alle azioni opportune da compiere.

Il De officiis si compone di tre libri: nel primo si discute dell’honestum (termine che indica ciò che è moralmente giusto), nel secondo dell’utile e nel terzo del conflitto fra honestum e utile. Per i primi due libri la fonte è il trattato Sul conveniente del filosofo stoico Panezio di Rodi, mentre il terzo, probabilmente frutto di una personale rielaborazione di altre fonti (forse Posidonio di Apamea), nasce dalla necessità, sentita da Cicerone e ignorata da Panezio, di discutere i criteri per decidere in concreto sulle questioni etico-politiche più difficili e dubbie.

Panezio aveva impresso alla dottrina stoica una svolta in senso marcatamente aristocratico, cercando soprattutto di addolcirne l’originario rigorismo morale, affinché fosse praticabile da una classe dirigente ricca, colta e raffinata. Il suo Stoicismo moderato, dunque, offriva così, sotto molteplici aspetti, una base particolarmente adatta al discorso di Cicerone: da un lato, il pensiero paneziano era radicale nel rifiuto dell’edonismo epicureo (e della conseguente etica del disimpegno) e riusciva a rimanere rispettosa della tradizione e dell’ordine politico-sociale senza fanatismi; dall’altro, forniva anche la minuziosa casistica necessaria a regolare i comportamenti quotidiani dei membri dei gruppi dirigenti, permettendo così al discorso ciceroniano di spostarsi facilmente dalla riflessione teoretica all’enunciazione di precetti validi per la vita di tutti i giorni. All’interno di questo specifico contesto speculativo, Cicerone considerava che le virtù fossero «parti dell’honestum», mentre i modi di conseguire potere e consenso da parte della classe dirigente attenessero all’utile. Il fine del ragionamento ciceroniano consiste appunto nel dimostrare come tra honestum e utile non ci sia contraddizione, bensì identità: il secondo è infatti ritenuto conseguenza diretta del primo.

 

Città del Vaticano, BAV. Ms. Pal. lat. 1534 (XV sec.), Ciceronis de officiis, f. 1r.

 

Un’etica dell’agire socio-politico. | Rispetto alla Stoà antica, la dottrina di Panezio si distingueva per un giudizio assai più positivo sugli istinti, che dalla ragione non devono essere repressi, ma piuttosto corretti e disciplinati in modo che essi si sviluppino progressivamente in virtù vere e proprie. Sulla base di questo quadro teorico di riferimento, all’inizio del De officiis (I 15) l’autore afferma che l’honestum scaturisce da quattro possibili fonti, ovvero si compone di quattro parti fra loro collegate che consistono nella ricerca della verità, nella protezione della società, nel desiderio di primeggiare, nell’aspirazione all’armonia (secondo una classificazione che corrisponde in pratica alle tradizionali virtù cardinali stoiche di sapienza, giustizia, fortezza e temperanza). Si tratta di tendenze naturali insite nell’uomo, che, se ben indirizzate dalla ragione, daranno origine a specifici comportamenti virtuosi, in quanto ciascuna delle quattro parti dell’honestum è fonte di specifiche categorie di doveri.

Gli uomini sentono per natura una spinta alla ricerca del vero, che è la fonte da cui si origina la sapientia. Si tratta tuttavia di una tendenza da gestire con accortezza affinché sia orientata sempre all’azione concreta: lo studio e la ricerca fini a se stessi allontanano infatti dalla vita pratica, mentre il merito della virtù consiste proprio nell’azione.

Il desiderio di proteggere la società trova la sua corretta realizzazione in due principi complementari: la iustitia e la beneficentia. La prima, cui spetta di «dare a ciascuno il suo», opera tutelando la proprietà privata, ovvero il fondamento stesso degli Stati e delle comunità cittadine, sorti perché ogni individuo possa meritarsi e mantenere il suo (II 73). Questo tema era di scottante attualità: dalle riforme dei Gracchi alle confische di Silla e di Cesare fino allo stesso anno 44 a.C. in cui Cicerone metteva nero su bianco queste parole (quell’anno Antonio aveva presentato una legge per distribuire l’ager publicus tra i veterani e i cittadini fedeli alla causa cesariana), la questione della proprietà si riproponeva ormai con frequenza inquietante per i ceti possidenti, mentre programmi di riforma agraria o di abolizione dei debiti suscitavano inevitabilmente il plauso delle classi popolari su cui faceva leva chiunque aspirasse al potere. Pertanto, il venir meno della iustitia e, dunque, l’affermarsi dell’iniustitia, indeboliva le basi stesse della società. A questo proposito Cicerone distingueva due forme di iniustitia, una attiva e l’altra passiva: se la prima consiste in un’aggressione intenzionale al diritto mossa da avaritia («avidità»), la seconda è legata al disinteresse e al disimpegno verso la comunità.

In questo contesto socio-politico la beneficentia, ovvero la capacità di donare il proprio collaborando positivamente al benessere collettivo, poteva costituire un valore rimanendo entro limiti precisi, altrimenti comportava indubbiamente gravi rischi. Troppe volte, infatti, si era visto come la corruzione delle masse mediante largitio («elargizione», «donazione»), o in generale attraverso proposte demagogiche, potesse essere un mezzo pericolosissimo nelle mani di individui senza scrupoli, decisi a fare della res publica un proprio possesso privato. Perciò, Cicerone sottolinea con forza che la beneficentia non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali.

L’istinto naturale a primeggiare sugli altri si manifesta nella capacità di imporre il proprio dominio: da questa tendenza, comunque, può derivare la virtù della magnitudo animi («grandezza di spirito», «magnanimità»), che, secondo il pensiero paneziano, sostituiva la virtù cardinale della fortezza. Il controllo della ragione, svuotando la volontà di predominio di quanto in essa c’è di egoistico e tendenzialmente prevaricatorio (si pensi a quanto spiegato nel Somnium Scipionis), trasforma questo istinto in una virtù capace di mettersi al servizio degli altri per contribuire attivamente a rendere la patria ancora più grande e gloriosa. Viceversa, se la trasformazione non avviene, è aperta la strada all’anarchia o alla tirannide. In ciò è evidente la volontà di Cicerone di sottoporre a forti vincoli una virtù che, se non adeguatamente imbrigliata, può divenire la passione specifica della tirannide e ritorcersi contro la res publica (e, di conseguenza, l’egemonia senatoria): mentre Cicerone scriveva, l’esempio di Cesare era ancora sotto gli occhi di tutti.

Nel sistema etico del De officiis il regolatore generale degli istinti e delle virtù, ciò che permette loro di integrarsi in un tutto armonico, è costituito dalla virtù della temperanza, che deriva da una naturale aspirazione all’ordine: all’esterno, agli occhi degli altri, essa si manifesta in un’apparenza di appropriata armonia di pensieri, di gesti, di parole, che assume il nome di decorum. Si tratta di una meta raggiungibile solo da chi abbia saputo sottomettere i propri istinti al saldo controllo della ragione. L’autocontrollo che l’autore caldeggia persegue del resto un fine ben determinato: l’approvazione degli altri, che il decorum permette di conciliarsi con l’ordine, la coerenza, la giusta misura nelle parole e nelle azioni. La costante attenzione a ciò che gli altri possano pensare, la preoccupazione di non urtarne la suscettibilità sono un portato necessario della fitta rete di obblighi sociali in cui a Roma si trovano inseriti i membri degli ordines superiori.

Una delle novità più interessanti del modello etico proposto è il fatto che il concetto di decorum permetta la possibilità di una pluralità di atteggiamenti e di scelte di vita. L’appropriatezza delle azioni e dei comportamenti che si pretende dall’individuo ha infatti le sue radici nelle qualità personali, nelle disposizioni intellettuali e morali di ognuno: di qui la legittimazione di scelte di vita anche diverse da quella tradizionale del perseguimento delle cariche pubbliche, purché chi le intraprenda non dimentichi i propri doveri verso la civitas. Questo pluralismo di modelli di vita ammesso dall’ultimo Cicerone rispecchia, evidentemente, le diverse vocazioni e attività di quei boni di tutta l’Italia di cui egli aveva incominciato a parlare fin dalla Pro Sestio. La filosofia prende dunque atto dei mutamenti intervenuti nel frattempo e s’incarica di ritessere la trama dei valori, di modificare e rendere più duttile il modello etico tradizionale per integrarvi le nuove figure emergenti.

Come si accennava, Cicerone accompagna questa riflessione teorica a una minuta precettistica relativa ai comportamenti da tenere nella vita quotidiana e nell’abituale commercio con gli altri: il De officiis comprende così osservazioni dettagliate sui gesti e la postura del corpo, sulla toilette e l’abbigliamento, la conversazione e persino la casa dell’aristocratico romano. In questo modo l’Arpinate dava inizio a una traduzione di “galateo” destinata ad avere grande fortuna nella cultura occidentale.

Paul Barbotti, Orazione di Cicerone davanti alla tomba di Archimede. Olio su tela, 1853.

Fra malinconia e speranza. | Un posto a parte fra le opere filosofiche di Cicerone occupano due brevi dialoghi dedicati ad Attico: il Cato maior sive de senectute e il Laelius sive de amicitia. Entrambi composti nel 44 a.C. e incentrati su celebri personaggi del passato, i due testi, che trattano rispettivamente della vecchiaia e dell’amicizia, esprimono due diversi stati d’animo dell’autore: il primo, dall’atmosfera più dimessa e pensosa, è infatti scritto poco prima dell’assassino di Cesare, mentre il secondo, dal tono più energico, subito dopo.

Al Cato maior Cicerone lavorò all’inizio del 44: nel personaggio di Marco Porcio Catone “il Censore” (portavoce dell’autore) l’Arpinate trasfigura l’amarezza per una senilità che, oltre al decadimento fisico e all’imminenza della morte, comporta soprattutto la perdita della possibilità di intervento politico. In questo testo, che è ambientato nel 150 (l’anno della scomparsa di Catone), l’autore, proiettandosi nella figura di un anziano che conserva autorità e prestigio, si rifugia nel passato per vestire i panni dell’antico Censore ed eludere così, idealmente, la propria condizione di forzata inattività pubblica.

La rappresentazione ciceroniana di Catone risulta differente rispetto alla sua immagine storicamente accettabile: il personaggio appare infatti come addolcito e ammansito. Il rude agricoltore della Sabina, caparbiamente attaccato ai propri profitti, ha ceduto il posto a un raffinato cultore dell’humanitas e della buona compagnia che, con una punta di estetismo, arriva perfino ad anteporre il bello all’utile. Nella vecchiaia catoniana tratteggiata nel dialogo si armonizzano così in maniera perfetta il gusto per l’otium e la tenacia dell’impegno politico, due opposte esigenze che l’autore ha cercato invano di conciliare per tutta la vita.

Diversa l’atmosfera che si respira nel Laelius, in cui Cicerone appare più combattivo: l’opera, verosimilmente composta all’indomani del cesaricidio, accompagna infatti il rientro dell’Arpinate sulla scena politica. Il dialogo è ambientato nel 129 a.C. (lo stesso anno del De re publica), pochi giorni dopo la misteriosa scomparsa di Scipione Emiliano nel corso delle agitazioni graccane. Rievocando la figura dell’amico defunto, Gaio Lelio, colto e raffinato uomo politico del II secolo, legato a Scipione dall’assidua frequentazione e dalla solidarietà politica, ha modo di intrattenere i propri interlocutori sulla natura e sul valore dell’amicitia stessa. Per i Romani essa era soprattutto la creazione di legami personali a scopo di sostegno politico. nascendo dal tentativo di superare la tradizionale logica clientelare e di fazione propria del regime aristocratico, il dialogo muove, tuttavia, sulla traccia delle scuole filosofiche elleniche, alla ricerca dei fondamenti etici della società nel rapporto che lega fra loro le volontà degli amici.

La novità dell’impostazione ciceroniana consiste soprattutto nello sforzo di allargare la base sociale di questo genere di rapporti al di là della ristretta cerchia della nobilitas: a fondamento dell’amicitia, infatti, sono posti valori come quelli rappresentati dalla virtus e dalla probitas, riconosciuti a vasti strati della popolazione. Cicerone scrive per quella “gente perbene” alla cui centralità politico-sociale ha affidato da tempo le sorti del proprio programma di rigenerazione della res publica. La fiducia in un rinnovato sistema di valori, in cui proprio l’amicizia occupi un ruolo centrale, deve dunque servire a cementare la coesione dei boni. Quella auspicata nel Laelius non è soltanto un’amicizia politica: si avverte, in tutta l’opera, un disperato bisogno di rapporti sinceri, quali Cicerone, preso nel vortice delle convenienze imposte dalla vita pubblica, poté forse provare solo con Attico.

Ritratto virile di patrizio romano. Testa, marmo, metà I sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

 

Res publica e religio. | Di argomenti religiosi trattano tre opere – anche queste scritte in forma dialogica – che formano una sorta di trilogia (è, del resto, l’autore stesso a presentare le ultime due come prosecuzione e complemento della prima): il De natura deorum, in tre libri, dedicato a Bruto; il De divinatione, in due libri; il De fato, giunto incompleto. Questo gruppo di testi mostra nel suo complesso una riflessione di ampio respiro su temi di carattere religioso, spirituale e teologico, che, occupando l’autore nel difficile periodo fra il 45 e il 44 a.C., implicano anche inevitabili risvolti etico-politici. La prospettiva da cui sono affrontati i vari argomenti è del resto chiara: sebbene non manchino intenti di carattere divulgativo, i problemi religiosi interessano Cicerone soprattutto per i loro risvolti sulla concreta vita civile. Egli infatti considera la religione una componente fondamentale dell’assetto istituzionale della res publica.

Il De natura deorum è un dialogo che si immagina svolto (probabilmente nel 77/6 a.C.) tra Gaio Velleio, Lucio Balbo e Aurelio Cotta (nella cui casa è ambientata la discussione, alla presenza di un giovanissimo Cicerone). Vengono esaminate varie posizioni filosofiche relative alla natura degli dèi, che sono così presentate per questa via al pubblico romano: nel I libro Velleio espone la tesi epicurea (poi confutata da Cotta) dell’indifferenza delle divinità rispetto ai casi umani; nel II libro Balbo prende in esame la tesi stoica del panteismo provvidenziale; nel III libro Cotta critica la posizione di Balbo e sembra schierarsi in favore dello scetticismo accademico. Cicerone, alla fine dell’opera, manifesta molto laconicamente una preferenza per la tesi stoica di Balbo, che dice di ritenere più verosimile (su quale sia nell’opera l’effettiva posizione dell’autore, anche a causa della lacunosità del III libro, resta un problema critico ancora parzialmente aperto).

Più interessante, anche perché più direttamente legato alla situazione romana, è il De divinatione, un dialogo in due libri immaginato fra l’autore stesso e suo fratello Quinto, a proposto all’arte divinatoria. Nell’opera, che rappresenta una fonte importante per la conoscenza di molte pratiche cultuali del mondo antico, Cicerone si mostra esitante fra la denuncia della falsità della religio tradizionale e la necessità del suo mantenimento al fine di conservare il dominio sui ceti sociali subalterni, facilmente strumentalizzabili per via della loro credulità (per esempio, la dichiarazione di auspicia sfavorevoli poteva servire a interrompere o a rimandare assemblee di carattere politico). L’opera fu verosimilmente iniziata prima della morte del dictator, ma completata in seguito: il proemio del II libro, infatti, testimonia l’entusiasmo dell’autore per la ritrovata libertà e la possibilità di un suo rientro attivo sulla scena pubblica, nonché la fiducia per un rinnovamento etico-politico della classe dirigente.

Il De fato discute la dottrina stoica, secondo cui il fato è il destino inevitabile, prestabilito da quel λόγος divino che ordina e sorregge il mondo. Il discorso coinvolge la questione della libertà dell’uomo e della sua responsabilità rispetto alle azioni che compie; Cicerone cerca di confutare le tesi stoiche e di dimostrare la possibilità per gli individui di fare scelte libere e consapevoli: in questi temi si avverte il clima politico all’indomani dell’uccisione di Cesare e la conseguente volontà dell’autore di stimolare una presa di coscienza nel lettore circa le possibilità di intervenire attivamente e positivamente nella gestione della res publica.

Scena di sacrificio. Bassorilievo da altare, I sec. d.C. Stockholm, Antikengalerie Opferszene.

 

Una lingua per la filosofia: Cicerone forgiatore di lessico e stile. | Accingendosi a comporre il proprio poema ispirato alla filosofia epicurea, anche Lucrezio aveva lamentato l’inadeguatezza della lingua latina a “rendere” la terminologia filosofica dei Greci. Dal canto suo, pure Cicerone si trovò di fronte a problemi molto analoghi per la stesura dei propri testi; e, al pari del poeta, scelse una linea purista per risolvere la questione: evitare i grecismi. Di qui una costante e accanita sperimentazione lessicale nella traduzione dei termini ellenici, le cui incertezze e difficoltà sono talora attestate nelle lettere ad Attico (si pensi, per esempio, al caso di καθῆκον, che Cicerone si risolse, dopo lunghe perplessità, a rendere con officium; o, per dire della terminologia retorica, ai vari tentativi di individuare un equivalente latino di περίοδος).

Il risultato di questa sperimentazione fu l’introduzione nel latino di molti neologismi: Cicerone gettò in tal modo le basi di quel lessico astratto destinato a divenire patrimonio della tradizione culturale europea; per esempio, qualitas, che traduce il greco ποιότης, quantitas per ποσότης, essentia per οὐσία, ecc.

L’attenta scelta delle parole era di importanza estrema per il raggiungimento della chiarezza espositiva; ma il contributo senz’altro più notevole dell’Arpinate all’evoluzione della prosa occidentale fu la creazione di un periodo complesso e armonioso, fondato su perfetto equilibrio e rispondenza delle parti, il cui modello – fin dalle orazioni – egli trovò in Isocrate e in Demostene.

Dato il sempre presente modello retorico, l’esigenza dell’orecchio e del ritmo hanno spesso la prevalenza: ma il periodo ciceroniano è in genere anche una rigorosa architettura logica. La creazione di un simile periodo comportava l’eliminazione delle incoerenze nella costruzione, degli anacoluti, delle “costruzioni a senso” e delle molte altre forme di incongruenza che la prosa arcaica latina aveva ereditato dal linguaggio colloquiale. Veniva poi l’organizzazione delle frasi in ampie unità che manifestassero un’accurata ed esplicita subordinazione delle varie parti rispetto al concetto principale: in altre parole, la sostituzione della paratassi (coordinazione) con l’ipotassi (subordinazione). A una perfetta capacità di dominio della sintassi si deve la possibilità di organizzare i periodi lunghi e complessi, eppure sempre lucidi e coerenti, di cui abbondano le pagine ciceroniane.

Se questi sono i tratti che meglio definiscono il profilo esterno della costruzione ciceroniana del discorso, uno degli aspetti che più colpiscono il lettore è la varietà dei toni e dei registri stilistici che entrano in gioco con grande mobilità di effetti. Ciascuna delle tre gradazioni di stile (semplice, temperato, sublime) viene adeguatamente (secondo il canonico principio greco del πρέπον, cioè il decorum, l’«opportuno», il «conveniente») impiegata a seconda delle esigenze discorsive corrispondenti: probare, delectare, movere.

A ogni livello di stile, a ogni diverso registro espressivo, corrisponde una collocazione delle parole adeguata, un’opportuna sonorità fatta di armonia e di euritmia (l’ornatus suavis et affluens trova il suo punto di forza nella forma e nel sonus delle parole); soprattutto, la disposizione verbale è sempre accuratamente tale da realizzare il numerus. Nella pratica, il numerus agisce come un sistema di regole metriche adattate alla prosa (Cicerone sosteneva a ragione di aver dedicato più attenzione a questo aspetto del discorso di quanto non avesse fatto la trattatistica greca), in modo che i pensieri gravi trovino un andamento solenne e sostenuto e, invece, il discorso piano un’intonazione più familiare.

La sede specializzata per questi effetti metrico-ritmici è la clausola, quella parte finale del periodo in cui l’orecchio dell’ascoltatore deve sentirsi impressionato dagli effetti suggeriti dalla successione dei piedi (per esempio, il dattilo e il peone per il tono sostenuto oppure l’andamento giambico per il tono discorsivo e familiare). Della varietà efficace e abilissima delle clausolae ciceroniane basti sapere, comunque, che nella “prosa periodizzata” Cicerone seppe tenersi lontano dagli eccessi “asiani” di Ortensio e più vicino, in ultima analisi, al modello di Isocrate, che all’arte del periodare ampiamente costruito aveva saputo affiancare l’uso di brevi proposizioni “numerose” in serie.

London, British Library. Harley MS 647 (c. 820-840), f. 8v. Pagina dagli Aratea di Cicerone, illustrata con un calligramma (ante litteram), raffigurante la costellazione del Canis Maior, e l’excerptum degli Astronomica.

 

Le opere poetiche: l’importanza storica di un talento discutibile

«Con l’andare del tempo – scrive Plutarco nella Vita di Cicerone – egli credette di essere non solo il più grande oratore, ma anche il più grande poeta di Roma […], ma, quanto alla sua poesia, essendo venuti dopo di lui molti grandi talenti, è rimasta completamente ignorata, completamente spregiata». Sembra dunque che solo Cicerone si illudesse sulla propria vena poetica: già i contemporanei gli concessero poco apprezzamento e le generazioni successive lo ignorarono del tutto: Marziale (Epigrammi II 89, 3-4) ne avrebbe fatto un paradigma di velleitarismo fallimentare: «Tu componi versi senza alcuna ispirazione delle Muse, senza alcuna assistenza di Apollo. Bravo! Hai in comune questa virtù con Cicerone!». Non è probabilmente un caso, dunque, che della produzione poetica ciceroniana siano rimasti solo pochi frammenti e perlopiù citati dallo stesso autore nelle sue opere in prosa.

In gioventù l’Arpinate compose poemetti alessandrineggianti di argomento mitologico come Glaucus, in tetrametri trocaici, e Alcyones; il Limon, probabilmente un’opera miscellanea, conteneva fra l’altro una raccolta di giudizi in versi su poeti. Queste prime prove, varie per metro e per argomento, farebbero pensare a Cicerone addirittura come una sorta di precursore dei neoterici, incline a un certo sperimentalismo artistico, anche se non propriamente un “callimacheo”: un poeta di tipo ellenistico, insomma, ma non molto lontano da quella che era stata la poetica di Lucilio.

Ben presto i suoi gusti dovettero farsi più tradizionalistici (vincolandosi soprattutto al modello arcaico di Ennio) fino all’ostilità più o meno aspra verso i “poeti moderni” (neoteroi, o poetae novi, appunto). A questa seconda fase della produzione poetica ciceroniana appartengono i poemi epici Marius, che cantava le gesta dell’altro grande arpinate (opera probabilmente ancora del periodo giovanile), De temporibus suis, cui Cicerone accenna in alcune lettere, e De consulatu suo, in tre libri, composto intorno al 60 a.C. per celebrare l’anno della gloriosa battaglia contro Catilina (un ampio brano di questo poema è stato conservato dallo stesso autore nel De divinatione). Quest’ultima fu l’opera più sbeffeggiata dell’Arpinate sia dai contemporanei sia dalla critica letteraria del I secolo d.C. (soprattutto per le stucchevoli lodi di cui l’autore era prodigo verso se stesso e il proprio operato in qualità di magistrato). Due versi in particolare restano celebri per l’irrisione che suscitarono: cedant arma togae, concedat laurea laudi («S’inchinino le armi di fronte alla toga, l’alloro del trionfo s’inchini al merito civile»), in cui Cicerone contrapponeva le proprie glorie consolari agli allori dei comandanti militari, e o fortunatam natam me consule Romam! («O Roma fortunata, nata sotto il mio consolato!»), che fu poi citato ancora da Giovenale come simbolo di una superbia sciocca e ridicola.

Fra queste due fasi è probabile che si debba collocare gli Aratea, traduzione in esametri degli eruditissimi Fenomeni di Arato di Soli (ca. 315-240 a.C.). Si tratta di un poemetto didascalico di argomento astronomico che suscitò grandissimo interesse nell’antichità e che venne tradotto anche da Germanico (15 a.C.-19 d.C.) e Avieno (IV sec. d.C.). È questa l’opera poetica più fortunata di Cicerone, l’unica della quale rimangano porzioni di una certa estensione. In essa si nota il ricorrere di un andamento grandioso e magniloquente, che nello stile solenne richiama la poesia alta di Ennio e Lucrezio.

Comunque, nonostante i non felicissimi risultati della sua poesia, l’influenza di Cicerone versificatore non dovette però essere insignificante, almeno per gli aspetti tecnico-artistici: egli infatti contribuì non poco a regolarizzare l’esametro latino (posizione delle cesure nel verso e specializzazione di alcune forme metrico-verbali in clausola). Dai suoi esercizi poetici l’esametro uscì più elegante e duttile e, nel ritmo, più vivace e non troppo distante dalla strutturazione che avrebbe poi assunto in età augustea.

L’esempio ciceroniano fu probabilmente determinante per quel che riguarda la conquista di una maggiore libertà espressiva nella disposizione delle parole e per la spinta impressa al discorso oltre i rigidi confini del verso, attraverso lo sviluppo dell’uso dell’enjambement. Pur senza raggiungere gli effetti espressivi del mobilissimo esametro augusteo, quello ciceroniano riuscì a conquistarsi una struttura metrico-sintattica molto meno “immobile” di quella di stampo arcaico. Non a caso echi ciceroniani, soprattutto dagli Aratea, si avvertono in Lucrezio, in Virgilio georgico, finanche in Orazio e Ovidio.

Ritratto virile. Busto, marmo, I sec. a.C. ca. Wien, Kunsthistorisches Museum.

 

Il “vero” Cicerone: l’epistolario

Per la conoscenza della personalità dell’autore si dispone di uno strumento di impareggiabile valore: si è infatti conservata una cospicua quantità delle lettere che egli scrisse ad amici e conoscenti, insieme ad alcune lettere di risposta di questi ultimi. Nella forma in cui è stato tramandato, l’epistolario ciceroniano si compone di circa novecento testi, suddivisi in quattro grandi raggruppamenti in base al destinatario: i sedici libri di Ad familiares, i sedici delle Ad Atticum, i tre libri Ad Quintum fratrem e due libri Ad Marcum Brutum (di autenticità controversa).

I documenti pervenuti abbracciano gli anni dal 68 al 43 a.C. (mancano tuttavia lettere dell’anno del consolato) e furono pubblicati in una data incerta ma successiva alla morte dell’autore (forse, almeno le Ad familiares, a cura del fedele liberto Tirone). Sebbene queste epistole non siano nate con lo scopo della pubblicazione, Cicerone aveva comunque pensato nel 44 alla possibilità di divulgarne una selezione, ma la morte glielo impedì.

Il ricco epistolario ciceroniano comprende testi di vario genere ed estensione: biglietti vergati frettolosamente, vivaci resoconti degli avvenimenti politici, lettere elaborate che sembrano brevi trattati, alcuni scritti, rivolti ai corrispondenti più importanti, probabilmente concepiti come “lettere aperte” destinate forse a una qualche circolazione. La varietà dei contenuti, delle occasioni e dei destinatari si rispecchia peraltro in quella dei toni: Cicerone è a volte scherzoso, a volte preoccupato fino all’angoscia per le vicende politiche e i problemi personali, a volte sostenuto e impegnato.

Si tratta – è bene sottolinearlo – di lettere vere: quando le scrisse, l’autore non pensava a una loro pubblicazione (come sarebbe stato invece nel caso dell’epistolario di Seneca); perciò queste lettere mostrano un Cicerone “vero” e “reale”, non ufficiale, che nelle confidenze private rivela apertamente i retroscena, a volte poco edificanti, della sua azione politica, i dubbi, le incertezze e le esitazioni frequenti, gli alti e bassi del suo umore.

Il carattere di epistolario “reale” ha i suoi riflessi anche sullo stile, che è molto diverso da quello delle opere destinate alla pubblicazione: Cicerone non rifugge da un periodare spesso ellittico, gergale, denso di allusioni talora “cifrate” (di qui, per i moderni, gravi difficoltà di interpretazione), abbondante di grecismi e di colloquialismi; la sintassi denuncia molte paratassi e parentesi, il lessico è costellato di parole pittoresche, come curiosi diminutivi (per esempio, aedificatiuncula, ambulatiuncula, diecula, vulticulus, integellus, ecc.) e ibridi greco-latini (tocullio, «strozzino», dal greco τόκος, «interesse»). È una lingua che rispecchia piuttosto fedelmente il sermo cotidianus delle classi elevate di Roma.

Non va dimenticato, infine, l’eccezionale valore storico dell’epistolario ciceroniano, che, a volte, quasi come un moderno quotidiano, permette di seguire giorno per giorno l’evolversi degli avvenimenti. Grazie a questo documento, l’epoca in cui l’autore visse è quella che è meglio nota di tutta la storia antica; a ragione, pertanto, Cornelio Nepote (Vita di Attico, 16) poté parlarne come di una vera e propria historia contexta eorum temporum («monografia storica di quei tempi»).

Solone

di MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 226-233.

 

L’opera di Solone, arconte nel 594/93, secondo Diogene Laerzio, o nel 592/91, secondo la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele, porta a piena maturazione quelle premesse politiche e sociali che abbiamo intravisto nella comunità aristocratica attica del medio arcaismo. Solone operò infatti sia sul terreno sociale, sia su quello politico-costituzionale; fu riformatore sociale e fu nomoteta, autore di leggi costituzionali, che sostituirono i thesmoí di Dracone. Complessivamente, egli non appare autore di riforme in grado di stravolgere il vecchio profilo politico ateniese o la realtà socio-economica, cioè l’assetto proprietario, dell’Attica. E tuttavia è chiaro che sul terreno sociale egli incise con azioni innovative, volte quanto meno a sanare i guasti che nel corso del tempo si erano determinati nel corpo sociale e nell’economia dell’Attica; sul terreno politico-costituzionale l’opera di Solone fu quella di un codificatore, capace di portare ordine nelle vecchie e conservate strutture, e di ammodernare qua e là. Non fu il creatore della democrazia, anche se la tradizione antica o la riflessione moderna avvertono un filo di sviluppo, tormentato ma continuo, tra l’azione di Solone e il formarsi di gruppi e programmi politici differenziati, con i relativi conflitti, nei decenni successivi, e quindi la tirannide di Pisistrato e dei figli e la democrazia creata dall’alcmeonide Clistene nel 508/07[1].

Solone. Busto, marmo, copia romana da originale di IV sec. a.C. ca. Malibu, J.P. Getty Museum.

Solone avverte acutamente il divario tra la struttura politica, che va conservata anche se perfezionata e resa stabile, e il rapporto sociale, che è diventato conflittuale e drammatico, tra ricchi e poveri, cioè tra i proprietari della terra e i suoi coltivatori. Questo è il quadro dell’assetto proprietario in Attica, come fornito da Aristotele: e fondamentalmente esso è giusto, purché non ci si fermi alle definizioni formali, ma si tenga conto di tutto ciò che esse contengono, e della testimonianza diretta di Solone che egli ci riporta. È soprattutto in gioco la condizione degli hektēmóroi, coloro che lavorano la terra per conto dei ricchi, versando forse come canone 1/6 del prodotto; poiché anche rispetto all’assolvimento di quest’obbligo essi risultano spesso morosi, rischiano d’essere venduti schiavi e come tali trasportati fuori dall’Attica.

Di questo quadro, tutto è stato messo in discussione, con proposta di soluzioni di cui è difficile non vedere la distanza sia dai testi antichi sia dalla verosimiglianza storica. Ora si ammette che ci fosse solo una grande proprietà privata, ma non una media e piccola e che, accanto a grandi proprietà private, ci fossero ancora vaste proprietà pubbliche, che sarebbero dirette eredi e continuatrici di quelle di epoca micenea; ora invece si considera la condizione degli hektēmóroi come il risultato dello scadimento dalla condizione di proprietari privati di un tempo, e quindi si dà un largo spazio alla costituzione e alla diffusione della piccola e media proprietà privata durante i secoli dell’alto e del medio arcaismo. Probabilmente queste rappresentazioni peccano tutte di rigidità e di nominalismo, e tengono poco conto di certe retroiezioni che (a livello formale, soltanto, e senza tradire, a ben guardare, la realtà) Aristotele opera, dalle condizioni economiche del IV secolo a.C. a quelle della fine del VII e dell’inizio del VI[2].

Moschóphoros. Statua, marmo dell’Imetto, 570-560 a.C., Atene, Museo dell’Acropoli.

Se si opera sulla base di una nozione e condizione teoricamente e giuridicamente ben definita di proprietà, si trasferisce con ogni probabilità nell’epoca pre-soloniana e soloniana uno sviluppo dell’idea e delle forme legali distintive della proprietà terriera, che appartiene ad epoca più tarda. In modo particolare, poi, si trascura il fatto che il sistema delle místhōseis (o dei misthōmata o, in generale, misthoí), cioè un vero e proprio sistema dei fitti, una condizione economica in cui è sviluppato il rapporto proprietà-fitto (e perciò si abitano case prese, o ridotte ad essere prese, in fitto, e si coltivano terreni in analoghe condizioni), è ciò che caratterizza l’evoluzione dei rapporti sociali e lo sviluppo dell’economia monetaria tra V e IV secolo a.C., con particolare forza nel IV secolo. Il rapporto ricchezza-povertà, sul terreno della proprietà terriera (centrale nella concezione di Aristotele e nella sua rappresentazione dell’economia), doveva con molta facilità presentarsi ad Aristotele sotto le vesti del rapporto affittuario: salvo che il fitto o il canone nel IV secolo si pagano prevalentemente in denaro, e quelli della fine del VII o dell’inizio del VI si pagano (ed è una prima correzione storica da apportare ad Aristotele) prevalentemente in natura (benché, per Aristotele stesso, all’inizio del VI secolo molti rapporti sociali figurino ormai mediati dalla moneta, in Attica). Chi pensa agli hektēmóroi come coltivatori di terre appartenenti di diritto allo Stato, come residuo di forme micenee, dà probabilmente minore importanza al fatto che quel tipo di proprietà era collegato col potere palaziale; se permangono (anzi, probabilmente, si sviluppano) le proprietà sacre, è ben difficile che con la fine dei palazzi non abbia coinciso un certo sviluppo della proprietà privata. Ma questo non comporta necessariamente una formazione significativa di piccola e media proprietà, condizione da cui poi, per successivi e crescenti indebitamenti, i titolari sarebbero scaduti nella gravosa e rischiosissima condizione di hektēmóroi. Se però si ammette quel che suggeriscono le parole dello stesso Solone («mi può essere eccellente testimone, nella giustizia del Tempo, la madre grandissima degli dèi Olimpi, la nera Terra, da cui io strappai i cippi che in più luoghi erano infissi, Terra un tempo asservita, ora invece libera!»)[3], egli determinò la liberazione della terra, cioè la ricostituzione di condizioni diverse da quelle di servitù che i cippi attestavano e garantivano.

Dunque è plausibile un quadro come quello che segue. Con la crisi del potere miceneo si accentua in Attica quella frantumazione della proprietà, che, nelle forme socialmente riconosciute e garantite, non poteva essere altro che proprietà di relativamente grandi dimensioni. Si viene però a creare un’articolazione collegata alla presenza sulla terra dei suoi diretti coltivatori, che rapidamente ne diventano i possessori di fatto, con obblighi di tipo tributario verso i grandi proprietari (gli unici ad avere, e a potere avere, nelle condizioni dell’epoca, un titolo legale). Un interprete del IV secolo (epoca di místhōseis), come Aristotele, trascriveva questa diffusissima forma di proprietà embrionale, proprietà di fatto (ma non per questo meno esposta a rischi per la persona del coltivatore) in un rapporto affittuario: e, in fondo, non sbagliava, salvo per un eccesso di formalizzazione (da parte sua), non meno inadeguata di quella che operano quegli studiosi moderni che ragionano in termini di proprietà di pieno diritto, per possedimenti di minori dimensioni.

Atene, obolo, 500-480 a.C. ca. AR. 0, 53, Recto: civetta, stante verso destra; sul bordo, l’iscrizione AΘE[NAI].
Solone proibisce la schiavitù per debiti, cioè la sua premessa, che è la possibilità di contrarre debiti e assumere ipoteche sui propri corpi (epí toîs sómasin). Inoltre abolisce i debiti (fa quello che le fonti chiamano chreōn apokop, «taglio dei debiti»). L’osservatore di un secolo di piena economia monetaria può interpretare il taglio come parziale e non totale, e la riduzione del debito così ottenuta può anche collegarla con la riforma monetaria attribuita a Solone, cioè la sostituzione della dracma leggera d’argento (dracma euboica), di g. 4,36, alla dracma pesante (eginetica), di g. 6,2: di fatto, una svalutazione di circa il 30 %, che riduceva i debiti di altrettanto. Ed è proprio così, in termini forse riduttivi, che ragionava l’attidografo Androzione. Non è invero chiaro né il rapporto tra la forma del sistema ipotecario (sarebbe vano negare che esista una forma elementare, e fondamentalmente pre-monetale, di ipoteca già in questo periodo) e il «taglio dei debiti», né quello tra tale taglio e la riforma monetaria. Ma se si dà un minimo credito alla tradizione su un qualche uso di moneta di tipo eginetico ad Atene prima di Solone (del resto, se Atene apparteneva all’anfizionia di Calauria nel VII secolo, tali condizioni esistevano in pieno), si può salvare gran parte della tradizione, e non ridurre tutte le misure soloniane ad un solo atto. L’abolizione (o forte riduzione) dei debiti nel pagamento del canone in natura ci dev’essere stata (e questo sarà il senso fondamentale della problematica parola seisáchtheia, o «scuotimento dei pesi»); ma, accanto, ci saranno state prime forme di indebitamento anche attraverso il nuovo sistema economico, non ancora dominante, ma certo affiorante, della moneta: la riforma monetaria avrà quindi operato in questo settore come strumento significativo, ma non unico, di alleviamento[4]. La condizione della terra, dopo questa riforma di Solone, non era profondamente trasformata rispetto al passato, ma si erano parzialmente create le condizioni per un consolidamento del rapporto di possesso stabile (tanto più che erano stati fatti sparire i cippi che attestavano un diritto diverso di proprietà).

Sul piano politico-costituzionale Solone conferma le vecchie articolazioni censitarie, le vecchie “classi” (télē), forse aggiungendone una, la prima, e definendo i termini quantitativi degli ormai quattro télē: pentacosiomedimni, coloro che avevano una rendita annua di 500 medimni di frumento (o 500 metreti di vino o d’olio); cavalieri (a quota 300); zeugiti (possessori di un paio = zeûgos di buoi? O “opliti”? a quota 200); teti (o salariati), sotto quest’ultimo livello. Le cariche degli arconti e dei tesorieri (tamiaí) erano riservate ai pentacosiomedimni (o forse estese, per quanto riguarda gli arconti, anche alla seconda classe). Ai teti tuttavia la costituzione di Solone garantiva non soltanto la partecipazione all’assemblea (ekklēsía), ma anche al tribunale del popolo (heliaía), di cui egli sarebbe stato creatore o massimo potenziatore. Forse Solone arricchiva il vecchio quadro istituzionale con un nuovo consiglio, quello dei 400, cento per ciascuna delle quattro tribù; ognuna delle tribù era divisa in tre “terzi” (tre trittýes), e in 12 naucrarie (“distretti”, e insieme cariche dei naucrari, con funzioni finanziarie)[5].

Misure attiche per gli aridi (sopra) e per i liquidi (sotto), secondo A. Segré, Metrologia e circolazione monetaria degli antichi, Bologna 1928, 131 ss.

Come si vede, l’opera di Solone, se e in quanto innovatrice, si limita ad articolazioni ulteriori dell’assetto tradizionale, che equivalgono certo a un suo rafforzamento nella coscienza generale. Egli aveva anzi rifiutato le sollecitazioni di alcuni e la tentazione, offerta dalla situazione oggettiva, di farsi tiranno. A questo fermo atteggiamento sul piano del potere politico corrisponde, sul piano economico, il rifiuto di una redistribuzione della terra (ghēs anadasmós), che avrebbe significato il rovesciamento dei diritti formali di proprietà, quelli cioè dei grandi proprietari, gli unici a possedere probabilmente titoli del genere che fossero formalmente definiti, in quelle condizioni storiche. L’agricoltura non riceveva dunque impulsi particolari dalla sanatoria introdotta da Solone; viceversa, sembra plausibile che egli abbia favorito l’artigianato, la produzione ceramica, in una con un certo sviluppo mercantile, in quanto consentì l’esportazione dell’olio, pur vietando altre forme di esportazione[6]. Egli si configura dunque come un valorizzatore del politico, come un creatore di valori comunitari. La sua debolezza, sul terreno dei fatti, è di operare solo mediazioni: ad Atene egli vuole essere, ed è, il dialaktḗs, il “pacificatore”, il “conciliatore”, il “grande mediatore”: non vuole essere (e non è) il tiranno.

Finita la sua opera, egli si trasferisce per commercio e turismo in Egitto; ad Atene riprendono le stáseis, i “conflitti politici”. Dopo cinque anni un’anarchia (= “assenza di arconte”), dopo altri cinque una nuova anarchia, quindi, per un paio d’anni (582-580), un arcontato di durata eccezionale, di un certo Damasia. Ad Atene si hanno già formazioni politiche di tipo corporativo: abbattuto Damasia, si sperimenta un arcontato decemvirale, composto da 5 eupatrídai (“gente di nobile lignaggio”), 3 ágroikoi (“contadini”), 2 demiourgoí (“artigiani”)[7]. Poco dopo troveremo una diversa articolazione, ancora una volta in tre gruppi politici, questa volta su base territoriale: i pedieîs o pediakoí (cioè i “proprietari terrieri del pedíon”), i parálioi (“proprietari di regioni costiere”), i diákrioi o hyperákrioi (“quelli della – o al di là della – zona montuosa”). Non si tratta di veri partiti, con tanto di ideologie; ma emerge una dialettica politica del più grande interesse, che tende ad affermarsi come uno strumento di soluzione dei conflitti. In questo quadro si colloca la tirannide di Pisistrato, le cui caratteristiche, le cui vicende, i cui stessi infortuni possono spiegarsi solo alla luce della particolare temperie politica ad Atene e di quel mondo di valori comunitari che l’opera di Solone aveva rafforzato, anche se non messo al riparo dai fermenti dell’epoca e dai gravi elementi di crisi che la società attica aveva accumulato al suo interno.

 

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Note

[1] Sull’anno dell’arcontato di Solone e la cronologia di Sosicrate (ol. 46, 3 = 594/3 a.C.) in Diog. I 62 (risalente ad Apollodoro), e quella più bassa, di Arist. Ath. 14, 1 (592/1, se l’arcontato di Comea è del 561/0 a.C.); cfr. Plutarco, La vita di Solone, a c. di Manfredini M. – Piccirilli L., Milano 1977, pp. 179-180.

[2] Cfr. Arist. Ath. 2, 2; Plut. Solon 13, 4; Piccirilli L., op. cit., 169-178; Rhodes P.J., Commentary on the Aristotelian Athenaion Politeia, Oxford 1981, 90-97. In termini meramente lessicali, il confronto più diretto e convincente di ἑκτήμοροι (o ἑκτημόριοι) è γεωμόροι (sull’analogia, del resto, cfr. Piccirilli L., op. cit., 170), quindi dovrebbe trattarsi dei possessori di 1/6, non di 5/6. Nei fatti, sembra preferibile invece l’interpretazione 5/6. La vera difficoltà dell’interpretazione risiede in ciò: che la condizione affrontata da Solone possa essere il punto d’arrivo di un lungo cammino, una condizione ultima raggiunta attraverso una crisi e un progressivo declino.

[3] Solone, fr. 24 Diehl = 30 Gentili-Prato.

[4] Arist. Ath. 10.

[5] Il rapporto tra le naucrarie (12 per ogni trittýs), e le trittie, affermato da Arist. op. cit. 8, 3, è revocato in dubbio da Hignett C., A History of the Athenian Constitution to the End of the Fifth Century B.C., Oxford 1952, 67-74 (le naucrarie sono considerate distretti locali, non correlati con le quattro tribù; Pisistrato potrebbe aver rimodellato un sistema collegato – come suggerirebbe l’etimologia – con le esigenze navali, trasformandolo in un sistema amministrativo di portata più generale).

[6] Sulla produzione dell’olio in epoca micenea e arcaica, cfr., ad es., Richter W., Die Landwirtschaft im homerischen Zeitalter, Göttingen 1968, 134-149.

[7] La distinzione eupatrídai-ágroikoi (= gheorgoí)-demiourgoí (circa 580 a.C.) è chiaramente più tarda di quella indicata genericamente come preclistenica in Arist., fr. 385 Ross, Ath. Fr. 5 Oppermann, che conosce solo l’opposizione gheorgoí/demiourgoí (a un’epoca in cui il corpo civico – con 4 tribù, 12 fratrie/trittie, 360 ghéne ciascuno di 30 membri – avrebbe contato 10.800 membri). È come se quel che in origine era distinzione di attività produttiva e professionale (e, in quanto tale, sociale) nella città ancora omogenea (o non troppo eterogenea) al suo interno, avesse dato luogo (al più tardi all’inizio del VI secolo a.C., ma probabilmente già parecchio prima) a una più netta stratificazione, in cui un gruppo emerge ed è connotato solo socialmente (eupatrídai), qualunque ne sia l’attività produttiva e a parte (e anche sotto) stessero quei gruppi che, proprio per essere inferiori, si qualificavano e si distinguevano solo per attività produttiva (quand’anche – e ciò vale certo per l’agricoltura – la condividevano con gli eupatrídai).

Lo Stoicismo antico

da G. REALE , Il pensiero antico, Milano 2001, pp. 319-340 [testo rielaborato, con bibl. ampliata].

 

I. Zenone, la fondazione della Stoa e le diverse fasi dello Stoicismo [1]

1. L’incontro di Zenone con Cratete e con il socratismo. – Nel 312/311 a.C. giunse ad Atene, dall’isola di Cipro, un giovane di stirpe semitica, con l’intento di prendere diretto contatto con le fonti della grande cultura ellenica e di dedicarsi interamente alla filosofia. Era Zenone[2], l’uomo che avrebbe dovuto fondare quella che, forse, fu la più grande delle Scuole dell’età ellenistica. Un giorno, suo padre Mnasea, che commerciava fra Cipro e Atene, di ritorno da uno dei suoi viaggi, gli portò alcuni scritti socratici: con molta probabilità, furono proprio questi «libri socratici» a far maturare nel giovane la decisione di trasferirsi ad Atene.

Nella capitale della cultura ellenica non furono gli uomini delle due grandi Scuole dell’Accademia e del Peripato a determinare l’orientamento di Zenone; al contrario, fu un rappresentante delle Scuole socratiche minori: Cratete, discepolo di Diogene il Cinico, a sua volta allievo di Antistene[3]. Ma Cratete Cinico offrì a Zenone soprattutto un esempio pratico di vita filosofica, che rispondeva solo in parte a quelle esigenze che il giovane sentiva urgere dentro di sé. In Cratete, infatti, mancava una giustificazione teoretica adeguata alla sua scelta di vita e, pertanto, nel suo insegnamento.

Zenone di Cizio. Busto, marmo, copia romana di età augustea da originale ellenistico del III sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Zenone si accostò anche a un’altra Scuola socratica minore, che in quel tempo mieteva ancora successi, e precisamente quella dei Megarici: infatti, ci viene riferito che egli fu alunno di Stilpone, il quale verso la fine del secolo IV a.C. era una grossa celebrità. Ma la dottrina megarese mutilava Socrate ancor più di quella cinica, esaltando il momento logico-dialettico e rischiando addirittura di riportarsi su posizioni presocratiche. L’incontro con Stilpone, tuttavia, incise su Zenone in modo non lieve: la logica e la dialettica della Stoa, infatti, avrebbero rivelato indubbi influssi di matrice megarica (cfr. SVF, 1, fr. 1).

2. Il ripudio della «seconda navigazione». – Oltre la voce dei Socratici minori, Zenone volle ascoltare anche quella degli Accademici. Le nostre fonti ci riferiscono, infatti, che Zenone fu discepolo anche dei platonici Senocrate e Polemone. Ora, per quanto questo contatto con l’Accademia abbia influito su di lui e lo abbia aiutato a maturare e a risolvere problemi particolari, nonché a dare una consistenza e uno spessore speculativo al suo filosofare (che avrebbe differenziato la Stoa da tutti gli altri sistemi dell’età ellenistica), non gli vietò, tuttavia, di prendere una posizione nei confronti del problema metafisico in netta antitesi con quella di Platone.

Zenone, dunque, rifiutò gli esiti della «seconda navigazione», e, non meno di Epicuro, assunse posizioni decisamente materialistiche: negò non solo l’esistenza trascendente delle Idee, riducendole a pensieri della mente umana, ma rifiutò pure di attribuire loro quella statura ontologica che Aristotele, pur confutando la loro trascendenza, aveva mantenuto (cfr. SVF, I, fr. 65).

Zenone respinse altresì l’esistenza di un’anima spirituale per sua natura diversa dal corpo e anche di Intelligenze immateriali e trascendenti – quali il platonico Demiurgo, l’aristotelico Motore Immobile e le aristoteliche Intelligenze motrici delle sfere celesti. Al contrario, per lui, l’anima era di natura corporea: se non fosse tale – precisa Cleante, riferendo un’argomentazione risalente, però, a Zenone – non si potrebbero spiegare i rapporti che essa ha con il corpo. L’anima è, dunque, pneuma e fuoco (πῦρ): sopravvive per un certo periodo alla morte del corpo, ma poi si dissolve (cfr. SVF, I, frr. 135; 146; 518).

In questa concezione, corporeo era anche il dio, il quale era fatto coincidere con il Principio attivo dell’universo, immanente all’universo stesso; il dio era fuoco eterno (si vd. infra).

3. Il ripensamento di Eraclito e il concetto di φύσις come fuoco artefice. – Zenone non si limitò ad ascoltare filosofi a lui contemporanei, ma lesse e meditò anche i libri degli antichi. Di fondamentale importanza fu, indubbiamente, la lettura delle opere di Eraclito. Infatti, l’idea eraclitea del fuoco, che è φύσις, λόγος, θεός, ripensata e opportunamente rielaborata, sarebbe divenuta centrale nell’ontologia stoica.

A questo proposito, dobbiamo ribadire un rilievo essenziale: la φύσις eraclitea, riveduta da Zenone, non poteva più mantenere il significato presocratico arcaico, ossia un valore al di qua delle distinzioni di organico-inorganico, di materia-spirito, di corporeo-incorporeo, di immanente-trascendente, di sensibile-soprasensibile. Dopo le acquisizioni platoniche e aristoteliche, la concezione della φύσις poteva essere determinata solo in funzione di queste distinzioni. E così Zenone trasse dal principio eracliteo, cui si era ispirato, conseguenze vitalistiche, ilozoistiche, organicistiche e panteistiche: che tutto fosse vivo, che la materia fosse intrinsecamente dotata di vita, che tutto fosse organismo vivente e che tutto fosse dio e che il dio coincidesse con il cosmo, che φύσις e θεῖον si identificassero reciprocamente, erano tutte tesi implicite nei Presocratici – ma solo con gli Stoici sarebbero divenute esplicite e tematiche. Una volta negata la trascendenza platonica-aristotelica, il dio, se ammesso come esistente, doveva essere necessariamente immanentizzato e identificato con il cosmo e con la natura. Come meglio si vedrà esponendo la fisica, gli Stoici furono i primi veri panteisti, cioè i primi pensatori a identificare Dio e Natura con piena consapevolezza.

Ricostruzione a disegno del lato occidentale della Stoa Poikile, così come avrebbe dovuto apparire intorno al 400 a.C. [agora.ascsa.net].
4. I rapporti con Epicuro. – Un avvenimento che agì in modo determinante su Zenone fu indubbiamente la fondazione del Giardino a opera di Epicuro, nel 307/306 a.C. Questo fatto nella vita spirituale di Atene costituiva una vera e propria rivoluzione. Nei confronti della nuova Scuola Zenone dovette subito nutrire sentimenti contraddittori: un misto di attrazione e repulsione, di ammirazione e di disprezzo, di consenso e di dissenso. Egli dovette certamente capire che Epicuro cercava di soddisfare quegli stessi bisogni che anche lui provava, che cercava di dar voce a quelle istanze che pure lui sentiva come imprescindibili, che intendeva e praticava la filosofia in quella nuova valenza di «arte del vivere», non ignota alle altre Scuole, ma da esse solo imperfettamente realizzata. Ma se Zenone condivideva il concetto epicureo di filosofia nonché il conseguente modo di porre i problemi speculativi, non accettò le soluzioni a tali questioni e divenne tosto fiero «avversario» dei dogmi del Giardino: gli ripugnavano profondamente le due idee basilari del sistema epicureo, vale a dire la riduzione del mondo e dell’uomo a un mero accozzo di atomi e l’identificazione del bene morale con il piacere. L’apertura del Giardino, pertanto, dovette agire da stimolo su Zenone in due sensi: da un lato, dovette fargli maturare l’idea di fondare una propria Scuola; dall’altro, con i suoi dogmi, dovette stimolarlo a costruire un termine di riferimento polemico per la soluzione di tutto l’arco dei problemi filosofici.

5. La genesi della Stoa e il suo sviluppo. – Zenone non era cittadino ateniese e, pertanto, non godeva del diritto di acquistare un immobile; per questo motivo, tenne le sue lezioni lungo il portico che era stato dipinto dal celebre pittore Polignoto di Taso (floruit 480-455 a.C. ca.). In greco, appunto, «portico» si diceva στοά e per tale ragione la nuova Scuola ebbe il nome di Stoa; i suoi seguaci furono detti «quelli della Stoa» o anche semplicemente «Stoici» (SVF, I, fr. 2).

Nel Portico di Zenone, a differenza che nel Giardino di Epicuro, era ammessa la discussione critica intorno ai dogmi dello stesso fondatore della Scuola e, per tale motivo, questi furono soggetti ad approfondimenti, revisioni e ripensamenti. Di conseguenza, mentre la filosofia epicurea non subì modificazioni di rilievo e fu, in pratica, solamente o prevalentemente ripetuta e chiosata, rimanendo sostanzialmente immutata, quella di Zenone affrontò innovazioni anche notevoli ed ebbe un’evoluzione piuttosto considerevole.

La battaglia di Maratona. Ricostruzione dell’affresco di Polignoto nella Stoa Pecile, da C. ROBERT, Die Marathonschlacht in der Poikile und weiteres über Polygnot, Halle auf Saale 1895, tav. 1-2.

Gli studiosi hanno ormai messo bene in chiaro che nella storia della Stoa è necessario distinguere tre periodi: 1) il periodo dell’antica Stoa, che va dalla fine del IV secolo a tutto il secolo III a.C., in cui la filosofia del Portico fu via via sviluppata e sistemata a opera della grande triade di scolarchi (Zenone, appunto, Cleante[4] e soprattutto Crisippo[5] – fu, in particolare, quest’ultimo, pure di origine semitica, che, con oltre 700 libri, fissò in modo definitivo la dottrina della prima stagione della Scuola)[6]; 2) il periodo cosiddetto della media Stoa, fra il II e il I secolo a.C., che si caratterizzava per infiltrazioni eclettiche nella dottrina originaria; 3) il periodo della Stoa romana, o della nuova Stoa (ormai in età cristiana), in cui la dottrina si fece essenzialmente meditazione morale e assunse forti toni religiosi, in conformità con lo spirito e le aspirazioni dei nuovi tempi.

II. La tripartizione della filosofia e il λόγος

Anche Zenone e la Stoa accettavano la tripartizione della filosofia stabilita dall’Accademia (che era stata sostanzialmente accolta persino da Epicuro); anzi, la accentuarono e non si stancarono di foggiare nuove immagini per illustrare, nel modo più efficace, il rapporto che legava fra loro le tre parti. L’intero della filosofia, dunque, era da essi paragonato a un frutteto in cui la logica corrispondeva al muro di cinta che delimitava l’ambito del medesimo e che fungeva, a un tempo, da baluardo di difesa; gli alberi rappresentavano la fisica, perché erano come la struttura fondamentale, ovvero ciò senza cui non ci sarebbe stato il frutteto; infine, i frutti, che erano ciò a cui tutto l’impianto mirava, rappresentavano l’etica. Altra celebre immagine era quella dell’uovo: il guscio protettivo raffigurava la logica, l’albume la fisica, il tuorlo l’etica. Posidonio avrebbe poi addotto, invece, l’immagine dell’organismo vivente: la logica come l’ossatura, la fisica come il sangue e la carne, l’etica come l’anima. Tutte queste immagini esprimevano tanto la preminenza dell’etica quanto l’imprescindibilità delle altre due parti della filosofia stessa (cfr. SVF, II, frr. 38-39).

Ma gli Stoici, a differenza delle altre Scuole che ammettevano la tripartizione della filosofia (e, soprattutto, a differenza degli stessi Epicurei, i quali, peraltro, oltre che la tripartizione, riconoscevano la medesima subordinazione gerarchica proposta dagli Stoici), seppero additare, in maniera originale, il fondamento che solidamente legava le tre parti nel principio del λόγος: esso era inteso come principio di verità in logica, come principio creatore in fisica e come principio normativo in etica.

A questo proposito, risulta assai significativo che gli Stoici, per indicare questo principio di spiritualità immanente e di razionalità, che stava a fondamento del loro sistema, non avessero scelto il termine νοῦς («intelligenza»), ma avessero preferito il concetto eracliteo di λόγος, perché essi ritenevano di trovare espressa in esso una molteplicità di significati che riuniva il momento soggettivo e quello oggettivo, l’antropologico e il cosmologico, il gnoseologico e l’ontologico e, quindi, poteva fungere chiaramente da comune denominatore.

Così resta chiarito quanto sopra si è detto: come, cioè, il λόγος costituisse un principio unitario, il quale, con le sue tre diverse valenze, generava le tre parti della filosofia; il λόγος come principio di verità, con le sue leggi del pensare, del conoscere e del parlare, costituiva l’oggetto specifico della logica; il λόγος come principio ontologico del cosmo rappresentava l’oggetto della fisica (intesa, questa, nel senso originario e presocratico di «scienza della natura»); e, infine, il λόγος quale principio finalizzatore, ossia come principio che determina il senso di ogni cosa – e, quindi, anche il fine e il dover essere dell’uomo – costituiva l’oggetto dell’etica.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Urb. lat. 329 (metà XV s.), De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, f. 54v. Allegoria della Retorica.

III. La logica dell’antica Stoa

1. Il ruolo e le articolazioni della logica stoica. – Lo Stoico non solo sentiva di essere nella verità in ogni momento del suo sistema, ma orgogliosamente proclamava di essere in grado di dimostrarlo logicamente a se stesso e agli altri. Si comprende, quindi, come gli Scettici dovessero scegliere proprio gli Stoici come loro bersaglio polemico preferito: essi, infatti, erano i filosofi più dogmatici dell’età ellenistica. E trascinati nella polemica scettica, gli Stoici affilarono ulteriormente le loro armi dialettiche e finirono per dare ancor più peso alla logica – differenziandosi così sempre più dagli Epicurei, i quali mostrarono interessi molto scarsi per tale disciplina e raggiunsero, pertanto, in essa risultati alquanto modesti. I nuovi studi hanno messo bene in luce che, in realtà, la logica stoica doveva essere altra cosa rispetto a quella aristotelica, dato che si muoveva in direzioni differenti e addirittura opposte, riprendendo elementi di matrice prearistotelica elaborati nell’ambito delle Scuole socratiche minori e, in particolare, dalla Scuola megarica.

Già la distinzione delle parti della logica propugnata dagli Stoici indica chiaramente la sua matrice non aristotelica: Zenone, infatti, con un’angolazione prearistotelica distingueva la logica in dialettica e retorica, in quanto egli riconosceva due sole possibilità per il discorso – quella di procedere per argomenti e quella di svilupparsi in maniera oratoria (cfr. SVF, I, fr. 75).

Siamo, peraltro, informati che alla tradizione logica alcuni Stoici attribuivano altresì il compito di fornire i canoni o i criteri di verità, analogamente agli Epicurei. Anzi, alcune fonti ci dicono che proprio la dottrina del criterio della verità aveva il primo posto nell’insegnamento.

Luca della Robbia, Dibattito fra Platone e Aristotele, o ‘Filosofia’. Marmo dal lato nord del campanile di Firenze (basamento inferiore), 1437-1439. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

2. Il criterio della verità: la sensazione e la rappresentazione catalettica. – Secondo questa dottrina, l’anima era, originariamente, come una tabula rasa e, per azione dell’esperienza, acquistava via via le sue conoscenze. Si capisce, quindi, che, essendo la sensazione e la rappresentazione sensoriale il momento iniziale, ossia l’ingresso nell’anima della conoscenza, gli Stoici abbiano dedicato a esse attente analisi e, stante la temperie fondamentalmente sensistica e materialistica della loro gnoseologia, abbiano finito per indicare – come si vedrà – se non addirittura nella sensazione – come avevano fatto gli Epicurei, che erano ancora più accentuatamente sensisti – appunto nella rappresentazione il criterio della verità. Base della conoscenza, per gli Stoici, dunque, era la sensazione (αἴσθησις), la quale era intesa come impressione provocata dagli oggetti sugli organi sensoriali dell’uomo. Questa impressione, poi, si trasmetteva tramite i sensi all’anima e si imprimeva in essa, generando in tal modo la rappresentazione (φαντασία) (cfr. SVF, II, frr. 53 e 83).

Il materialismo di fondo della Stoa doveva, però, comportare non poche difficoltà nel determinare la natura di tale impronta sull’anima. Zenone e Cleante intesero l’impressione come materiale impronta sull’anima, mentre il più raffinato e smaliziato Crisippo parlò di alterazione qualitativa.

La rappresentazione veritativa, secondo gli Stoici, non implicava soltanto un sentire, ma postulava altresì un assentire, un acconsentire e un approvare provenienti dal λόγος, insito nell’anima dell’uomo. L’impressione, a loro avviso, non dipende dal singolo, ma dall’azione che gli oggetti esercitano sui suoi sensi e gli uomini non sono liberi di accogliere quest’azione o di sottrarsi a essa; tuttavia, essi sono, in un certo senso, liberi di prendere posizione di fronte alle impressioni e alle rappresentazioni che si formano in loro, dando a esse l’assenso del λόγος, oppure rifiutando loro questo assenso (συνκατάθησις). Solo quando si dà loro il proprio assenso, si ha l’apprensione (κατάληψις), e la rappresentazione che ha ricevuto l’assenso è rappresentazione comprensiva o catalettica (καταληπτική φαντασία), cioè criterio di verità (cfr. SVF, I, frr. 60-66; II, fr. 91).

La spontaneità dell’assenso, proclamata dagli Stoici, è il punto di gran lunga più delicato da capire, ma anche il più importante. Gli Stoici erano ben lungi dal pensare che il λόγος avesse, rispetto alla sensazione, un’autonomia o una funzione regolativa del tipo di quella che si ritrova nelle moderne gnoseologie, ed erano lungi dal ritenere che la rappresentazione catalettica fosse una specie di sintesi o una sorta di misurazione che lo spirito operava sui dati sensoriali. La libertà di assenso era, in ultima analisi, non altro che il riconoscere l’evidenza oggettiva e il respingere la non-evidenza. La presupposta convinzione degli Stoici era che, in realtà, quando un individuo era realmente di fronte a un oggetto, si producevano in lui un’impressione e una rappresentazione dotate di forza ed evidenza tali che naturalmente lo portavano all’assenso e, quindi, alla rappresentazione comprensiva; e che, dunque, per converso, quando l’individuo aveva rappresentazione comprensiva, e cioè dava il proprio assenso a un rappresentazione, si trovava sicuramente di fronte a un oggetto reale. Pertanto, il presupposto di una piena corrispondenza fra reale presenza dell’oggetto e rappresentazione evidente, che conduce all’assenso, finiva per essere, in realtà, predominante.

Anonimo, Zenone di Cizio. Incisione da Thomas Stanley, The History of Philosophy…, 1655.

3. La conoscenza intellettiva, le προλήψεις e i concetti universali. – La conoscenza non si esauriva, secondo gli Stoici, nell’ambito della sensazione e nemmeno in quello dell’esperienza in generale, che non era altro se non il consolidarsi di ricordi di rappresentazioni sensibili della medesima specie. Gli Stoici riconoscevano che l’uomo ha anche capacità di pensare e di ragionare, ossia di formare rappresentazioni intellettive (ἔννοιαι), di connetterle fra loro e, quindi, di procedere a inferenze in modi diversi; pertanto, essi poterono elaborare una vera e propria logica, che denominarono «dialettica».

Per intendere quest’ultima occorre comprendere la dottrina stoica della genesi, della natura e del significato dell’«universale» (o meglio, di ciò a cui gli Stoici riducevano questo concetto).

Se prima non abbiamo sensazioni, non possiamo avere rappresentazioni intellettive e concetti. Dalla sensazione si passa all’intellezione, in primo luogo, con un’operazione immediata: per esempio, da questo bianco che vedo alla nozione (generale) di bianco; da questo colore alla nozione di colore. In secondo luogo, per passaggio mediato, cioè operando per via di associazione, combinazione, divisione sulle nozioni ottenute per immediata evidenza e così trasformandole in varia maniera (cfr. SVF, II, frr. 83; 87).

È da notare, inoltre, che anche gli Stoici riconoscevano l’esistenza di προλήψεις («nozioni»), concependole come «naturale concezioni degli universali», ovvero come un processo che avviene in modo naturale già nel bambino e che giunge a compiutezza entro il settimo anno. Quelle «nozioni» che si riscontrano in tutti gli uomini sono «universali». Gli Stoici hanno parlato addirittura di «nozioni innate alla natura umana» a proposito di alcuni concetti morali. Questo linguaggio, però, mal si accorda con l’affermazione che l’anima è una tabula rasa. Peraltro, è da rilevare che il λόγος dell’uomo altro non è se non una parte e un momento del λόγος universale e, come tale, deve non solo essere capace di raggiungere la verità, ma deve altresì avere in sé, in un certo qual modo, qualche germe della verità medesima (cfr. SVF, II, fr. 473; III, fr. 218; III, fr. 69).

Jean-Léon Gérôme, La verità. Olio su tela, 1896. Museum Anne-de-Beaujeu.

4. Gli «esprimibili» e la loro incorporeità. – Qual è la natura degli «universali», ossia di ciò che il pensiero pensa, congiunge e disgiunge in vario modo? Gli Stoici ammettevano, oltre alle cose esistenti e alle parole significanti, anche un tertium quid, ossia i contenuti di pensiero, «i significati», che affermavano essere meri λεκτά («concetti esprimibili»), sostenendo che tali cose fossero «incorporee» (cfr. SVF, II, frr. 166 e 187).

Che i contenuti del Pensiero, che sono il frutto della nostra attività razionale e che esprimiamo e comunichiamo con le parole (cioè gli universali), siano, per gli Stoici, meri «esprimibili» e «incorporei», si spiega abbastanza facilmente tenendo presente quanto segue: l’essere è sempre e solo corpo e come tale individuale; i contenuti del pensiero si predicano di molti individui e, pertanto, essi non sono individuali e non possono essere corpi e, quindi, realtà. Di conseguenza, essi sono non-corporei, non già nel significato spiritualistico e quindi positivo, ma nel senso negativo di mancanza di quella caratteristica che è tipica della realtà e dell’essere, che per gli Stoici è solo la corporeità. Inoltre, sono λεκτά, in quanto essi esistono solo congiuntamente al λέγειν e al διαλέγειν umano, ossia in dipendenza dal nostro dire, pensare e ragionare. La posizione degli Stoici era, dunque, concettualistico-nominalistica, in quanto riconosceva l’universale come qualcosa che dipendeva dal pensare e parlare, ma gli rifiutava un’esistenza reale.

Con questa concezione del λεκτόν immateriale come concetto (come σημαινόμενον) se ne intreccia una seconda, attestata da altre fonti e dallo stesso Sesto Empirico, che è assai più complessa, ma non meno importante per la retta comprensione della filosofia del Portico, in generale, e della dialettica, in particolare, e che, dunque, è necessario riferire.

Nel contesto del materialismo stoico, che – come si è già accennato – è di carattere ilozoistico e vitalistico, la concezione del rapporto causa-effetto è del tutto particolare e senza un preciso riscontro in tutto il pensiero precedente. Solo la causa è realtà, è essere, è «corpo»; l’effetto, invece, è un mero accidente, sprovvisto di realtà corporea e, dunque, «incorporeo». Gli effetti sono, pertanto, considerati meri «predicati» e quindi «incorporei».

Ma perché l’effetto-accidente-incorporeo è detto «predicato»? È evidente che, nel qualificarlo in questo modo, gli Stoici si siano basati soprattutto su questa considerazione: «il predicato» è «ciò che è congiunto a una e a più cose» (SVF, II, fr. 183); ora, se è congiunto a più cose, non è individuale e, dunque, ha una universalità; e per questa ragione esso rientra fra gli esprimibili, che sono universali.

Crisippo. Busto, marmo greco, copia romana di I-II sec. d.C. Firenze, Galleria degli Uffizi.

5. La dialettica. – Gli Stoici definivano la dialettica in maniera socratica: «La dialettica è scienza del discutere rettamente su argomenti per domanda e riposta» (SVF, II, fr. 48). Orbene, il «discutere» (διαλέγειν) ha a che fare sia con parole sia con nozioni o, per dirla stoicamente, con cose significanti e con significati: per conseguenza, la dialettica si occupa di entrambe le cose. Crisippo definiva la dialettica come segue: «La dialettica si riferisce al significante e al significato» (SVF, II, fr. 122).

Insomma, la dialettica stoica si divide in due grandi sezioni: una riguarda il linguaggio e la sua struttura, l’altra le forme del pensiero.

Nello studio del linguaggio gli Stoici gettarono le premesse per lo studio scientifico della grammatica: la teoria della declinazione con la determinazione dei «casi» fu, probabilmente, la loro più significativa scoperta in questo campo. È da notare che, nella sezione della dialettica concernente il linguaggio, gli Stoici inclusero anche le questioni concernenti la definizione, il genere, la specie.

Nell’altra sezione della dialettica gli Stoici si occuparono, invece, delle forme del pensiero. Questa seconda parte, dunque, oltre che dei giudizi e dei sillogismi, si occupava dei «predicati», che, secondo gli Stoici, erano i verbi: questi, appunto, erano gli «esprimibili ellittici» (o «incompleti»), come, per esempio, «scrive», «discorre», «corre».

6. La retorica. – Come sopra già abbiamo rilevato, la retorica, secondo gli Stoici, era un modo fondamentale del parlare, del λέγειν, cioè del λόγος, e, in quanto tale, faceva parte di diritto della logica. D’altra parte, è pur vero che gli Stoici attribuivano alla retorica un valore decisamente subordinato alla dialettica: infatti, la retorica era considerata la scienza che permetteva di esporre bene e chiaramente il vero, ma quest’ultimo poteva essere scoperto solo mediante la dialettica.

Come si vede, da onnipotente strumento politico di convinzione e di commozione degli animi – quale Gorgia l’aveva esaltata e Platone l’aveva bollata – la retorica divenne semplicemente l’arte del parlare con eleganza, cioè l’arte di dire in modo raffinato la verità: la dialettica esprimeva la verità in modo secco e sintetico, mentre la retorica la esponeva in maniera appropriata e ornata.

Pittore di Bruxelles. Colloquio fra due uomini. Pittura vascolare sul tondo di una kylix attica a figure rosse, 450 a.C. ca. Museo C. Faina.

IV. La fisica nell’antica Stoa

1. Il materialismo e il corporeismo della Stoa. – La caratteristica precipua, che differenziava la fisica stoica non solo da quella del Giardino, ma, in certa misura, anche da quella di tutti i pensatori greci, era la seguente: il suo materialismo si configurava nettamente come monismo panteistico. Infatti, se alcuni dei sistemi presocratici, sotto certi aspetti, possono apparire monistici e panteistici, è solo perché noi oggi li interpretiamo facendo uso di chiarificazioni e di scoperte posteriori e li giudichiamo in funzione di categorie di cui noi non sappiamo, né possiamo, più fare a meno, ma che i Presocratici certamente non possedevano; però, tali categorie, dopo Platone e Aristotele, erano ben acquisite presso gli Stoici.

Per cominciare, è bene chiarire il senso che va dato al concetto di materialismo nell’ambito stoico: senza questa preliminare chiarificazione sfuggirebbe il senso peculiare del monismo panteistico del Portico. Gli Stoici, come gli Epicurei, negavano l’esistenza di qualsiasi realtà che fosse puramente spirituale. E, sempre come gli Epicurei, essi rivolgevano contro Platone quelle stesse armi che egli nel Sofista aveva usato per confutare quei pensatori, i quali sostenevano che non esisteva nient’altro che non fosse corpo. Infatti, Platone (Sophist. 247d sg.) aveva detto che avesse titolo per essere considerato “reale” solo ciò che fosse capace di agire e di patire e che tale fosse proprio l’essere ideale. Come gli Epicurei, ancora, anche gli Stoici predicavano che la capacità di agire e di patire appartenesse solamente alle cose corporee (cfr. SVF, I, fr. 90; II, frr. 329 e 359).

L’essere, in quanto tale, dunque, è materialità e corporeità. Sulla base di questo, si capisce come gli Stoici dovessero considerare corporea tutta quanta la realtà, senza eccezione. Corpo era il dio, corpo era l’anima, corpo era il bene, corpo era il sapere, corpi erano le passioni, i vizi e le virtù (cfr. SVF, III, fr. 84).

2. Il monismo panteistico. – Nella determinazione del concetto di «corpo» gli Stoici battevano la via opposta a quella pluralistico-atomistico-meccanicistica percorsa dagli Epicurei. Corpo era, per gli Stoici, materia e qualità (o forma), unite fra loro in maniera tale da essere strutturalmente inscindibili. La qualità-forma era considerata la causa o il principio attivo, mentre la materia costituiva il principio passivo; la prima era sempre immanente alla seconda e in nessun caso ne poteva essere separata né poteva sussistere di per sé. Questo principio che, nella concezione stoica, pervadeva la materia, la informava e la plasmava, la muoveva e la squassava tutta quanta, era, al di là dei vari nomi che assunse (mente, anima, natura, ecc.), il dio stesso (cfr. SVF, I, ffr. 85-88; 158; II, frr. 303 sgg.). La penetrazione del dio (che era inteso come corporeo) attraverso la materia e la realtà tutta (considerata corporea anch’essa) per lo Stoicismo era possibile in virtù del dogma della «commistione totale dei corpi». Respingendo la teoria epicurea degli atomi, gli Stoici ammettevano la divisibilità all’infinito dei corpi e, quindi, la possibilità che le parti dei corpi si potessero fra loro intimamente unire, così che due corpi potessero fondersi perfettamente in uno solo. È evidente che questa tesi abbia comportato l’affermazione della penetrabilità dei corpi, e, anzi, coincideva con questa: poiché il principio attivo, che è il dio, è inscindibile dalla materia, e poiché non c’è materia senza forma, il dio è in tutto ed è tutto. Il dio coincide con il cosmo.

Antonio da Correggio, Giove ed Io. Olio su tela, 1533. Wien, Kunsthistorisches Museum.

3. Lo svuotamento ontologico dell’incorporeo. – In base a quanto è stato fin qui precisato, è possibile comprendere la curiosa posizione che gli Stoici assunsero nei confronti dell’«incorporeo». Si è detto che la riduzione dell’essere a corpo comportasse, come necessaria conseguenza, la riduzione dell’in-corporeo (di ciò che è, appunto, privo di corpo) a qualcosa che fosse privo di essere. L’«incorporeo», allora, mancando appunto di corporeità, difettava di quei connotati che erano considerati distintivi dell’essere, ossia il fatto di non poter agire né patire.

Gli elementi incorporei non erano, tuttavia, il nulla e nemmeno si esaurivano nell’ambito dei λεκτά (delle «cose esprimibili»), di cui si è già detto. Infatti, è riferito che, oltre ai λεκτά, gli Stoici affermavano essere «incorporei» pure il luogo, il tempo e l’infinito (cfr. SVF, II, frr. 501-502). Questa concezione dell’«incorporeo» era tale da suscitare delle aporie, delle quali gli stessi Stoici avevano consapevolezza. Infatti, sorge spontanea la domanda: se l’«incorporeo» non ha essere, perché non è corpo, allora è non-essere? Per sfuggire a tale difficoltà gli Stoici furono costretti a negare che l’essere fosse, per così dire, il genere supremo e che fosse predicabile di qualsiasi cosa, e ad affermare che il genere più ampio di tutti fosse il «qualcosa» (cfr. SVF, II, frr. 329-332).

Naturalmente, in questo contesto, perdeva ogni senso la tavola aristotelica delle categorie, che erano considerate le supreme «divisioni» e i supremi «generi» dell’essere. Gli Stoici ridussero le categorie a due fondamentali: la sostanza intesa come sostrato materiale e la qualità intesa come la qualità che, in unione con il sostrato, determinava l’essenza delle singole cose. L’una e l’altra erano considerate materiali e corporee ed erano indisgiungibili l’una dall’altra.

Statua di Iside-Tyche-Pelagia. Marmo, I-II sec. d.C. ca. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

4. Il finalismo e la Provvidenza (πρόνοια). – Contro il meccanicismo degli Epicurei, gli Stoici difesero a spada tratta un rigorosa concezione finalistica. Già Platone e Aristotele avevano formulato un’immagine nettamente teleologica del cosmo; ma gli Stoici procedettero oltre: infatti, se tutte le cose, senza eccezione, erano da intendersi come prodotte da quell’immanente principio divino, che era il λόγος, intelligenza e ragione, tutto era rigorosamente e profondamente pensato come razionale, tutto era come la ragione voleva che fosse e come non poteva volere che fosse, tutto era come dovesse essere e come era bene che fosse, e l’insieme di tutte le cose era considerato perfetto: non c’era ostacolo ontologico all’idea dell’artefice immanente, dato che la stessa materia era veicolo del dio, e così tutto ciò che esiste aveva un suo preciso significato ed è stato fatto nel migliore dei modi possibili.

In conseguenza dell’affermazione del finalismo, anche il discorso sulla Provvidenza (πρόνοια) emerse in primo piano. Nell’ambito delle filosofie presocratiche il concetto di Provvidenza era assente. Lo stesso Aristotele non l’aveva collegata alla concezione di fine. Invece, questa dottrina si ritrovava nei Memorabili di Senofonte, e si trovava congiunta alla concezione del Demiurgo nel Timeo platonico. Ma solo con gli Stoici la Provvidenza spiccò in primo piano, occupando un posto importantissimo nella loro speculazione. La Provvidenza stoica – si badi – non aveva nulla a che vedere con quella di un dio personale; essa, in ultima analisi, non era altro che quel finalismo universale che è stato già esaminato: essa esprimeva, cioè, quell’essere ogni cosa (anche la più piccola) fatta come era bene e come era meglio che fosse da parte del λόγος. E come la Provvidenza era immanente e fisica, così non c’è da stupirsi che essa provvedesse più alla specie che non all’individuo e che, quindi, non si occupasse dei singoli uomini in quanto singoli: solo una concezione della divinità e della Provvidenza come personali avrebbe potuto permettere un guadagno in questo senso (cfr. SVF, I, frr. 171-172; II, fr. 1153).

William Blake, The Ancient of Days. Olio su tela, 1794. London, British Museum.

5. Il Fato. – Senonché questa Provvidenza immanente degli Stoici, vista sotto altra prospettiva, doveva rivelarsi come «fato» e come «destino» (εἱμαρμένη), ossia come ineluttabile necessità. Gli Stoici intesero questo Fato come la serie irreversibile delle cause, come l’ordine naturale e necessario di tutte le cose, come l’indissolubile intreccio che legava tutti gli esseri, come il λόγος, secondo cui le cose avvenute sono avvenute, quelle che avvengono, avvengono, e quelle che avverranno, avverranno. E poiché tutto era fatto dipendere dal λόγος, tutto era considerato necessario, anche l’evento più insignificante. Si è, dunque, agli antipodi della visione epicurea, che con la «declinazione degli atomi» poneva ogni cosa in balìa del caso e al fortuito (cfr. SVF, I, frr. 175-176).

Su queste basi è chiaro come gli Stoici dovessero difendere la mantica: se tutto era determinato e predeterminato, con opportuna arte il futuro avrebbe potuto essere scrutato e, in qualche modo, previsto (cfr. SVF, II, fr. 1187).

Jacques Réattu, L’apoteosi di Prometeo, portato in cielo da Minerva e dal genio della libertà. Olio su tela, 1792.

6. La Necessità e la Libertà. – I detrattori dello Stoicismo ben si accorsero che nel contesto di questa concezione fatalistica non fosse possibile far posto alla libertà umana. Se ogni evento era rigidamente determinato, e perfino la caduta di un capello non poteva essere casuale, non aveva più alcun senso l’impegno morale, appunto perché l’esito dell’azione era predeterminato in ogni caso, e non aveva più alcun senso la responsabilità, perché non dall’uomo, ma dalla necessaria e immodificabile serie delle cause dipendevano, come tutte le cose, anche le azioni umane. Crisippo cercò di risolvere l’aporia, ma con ben scarso successo. Essa, infatti, era strutturalmente insolubile. Non era possibile ammettere l’εἱμαρμένη nel senso stoico e, insieme, salvare l’umana libertà: l’una, infatti, distruggeva l’altra, e viceversa, irreparabilmente.

La vera libertà del saggio stava nell’uniformare i propri voleri a quelli del Destino, stava nel volere insieme al Fato ciò che il Fato voleva. E questa era «libertà», in quanto razionale accettazione del Fato, che era razionalità: infatti, il Destino era il λόγος, e perciò volere i voleri del Destino era volere i voleri del λόγος. Libertà, dunque, era impostare la vita in totale sintonia con il λόγος.

Cleante espresse perfettamente questo concetto di «libertà» nei seguenti versi:

Guidami, o Zeus, e tu, o Fato,

dovunque io sia stato destinato,

da voi: vi seguirò senza esitare:

qualora non volessi, risulterei malvagio,

e dovrei seguirvi, non di meno.

(cfr. SVF, I, fr. 527).

Seneca avrebbe detto con lapidaria sentenza: Duncunt uolentem fata, nolentem trahunt (ad Lucil., 107, 10). È questo un punto di forza della saggezza stoica che fece grande impressione, perché insegnava che era possibile affrancarsi dal Destino comprendendone le ragioni, le leggi e, di conseguenza, sintonizzandosi con esse.

Zeus di ‘Marbury Hall’. Statua, marmo, copia romana del I sec. d.C. da originale greco del V secolo a.C. Paul Getty Museum.

7. Il cosmo e il posto dell’uomo nell’universo. – Il mondo e le cose del mondo nascono dall’unica materia-sostrato qualificata via via dall’immanente λόγος, che è, esso pure, uno, eppure capace di differenziarsi nelle infinite cose. Il λόγος è come il seme di tutte le cose, è come un seme che contiene molti semi (i λόγοι σπερματικοί, che i latini avrebbero tradotto con l’espressione rationes seminales).

Dall’originario λόγος-πῦρ si formano i quattro elementi: l’elemento fuoco, l’elemento aereo, che, riscaldato dal fuoco, com’è noto, è detto πνεῦμα (spirito); quindi, si formano l’elemento liquido e quello solido e tutto il cosmo e tutte le cose del cosmo, a opera del fuoco stesso e del πνεῦμα, che circolano in tutte le cose. Grande importanza gli Stoici attribuirono al concetto di τόνος («tensione») del fuoco, o meglio del πνεῦμα, che sarebbe una specie di forza propulsiva che va dal centro agli estremi limiti e poi ritorna al centro, assicurando così unità alle singole cose e al tutto.

Il πνεῦμα si distende per l’universo con un’intensità e una purezza differenti e, quindi, genera le varie cose on una precisa gradazione gerarchica, pur restando uno. Nascono in questo modo le cose inorganiche, in cui il πνεῦμα agisce e si manifesta come ἕξις («forza che garantisce alle cose coesione e durata»); sorgono, quindi, gli organismi vegetali in cui il πνεῦμα si comporta e si presenta come capacità di nutrirsi, di crescere e di riprodursi, cioè come φύσις («principio di crescita»); nascono, infine, gli animali, in cui il πνεῦμα si manifesta come ψυχή («principio di vita»), e quindi come sensazione e istinto e, nell’uomo, come λόγος (cfr. SVF, II, frr. 458-462; 714-716).

Piante e animali della terra sono in funzione dell’uomo: per l’uomo è stato creato tutto ciò che sta nel mondo sublunare. Ben si comprende, quindi, la definizione data dagli Stoici: l’universo è il sistema costituito dagli dèi e dagli uomini e dalle cose create per loro.

Giovanni Lanfranco, Providentia. Incisione su rame, 1600-1625 c. Universitätsbibliothek Salzburg.

8. La conflagrazione universale e l’eterno ritorno. – Ma c’è ancora un punto essenziale concernente la cosmologia degli Stoici da illustrare. Come i Presocratici, anche gli Stoici ritenevano il mondo generato e, quindi, corruttibile (ciò che nasce, deve, a un certo momento, morire). Del resto, era l’esperienza stessa che diceva loro che, così come esisteva un fuoco creatore, esisteva anche un fuoco, o un aspetto del fuoco, che bruciava, inceneriva e distruggeva tutto. E, in ogni caso, era impensabile che le singole cose del mondo fossero soggette a corruzione e non il mondo che di esse era costituito. La conclusione era, perciò, obbligata: il fuoco a misura aveva creato e a misura avrebbe distrutto: di conseguenza, al fatidico compimento dei tempi, si sarebbe verificata una conflagrazione universale, ossia una generale combustione del cosmo (ἐκπύρωσις), che sarebbe stata anche una sorta di universale purificazione, e ci sarebbe stato solamente fuoco. A ciò avrebbe fatto seguito una nuova rinascita (παλιγγενεσία) e tutto si sarebbe ricostituito esattamente come prima (ἀποκατάστασις). Sarebbe rinato il cosmo, questo medesimo cosmo, il quale per l’eternità avrebbe continuato a essere distrutto e ad autorigenerarsi non solo nella sua struttura complessiva, ma anche negli accadimenti particolari (l’eterno ritorno); sarebbe rinato ciascun uomo sulla Terra e sarebbe stato tale quale fu nella precedente vita (cfr. SVF, II, frr. 585-625).

Andreas Cellarius, Orbita dei pianeti e delle costellazioni intorno alla terra. Illustrazione, 1660. Gorizia, P.zzo Coronini Cronberg.

9. L’uomo. – Nell’ambito del mondo, come si è visto, l’uomo occupava una posizione preminente: questo privilegio derivava, in ultima analisi, dal fatto di essere più di ogni altro ente partecipe del λόγος divino. Gli Stoici ritenevano che l’uomo fosse, infatti, costituito oltre che dal corpo anche dall’anima, la quale era intesa come un frammento di quella cosmica e, dunque, un frammento del dio, giacché l’anima universale non era altro che il dio medesimo (cfr. SVF, II, fr. 633).

Naturalmente, nel contesto dell’ontologia stoica, l’anima (ψυχή) non era sostanza immateriale, ma corporeità, sia pure corpo privilegiato, ossia πῦρ o πνεῦμα. Essa permeava tutto intero l’organismo fisico, vivificandolo; il fatto che essa fosse materiale non era d’impedimento, giacché gli Stoici ammettevano la penetrabilità dei corpi. Proprio in quanto permeava tutto l’organismo umano e presiedeva alle sue funzioni essenziali, l’anima era distinta dagli Stoici in otto parti: una centrale, chiamata egemonico, cioè la parte che dirigeva e che coincideva essenzialmente con la ragione; cinque parti costituenti i cinque sensi; una parte che presiedeva alla fonazione e, infine, quella che era preposta alla generazione. Oltre alle otto parti gli Stoici distinsero, in una medesima parte, differenti funzioni: così l’egemonico o parte principale dell’anima aveva in sé la capacità di percepire, di assentire, di appetire, di ragionare.

La morte era considerata la separazione dell’anima dal corpo, ma non in senso metafisico, quale pensava Platone; bensì una separazione fisica, come già per gli Epicurei. Ma mentre questi ultimi sostenevano che l’anima, separandosi dal corpo, si disperdeva subito, gli Stoici credevano a una sopravvivenza di essa (cfr. SVF, I, frr. 126 sgg.).

Il padre, particolare del sarcofago di M. Cecilio Stazio con scena di vita infantile. Bassorilievo, marmo, III sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.

10. I destini dell’anima. – La posizione che gli Stoici assunsero nei confronti della sopravvivenza dell’anima era a mezza strada fra quella di Platone e quella di Epicuro. L’anima avrebbe perdurato dopo la morte, ma fino a quando? Il terminus a quem ultimo era dato dal momento della conflagrazione universale. Ma sua questo punto i filosofi del Portico si dividevano: alcuni, come Cleante, pensavano che tutte le anime indistintamente durassero fino al momento della conflagrazione universale; altri invece, come Crisippo, ritenevano che solo le anime dei saggi avessero il privilegio di una così lunga durata.

Il luogo destinato alle anime, che avrebbero assunto una forma sferica, sembra che fosse quello situato sotto la Luna. Esse avrebbero mantenuto le loro facoltà conoscitive, avrebbero avuto un certo ruolo nella divinazione e nei sogni e le migliori di esse avrebbero dato origine ai cosiddetti «Eroi» (cfr. SVF, II, frr. 810-822).

Ma anche quando, al sopraggiungere dell’anno cosmico, le anime fossero state assorbite nell’anima universale e nel fuoco eterno, non sarebbero scomparse se non in senso relativo: infatti, grazie alla palingenesi, ogni anima, così come ogni altra cosa, sarebbe tornata a ricostituirsi, all’infinito; e, in questo senso, l’esistenza di ciascun’anima e di ciascun uomo avrebbe ripreso in eterno.

Roberto Ferri, Nel sangue e nell’anima (2013).

V. L’etica dell’antica Stoa[7]

1. Il λόγος come fondamento dell’etica. – La parte più significativa e più viva della filosofia del Portico non era tuttavia l’originale e audace fisica, bensì l’etica: infatti, fu con il loro messaggio etico che gli Stoici, per oltre mezzo millennio, seppero dire agli uomini una parola veramente efficace, che fu sentita come particolarmente illuminante circa il senso della vita, come profondamente consolatrice dei mali dell’umanità, come liberatrice dalle illusioni.

Anche per gli Stoici, così come per gli Epicurei, lo scopo ultimo del vivere era il raggiungimento della felicità. E l’etica appunto avrebbe dovuto determinare in che cosa esattamente consistesse la felicità e quali fossero i mezzi appropriati per conseguirla; anzi, proprio come per gli Epicurei, la soluzione di questo problema costituiva non già – come per i sistemi classici – lo scopo di un settore della filosofia, ma lo scopo unico di tutte le sue parti.

Anche per gli Stoici, ancora come per gli Epicurei, l’impostazione e la soluzione dei problemi etici erano perseguite al di fuori degli schemi ellenici più collaudati, in funzione di nuovi parametri desunti da una nuova interpretazione della φύσις. Anche il motto degli Stoici era: «Vivere conformemente alla natura», o «Vivere secondo i dettami della natura» (SVF, II, frr. 2-19), dove per «natura» è da intendersi sia la φύσις universale, sia la φύσις dell’uomo, la quale della φύσις universale è un momento e una parte.

Ma il disaccordo con gli Epicurei si manifesta, e in modo assai marcato, non appena si passa alla determinazione specifica di questa natura. Impossibile, per gli Stoici, ammettere che l’istinto fondamentale dell’uomo fosse il sentimento del piacere insieme al suo contrario (il sentimento del dolore): se così fosse, l’uomo e l’animale sarebbero sul medesimo piano e non si differenzierebbero. Un’obiettiva considerazione sulla natura umana mostra che la sua peculiarità consiste proprio nell’essere dotato di ragione, la cui portata va ben oltre il calcolo dei piaceri. La differente visione metafisica dell’uomo, che dava all’anima razionale e al λόγος dell’uomo un rilievo ontologico nettamente superiore che nell’Epicureismo (il λόγος umano era un frammento e un momento di quello divino), permise a Zenone e ai suoi seguaci di dare alla caratteristica che differenzia l’uomo da tutte le altre cose uno spessore ontologico più consistente (cfr. SVF, III, frr. 11; 200).

Dunque, la φύσις caratteristica dell’uomo è il λόγος (la «ragione»), e come lo scopo di ogni essere è quello di attuare la propria φύσις, così il fine ultimo dell’uomo sarà quello di attuare appunto la ragione; e, per conseguenza, sulla base dei modi e delle maniere in cui la ragione si attua perfettamente si deducevano tutte le norme della condotta morale.

Scene di vita pastorale. Bassorilievo, marmo, III sec. d.C. dal sarcofago di Giulio Achilleo. Roma, Museo Nazionale Romano.

2. Il primo istinto. – Ma ritorniamo un passo indietro e vediamo meglio come nella sfera della φύσις generale era collocata esattamente la φύσις particolare dell’uomo: se osserviamo l’essere vivente, noi costatiamo, in generale, che esso è caratterizzato dalla costante tendenza a conservare se medesimo, ad appropriarsi del proprio essere e di tutto quanto sia atto a conservarlo e a evitare ciò che gli è contrario, a conciliarsi con se stesso e con le cose che sono conformi alla propria essenza. Questa caratteristica degli esseri viventi era indicata dagli Stoici con il termine οἰκείωσις (appropriazione, attrazione = conciliatio). Dalla οἰκείωσις, appunto, doveva muovere la deduzione del principio dell’etica. Nelle piante e nei vegetali in genere questa tendenza era considerata del tutto inconsapevole, negli animali essa era consegnata a un preciso istinto o impulso primigenio, mentre nell’uomo questo impulso era ulteriormente specificato e sorretto dall’intervento della ragione. Ecco dunque come si determinava il senso della formula di cui si è detto al precedente paragrafo (vd. infra §). Vivere conformemente alla natura significava vivere realizzando pienamente questa appropriazione o conciliazione del proprio essere e di ciò che lo conservava e lo attuava, e poiché l’uomo non è semplicemente essere vivente, ma è essere razionale, il vivere secondo natura doveva essere un vivere “conciliandosi” con il proprio essere razionale, conservandolo e attuandolo pienamente (cfr. SVF, I, frr. 197 sg.; 178 sgg.).

Theodoor Galle, Il filosofo Cleante. Incisione dall’edizione di J. Moretus della L. Annaei Senecae philosophi Opera, quae exstant omnia, a Iusto Lipsio emendata, et scholijs illustrata (Amberes 1605).

3. Il principio delle valutazioni: i beni, i mali e gli indifferenti. – Se il piacere non è qualcosa di originario, ma è solo un fenomeno concomitante, non è possibile fondarsi su di esso per valutare ciò che è bene e ciò che è male, ma bisogna risalire a ciò che è originario e primo. E poiché primi e originari sono l’istinto della conservazione e la tendenza all’incremento dell’essere, ecco trovato il principio della valutazione: “bene” è ciò che conserva e incrementa il nostro essere; “male”, invece, è ciò che lo danneggia e lo diminuisce. Al primo istinto era, dunque, strutturalmente connessa la tendenza a valutare, nel senso che tutte le cose, commisurate al primo istinto, a secondo che risultassero giovevoli o dannose, erano considerate beni oppure mali. Il bene, dunque, era identificato con il giovevole e l’utile; il male con il nocivo. Ma si badi: poiché gli Stoici insistevano nel differenziare l’uomo da tutte le altre cose, mostrando come esso fosse determinato non solo dalla sua natura propriamente animale, ma soprattutto dalla natura razionale – cioè dal privilegiato manifestarsi in lui del λόγος – così il principio delle valutazioni avrebbe assunto due differenti valenze, a seconda che fosse riferito alla φύσις puramente animale, oppure a quella razionale. Altro, infatti, sarebbe ciò che giova alla conservazione e all’incremento della vita animale e ciò che favorisce la conservazione e l’incremento della vita razionale e del λόγος.

Risulta necessaria, di conseguenza, una differenziazione gerarchica dei beni, a seconda che essi siano di giovamento e di incremento alla ragione, oppure semplicemente alla vita animale. A dire il vero, in questa distinzione gli Stoici si spinsero a un tale punto di rigore e di intransigenza da considerare veri e autentici beni esclusivamente quelli che incrementavano il λόγος e veri e autentici mali esclusivamente quelli che erano in contrasto con la φύσις razionale. E viceversa, solo ciò che appariva contrario a questi beni, di conseguenza, era ritenuto il vero male, perché rendeva l’uomo come non doveva essere, cioè «cattivo», «vizioso». Tutto questo si riassumeva nel celebre principio stoico: bene è solo la virtù, male è solo il vizio.

E ciò che giova al corpo e alla nostra natura biologica come era considerato? E il contrario di questo come poteva essere dominato? La tendenza di fondo dello Stoicismo era quella di negare a tutte queste cose la qualifica di “beni” e di “mali”, appunto perché – come si è visto – bene e male erano solo ciò che giovava e solo ciò che nuoceva al λόγος; pertanto, solo il bene e solo il male morale. Di conseguenza, tutte quelle cose che sono relative al corpo, sia che nuocciano sia che non nuocciano, erano considerate «indifferenti» (ἀδιάφορα), o meglio moralmente indifferenti. Fra queste cose erano collocate sia quelle fisicamente e biologicamente positive (vita, salute, bellezza, ricchezza, ecc.) sia quelle fisicamente e biologicamente negative (morte, malattia, bruttezza, povertà, ecc.) [cfr. SVF, III, fr. 117).

Questo nettissimo distacco operato fra beni e mali, da un lato, e indifferenti, dall’altro, era indubbiamente una delle note caratteristiche più tipiche dell’etica stoica e già nell’Antichità fu oggetto di enorme stupore, di vivaci consensi e dissensi e suscitò molteplici discussioni fra gli avversari e perfino fra i seguaci stessi della filosofia del Portico.

Ritratto immaginario del filosofo Cleante di Asso. Incisione dall’Illustrium philosophorum et sapientum effigies ab eorum numistatibus extractae di G. Olgiati (1580; 1583)

4. I valori relativi, i «preferibili» e i «non preferibili». – La legge generale della οἰκείωσις implicava che, dal momento che era un istinto di tutti gli esseri quello di conservare se medesimi e poiché proprio questo istinto era fonte delle valutazioni, si dovesse riconoscere come positivo tutto ciò che li conservasse e li incrementasse, anche al semplice livello fisico e biologico. E così, non solo per gli animali, ma altresì per gli uomini, si doveva ammettere come positivo tutto ciò che fosse conforme alla natura fisica e che garantisse, conservasse e incrementasse la vita, come la salute, la forza, la vigoria del corpo e delle membra, e così via. Questo elemento positivo secondo natura era chiamato dagli Stoici valore (o stima), mentre l’opposto negativo era detto mancanza di valore.

Pertanto, quegli elementi «intermedi» fra  i beni e i mali cessavano di essere del tutto «indifferenti»; o meglio, pur restando moralmente indifferenti, diventavano, dal punto di vista fisico, «valori» o «disvalori».

In altre parole, le cose che stavano fra beni e mali morali erano, alcune valori, altre disvalori: alcune valori in maggiore o minore grado, altre disvalori in maggiore o minore grado. Ne conseguiva che, da parte della nostra natura animale, le prime dovevano essere oggetto di «preferenza», le seconde di «avversione». Di qui una seconda distinzione, strettamente dipendente alla prima: fra indifferenti «preferiti» e indifferenti «respinti» (cfr. SVF, I, frr. 191-192).

Queste differenziazioni corrispondevano non solo a un’esigenza di attenuare realisticamente la dicotomia troppo netta fra beni e mali e indifferenti, di per sé paradossale, ma trovavano nei presupposti del sistema una giustificazione addirittura maggiore che non la sopraddetta diversificazione. Perciò, ben si capisce come il tentativo di Aristone e di Erillo di sostenere l’assoluta ἀδιαφορία («indifferenza») delle cose che non sono beni né mali abbia trovato una netta opposizione in Crisippo, che difese la posizione di Zenone e la consacrò in via definitiva.

Liva Drusilla nelle vesti di Ops, con covone e cornucopia. Statua, marmo, I sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.

5. Virtù e felicità. – Chi ha seguito fin qui avrà sicuramente notato come anche negli Stoici, non meno che in Platone e in Aristotele, acquisti perfetta espressione quella concezione dell’ἀρετή («virtù»), che noi sappiamo essere una delle costanti tipiche del pensiero morale greco, fin dalle sue origini. La virtù umana è la perfezione di ciò che è peculiare e caratteristico dell’essere umano; e poiché caratteristica dell’essere umano è la ragione, la virtù è la perfezione della ragione. Pertanto, il «vivere secondo natura», che si è visto essere precetto basilare dell’etica stoica, coincide esattamente con il «vivere secondo ragione» e, quindi, con il «vivere secondo virtù»; e poiché la virtù è l’espressione e l’attuazione perfetta della natura umana, essa è eo ipso felicità: infatti, la vita beata (εὐδαιμονία) altro non è che questo pieno e perfetto realizzarsi della φύσις umana.

Sulla base di queste premesse, è evidente come gli Stoici dovessero combattere sia la tesi epicurea che subordinava la virtù al piacere come un mezzo per ottenere un fine, sia la concezione escatologica che legava la virtù a un premio ultraterreno: come perfezione della φύσις umana la virtù valeva per se medesima, non produceva la felicità come qualcos’altro da sé (fosse questa piacere o premio ultraterreno), ma era essa stessa la felicità e, dunque, andava desiderata, cercata, amata e coltivata in sé e per sé (SVF, III, fr. 54).

Così lo Stoico è reso dalla virtù perfettamente autosufficiente: non ha bisogno di piaceri, che non sono perfezionamenti della sua natura di uomo, ma solo fenomeni passeggeri e, in ogni caso, non interamente in suo potere; non ha bisogno nemmeno di una vita futura che aggiunga qualcosa a quella perfezione che già possiede con la virtù; non teme di perderla per opera altrui, perché nessuno gliela può strappare di dosso, essendo essa ontologicamente radicata nella sua natura; con la virtù, insomma, l’uomo tocca un vertice di assolutezza, in cui si sente uguale agli dèi: «Per nulla la felicità di Zeus è preferibile né più bella né più pregevole di quella dei sapienti».

Crisippo. Busto, marmo, copia romana da originale ellenistico di fine III sec. a.C. London, British Museum.

6. Identità della virtù in tutti gli esseri razionali. – La riduzione della virtù a perfezione del λόγος e, quindi, a scienza conteneva in sé una conseguenza che, fondamentalmente, né Socrate, né Platone e nemmeno Aristotele ebbero il coraggio di trarre, o che trassero in maniera incompleta, perché condizionati dalle convinzioni sociali del loro tempo e, in particolari, dai valori della πόλις («città-stato»). Alludiamo all’affermazione dell’identità assoluta della virtù negli uomini, a qualunque ceto, sesso e condizione appartenessero – perfino gli schiavi –, che espressamente e ripetutamente gli Stoici ribadirono. Già Epicuro aveva accolto nel suo Giardino uomini di varia estrazione sociale, donne e perfino le ἑταῖραι («etère»). La caduta delle strutture poliadiche, le quali, in passato, per gli stessi filosofi avevano costituito quasi categorie del pensare politico, spesso sovrapponendosi ai loro stessi principi metafisici, rendeva ormai possibile una coerenza di pensiero morale, che, per le ragioni addotte, era mancata nei filosofi dell’età classica.

In verità, Epicuro mantenne qualche riserva e manifestò certe reticenze. Gli Stoici, invece, furono più decisi dal punto di vista dottrinale: riferendosi al pensiero già proprio degli Stoici antichi, infatti, Seneca scrisse: «La virtù non è preclusa ad alcuno, è permessa a tutti, accoglie tutti, chiama a sé tutti, liberi e liberti e schiavi e re ed esuli; non sceglie la casa o il censo, si accontenta dell’uomo nudo»[8].

E un’ulteriore conseguenza, a questa strettamente connessa, gli Stoici dedussero dalla riduzione della virtù a scienza e a saggezza: non solo è uguale la virtù in tutti gli uomini, ma è uguale altresì la virtù degli uomini e quella degli dèi. Tale affermazione fece enorme impressione agli antichi e fu giudicata come smodata ed empia, ma era coerente con i principi stoici.

Johannes Moreelse, Eraclito. Olio su tela, 1630 c.

7. L’azione retta (κατόρθωμα). – Gli Stoici non si limitarono alle considerazioni generali circa l’essenza della virtù e del vizio, ma scesero, spinti dal loro accentuato interesse etico, a un attento esame della condotta morale, delle azioni di cui essa era costituita e dalle differenti valenze morali che le azioni umane potevano avere, creando così concetti nuovi e originali. Chi possiede la virtù, cioè il λόγος armonizzato in modo perfetto, non può se non compiere «azioni perfette», ossia azioni che corrispondono in tutto e per tutto alle istanze del λόγος perfetto. Ciò vuol dire che le azioni portano con sé necessariamente la carica di perfezione della fonte da cui derivano. Insomma: la virtù, quando sia posseduta, si riverbera su tutte le azioni e su tutti gli atteggiamenti morali e si manifesta perfino nell’inconscio.

Tenendo presente questo, è agevole comprendere che cosa sia quello che gli Stoici denominavano κατόρθωμα («azione retta», «azione perfetta», «azione virtuosa»): era quell’azione che si radicava nella virtù e che, quindi, conteneva «tutte le caratteristiche della virtù» medesima (SVF, III, fr. 11); si chiamava in questo modo, perché derivava da un ὀρθός λόγος: era azione perfetta, perché ispirata e sorretta da un λόγος perfetto.

Da queste dottrine gli Stoici trassero le seguenti conseguenze:

  • Non si deve giudicare se un’azione sia retta o meno (cioè se sia o no un κατόρθωμα) dal suo esito e dal raggiungimento del risultato che si era proposta, ma la si deve valutare dal suo punto di partenza.
  • Non si può giudicare se un’azione sia retta o no (se sia, cioè, un κατόρθωμα o meno) dai suoi tratti estrinseci: un’azione può benissimo assomigliare esteriormente a un κατόρθωμα, ma non esserlo affatto, se manca la giusta disposizione, se non c’è il sostegno dell’ὀρθός λόγος. Un saggio e uno stolto potranno fare la stessa cosa, ma la loro azione risulterà uguale solo esteriormente, e sarà, invece, diversissima intrinsecamente: κατόρθωμα sarà la prima e solo la prima, come risulta necessariamente da quanto si è spiegato al punto precedente, e mai potrà esserlo la seconda.
  • Poiché l’«azione retta» è prodotta dalla virtù, cioè dalla saggezza, ne consegue che nessuno stolto potrebbe mai compiere azioni rette, ovvero che, per compierne, dovrebbe prima diventare saggio. Il che significa, però, che i più non avranno mai la possibilità di compiere azioni rette (κατορθώματα), perché i più non sono saggi.
Guerriero, detto Vulneratus deficiens (o ‘Il Gladiatore Farnese’). Statua, marmo bianco, copia romana del 190 d.C. c. da originale greco del V sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

8. Il dovere (καθῆκον). – Le azioni umane non si possono, però, distinguere con un taglio netto fra «azioni rette o virtuose» (κατορθώματα) e quelle contrarie, cioè le «azioni viziose» o «errori» (ἁμαρτήματα): infatti, fra le prime e le seconde si colloca tutta una fascia di azioni intermedie, che gli Stoici hanno cercato di determinare con precisione. Già si è visto come fra i beni e i mali (morali) gli Stoici ponessero una serie di «indifferenti» (ἀδιάφορα), che avevano un certo loro valore, o un certo loro disvalore, se non morale, almeno naturale, e che quindi risultavano «preferiti» o «respinti». Analogamente, fra «azioni virtuose» e «azioni viziose», che riguardano propriamente l’aspetto spirituale e morale dell’individuo, gli Stoici ammettevano azioni dotate di un valore relativo o di un disvalore relativo. Si tratta di tutte quelle azioni che riguardano soprattutto la componente naturale e fisica dell’uomo, dalla quale non è possibile prescindere. Quando queste azioni siano compiute conformemente a natura – cioè, in modo razionalmente corretto – hanno una piena giustificazione razionale e, quindi, sono dette «azioni convenienti», o «doveri» (καθήκοντα).

In verità, è da rilevare che la traduzione di καθῆκον con «dovere» forza in senso moderno il pensiero stoico; alla lettera bisognerebbe tradurre con «ciò che è conveniente»: in questo modo, si capirebbe meglio come Zenone abbia attribuito dei «convenienti» anche agli animali e alle piante; anche questi, infatti, per esistere, devono rispettare determinate condizioni, conformarsi a certe esigenze della natura. Ma è chiaro come specialmente per l’uomo si possa e si debba parlare di «azioni convenienti», o di «doveri»: il paragone con gli animali e con le piante serve solo a mostrare come il καθῆκον sia legato alla natura biologica e fisica dell’uomo, a differenza della virtù e dell’atto virtuoso, che riguardano, invece, l’aspetto propriamente morale e spirituale dell’individuo. È chiaro che le azioni del soggetto comune, le quali non possono mai rientrare nella sfera delle azioni moralmente perfette (κατορθώματα), rientrano a pieno diritto in questo ambito. La condotta dell’uomo medio, dunque, ha essa stessa dei parametri per essere intesa e detiene un punto di tangenza, benché parziale, con la condotta del saggio. Naturalmente, come esistono comportamenti che hanno valore di «doveri» (καθήκοντα), così ci sono azioni che recano l’opposto segno del disvalore e, cioè, sono sconvenienti, e, infine, ce ne sono alcune assolutamente indifferenti (cfr. SVF, III, frr. 493-498).

I comandi e i precetti delle leggi sono, per la massa degli uomini, καθήκοντα, e da questi è regolata tutta l’esistenza delle persone comuni. Questo concetto di καθῆκον fu sostanzialmente una creazione stoica. I Romani, che lo resero poi con il termine di officium, avrebbero contribuito, con la loro sensibilità pratico-giuridica, a stagliare più nettamente i contorni di questa figura concettuale, che noi moderni chiamiamo «dovere».

Salvator Rosa, Paesaggio fluviale con Apollo e la Sibilla Cumana (1655).

9. Legge eterna e diritto di natura. – La legge umana non è altro che l’espressione di una legge naturale eterna, che nasce dal λόγος stesso, il quale plasma tutte le cose e, in virtù della sua razionalità, stabilisce ciò che è bene e ciò che è male; insomma, impone obblighi e divieti. E il modo in cui si è visto gli Stoici dedurre bene e male morale mostra chiaramente come, in concreti, essi concepissero la φύσις e il λόγος, oltre che in dimensione ontologica, anche in senso deontologico. Dunque, la legge deriva dal Λόγος stesso che regge l’universo; peraltro, il diritto «è dato da natura» e il diritto positivo umano non è altro se non l’esplicazione di questo diritto naturale. Legge e natura, con gli Stoici, tornarono a riconciliarsi in modo perfetto: il νόμος non era più mera convenzione e opinione in contrasto con la φύσις, ma diventava la traduzione e l’interpretazione corretta delle istanze della φύσις medesima (SVF, III, fr. 308).

Centauro con Eros. Statua, marmo, copia romana di I-II sec. d.C. da originale ellenistico. Paris, Musée du Louvre.

10. Cosmopolitismo. – Per gli Stoici, l’uomo è spinto dalla natura a conservare il proprio essere e ad amare se stesso. Eppure, questo istinto primordiale non è finalizzato solo alla conservazione dell’individuo: l’uomo, infatti, estende immediatamente l’οἰκείωσις ai suoi discendenti e ai suoi simili. Insomma, è la natura stessa che, come impone di amare sé, così stabilisce di amare chi abbiamo generato e chi ci ha generati; ed è la natura che ci spinge a unirci agli altri e a giovare agli altri. Da essere che vive nel chiuso della sua individualità, come voleva Epicuro, l’uomo torna a essere «animale comunitario» (ζῷον κοινωνικόν). E la formula nuova dimostra che non si tratta di una semplice ripresa del pensiero aristotelico, che voleva l’uomo «animale politico» (ζῷον πολιτικόν): l’uomo, più ancora che essere fatto per associarsi in una πόλις, è fatto per potersi associare con tutti gli uomini. Su queste basi, gli Stoici non potevano essere se non fautori di un ideale fortemente cosmopolitico.

Sempre sulla base della loro concezione di φύσις e di λόγος, gli Stoici seppero mettere in crisi, più degli altri filosofi, gli antichi miti della nobiltà del sangue e della superiorità etnica, nonché le catene della schiavitù. La nobiltà era definita «scorza e raschiatura dell’uguaglianza» (SVF, III, fr. 350); tutti i popoli erano dichiarati capaci di giungere alla virtù; l’uomo era proclamato libero: infatti, «nessun uomo è per natura schiavo» (SVF, III, fr. 352). I nuovi concetti di nobiltà, libertà e schiavitù erano collegati alla saggezza e all’ignoranza: vero libero è il saggio, vero schiavo è lo stolto.

«Testa del filosofo». Testa, bronzo, seconda metà del V sec. a.C. ca. da un relitto dalle acque di Ponticello, Villa S. Giovanni (RC). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.

11. Le passioni e l’apatia. – Per gli Stoici, le passioni, insieme alle loro cause e ai loro effetti, erano la fonte di ogni infelicità. Pertanto, è ben comprensibile come nel Portico si discutesse in modo approfondito di esse e come si dedicassero loro specifici studi; si trattava, in effetti, di spiegare quel fenomeno importantissimo della vita morale, per cui la ragione era obnubilata, accecata e perfino travolta da moti irrazionali insiti nell’individuo.

Le passioni non erano considerate l’effetto del puro irrazionale, cioè di quanto nell’uomo vi fosse di animalesco e, in ogni caso, di non riconducibile al λόγος. Era possibile dire, dunque, che le passioni sorgessero a causa e in conseguenza di un giudizio erroneo; oppure era possibile addirittura identificare la passione con lo stesso giudizio erroneo. Ambedue queste tesi furono sostenute nella Stoa: Zenone e molti suoi discepoli sostennero la prima, mentre Crisippo, per esempio, la seconda con notevole insistenza.

Siccome le passioni erano connesse al λόγος, in quanto suoi «errori» (ἁμαρτήματα), è chiaro che non aveva senso, per gli Stoici, il moderare o il circoscrivere le passioni: come già Zenone diceva, esse dovevano essere distrutte, estirpate, sradicate totalmente. Il saggio, curando il proprio λόγος e facendolo essere il più possibile retto, non avrebbe lasciato neppure nascere nel suo cuore il germe delle passioni, o le avrebbe annientate al loro stesso insorgere. È, questa, la celebre apatia stoica, cioè la distruzione delle passioni – considerate sempre e soltanto turbamenti dell’animo. La felicità era, dunque, apatia, impassibilità (cfr. SVF, I, frr. 205 sgg.).

Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).

12. L’ideale del saggio. – In una concezione della filosofia intesa come problema della vita quale fu formulata in età ellenistica, ebbe grandissima importanza la caratterizzazione dell’uomo perfetto, ossia dell’individuo che viveva in totale sintonia con il λόγος; in altre parole, il «saggio» (σοφός), che costituì il paradigma ideale cui ciascuno doveva ispirarsi. Basterebbe dire che il saggio è cinto dalla corona di tutte le virtù, per dirla in breve. Ma gli Stoici non cessarono di aggiungere epiteti per caratterizzare ulteriormente la loro figura del saggio, dando fondo a tutta una aggettivazione che denotava qualità positive: il saggio non sbaglia mai, perché non ha opinione, ma scienza; il saggio fa bene tutto quel che fa, perché lo fa con ὀρθός λόγος, con lo spirito giusto; il saggio è grande, grosso, alto e forte, invitto e invincibile; inoltre, il saggio è ricco, nobile e bello: ricco anche se mendico, nobile anche se servo, bello anche se fisicamente brutto, perché ha la sua ricchezza, nobiltà e bellezza nel λόγος; il saggio è libero, perché vuole tutto ciò è necessario; sopporta e accetta tutto quanto è stabilito dal Fato; il saggio basta a se stesso, perché nel λόγος ha tutto ciò che gli occorre; nulla può turbare il saggio, perché la corazza del λόγος da tutto lo protegge e, come il saggio epicureo, così il saggio stoico anche fra le torture e i patimenti può essere felice, giacché con il λόγος trascende il dolore e lo annulla. Nella sua pace interiore egli è come Zeus (cfr. SVF, III, frr. 544-656).

Giotto di Bondone, Stoltezza. Affresco, 1306. Padova, Cappella degli Scrovegni.

Ma per quanto esaltante possa essere questa descrizione, cionondimeno emergono da più di un lato aspetti negativi: intanto l’ideale del saggio non ammette alcuna via di mezzo (o si è saggi o si è stolti e tertium non datur); e fra gli stolti non esiste gradazione gerarchica. Si annega sia in pochi centimetri di acqua sia nelle profondità oceaniche: la profondità dell’acqua non conta, perché si annega comunque; così non conta che chi è stolto lo sia poco o molto: la quantità maggiore o minore è insignificante rispetto alla qualità. Di conseguenza, anche le colpe sono tutte egualmente gravi, perché egualmente negativo è lo spirito da cui esse scaturiscono. Perciò, fra stolti e saggi c’è assoluta incommensurabilità. Ma l’apatia che cinge lo Stoico è veramente raggelante e, al limite, inumana: poiché pietà, compassione e misericordia sono passioni, lo Stoico le estirperà.

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  • III: Chrysippi Fragmenta moralia, Fragmenta successorum Chrysippi, Lipsiae 1903 [= 19642] online;
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Note:

[1] Cfr. BALTZLY D., s.v. Stoicism, in ZALTA E.N. (ed.), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Stanford 1996 [= 2018, online]; RUBARTH S., s.v. Stoic Philosophy of Mind, in Internet Encyclopedia of Philosophy. Si vd. anche la v. Stoicismo, in Dizionario di filosofia (2009) [Treccani.it].

[2] «Zenone, figlio di Mnasea, nacque a Cizio in Cipro, città greca che aveva avuto coloni fenici» (Diogene Laerzio, VII, 1), intorno al 333/332 a.C. Non c’è ormai dubbio che, come il Pohlenz ha dimostrato (Die Stoa, Geschichte einer geistigen Bewegung, traduzione italiana, Firenze 1967, pp. 26 sg.;), Zenone sia stato di sangue semitico. Si trasferì ad Atene all’età di ventidue anni, non già in seguito  un casuale naufragio (alla versione del naufragio Diogene stesso, che la riferisce [VII, 2], contrappone opposte versioni [VII, 5]), ma per una precisa scelta spirituale. Per quanto concerne i rapporti che egli ebbe con i filosofi che insegnavano allora ad Atene e la fondazione della Stoa, diremo più avanti. Delle sue opere, tutte per noi perdute, Diogene fornisce un elenco abbastanza nutrito (VII, 4). Zenone morì nel 262 a.C. Il suo insegnamento gli merita grande stima e rispetto, a motivo dell’elevato senso morale. La sua rettitudine e morigeratezza divennero proverbiali. Malgrado fosse straniero, gli Ateniesi gli conferirono grande onore: «Depositarono nelle sue mani le chiavi delle mura della città, gli tributarono una corona d’oro e gli elevarono una statua di bronzo» (Diogene Laerzio, VII, 6). Cfr. ALESSANDRELLI M., Nel laboratorio di Zenone. Platone e la dottrina stoica della conoscenza, Chaos&Kosmos VII (2006), pp. 18-32 [online]. Si vd. anche VON FRITZ K., s.v. Zenon 2, RE X A (1972), coll. 83-121, e la v. Zenone di Cizio, in Dizionario di filosofia (2009) [Treccani.it].

[3] Cfr. la v. Cratete di Tebe, in Dizionario di filosofia (2009) [Treccani.it], e la v. Antistene di Atene, ibid. [Treccani.it].

[4] Cleante, nativo di Asso, nella Troade, dopo essere stato membro della Stoa per quasi un ventennio, successe a Zenone nella direzione del Portico nel 262 a.C. e capeggiò la Scuola per un trentennio. Morì intorno al 231 a.C. circa. Prima di diventare seguace di Zenone, fece il pugile (Diogene Laerzio, VII, 168 [ = von Arnim, S.V.F., 1, fr. 463, p. 103, 2]). Conosciuto il suo futuro maestro, si appassionò alla filosofia, per coltivare la quale non esitò, essendo povero, a sottoporsi a duri e umili lavori notturni, irrigando orti e impastando farina per una venditrice (Diogene Laerzio, ibidem). La libertà di discussione che Zenone aveva lasciato ai discepoli, a differenza di Epicuro, produsse nella Scuola notevoli scosse e quindi una crisi, che Cleante non riuscì perfettamente a dominare, mancandogli la genialità del maestro e l’acutezza e l’abilità di Crisippo. Diogene tramanda che «lasciò bellissimi libri», elencandone una cinquantina di titoli (VII, 174 sgg.). Cfr. DÖRRIE H., s.v. Kleanthes, in RE, Suppl. XII (1970), coll. 1705-1709,  e CALOGERO G., s.v. Cleante, in Enciclopedia Italiana (1931) [Treccani.it]; per una bibliografia su Cleante, si vd. A Hellenistic Biography [sites.google.it].

[5] Crisippo nacque a Soli, in Cilicia, tra il 281 e il 277 a.C. e morì fra il 208 e il 204 a.C., come si ricava da Diogene Laerzio, VII, 184 = von Arnim, S.V.F., II, fr. 1, p. 2, 16 sg., che attinge da Apollodoro. Come ha evidenziato il Pohlenz (La Stoa, I, pp. 39 sg.), Crisippo dovette essere di origine semitica, come si desume dai tratti del volto, dal fatto che imparò il greco ormai già adulto e che commetteva errori di lingua (cfr. von Arnim, S.V.F., II, frr. 24 e 894). Fu discepolo di Cleante, dopo essere stato per un certo periodo nell’Accademia e aver ascoltato le lezioni di Arcesilao e Lacide (Diogene Laerzio, VII, 183 [= von Arnim, S.V.F., II, fr. 1, p. 2, 8 sg.]), dai quali apprese l’arte dialettica, per cui aveva spiccate capacità: «Acquistò tale rinomanza nella dialettica – riferisce sempre Diogene Laerzio, VII, 180 [= von Arnim, ibid., II, fr. 1, p. 1, 12 sg.] – che i più credevano che se gli dèi avessero avuto bisogno della dialettica, non altra dialettica che quella di Crisippo avrebbero adottato». E in virtù di queste eccezionali abilità, egli poteva dire al maestro Cleante che gli «occorreva soltanto l’insegnamento della dottrina [della Stoa], ché avrebbe trovato da solo le dimostrazioni» (VII, 179). Malgrado alcuni dissensi con Cleante riguardanti la dottrina, la coscienza della propria superiorità e il notevole successo delle proprie lezioni, Crisippo restò fedele al maestro e alla Scuola, e alla morte di Cleante divenne direttore della Stoa. Sotto la sua guida, il Portico superò tutte le crisi interne e si impose all’esterno in maniera decisiva, tanto che di lui si disse: «Senza Crisippo, non sarebbe esistita la Stoa» (Diogene Laerzio, VII, 183 [ = von Arnim, S.V.F., II, fr. 6]). Crisippo fu anche scrittore fecondissimo: Diogene Laerzio (VII, 189 sgg. [ = von Arnim, ibid., fr. 13]) fornisce un imponente catalogo di titoli delle sue opere, tutte quante per noi perdute. Questa immensa produzione eclissò quella di Zenone e quella di Cleante e la formulazione della dottrina stoica data da Crisippo si impose pertanto come paradigmatica. Si vd. anche VON ARNIM H., s.v. Chrysippos 14, RE III, 2 (1899), coll. 2502–2509 [online]; COVOTTI A., s.v. Crisippo, in Enciclopedia Italiana (1931) [Treccani.it]; e KIRBY J., s.v. Chrysippus, in Internet Encyclopedia of Philosophy.

[6] Per una bibliografia selezionata sui tre scolarchi, si vd. History of Logic [online].

[7] Cfr. LONG A.A., s.v. Ethics of Stoicism, in DHI; cfr. anche STEPHENS W.O., s.v. Stoic Ethics, in Internet Encyclopedia of Philosophy.

[8] Sen. ben. III 18, 2: Nulli praeclusa uirtus est; omnibus patet, omnes admittit, omnes inuitat, et ingenuos et libertinos et seruos et reges et exules; non eligit domum nec censum, nudo homine contenta est. Cfr. SVF, III, fr. 508.

Il genere oratorio fra V e IV secolo a.C.

di I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca. 2.B. La prosa e le forme di poesia, Messina-Firenze 2004, pp. 184-195.

 

  1. I caratteri generali

Le origini dell’oratoria e la codificazione del genere | Benché i Greci credessero che l’oratoria avesse avuto origine in Sicilia con Corace e Tisia, maestri di Gorgia da Lentini, in realtà, furono le particolari condizioni socio-culturali della loro patria a permettere lo sviluppo di un sistema politico e giudiziario che implicava un continuo confronto fra individuo e collettività. Quindi, la capacità di usare la parola come strumento di spiegazione e di persuasione nella vita politica e giudiziaria si rivelò indispensabile anche prima del V secolo a.C.; anzi, sebbene sia in questo periodo che l’oratoria assunse le sue caratteristiche definitive, si specializzò nei vari settori e assurse alla dignità di forma d’arte, i suoi esordi furono molto più antichi.

Filosofo o sacerdote (Plutarco o Platone). Statua, marmo bianco, 280 a.C. ca. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

L’ammirazione per la parola eloquente e persuasiva è già molto evidente nell’epos omerico: lo dimostra l’apprezzamento nei confronti dei personaggi come Nestore (Iliade I 249) e Fenice (Iliade IX 438). In entrambi i casi, si tratta di uomini ormai anziani, in cui il vigore del guerriero ha lasciato il posto alla saggezza che deriva dall’esperienza di una lunga vita, utile quanto e forse più della forza, e considerata sempre con profondo rispetto. C’è poi la ben nota eloquenza di Odisseo, al quale gli dèi hanno concesso questo particolare dono, così come hanno dato ad altri forza o bellezza (Odissea VIII 167-175). Odisseo ci offre anche il più antico esempio a noi noto dell’uso dell’eloquenza a scopo utilitaristico; potremmo, infatti, citare numerosi esempi in cui il suo abile parlare aiuta l’eroe in situazioni difficili; ma basterà ricordare il discorso rivolto a Nausicaa, «dolce come il miele e vantaggioso» (Odissea VI 148-185), con cui l’eroe conquista la fiducia e la benevolenza della giovane figlia di Alcinoo. Talora, ai fini prettamente pratici (a cui sono rivolte anche le numerose e convincenti menzogne), si aggiunge il piacere del racconto, come quando Odisseo, in veste di mendicante, narra le proprie avventure al porcaro Eumeo, con l’evidente compiacenza di chi sa creare con la fantasia personaggi e fatti del tutto credibili (Odissea XIV 135-360).

Il passaggio dagli antichi regni achei alla civiltà della pólis favorì lo sviluppo dell’oratoria giudiziaria e politica. Grandi oratori furono gli uomini di stato come Solone, Pisistrato, Temistocle e Pericle, i quali, in momenti assai difficili per loro e per la città, dovettero il successo alla capacità di convincere gli altri della validità delle loro proposte e di saper suscitare nel popolo reazioni adeguate alle circostanze. In particolare, quest’ultimo aspetto, se vogliamo dare credito a Tucidide (II 65, 9), fu peculiare dell’eloquenza periclea.

La vita della pólis, ricca di numerose e varie occasioni, creò ben presto altri spazi per l’arte della parola: le festività pubbliche di carattere religioso, civile e sportivo, rappresentarono un’utile palestra per l’oratoria d’apparato, così come i tribunali e le assemblee lo erano per l’oratoria giudiziaria e politica. In conseguenza di questa intensa attività, a cui il movimento della Sofistica aggiunse una solida base di preparazione tecnica, l’oratoria assunse caratteristiche distinte a seconda degli scopi per i quali fu utilizzata. Si ebbe così un γένος δικανικόν, un «genere giudiziario», tipico dei tribunali; un γένος συμβουλευτικόν, un «genere deliberativo», di cui si servivano gli oratori politici; e un γένος ἐπιδεικτικόν, un «genere dimostrativo», usato per lo più in occasioni di carattere ufficiale, ma anche in discorsi fittizi.

Temistocle. Busto, copia in marmo di età romana da originale greco del V sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’espansione e il perfezionamento dell’uso della parola, a cui i sofisti diedero un impulso decisivo, determinarono anche la nascita di nuove professioni, nelle quali le caratteristiche intellettuali si univano a un solido senso pratico, che le rendeva al tempo stesso prestigiose e ben remunerate. Nacque così la figura del sofista, acclamato e ben retribuito professionista della parola, propugnatore di un ideale secondo cui, vista l’inconoscibilità e l’incomunicabilità del vero, il solo fine dell’eloquenza era quello di raggiungere τὸ εἰκός, il «verosimile», qualunque fosse lo scopo per il quale la parola era adoperata. Da questa matrice comune ebbero origine le professioni del logografo e del retore.

Il primo termine, che nel secolo VI e all’inizio del V aveva indicato semplicemente lo «scrittore in prosa», passò a indicare un professionista che, ottimo conoscitore della legge, e capace di esprimersi con incisività ed eleganza, prestava la propria opera a chi si trovava coinvolto in un procedimento giudiziario e non aveva la cultura e la preparazione necessarie per redigere da solo un discorso di accusa o di difesa, perché il diritto attico non consentiva l’impiego di avvocati.

Con il termine «retore» si indicò un personaggio di varia levatura, che sfruttava la propria eloquenza nelle assemblee pubbliche per sostenere il proprio pensiero politico (e allora si trattava di personalità di spicco, che, però, avevano molta cura della propria immagine e dosavano sapientemente i loro interventi nel dibattito), o per appoggiare proposte altrui. In questo caso, erano per lo più figure di secondo piano, seguaci di personaggi più importanti di loro, che non intendevano esporsi in prima persona al rischio di una γραφή παρανόμων, un’«accusa di illegalità», che avrebbe potuto pregiudicare la loro futura carriera. Sia retori sia logografi avevano fama di moralità piuttosto disinvolta, per cui la loro professione si acquistò ben presto una discutibile reputazione, tanto che grandi oratori pubblici, come Isocrate o Demostene, cercarono in ogni modo di far dimenticare che avevano iniziato la loro carriera come logografi.

Quando le opere dei più rinomati maestri di eloquenza e le orazioni giudiziarie, politiche ed epidittiche, cominciarono a circolare in redazioni scritte, anche l’oratoria entrò a far parte dei generi letterari e fu sottoposta a canoni e a classificazioni stilistiche. Ai grammatici alessandrini o, secondo altri, a Cecilio di Calacte, un retore di età augustea, è dovuto il cosiddetto Canone attico, un elenco di dieci oratori, considerati i migliori, ciascuno nel proprio genere: Antifonte, Andocide, Lisia, Isocrate, Demostene, Iseo, Licurgo, Eschine, Iperide e Dinarco. Notizie sulle biografie di questi oratori provengono da un’opera di Dionigi di Alicarnasso (fine del I secolo a.C.), intitolata Gli oratori attici; da un anonimo, comunemente indicato come Pseudo-Plutarco, che scrisse le Vite dei dieci oratori attici; e da alcune Vite che sconosciuti copisti premisero alle varie raccolte di orazioni.

La codificazione dei precetti retorici e il sorgere di varie scuole, spesso in concorrenza fra loro, favorì anche il diffondersi di diversi indirizzi stilistici, che diedero luogo a un vivace dibattito culturale, attivo soprattutto nell’ambiente latino del I secolo a.C. Fu in questo periodo, infatti, che nacque la tendenza a classificare l’oratoria greca in base a tre stili: quello «elevato» (elatus o gravis), solenne, raffinato, ricco di figure, di cui fu considerato caposcuola Gorgia; quello «medio» (mediocris), vivace, espressivo, teso a suscitare intense reazioni nel pubblico, la cui invenzione fu attribuita a Trasimaco di Calcedone; infine, lo stile «tenue» (tenuis o humilis), limpido, lineare, elegante, ma alieno da artifici, che ebbe in Lisia il suo massimo esponente. Naturalmente, si trattava di distinzioni intellettualistiche, che non potevano e non possono essere accettate se non con molta cautela, vista l’estrema varietà di contenuti, di circostanze, di pubblico, che condizionarono gli oratori, costringendoli non certo all’uniformità di stile, ma, al contrario, come si è già detto, a adeguare continuamente i loro toni alla situazione contingente, secondo le regole del τὸ πρέπον, «ciò che conviene», «che si adatta».

 

 

  1. L’oratoria giudiziaria nel V-IV secolo a.C.

Le caratteristiche generali del genere | Come abbiamo già accennato prima, l’arte del discorso rappresentò un elemento caratteristico della vita e della cultura greca già nella letteratura epica; ma soltanto nella seconda metà del V secolo a.C. essa divenne un genere letterario indipendente, in conseguenza delle mutate caratteristiche della vita politica, alle quali dovette adeguarsi la «parola pubblica», cioè quella destinata a esprimersi di fronte a un uditorio con ben precise finalità di ordine giudiziario, politico o celebrativo.

Secondo la tradizione, il siciliano Tisia, seguace di Corace, il retore a cui fu attribuita l’«invenzione» della tecnica argomentativa nell’oratoria giudiziaria, avrebbe composto un breve «manuale» in cui si indicava il modo di esporre i fatti e le prove concernenti ogni singolo caso, in modo da conferire loro la massima efficacia, inserendoli in una struttura espositiva semplice, ma funzionale e ben adattabile a ogni circostanza. Da questo schema si sviluppò in seguito il complesso delle quattro sezioni canoniche che caratterizzano, con varianti non sostanziali, le orazioni giudiziarie giunte fino a noi: il προοίμιον, o «esordio», che aveva la funzione di impressionare favorevolmente l’attenzione della giuria, presentando colui che pronunciava l’accusa o la difesa come cittadino rispettoso delle leggi, corretto e attendibile; la διήγησις, o «esposizione dei fatti», che doveva contenere un racconto preciso, ma non prolisso degli avvenimenti che avevano dato origine al processo e, se necessario, un riferimento agli antefatti ritenuti più significativi; la πίστις, o «argomentazione», che rafforzava con testimonianze e prove particolarmente convincenti la tesi sostenuta in propria difesa; la διάλυσις, o «confutazione» delle prove a carico, di solito non molto estesa, ma puntuale e stringente; infine, l’ἐπίλογος, o «conclusione», in cui si ricapitolava il discorso e, in vari casi, si cercava di coinvolgere emotivamente la giuria a favore di chi parlava.

Le varie parti dell’orazione avevano il pregio, così disposte, di offrire un quadro organico e ben articolato della motivazione dei fatti, della loro successione temporale e dei nessi causali; ma soprattutto lasciavano totale libertà al logografo (e in ciò consisteva appunto la sua bravura!) di delineare abilmente il carattere delle parti in causa, di applicare al racconto dei fatti opportuni criteri di selezione, evidenziandone alcuni, sfumandone o tacendone altri, di fare appello, di volta in volta, ad aspetti del costume, della morale comune pubblica o privata, del comportamento sancito dalle leggi. Gli antichi furono concordi nel riconoscere nelle orazioni di Lisia di Atene tutte queste qualità, accompagnate da non comuni capacità di eleganza e chiarezza espositiva; in conseguenza di ciò, per mettere in luce attraverso esempi concreti quanto abbiamo fin qui teorizzato, faremo riferimento proprio ad una delle sue più note orazioni, Per l’uccisione di Eratostene.

Lisia. Statua, marmo, copia romana del III sec. d.C. ca. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

 

  1. Un’orazione giudiziaria emblematica: Per l’uccisione di Eratostene

I caratteri generali dell’orazione | Il caso era, apparentemente, uno dei più semplici; un piccolo proprietario terriero, Eufileto (l’ironia della sorte ha voluto che questo archetipo dei mariti traditi si chiamasse il «Beneamato»!), venuto a conoscenza del fatto che un certo Eratostene (altro significativo “nome parlante”: «Forza dell’amore», appellativo quantomai appropriato per un giovanotto sempre a caccia di avventure galanti!) gli aveva sedotto la moglie, intrecciando con lei una relazione, aveva fatto in modo di coglierlo in flagrante adulterio, alla presenza di testimoni, e lo aveva ucciso. Tuttavia, se le cose fossero andate effettivamente così, non avrebbe dovuto esservi nessun processo, perché la legge ateniese riconosceva al marito tradito il diritto di farsi giustizia con le proprie mani, in caso di flagranza, classificando l’omicidio come φόνος δίκαιος («giusta uccisione»). In realtà, i parenti della vittima sostenevano una differente versione dei fatti: Eufileto, scoperta la tresca fra la moglie ed Eratostene, lo aveva attirato ingannevolmente in casa sua e lo aveva assalito, strappandolo addirittura da un luogo sacro, il focolare domestico presso il quale si era rifugiato. Se le cose si fossero effettivamente svolte così, la situazione legale di Eufileto sarebbe stata ben diversa, perché egli avrebbe commesso un «omicidio premeditato» (φόνος ἐκ προνοίας), punibile con la pena di morte, a meno che la sua tesi non fosse stata sostenuta da un eccellente legale. Così fu: la causa si svolse di fronte al tribunale del Delfinio, situato fuori le mura di Atene, nel santuario di Apollo Delphinios e, secondo alcune testimonianze antiche, Eufileto fu assolto – non sapremo mai se per la straordinaria abilità di Lisia, che gli compose l’orazione di difesa, oppure perché aveva effettivamente applicato i diritti che la legge gli concedeva in una storia di infedeltà coniugale finita in tragedia.

L’impressione che si ricava dalla lettura del discorso, forse il capolavoro di Lisia, è che quest’ultimo abbia organizzato la difesa evidenziando in ogni occasione il carattere mite di Eufileto, tranquillo e fiducioso fino al punto di apparire ingenuo; un uomo così, sembra suggerire l’abilissimo logografo, può commettere un delitto, vedendo tradita la propria buona fede e avendone le prove sotto gli occhi, ma difficilmente avrebbe la crudele freddezza (e l’intelligenza) necessaria per organizzare minuziosamente un omicidio da commettere a distanza di tempo.

 

Gruppo dei pittori del Louvre G 99. Una coppia di amanti sotto il mantello. Pittura vascolare dal frammento di una coppa attica a figure rosse, 525-500 a.C. ca. da Atene. Paris, Musée du Louvre.

 

L’esordio (προοίμιον) | Presentiamo, per cominciare, l’esordio della celebre orazione:

[1] Io apprezzerei molto, o giudici, che voi mi giudicaste, riguardo a questo caso, come giudichereste voi stessi se vi fosse capitata una simile offesa: so bene, infatti, che, se il vostro atteggiamento nei confronti di altri fosse lo stesso che verso voi stessi, non ci sarebbe uno solo di voi che non si indignerebbe per l’accaduto, anzi tutti giudichereste troppo lievi le pene contro chi commette azioni del genere!

[2] E questi fatti sarebbero giudicati così non solo presso di voi, ma in tutta l’Ellade; infatti, per questo reato soltanto, sia sotto un governo democratico sia sotto un regime oligarchico, è stata concessa la medesima punizione ai più deboli nei confronti dei più potenti, così che il più umile goda degli stessi diritti del più forte.

 

L’appello ai giudici, affinché valutino la situazione dell’imputato con la stessa disposizione d’animo che proverebbero se si trovassero al posto suo e avessero subito lo stesso torto, è un evidente tentativo di captatio benevolentiae e, in quanto tale, si configura come un τόπος, un «luogo comune» da manuale, presente anche in altre orazioni giudiziarie, non solo di Lisia. Tuttavia, in questo caso, l’appello ai giudici appare caratterizzato da una particolare intensità, visto che il caso riguarda la sfera della famiglia, a cui tutti gli uomini dovrebbero essere particolarmente sensibili, sia da un punto di vista affettivo sia giuridico. L’accenno al fatto che il giudizio pronunciato sulla vertenza di Eufileto potrebbe avere ripercussioni in tutta l’Ellade accresce iperbolicamente l’importanza dei giudici che dovranno pronunciare la sentenza. In questo caso, alla captatio benevolentiae nei loro confronti, si unisce il chiaro intento di evidenziare che ciò che accade ad Atene costituisce poi un punto di riferimento per il resto della Grecia; d’altra parte, tutta la legislazione greca è concorde nel condannare l’adulterio con estrema severità. Eufileto, infatti, ribadisce che, in questa occasione, il suo solo compito sarà quello di dimostrare che i fatti si sono svolti come egli ha già dichiarato, perché la ragione sia dalla sua parte:

 

[4] Io credo, signori giudici, che sia necessario che io dimostri questo, che Eratostene commise adulterio con mia moglie e la rovinò, svergognò i miei figli e mi arrecò offesa, entrando in casa mia, che io non avevo altro motivo di inimicizia verso di lui tranne questo, che non feci ciò per denaro, per divenire da povero, ricco, né per alcun altro interesse, se non la pena consentita dalle leggi.

 

Con queste parole, che ribadiscono come Eufileto non abbia fatto altro che applicare la legge sull’adulterio e che, quindi, il suo comportamento è stato, al di là di ogni possibile dubbio un φόνος δίκαιος, si conclude l’esordio.

Nicostrato. Scena di anakalypsis, fra due giovani sposi sul letto nuziale. Terracotta, 150-100 a.C. Dalla necropoli di Myrina (Turchia). Paris, Musée du Louvre.

 

L’esposizione dei fatti (διήγησις) | È, ovviamente, la parte più ampia e più ricca di particolari di tutte le orazioni giudiziarie, in quanto dalla precisione con cui venivano esposti i fatti e dal modo con cui si descriveva il comportamento delle parti in causa, i giudici dovevano ricavare tutti gli elementi a sostegno delle responsabilità dei convenuti e pronunciare, sulla base di quelli, una giusta sentenza. Per questo motivo, il discorso di Eufileto, con il quale egli si propone di dimostrare sia la legittimità della propria condotta sia l’assoluta illegalità di quella di Eratostene, è molto esteso e dettagliato, iniziando addirittura da quando egli decise di sposarsi. Tuttavia, al di là della narrazione, ciò che dovrebbe maggiormente attirare l’attenzione dei giudici, è l’assoluta buonafede di Eufileto, marito e padre di famiglia irreprensibile, in confronto a Eratostene, delineato come un seduttore di professione.

La διήγησις segue con esattezza l’ordine cronologico della vicenda e ogni segmento narrativo si conclude con parole tese a dimostrare l’irreprensibilità della condotta di Eufileto. Costui si sposa; il comportamento della giovane moglie, che egli tratta «in modo da non opprimerla, ma neppure lasciandola del tutto libera di fare ciò che volesse», è assolutamente impeccabile. La nascita di un bambino rafforza il legame affettivo fra gli sposi.

Muore la madre di Eufileto «e, morendo, divenne la causa di tutti i guai»: infatti, la nuora esce di casa per seguire il funerale e viene adocchiata da Eratostene. Costui comincia a far pervenire alla giovane donna dei messaggi per mezzo dell’ancella, che va al mercato a fare la spesa; e in questo modo «la rovinò».

Eufileto descrive ai giudici la propria casa: «Io possiedo una casetta a due piani, con il piano superiore uguale al piano terra, in corrispondenza dell’appartamento delle donne e quello degli uomini». La nascita del figlio comporta un capovolgimento delle abitudini abitative: temendo che la moglie, infatti, scendendo per la scala a pioli con il piccolo, possa farsi del male, Eufileto sposta il gineceo al piano terra, favorendo così, senza volerlo, gli incontri della donna con l’amante: «Ma io non sospettai mai niente, anzi ero così ingenuo da credere che mia moglie fosse la migliore di tutte le donne in città».

Un bel giorno, Eufileto torna improvvisamente dalla campagna e cena tranquillamente in compagnia della moglie. Dopo cena il bambino piange disperatamente (poi, si saprà che l’ancella lo pizzica per farlo strillare, di proposito, visto che è arrivato Eratostene!); Eufileto, allora, impone alla moglie di scendere per allattare il figlioletto. La donna, però, si finge restia, dichiarando che il marito vuole allontanarla per restare solo con una giovane ancella; poi, fra il serio e il faceto, chiude a chiave il marito nella stanza da letto e scende al piano terra. Eufileto, stanco e tranquillo, si addormenta beatamente. Durante la notte, però, sente cigolare la porta dell’ingresso e al mattino, quando la moglie lo fa uscire, gliene chiede il motivo. La donna risponde che si era spenta la lucerna che stava presso il bambino; perciò, si era recata dai vicini per riaccenderla. Eufileto, però, nota che la donna ha il viso imbellettato, benché fosse ancora in lutto per la scomparsa del fratello; «tuttavia, senza dire niente neppure di questo fatto, uscito di casa, me ne andai via in silenzio» – dichiara Eufileto.

Trascorre un certo tempo; Eufileto continua a vivere nell’ignoranza dei suoi mali, finché viene fermato da un’anziana donna, inviata da un’altra amante del bellimbusto, ormai trascurata da quello, che gli rivela senza mezzi termini tutta la tresca: «Quello che fa queste cose è Eratostene di Oe e ha rovinato non solo l’onore di tua moglie, ma anche di molte altre donne; infatti, questo è il suo mestiere!». A questo punto, Eufileto, apre finalmente gli occhi, ricordando tutti i particolari ai quali prima non aveva dato peso: «Tutte queste cose mi tornavano in mente ed ero pieno di sospetto».

Ecco che il ritmo dell’azione divine più rapido, perché il candido Eufileto, colpito nella sua dignità coniugale, si rivela capace di una volontà decisionale tanto pronta quanto astuta; avuto conferma dall’ancella complice dello svolgimento dei fatti, prepara la trappola per l’adultero. Quando costui torna a far visita all’amante, l’ancella avverte il padrone, che esce silenziosamente di casa e va a chiamare alcuni amici, che dovranno servirgli da testimoni. Una volta rientrato, «spalancata la porta della camera, noi, entrando per primi, lo vedemmo mentre ancora giaceva accanto a mia moglie; quelli venuti dopo lo videro nudo in piedi sul letto».

La situazione volge precipitosamente verso il tragico epilogo. Eratostene, dopo essere stato colpito e legato, chiede pietà, dichiarandosi disposto a risarcire i danni, pagando un indennizzo; ma Eufileto rifiuta sdegnosamente, affermando la legalità del proprio diritto: «Non io ti ucciderò, ma la legge della città; tu, violandola e tenendola in minor conto dei tuoi piaceri, hai preferito commettere una tale colpa verso mia moglie e i miei figli, piuttosto che obbedire alle leggi e comportarti da persona dabbene!».

 

Pittore anonimo. Donna intenta a filare la lana. Lekythos attico a figure rosse, 480-470 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

 

L’argomentazione (πίστις) | Benché la legittimità dell’azione di Eufileto emerga con chiarezza dal racconto appena concluso, egli aggiunge anche un’«argomentazione», che si fonda su quanto appena detto, sulla citazione dei testimoni e sulla lettura dei paragrafi di legge riguardanti i reati di adulterio, di violenza e di seduzione (purtroppo queste parti non sono state inserite nell’orazione). Tutto ciò deve servire a dimostrare che non è vero ciò che dichiarano i parenti dell’ucciso:

 

[27] Costui ha avuto la pena che le leggi impongono per coloro che commettono tali delitti, non preso a forza nella strada, né dopo che si era rifugiato presso il sacro focolare domestico, come dichiarano costoro.

 

La confutazione (διάλυσις) | Poiché non possediamo l’orazione di accusa, siamo costretti a dedurre dagli accenni nella confutazione di Eufileto quello che doveva essere il punto di forza su cui i parenti di Eratostene fondavano la tesi dell’omicidio premeditato: egli lo avrebbe attirato in casa sua con l’inganno, per simulare una flagranza di reato che in realtà non esisteva:

 

[37] Ora fate attenzione, signori giudici: questi mi accusano di avere, in quel giorno, ordinato all’ancella di andare a chiamare il giovanotto.

 

La confutazione dell’accusa, che procede in modo molto preciso e analitico, si apre con un ragionamento per assurdo: Eufileto non nega esplicitamente il fatto che gli viene contestato, ma dichiara che sarebbe stato convinto di essere dalla parte della ragione anche se avesse dato quell’ordine alla sua serva. Infatti, poiché egli era già certo dell’adulterio, qualunque mezzo sarebbe stato legittimo, pur di cogliere il colpevole sul fatto, dato che il reato era stato commesso e non una volta sola:

 

[38] Ma io, o giudici, avrei creduto di fare cosa giusta sorprendendo in flagrante in qualunque modo colui che ha sedotto mia moglie; infatti, sarei stato colpevole se avessi ordinato di mandarlo a chiamare, quando fra i due fossero state dette solo delle parole, ma non fosse avvenuto nulla di fatto; ma se avessi cercato di sorprenderlo, dopo che tutto era stato fatto e che gli era già penetrato più volte in casa mia, avrei creduto di agire secondo il mio diritto.

 

Inoltre, se Eufileto avesse deciso di agire premeditatamente, in quello stesso giorno egli avrebbe avvertito gli amici che avrebbero dovuto fargli da testimoni e avrebbe dato loro le istruzioni necessarie, invece di uscire a cercarli, mentre Eratostene era già in casa. Il fatto che alcuni di loro non erano a casa e che egli si sia dovuto accontentare di quelli che aveva trovato dimostra che il suo modo di agire è stato del tutto improvvisato: e di questo può addurre i testimoni.

 

[42] Invece, non sapendo niente di quello che sarebbe avvenuto in quella notte, presi quelli che mi fu possibile; e voi, testimoni di questi fatti, venite qui alla sbarra.

 

L’ultima parte della διάλυσις riprende e ribadisce alcuni argomenti già accennati nella parte precedente del discorso. Eufileto non aveva alcun altro motivo di odio nei confronti di Eratostene, anzi, non lo aveva neppure mai visto; inoltre, se davvero lo avesse attirato in casa sua con l’intenzione di eliminarlo, perché mai avrebbe dovuto cercarsi dei testimoni per compiere sotto i loro occhi un omicidio premeditato, aggravato per di più dall’atto empio di strappare un supplice dal sacro rifugio del focolare?

 

[46] E poi, se io avessi meditato di ammazzarlo illegalmente, avrei commesso un’empietà dopo aver chiamato dei testimoni, quando mi era possibile non avere nessuno di costoro consapevole della mia azione?

Pittore anonimo. I tre giudici dell’Ade, Radamante, Minosse ed Eaco (dettaglio). Pittura vascolare su cratere apulo a figure rosse, IV sec. a.C. Berlin, Antikensammlungen.

 

La conclusione (ἐπίλογος) | Nella parte conclusiva del discorso, Eufileto sfrutta abilmente a proprio vantaggio uno degli elementi strutturali tipici dell’ ἐπίλογος, il collegamento con gli argomenti della parte iniziale, sottolineando così la Ring Composition dell’intera orazione. La sentenza non riguarderà soltanto il suo caso individuale, ma l’intera città, perché, se i giudici lo condannassero, tanto varrebbe che fossero abrogate le leggi vigenti sull’adulterio; anzi, a questo proposito, Eufileto rafforza per absurdum la propria affermazione, proponendo addirittura che si puniscano i mariti che custodiscono le proprie mogli, garantendo invece l’impunità ai loro seduttori:

 

[48] Altrimenti, sarebbe molto meglio cancellare le leggi vigenti e farne delle altre, che stabiliranno le pene per coloro che difendono le proprie spose e concederanno l’assoluta impunità a coloro che vogliono commettere adulterio con quelle. [49] Questo sarebbe molto più giusto piuttosto che lasciare che i cittadini siano ingannati dalle leggi che ordinano che, se uno sorprende un adultero, può fare di lui ciò che vuole, mentre poi i processi sono più pericolosi per chi ha subito il torto che per coloro che svergognano le mogli altrui. Io, infatti, in questo momento, rischio la vita, i beni e tutto il resto, perché ho obbedito (ἐπειθόμην) alle leggi della città.

 

Il termine ἐπειθόμην, che nel testo greco è l’ultima parola dell’orazione, rappresenta una delle più significative testimonianze della raffinata abilità dialettica di Lisia; infatti, il verbo πείθω nella diatesi media significa sia «fidarsi» sia «obbedire», così che il discorso si chiude con un sottile, ma evidente, quasi ricattatorio ammonimento ai giudici, implicito nello stesso valore semantico del termine-chiave: condannare Eufileto, in via definitiva, equivarrebbe a togliere ogni valore ai fondamenti dell’educazione civica del buon cittadino ateniese, espressi in tre termini: «Ho obbedito (perché me ne sono fidato) alle leggi della città»; gli stessi concetti su cui si fonda, con ben altra sublimità morale, l’accettazione della morte da parte di Socrate.

 

 

  1. L’oratoria politica fra il V e il IV secolo a.C.

Le caratteristiche generali dell’oratoria politica | Nel corso del IV secolo a.C. l’oratoria ateniese conservò per certi aspetti le caratteristiche e le funzioni che l’avevano contraddistinta precedentemente, mentre per certi altri rispecchiò, in modo abbastanza evidente, le trasformazioni culturali, politiche e istituzionali in essere nella città. In questo quadro generale, l’oratoria giudiziaria, per il suo carattere funzionalmente specifico, non avvertì particolari necessità di cambiamento; quanto all’oratoria epidittica, il suo scopo celebrativo le conferì una tendenza sempre maggiore a cristallizzarsi su argomenti tradizionali, veri e propri τόποι di genere, espressi in uno stile spesso letterariamente perfetto, ma piuttosto intellettualistico e caratterizzato da una certa fissità di toni. Al contrario, l’oratoria politica fu costretta, per sua stessa natura, a tener conto del continuo mutare degli eventi e a adeguarvisi quasi quotidianamente.

Due fattori soprattutto influirono sul cambiamento dell’oratoria politica, uno di carattere culturale e uno di tipo istituzionale. La nuova figura del retore, istruito alla scuola dei sofisti e pronto a considerare l’attività politica come una vera e propria professione, si inserì di prepotenza nello spazio che un tempo era appartenuto soltanto ai magistrati civili e militari all’interno dell’assemblea: uomini come Solone, Pisistrato o Temistocle – un arconte, un tiranno e uno stratego – non ebbero mai bisogno di intermediari (o “portavoce”) per esprimere le proprie idee di fronte all’assemblea, né questa fu condizionata nelle proprie scelte dalle parole di oratori di mestiere. Ma nel IV secolo questo stato di cose mutò notevolmente; il retore divenne la figura di maggior rilievo nella vita pubblica, in quanto capace di diffondere le proprie convinzioni, di attirarsi dei sostenitori e di influenzare così l’opinione pubblica, grazie al carisma personale rafforzato da doti dialettiche sapientemente coltivate. A ciò contribuì anche, forse in misura minore, ma non marginale, un altro fenomeno culturale: la diminuita importanza del teatro (in particolare quello tragico) come mezzo di diffusione delle idee e di educazione di massa. Infatti, la mancanza di nuovi autori, degni di potersi confrontare con i grandi classici del passato, favorì ben presto la tendenza a riproporre agli spettatori opere ormai “classiche”, che non avevano perduto niente del loro valore poetico, ma che, sul piano educativo, proponevano ideali appartenenti ormai a un glorioso passato, che si poteva ammirare, ma non far risorgere.

Philipp Foltz, L’epitaffio di Pericle per i caduti del primo anno di guerra. Olio su tela, 1852.

 

La tradizione indiretta | La grande oratoria ateniese ci è nota attraverso due tradizioni, quella indiretta della storiografia e quella diretta delle raccolte di demegorie, i «discorsi pronunciati di fronte al popolo». Per quanto riguarda l’attendibilità della tradizione indiretta, sappiamo che i discorsi degli uomini politici venivano riferiti approssimativamente, tenendo conto del loro «senso generale», come dichiara Tucidide, perché mancava una stesura scritta dell’orazione, a cui fare riferimento. Gli uomini politici, infatti, non erano soliti scrivere i loro discorsi per intero, ma, come ci conferma anche Demostene, si dava redazione scritta solo alle parti più importanti come contenuto e più impegnative dal punto di vista oratorio – contrariamente a quanto avveniva per i discorsi epidittici, che, destinati a pubblica lettura, erano trascritti integralmente. A questo dobbiamo aggiungere il fatto che la possibilità di parlare in assemblea non fosse concessa a tutti, ma richiedeva precisi requisiti di carattere civico e politico ed era connessa alla fazione a cui l’oratore apparteneva, sia al tipo di influenza che egli intendeva esercitare sull’uditorio. Pertanto, oratori come Lisia o Dinarco, che erano meteci, non avrebbero avuto il diritto di parlare in pubblico, mentre aperti simpatizzanti del regime oligarchico, come Andocide o Antifonte, si astenevano dall’esporre la propria opinione di fronte all’assemblea popolare, perché oltre ad avere possibilità quasi nulle di incidere sull’opinione della maggioranza, il loro orientamento politico li avrebbe esposti anche a rischi personali, dato che il contrasto politico poteva assumere pure toni molto accesi, di vero e proprio duello oratorio.

Un quadro estremamente efficace di questo aspetto ci è offerto dallo scontro fra Nicia e Alcibiade a proposito della spedizione in Sicilia, descritto da Tucidide (VI 9-26). Si tratta di un magnifico esempio di quel carattere «agonale» che rappresentava la cifra principale di questo genere oratorio, dal momento che ciascuno dei relatori si sforzava di far valere le proprie proposte nel «consigliare» i concittadini: di qui il nome di συμβουλευτικοί λόγοι, attribuito normalmente ai discorsi politici. Dopo la prima fase di dibattimento, in cui la parola tocca ad alcuni personaggi minori, Nicia viene chiamato direttamente in causa dal gruppo di Alcibiade, che gli offre il comando dell’impresa. Egli replica con un invito alla prudenza, senza risparmiare allusioni alla sfrenata ambizione di Alcibiade e mettendo in luce, al tempo stesso, le notevoli difficoltà dell’impresa e del momento (VI 12-13, 1).

Concluso l’intervento di Nicia, è la volta di Alcibiade, il quale contrattacca dando prima la parola a una serie di gregari, il cui compito è quello di “cancellare”, o almeno di attenuare nell’animo degli ascoltatori, l’effetto moderatore delle parole del rivale. Il discorso di Alcibiade, caratterizzato dall’estrema sicurezza di sé, tipica del personaggio, ostenta i toni di un nazionalismo a oltranza, dietro cui si mimetizza abilmente la sua ambizione personale. Egli asserisce di agire in nome degli ideali democratici che Atene ha sempre difeso; rinunciare alla spedizione significherebbe rinnegare la più nobile tradizione della patria e venire meno agli impegni che essa ha assunto nei confronti dei suoi alleati:

 

Perciò, con quale argomento ragionevole potremmo noi stessi rifiutare, o di che cosa potremmo tener conto, per non portare aiuto agli alleati di laggiù? Poiché ci siamo obbligati con un giuramento, è necessario soccorrerli e non obiettare che essi non ci hanno, a loro volta, aiutato. Infatti, non li abbiamo accolti, perché ci soccorressero, ma perché, creando fastidi ai nostri nemici laggiù, impedissero loro di venire fin qui. In questo modo abbiamo conquistato il dominio, sia noi che quanti altri lo esercitarono, assistendo prontamente coloro che di volta in volta ci chiedevano aiuto, o Greci o barbari, poiché se tutti rimanessero tranquilli o stessero a sottolineare a chi si debba portare soccorso, aggiungendo ben poco al nostro impero, rischieremmo piuttosto di perdere anche quello che abbiamo. Infatti, ci si difende contro uno che è superiore non solo quando attacca, ma anche si previene affinché non attacchi. E non è possibile per noi calcolare fino dove vogliamo estendere il nostro dominio, ma è inevitabile, perché ci troviamo in questa situazione, attaccare gli uni e non lasciare sfuggire gli altri, perché c’è il rischio che siamo dominati da altri, se non siamo noi stessi a dominarli! E voi non dovete considerare la tranquillità nello stesso modo con cui la considerano gli altri, a meno che non cambiate il modo di vivere rendendolo simile al loro. Pertanto, avendo valutato che accresceremo il nostro impero di qui, qualora attacchiamo laggiù, facciamo la spedizione, per abbattere la superbia dei Peloponnesiaci, se sembrerà chiaro che noi disprezziamo la tranquillità del momento attuale per navigare addirittura contro la Sicilia; e, al tempo stesso, com’è naturale che sia, o domineremo tutta l’Ellade, aggiungendo a noi quelli di là, o recheremo danno ai Siracusani, e da ciò trarremo vantaggio noi e i nostri alleati.

(VI 18, 1-4)

 

Nicia, ormai in netta posizione di inferiorità, non può far altro che raccomandare agli Ateniesi di prepararsi il meglio possibile per la rischiosa impresa; ma con queste parole sancisce praticamente la vittoria dei suoi avversari politici, i quali colgono immediatamente l’occasione per coinvolgerlo e gli chiedono di stabilire lui stesso il numero delle navi e l’entità delle truppe del contingente. A questo punto, Alcibiade non interviene più direttamente, ma lascia a un suo gregario, un certo Demostrato (che il comico Aristofane indica con il significativo soprannome di «Sputaveleno»), il compito di stroncare definitivamente l’avversario.

 

Ritratto di atleta (il cosiddetto Alcibiade). Busto, marmo greco, copia romana di I sec. d.C.. Firenze, Galleria degli Uffizi.

 

La tradizione diretta: lo scontro fra Demostene ed Eschine | La conclusione delle lunghe e drammatiche vicende della Guerra del Peloponneso non segnò soltanto la sconfitta di Atene, ma anche l’inizio di una profonda crisi di valori politici e istituzionali destinata a imprimere una svolta decisiva alla storia greca e della civiltà occidentale. Né Sparta né Tebe, infatti, furono in grado di raccogliere costruttivamente l’eredità politica, economica e culturale di Atene; e così la prima metà del IV secolo a.C. fu caratterizzata dalla progressiva disgregazione della città-stato, che preparò il terreno all’avvento della monarchia macedone. In questo clima di instabilità e di confusione, stavano maturando cambiamenti politici complessi e irreversibili; e ben presto l’intero mondo mediterraneo ne avrebbe avvertito le conseguenze. Nel nord della Grecia, infatti, si stava consolidando il regno di Macedonia, abitato da una popolazione considerata «barbara», ed effettivamente rimasta a uno stadio di civiltà meno sviluppato di quello del restante mondo ellenico. Verso la metà del secolo, nel 358 a.C., salì al trono Filippo II, figlio di Aminta, il quale, nella prima giovinezza, era stato ostaggio a Tebe, quando la città aveva vissuto il suo effimero momento di egemonia. Durante quel periodo, il Macedone aveva avuto modo di conoscere a fondo l’organizzazione militare tebana, potenziata dalle riforme di Pelopida e di Epaminonda; e non gli erano sfuggiti gli insanabili conflitti tra le póleis, che ne logoravano le forze e che, in breve tempo, ne avrebbero messo a repentaglio la sopravvivenza stessa come organismi autonomi.

Demostene. Statua, copia romana da originale greco di Policleto (c. 280 a.C.). Città del Vaticano, Museo Pio-Clementino.

Forte di queste esperienze, Filippo, appena giunto al potere, attuò con le armi e la diplomazia un vasto piano di espansione, che, fiaccate rapidamente le resistenze di Atene e di Tebe, lo portò, a dispetto dei suoi oppositori (tra i quali svolse un ruolo determinante l’ateniese Demostene, il più grande oratore politico del tempo), a estendere il suo potere, diretto o indiretto, su tutta l’Ellade. Nell’ottica del sovrano macedone, il fine ultimo dell’impresa avrebbe dovuto essere una grandiosa spedizione comune di Macedoni e Greci contro l’Impero persiano; purtroppo, prima di poterla realizzare, Filippo cadde assassinato nel 336 a.C. e il comando dell’impresa fu assunto da suo figlio Alessandro, che lo condusse a termine con conseguenze di portata storica talmente vasta da superare ogni possibile previsione.

Tuttavia, prima che il giovane sovrano salisse al trono e riuscisse a condurre in porto felicemente la titanica impresa, la scena politica ateniese fu dominata dal violento scontro tra la fazione filomacedone (il cui massimo esponente fu Eschine) e quella antimacedone, capeggiata da Demostene. Le loro orazioni, che possediamo per tradizione diretta, ci offrono un quadro assai vivo dello spazio e dell’importanza che l’oratoria politica occupava ancora nella vita dello Stato e del cittadino. Quest’ultimo, intanto, pur presenziando alle assemblee con diritto di voto, più che parlare ascoltava, come fa Diceopoli, protagonista degli Acarnesi di Aristofane, mentre erano gli oratori professionisti che salivano sulla tribuna per pronunciare i loro discorsi; eppure, anche gli interventi di costoro obbedivano a ben calcolati piani. Infatti, i grandi uomini politici, capi di gruppi anche numericamente cospicui (che non potevano essere considerati dei partiti veri e propri, ma piuttosto aggregazioni di simpatizzanti intorno a personaggi o a famiglie, che si contendevano l’egemonia all’interno delle istituzioni democratiche), dosavano sapientemente i loro interventi e spesso si facevano sostituire da gregari, sia per non logorare la propria immagine, sia per evitare le conseguenze derivanti da ripetute accuse di illegalità – arma assai frequentemente usata nello scontro fra le fazioni. Abbiamo così una precisa distinzione di ruoli: intorno alla figura di primo piano, orbitavano retori minori, che appoggiavano e sostenevano il loro leader e magari si esponevano in sua vece a qualche indesiderato provvedimento legale; e, infine, c’erano quelli a cui era affidato il compito di frenare o di scatenare la massa, i «signori del tumulto e dell’urlo», come li definì Iperide (Contro Demostene VII 14, 6), alludendo alla funzione loro attribuita di pilotare opportunamente le reazioni popolari. Un episodio della carriera di Demostene dimostra quanto fossero utili ai loro leader questi personaggi minori: nel 438 a.C., nel corso della sua campagna antimacedone, l’oratore propose che gli Ateniesi intervenissero in difesa di Olinto, una città della penisola Calcidica minacciata da Filippo, ma, poiché Atene scarseggiava di mezzi, egli suggerì che si usassero a scopi militari i fondi del θεωρικόν, che, fino dai tempi di Pericle, per legge, potevano essere investiti solo per l’allestimento degli spettacoli teatrali. Demostene si rendeva perfettamente conto del rischio che correva, presentando una proposta simile: perciò, mandò avanti un proprio gregario, un certo Apollodoro, il quale subì l’accusa di illegalità al posto del suo capo, che poté continuare la sua carriera politica, destinata a vette altissime di successo e di popolarità, in un clima civile davvero rovente, ma eccezionalmente vivace.

Eschine. Busto, copia romana in marmo da originale del IV sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Allo stesso tempo, le orazioni di Demostene e di Eschine sono il primo documento a noi noto di una lotta senza quartiere, che assunse spesso i toni di un violento alterco personale, in cui si mirava a distruggere l’avversario piuttosto che a spiegare con chiarezza i motivi per cui si sosteneva o si combatteva un determinato progetto politico, la cui grandezza, forse, sfuggì, nella sua vera dimensione, sia all’uno sia all’altro dei contendenti. Tale carattere influisce, ovviamente, anche sullo stile, sulla struttura retorica, sul tipo di argomentazioni, che presentano sostanziali differenze rispetto ai discorsi epidittici, destinati alla lettura: i periodo sono più brevi, per permettere all’oratore di mantenere l’opportuna intonazione della voce e anche l’intensità del volume indispensabile per farsi capire in mezzo a un pubblico spesso tumultuoso. Le forme elaborate, i τόποι di impronta nazionalistica o moraleggiante, le frasi a effetto si concentrano maggiormente nei proemi e nelle parti conclusive; queste ultime contengono di solito anche un breve riepilogo dei punti salienti della proposta appena presentata. Quanto alle argomentazioni, esse presentano talora delle affinità con quelle presenti nell’oratoria epidittica, come le riflessioni sul glorioso passato di Atene, sulla saggezza degli antichi legislatori, sul ruolo di «benefattrice dell’Ellade», che la città ha sempre esercitato fin dalle età più remote – divenuto particolarmente evidente durante le Guerre persiane; però, l’oratoria politica ne possiede anche di proprie, le più interessanti delle quali riguardano le riflessioni sulla figura dell’oratore, sul confronto fra le sue doti tecniche e le sue qualità morali, sul potere demagogico della parola, che lo rende un personaggio da seguire senza riserve o da evitare altrettanto incondizionatamente.

Tale è il contenuto, per esempio, dell’esordio dell’intervento di Demostene Sui fatti del Chersoneso, in cui si esortano gli ascoltatori a non seguire uomini politici dominati dallo spirito di parte:

 

Sarebbe necessario, o concittadini, che tutti gli oratori non parlassero mai né per odio né per compiacenza, ma che ciascuno manifestasse apertamente ciò che gli sembra meglio, soprattutto quando voi state dibattendo di argomenti importanti e di interesse comune; ma, poiché alcuni sono spinti a parlare o per spirito di polemica o per qualche altra ragione, voi, Ateniesi, che siete il popolo, la maggioranza, dovete approvare e mettere in pratica ciò che ritenete sia vantaggioso per la città, trascurando tutto il resto.

(Demostene, Sui fatti di Chersoneso 1)

 

Ecco invece un esempio della violenta polemica contro Eschine, reo, agli occhi di Demostene, di appoggiare la pace con Filippo il Macedone proposta da Filocrate (346 a.C.), in modo del tutto indegno delle gloriose tradizioni patrie:

 

Mentre voi stavate deliberando sull’argomento e non volevate neppure sentire la voce dell’abominevole Filocrate, quello ( = Eschine), alzatosi in piedi per parlare, in nome di Zeus e di tutti gli dèi, lo sosteneva con parole degne di molte morti, dicendo che non avreste dovuto ricordare i vostri avi, né sopportare quelli che parlavano delle loro vittorie e delle battaglie navali, e che egli avrebbe fatto formale proposta di stabilire una legge secondo cui voi non avreste portato aiuto a nessuno dei Greci che non avesse prima aiutato voi. E questo individuo perfido e sfrontato osava parlare, mentre erano ancora presenti e ascoltavano gli ambasciatori che avevate mandato a chiamare dai Greci, persuasi proprio da lui, quando non si era ancora venduto.

(Demostene, Sulla corrotta ambasceria 15-16)

 

La risposta di Eschine non si fece attendere e non fu da meno:

 

Nell’attività politica io mi sono trovato impelagato con un individuo imbroglione e malvagio, che non sarebbe capace di dire la verità neppure involontariamente. Quando dice una menzogna, costui, comincia il discorso giurando in nome dei suoi occhi impudenti! E non solo afferma che sono reali fatti mai avvenuti, ma indica perfino il giorno nel quale, a sua detta, essi hanno avuto luogo! E dopo esserselo inventato, aggiunge il nome di un tale che sarebbe stato presente, imitando chi dice la verità. Ma in una cosa siamo fortunati noi, che non abbiamo commesso alcun male, che nella millanteria del carattere e nell’arte di mettere insieme le parole, egli è senza cervello!

(Eschine, Sulla corrotta ambasceria 153)

 

Iperide. Busto, copia romana in marmo del II sec. d.C. da originale greco del IV sec. a.C.

 

 

  1. L’oratoria epidittica fra il V e il IV secolo a.C.

 

Le caratteristiche generali del genere | Come abbiamo precedentemente accennato, l’oratoria epidittica o celebrativa si distinse sostanzialmente dagli altri generi di eloquenza, soprattutto perché, essendo scritta e destinata alla lettura nell’ambito delle scuole, per finalità di esercizio, o in occasione di solennità pubbliche, si caratterizzava per un’estrema elaborazione formale. In essa si distinse soprattutto Isocrate, che scelse volontariamente, sia a fini politici sia pedagogici, questa forma di comunicazione, particolarmente adatta alle sue doti di grande chiarezza concettuale, unite a un’attenta e quasi esasperata ricerca formale, che richiedeva tempi assai lunghi di progettazione e di elaborazione. Esemplare, a questo proposito, il Panegirico, o «discorso per la festa» (πανηγύρις), che fu pubblicato nel 380 a.C. dopo una preparazione durata dieci anni. In esso, Isocrate vagheggiava una costruttiva collaborazione fra Sparta e Atene; le due antiche rivali avrebbero dovuto porsi come forze egemoni dell’intero mondo greco, allo scopo di combattere il nemico comune, la Persia, secondo un’ottica politica ormai anacronistica e fondata sulla nostalgica rievocazione delle innumerevoli benemerenze acquisite dalle due antiche città nei confronti dell’intero mondo ellenico.

Tuttavia, l’oratoria epidittica trovava la sua massima affermazione nei λόγοι ἐπιτάφιοι, discorsi commemorativi ed encomiastici per i caduti in battaglia, secondo un uso che si riteneva istituito da Solone. In realtà, non è possibile stabilire con certezza la data di inizio di tale costume; ma è probabile che essa risalga alla fine del VI secolo a.C., mentre il λόγος ἐπιτάφιος come genere letterario a sé stante ebbe origine dopo le Guerre persiane, forse nell’occasione in cui Cimone, tornando da Sciro con le ossa di Teseo, istituì feste solenni in onore dell’eroe attico; contemporaneamente, si istituirono anche le celebrazioni in memoria dei caduti. Il λόγος ἐπιτάφιος si pronunciava nell’ultimo giorno delle solennità, dopo una grande processione che accompagnava i feretri al cimitero del Ceramico. L’antichità ci ha tramandato sei di queste orazioni: la più antica è quella contenuta nel II libro delle Storie di Tucidide, tenuta da Pericle per i caduti nel primo anno della Guerra archidamica; la seconda, di Gorgia, di cui rimane solo la parte finale, fu pronunciata in occasione della pace di Nicia (421 a.C.); la terza, attribuita a Lisia, il quale, tuttavia, non avrebbe mai potuto svolgerla, data la sua condizione di meteco, commemorava i morti nella Guerra di Corinto e risale al 392 a.C.; la quarta è riportata in un dialogo platonico, il Menesseno, ed è attribuita a Socrate, il quale pronunciava unicamente per mettere in risalto le caratteristiche di questo genere oratorio; la quinta, l’unica che sia stata tenuta dopo una sconfitta, è quella attribuita a Demostene per i caduti di Cheronea (338 a.C.); la sesta è di Iperide, per i morti nella Guerra lamiaca (323-322 a.C.), nella quale l’oratore, violando la legge che imponeva un rigoroso anonimato, fece il nome e l’elogio dello stratego Leostene, suo amico personale.

Il fatto che il discorso concludesse solennemente una celebrazione ufficiale esigeva che esso seguisse uno schema ben preciso che, a parte varianti soggettive, compare in tutti gli ἐπιτάφιοι giunti fino a noi:

 

  • esordio ed excusatio: l’oratore si presenta al pubblico, mostrandosi sorpreso per essere stato prescelto, e invoca l’indulgenza dell’uditorio, perché certamente le sue parole non saranno adeguate a esaltare degnamente il valore di chi ha dato la vita per la città;

 

  • elogio degli antenati: la convinzione che il valore e il civismo siano frutto della tradizione e dell’educazione ricevuta, oltre che della natura, implica il ricordo degli avi e delle loro grandi imprese, che costituiscono per i discendenti un onore, ma anche una profonda responsabilità. Questa parte – di solito abbastanza estesa – si fonda in genere su una serie di τόποι, come la predilezione degli dèi per l’Attica, l’autoctonia degli Ateniesi, le loro eccezionali doti naturali, sviluppate da un’educazione unica per profondità e completezza, le grandi imprese da loro compiute nel mito e nella storia;

 

  • elogio della πολιτεία, la «costituzione politica», considerata un elemento fondamentale nell’educazione e nella formazione del cittadino; in questo senso, la democrazia di Atene ha dato prova di essere superiore a quella di qualunque altra città nell’inculcare valori morali e civici e nell’armonizzare le esigenze del singolo con quelle della collettività;

 

  • rievocazione dell’avvenimento bellico particolare, nel quale i caduti hanno sacrificato la vita;

 

  • commiato ai sopravvissuti, nei quali il rimpianto per la perdita di un congiunto sarà certamente compensato dalla gloria immortale che i caduti hanno conquistato per sé, per la patria e per i discendenti.