ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
In questo Ditirambo per gli Ateniesi, trasmesso da Dionigi da Alicarnasso nel De compositione verborum, che lo considera quale esempio di «armonia aspra» (αὐστηρά ἁρμονία), Pindaro presenta il coro nell’atto di invitare gli dèi olimpici ad assistere all’esecuzione del canto «nella sacra Atene», «nell’ombelico della città odoroso di incenso e pieno di persone, nella famosa agorà, riccamente adorna di opere d’arte». Rispetto all’opera di Bacchilide, dove il ditirambo mostra un andamento esclusivamente narrativo, in Pindaro sono frequenti i richiami alla festa e al suo contesto religioso, al ruolo che il poeta e il coro assumono al suo interno, talora anche al luogo in cui l’esecuzione si svolge.
Δεῦτ’ ἐν χορὸν Ὀλύμπιοι
ἐπί τε κλυτὰν πέμπετε χάριν θεοί,
πολύβατον οἵ τ’ ἄστεος ὀμφαλὸν θυόεντα
ἐν ταῖς ἱεραῖς Ἀθάναις
οἰχνεῖτε πανδαίδαλόν τ’ εὐκλέ’ ἀγοράν,
ἰοδέτων λαχεῖν στεφάνων τᾶν τ’ ἐαριδρόπων ἀοιδᾶν·
Διόθεν τέ με σὺν ἀγλαΐᾳ
ἴδετε πορευθέντ’ ἀοιδᾶν δεύτερον
ἐπὶ τὸν κισσοδόταν θεόν,
τὸν Βρόμιον ἐριβόαν τε βροτοὶ καλέομεν,
γόνον ὑπάτων νίν τε πατέρων μέλπομεν
γυναικῶν τε Καδμεϊᾶν Σεμέλαν.
Ἐναργέα τελέων σάματ’ οὐ λανθάνει,
φοινικοεάνων ὁπότ’ οἰχθέντος Ὡρᾶν θαλάμου
εὔοδμον ἐπάγῃσιν ἔαρ φυτὰ νεκτάρεα·
τότε βάλλεται, τότ’ ἐπ’ ἄμβροτον χέρσον ἐραταὶ
ἴων φόβαι ῥόδα τε κόμαισι μίγνυνται
ἀχεῖ τ’ ὀμφαὶ μελέων σὺν αὐλοῖς
ἀχεῖ τε Σεμέλαν ἑλικάμπυκα χοροί.
Pittore anonimo. Coro di giovani con maschere dinanzi ad altare con immagine di Dioniso. Pittura vascolare da un cratere a colonnette attico a figure rosse, 480 a.C. Basel, Antikenmuseum und Sammlung Ludwig.
Suvvia, o dèi Olimpi,
al mio coro rivolgete una nobile grazia, o dèi,
che venite all’ombelico della città odoroso di incenso e pieno di persone,
nella sacra Atene,
nella famosa agorà, riccamente adorna di opere d’arte,
e abbiate in sorte corone di viole e di canti mietuti a primavera;
guardate spinto da Zeus con esuberanza di canti
per la seconda volta al dio cinto d’edera,
il Bramio, che noi mortali chiamiamo anche Eriboa.
Cantiamo la stirpe di padri supremi
e tra le donne la Cadmea Semele.
Non sfuggono all’indovino segni evidenti,
quando, schiusosi il talamo delle Ore dai pepli di porpora,
germogli di nettare conducono primavera odorosa;
allora sono gettate, sulla terra immortale, amabili
ciocche di viole e rose si intrecciano alle chiome,
di A. Aloni, Cantare glorie di eroi. Comunicazione e performance poetica nella Grecia arcaica, Torino 1998, pp. 65-76.
Nel 523 (o 522) a.C., nell’isola di Delo, il rapsodo Cineto di Chio si esibì in una particolarissima performance, in occasione di una festa altrettanto particolare, organizzata dal tiranno Policrate di Samo per onorare Apollo. La particolarità della festa consisteva nel fatto che essa intendeva celebrare, nell’isola cicladica, non solo la locale epiclesi di Apollo, ma anche quella delfica. In questa occasione Cineto, a partire da due diverse composizioni tradizionali, «combinò insieme» (così ritiene Burkert) oppure compose (a mio avviso) un proemio epico di struttura affatto peculiare, in cui le parti celebranti Apollo Delio e Apollo Pizio risultano fuse in un’unica composizione – l’Inno omerico ad Apollo – attraverso una sezione specificamente rivolta a descrivere e celebrare la festa in atto; sezione tanto precisa e puntuale nei contenuti, che di essa si servì in seguito Tucidide (III, 104) per il suo excursus sulla storia più antica delle Delie.
Le fonti che ci tramandano il ricordo dell’iniziativa policratea non dicono assolutamente nulla a proposito della struttura della festa; solo in Zenobio l’evento viene definito agōn. Questo indizio, unito a quanto si dice nell’Inno stesso (soprattutto ai vv. 149-150) e alla descrizione tucididea, ci permette di affermare che la festa composita comprendeva una parte musico-corale, di carattere probabilmente competitivo.
È questo il quadro generale in cui va inserito l’Inno. Sulla funzione pratica degli Inni omerici nel contesto della poesia greca arcaica vi è fra gli studiosi un accordo sostanzialmente unanime, anche se non molto esplicito e talvolta silenzioso. La funzione proemiale dell’Inno ad Apollo sembra assicurata anche dalla coincidenza strutturale e tematica di fondo che esso mostra con gli altri Inni della silloge: come è stato anche recentemente notato, l’Inno non si differenzia che per una particolare elaborazione, e una notevole espansione di talune fra le parti che tradizionalmente compongono un proemio rapsodico.
L’unico elemento anomalo rispetto alla forma tradizionale dei proemi omerici è costituito dai vv. 146-176; l’anomalia, anzi la rottura, è evidente sotto molti punti di vista: dopo una serie di appellazioni dirette al dio, il poeta passa a descrivere i caratteri generali della festa in atto, per appuntare infine la sua attenzione su un gruppo di fanciulle (v. 157); queste formano un coro destinato a cantare, dopo aver celebrato Apollo, Leto e Artemide, le vicende degli uomini e delle donne dei tempi antichi. A questo coro il poeta si raccomanda e gli affida il compito di conservare nel tempo il suo ricordo.
All’inserimento già eccezionale della seconda persona divina, segue l’irrompere in scena dell’”io” del poeta medesimo, e del “voi” del coro, in un’apostrofe in cui sono contemporaneamente presenti valenze descrittive e iussive. Se tutto ciò è eccezionale, addirittura stravagante nel caso dell’innodia epica, la menzione di elementi pragmatici relativi alla performance in atto, almeno per quanto riguarda l’entrata in scena del coro e il rapporto coro-corifeo è invece quasi normale nella lirica, soprattutto nella lirica corale. Tuttavia testimonianze esplicite sia della compresenza, a livello enunciativo nel canto, delle diverse persone del corifeo (= poeta = “io”) e del coro (= “tu”), sia soprattutto di un rapporto pragmatico e iussivo fra i due non sono frequenti neppure nella lirica corale, forse anche per la nostra limitata conoscenza dei testi della lirica corale, forse anche per la nostra limitata conoscenza dei testi della lirica corale cerimoniale e religiosa; è questo il genere dove lo stretto legame tra esecuzione corale e rito apriva le maggiori possibilità di un’esplicita interazione fra i partecipanti all’azione rituale. Le eccezioni non mancano, ma sono relativamente poche, rintracciabili per la lirica arcaica appunto negli sparuti resti della lirica ieratico-cerimoniale, mentre frequenti richieste del poeta – o comunque di un “io” identificabile con il corifeo – nei riguardi di un coro sono presenti solo in alcuni peani epigrafici posteriori all’epoca classica, ma di impianto sicuramente tradizionale. Un rapporto complessivo tra un poeta-corifeo e un coro, paragonabile a quello che compare nei vv. 146-176 dell’Inno ad Apollo, ricorre infine nei due Inni “dorici” di Callimaco (V-VI).
Apollo citaredo. Statua, marmo, copia romana del II sec. d.C. da originale ellenistico, da Cirene. London, British Museum.
L’esistenza di un rapporto pragmatico assai simile fra “io” del poeta e “voi” del coro in composizioni tanto diverse da loro e tanto distanti nel tempo e nello spazio non deve indurre a tracciare un’improbabile linea genetica che le colleghi, essa sarà piuttosto un indizio dell’esistenza di uno schema formale diffuso già in epoca arcaica, e collegato a talune caratteristiche e necessariamente devono essersi mantenute identiche nel tempo. In altre parole nulla vieta che uno schema formale permanga nel tempo, pur modificandosi o annullandosi la sua funzione originaria.
In questo quadro, le somiglianze tra il rapporto pragmatico sotteso alla sezione centrale dell’Inno ad Apollo e quello presente nei due Inni callimachei assumono un particolare significato, mettendo ancora in maggiore evidenza l’anomalia che caratterizza l’Inno omerico. Infatti il poeta ellenistico, fino dalla scelta dialettale, intende privilegiare come suo modello non già l’innodia di tipo omerico, bensì – nel quadro, vero o fittizio che sia, di un evento festivo e rituale – la tradizione del canto cerimoniale che, per quanto è dato sapere, si espresse in dorico in tutta l’epoca arcaica e classica, fino all’attico Sofocle.
Se torniamo all’Inno ad Apollo, si pone il problema di una migliore definizione delle performances poetiche inserite nelle feste delie, o meglio ancora delle particolari performances che caratterizzavano la festa istituita da Policrate; questa infatti costituì una rottura del quadro tradizionale, ed è probabile che molte delle innovazioni introdotte dal tiranno non sopravvissero alla sua fine.
A proposito delle Delie in generale, non vi è unanimità fra gli studiosi circa la collocazione temporale della festa e del suo rapporto con le Apollonie. L’opinione più recente, e anche la più diffusa, colloca la festa nel mese di Hieros (all’inizio della primavera) e sostiene l’identità, per il periodo arcaico, fra le due feste.
L’identificazione fra le due feste consente di ascrivere alle Delie anche le notizie, letterarie e soprattutto documentarie, relative alle Apollonie, ampliando così un poco l’insieme di una documentazione assai ristretta. Sulla struttura delle Delie arcaiche le fonti rischiano pericolosamente di ridursi al passo tucidideo più volte citato (essenzialmente basato sull’Inno ad Apollo) e all’Inno medesimo, il testo peraltro del quale si vorrebbe illuminare le valenze pragmatiche e performative. Al fine di evitare, almeno in parte, il rischio della circolarità possiamo per il momento trascurare Tucidide e l’Inno; le altre fonti concordano tutte su un punto: le performances delie sono di tipo corale, e vedono coinvolti cori di entrambi i sessi. Erodoto (IV, 35), Callimaco (Del., 304-305) e Pausania (VIII, 21, 3; I, 18, 5) affermano che nel contesto delle feste di Delo venivano cantate le composizioni dell’antico poeta Olen; questi canti vengono in generale definiti “inni”. In Callimaco ricorre la definizione di nómos: in questo caso però non è certissimo che il canto vada inquadrato nel contesto delle Delie piuttosto che in quello delle Afrodisie. La partecipazione di cori di adolescenti alla festa e la sua prevalente funzione iniziatica vengono più o meno esplicitamente dichiarate da Erodoto (IV, 34), Ateneo (X, 424f), Plutarco (Thes., 21), Pausania (I, 43, 4) e Luciano (de salt., 16). Quest’ultimo chiama “iporchemi” i canti che venivano eseguiti da cori di paîdes con l’accompagnamento della lira e del flauto. Similmente le fonti epigrafiche menzionano costantemente la presenza, alla feste di Delo, di coreghi e di cori, mentre affatto sporadica è la menzione dei rapsodi.
Tutto ciò induce a ritenere che gli agoni poetici di Delo si incentrassero su performances di tipo corale; questo potrebbe essere tanto più vero per le Delie, qualora se ne consideri la partecipazione internazionale e il carattere marcatamente spettacolare. Ricorda Plutarco (Nic., 3) che il ricchissimo Nicia, in occasione di una sua coregia a Delo, volle dare particolare splendore alla theōría ateniese: fece sbarcare a Renea uomini e attrezzature il giorno prima della festa, durante la notte fece gettare fra le due isole un ponte di barche attraverso il quale il coro magnificamente abbigliato fece il suo ingresso a Delo cantando. È difficile che qualcuno abbia potuto, anche in seguito, emulare lo sfarzo di Nicia; l’episodio resta tuttavia significativo dell’investimento che le città facevano al momento della loro partecipazione alle Delie.
Anche i testi letterari che in qualche modo possono collegarsi alle Delie sembrano ricondursi a due generi corali: il peana e il ditirambo. Fra i peani di Pindaro il IV (fr. 52 d S.-M.), il V (fr. 52 e S.-M.), e il VIIb (fr. 52 h S.-M.) furono composti per le feste di Delo, il IV sicuramente per una theōría dell’isola di Ceo; dubbi sono invece i committenti degli altri, anche se è probabile una connessione del V con Atene. Fra i ditirambi delii rientrano sia il carme 17 di Bacchilide, anch’esso per i Cei, sia il Memnone di Simonide (PMG 389); quest’ultimo era compreso in una raccolta di ditirambi detta Dēliaká. A proposito della raccolta, sono egualmente possibili due spiegazioni: o essa riuniva i ditirambi composti da Simonide per le feste di Delo, ed era quindi una sottosezione di una – peraltro non attestata – raccolta dei ditirambi di Simonide, oppure era una silloge particolare di provenienza delia, dove il Memnone era inserito insieme ad altri ditirambi di altri poeti. In entrambi i casi è comunque evidente come i ditirambi occupassero un posto di rilievo all’interno delle Delie.
Distinguere i peani dai ditirambi era difficile anche per gli antichi: neppure la presenza o l’assenza del ritornello iḕ paián serve a individuare con certezza un peana. Ancora più difficile appare una distinzione dal punto di vista pragmatico: soprattutto quando, come nel caso di Delo, ditirambi e peani sono inseriti all’interno di feste apollinee.
Autore anonimo. Un aedo canta accompagnandosi alla lira. Pittura vascolare su kyklix attica a figure nere, 515 a.C. ca. Wisconsin, Chazen Museum of Art.
Tali caratteristiche delle feste delie non sono senza conseguenze per la definizione delle linee complessive della performance di Cineto: restando fisso il carattere proemiale, introduttivo dell’Inno ad Apollo, occorre interrogarsi sulla natura di quanto all’Inno doveva seguire. Una regolare successione di altri canti epici, di argomento eroico e di forma esametrica, pare improbabile per molte ragioni. Infatti, non vi è quasi traccia di un agone rapsodico nella documentazione relativa alla festa, mentre con esso contrastano alcune peculiarità dell’Inno medesimo. Questo infatti si conclude nel modo più stereotipo con due versi che esprimono il saluto del dio e l’intenzione generica di ricordarsi ancora del dio e di un altro canto. Manca qualsiasi accenno di preghiera personale al dio. Questa preghiera contiene sovente – in forma più o meno esplicita – una richiesta di vittoria agonale, che può essere introdotta o addirittura riassunta in un hílēthi (1, 17; 23, 4; cfr. 19, 48), o avere espressione più ampia come nell’Inno a Demetra (v. 494) e negli Inni 30, 18 e 31, 17, dove il poeta chiede la «prosperità che rallegra il cuore», o come negli Inni 11, 5; 15, 9 e 20, 8 contrassegnati da una forma imperativa di dídōmi cui corrispondono predicati diversi: týchē, eudaimonía, aretḗ, ólbos. La richiesta di vittoria è poi affatto esplicita nell’Inno 26 (a Dioniso 12-13), in cui si chiede di tornare felicemente ogni anno alla festa del dio e nell’Inno VI (ad Afrodite, vv. 19-20).
Il fatto che il poeta non accenni ad alcuna richiesta di vittoria non avrebbe in sé molto peso, come ogni altro argomento e silentio: anche l’Inno ad Ermes, fra i maggiori, si conclude con un identico stringatissimo finale. È significativo però che i tre motivi tipici della conclusione abbiano già avuto un’ampia e peculiare trattazione in precedenza, e occupino buona parte della sezione centrale relativa alla festa in atto. Dopo la menzione del coro delle Deliadi (v. 156 sgg.) assistiamo a una sorta di trasferimento al coro delle funzioni proprie del rapsodo o dei rapsodi all’interno degli agoni: dopo aver cantato Apollo, Leto e Artemide esse canteranno le vicende degli uomini e delle donne antichi. La terminologia è generica, ma proprio per questo significativa; ricorrono infatti i temi chiave delle conclusioni: il canto del coro è definito (v. 161) hýmnos e aoidḗ, mentre la produzione poetica è allusa mediante l’azione di “ricordare” (v. 160).
In pratica, i vv. 158-159 riprendono i temi propri del saluto al dio, mentre i vv. 160-161 si riferiscono alla transizione dalle lodi del dio a un altro canto di diverso argomento. La parte relativa alla preghiera e alla richiesta di vittoria riceve infine una trattazione assolutamente straordinaria ai vv. 165-173, che è opportuno esaminare da vicino.
Ordunque siate benigni, Apollo con Artemide,
e voi tutti siate felici, e di me anche in futuro
ricordatevi, quando uno degli uomini che vivono sulla terra,
uno straniero, che qui giunga dopo aver molto sofferto, vi chieda:
«O fanciulle, chi è per voi il più dolce fra gli aedi
che qui sono soliti venire, e chi vi è più gradito?»
E voi tutte, concordi, rispondete con parole di lode:
«È un uomo cieco, e vive nella rocciosa Chio:
e tutti i suoi canti saranno sempre i più belli».
(trad. it. di F. Càssola)
Vi è un inizio favorevole (v. 165, «siate benigni») in cui si chiede il favore di Apollo e Artemide e dove il verbo sembra aprire la strada al tema della richiesta di protezione e di vittoria; a questo punto invece segue un’improvvisa reduplicazione del tema del saluto, rivolto però alle ragazze del coro (v. 166, «e voi tutte siate felici»); su questa s’innesta una ripresa del tema “ricordare”. Qui lo spostamento dei referenti è completo, oggetto del ricordo non sono altri canti, ma il poeta stesso: si realizza così una forma di preghiera del tutto senza paralleli. L’eccellenza del poeta e del suo canto non fa parte di una richiesta di vittoria, ma è un dato incontestabilmente affermato, e offerto alle Deliadi perché lo proclamino nel futuro (vv. 169-173).
All’interno di questa trama manca insomma ogni accenno alla situazione agonale, e al desiderio del rapsodo di prevalere su altri poeti, pur in presenza di tutti i temi che tradizionalmente vengono impiegati per esprimere questi concetti. Vi è invece in positivo la coscienza della propria eccellenza e della superiorità della tradizione (cioè Omero) che il poeta rinnova nel suo canto. Da cosa può derivare questa coscienza? Tentativamente possiamo pensare che la competizione, se esiste, non riguarda il poeta bensì i cori che succederanno alla sua performance. Se Cineto fu incaricato da Policrate di comporre ed eseguire un inno sostanzialmente nuovo, è chiaro che una scelta di eccellenza doveva essere già stata fatta, e di questo il poeta non poteva non essere cosciente. Il rapsodo epico – in sé il poeta meno occasione, ripetitore fedele delle parole eterne delle Muse e della tradizione – si trova coinvolto in un evento di tipo, per così dire, lirico, condizionato da una committenza esigente, non diversa da quella che dava incarico a Ibico o a Simonide di comporre ditirambi o peani per le occasioni festive dei tiranni e delle città.
Siamo così giunti a una prima definizione del contesto della performance delia di Cineto; l’elemento più interessante, e anomalo, è certamente l’associazione organica dell’esibizione solistica per eccellenza – quella del rapsodo – e di quella corale; al coro delle Deliadi infatti, e non a un rapsodo, spetta il compito di proseguire la performance iniziata dall’aedo. Sembrano cadere a livello delle performance le linee di demarcazione tra forme poetiche epiche e liriche. La cosa è solo in parte eccezionale, basti pensare alla posizione ambigua della citarodia stesicorea, a proposito della quale gli studiosi sono incerti fra esecuzione solistica o corale, e a quanto abbiamo detto a proposito del proemio.
Pitagora di Reggio, statua di suonatore di lira. Copia romana del II secolo a.C., da un originale in bronzo del V secolo a.C. Marmo, 168 cm. Musée du Louvre, Parigi.
La festa policratea si caratterizza però in modo peculiare: un’unica performance che comprende esibizioni sia di un poeta epico solista sia di uno o più cori lirici: il punto di contatto consiste nella materia del canto che è per entrambi la narrazione di vicende divine o eroiche.
Diventa così più chiaro il senso dei particolari tratti pragmatici che caratterizzano l’Inno; le frequenti appellazioni al dio, la presenza massiccia di elementi deittico-iussivi nella parte centrale accomunano l’Inno a composizioni proprie della lirica ieratico-rituale. Ciò accade non per scelta soggettiva del poeta, ma proprio perché l’Inno si inquadra in una performance dove essa funge da proemio a una o più composizioni corali, connesse con i riti della duplice festa di Apollo.
Potremmo ancora chiederci che tipo di composizione lirica corale seguisse – parliamo sempre della festa delia del 523 o 522 – il canto rapsodico di Cineto. Naturalmente qualsiasi definizione comporta notevoli margini di dubbio legati all’applicazione all’epoca arcaica di classificazioni operanti solo in epoca successiva, e perciò incongruenti rispetto alle circostanze concrete che presiedevano alle esecuzioni arcaiche. Proprio questa sfasatura fra tassonomia e performances rende poco significativo il testo che con maggiore chiarezza parrebbe definire il canto delle Deliadi. Nell’Eracleeuripideo (v. 687 sgg.) il coro dei vecchi si chiede se dovrà cantare un peana, come le Dēliádes che danzano in cerchio. Da un lato non è esplicito il riferimento alle Delie, dall’altro l’attribuzione di un peana a un coro femminile appare in contrasto con il fatto che esso è di norma affidato a un coro maschile. In questo caso penso che, stante il fatto che le due performances sono dal punto di vista funzionale (occasione e destinazione) ampiamente sovrapponibili, il peana venga assegnato alle Deliadi soprattutto per rafforzare l’analogia con il canto che i vecchi (maschi) vorrebbero eseguire. Non è infine da dimenticare che nel V secolo il ditirambo ha ad Atene una precisa caratterizzazione – negli anni Venti i ditirambografi sono già nel mirino di Aristofane – e il suo inserimento nel contesto della tragedia sarebbe probabilmente apparso fuori luogo.
Nel quadro di una festa pensata e voluta, con chiari intenti politici, da un tiranno come Policrate, strettamente collegato con i tiranni ateniesi, l’ipotesi più probabile è che i cori eseguissero dei ditirambi. Una festa caratterizzata da performances ditirambiche verrebbero anche a colmare una sorta di lacuna letteraria e storico religiosa. Delle quattro grandi tirannidi dell’epoca arcaica (Corinto, Sicione, Atene, Samo), quella samia era finora l’unica a non mostrare alcun interesse alle performances ditirambiche, se si eccettua una notizia contenuta in uno scolio all’Andromacadi Euripide, secondo cui l’incontro tra Elena e Menelao durante la presa di Troia era narrato anche da Ibico in un ditirambo.
Questa conclusione non contrasta né con le notizie relative alle performances delle Delie che abbiamo prima esaminato né con quanto si può desumere dall’Inno a proposito del canto del coro. La presenza di esecuzioni e competizioni ditirambiche è ampiamente attestata per le Delie, mentre lo svolgimento di una tematica narrativa eroica coincide con quanto sappiamo a proposito del ditirambo.
Più difficile da spiegare appare il collegamento fra un proemio rapsodico, esametrico e recitato, e un ditirambo. Difficile, tuttavia non impossibile; innanzitutto non si può dubitare dell’esistenza di proemi monodici a performances lirico-corali, caratterizzati da un forte rapporto pragmatico fra “io” del poeta o del corego e “tu”-“voi” del coro: le fonti ne attestano l’esistenza già per Terpandro, benché ne restino imprecise le caratteristiche formali e di contenuto, in assenza di testi esplicitamente ascritti al genere stesso. Inoltre, in un articolo recente, J.L. Malena ha ampiamente argomentato circa l’esistenza di proemi ai ditirambi, cioè di monodie liriche o citarodiche finalizzate a introdurre o avviare il successivo canto del coro. Il proemio ditirambico, che risalirebbe a una fase assai antica della storia del genere, si caratterizzerebbe dal punto di vista dei contenuti come un’invocazione al dio seguita da una serie di ordini al coro; formalmente esso avrebbe andamento metrico prevalentemente dattilico e dizione assai prossima a quella dell’epos, come mostrerebbe un frammento di Terpandro (697 PMG: 4 da): secondo i commentatori antichi il verso, probabilmente il primo di una composizione, riprende modalità tipiche della poesia ditirambica. Analoga funzione proemiale, anche se non collegabile a un ditirambo, avrebbe il fr.84 Calame di Alcmane, dove, ancora in tetrametri dattilici, la Musa è invocata perché dia inizio agli eratá épea.
Ulteriormente significativo è il fr.90 Calame di Alcmane: i quattro esametri del “frammento del cerilo” sono parte di un proemio eseguito dal poeta, o da un corego, a introduzione di una performance corale, probabilmente da parteni.
Altri indizi aiutano a definire meglio il quadro in cui inserire il rapporto fra proemio e ditirambo.
L’unico frammento di Laso di Ermione tramandatoci consiste nell’inizio di un hýmnos in onore di Demetra, Core e Climeno (Athen. 14, 624e–f = fr.1 Privitera). Il metro è dattilico e la struttura del primo verso ricorda quella tipica degli Inni omerici. Da Ateneo il frammento è tramandato come parte di un «inno a Demetra ad Ermione»: una definizione in cui si sottolinea la località destinataria del canto e che potrebbe perciò essere connessa con la funzione proemiale del canto, finalizzato a contestualizzare un’intera performance (per esempio i ditirambi) all’interno della festa di Demetra ad Ermione. […]
Il proemio di tipo epico appare dunque una prassi consolidata in relazione alle più antiche performances di ditirambi; da queste la performance delia aperta da Cineto si distingue solamente per il fatto di usare un proemio di tipo non lirico ma rapsodico, non cantato ma recitato. Le ragioni di questa scelta ci sfuggono, e probabilmente nessuna fonte antica sarà mai in grado di illuminarci su essa. Lo impediscono soprattutto le profonde incisioni operate dal corpus della poesia arcaica dalla classificazione alessandrina: opposizioni quali cantato vs recitato, monodico vs corale, utili e sensate da un punto di vista tassonomico e bibliotecario, appaiono sempre più non avere alcuna corrispondenza con le concrete e originarie condizioni di esecuzione.
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Bibliografia:
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Gentili B., L’«io» nella poesia lirica, in Lirica greca e Latina, Atti del convegno di studi polacco-italiano, Poznan 2-5 maggio 1990, «AION (FilLet)» 12, 1990, pp. 9-24.
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Janko R., The structure of the Homeric Hymns: A study in genre, «Hermes» 109, 1981, pp. 9-24.
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Nagy G., Pindar’s Homer. The Lyric Possession of an Epic Past, Baltimore-London 1990.
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di A. Aloni, Da Pilo a Sigeo. Poemi, cantori e scrivani al tempo dei Tiranni, Alessandria 2003, pp. 93 sgg.
Le Panatenee riformate da Pisistrato sono occasione per la performancedi canti rapsodici famosi in tutta la Grecia. Di che natura fossero questi canti nella fase immediatamente successiva alla riforma del 566 non possiamo essere certi. È comunque assai probabile che fossero canti già appartenenti a una fase panellenica, proprio perché la festa sembra riformata avendo come riferimento le grandi feste panelleniche.
La principale testimonianza della riforma è fornita dal dialogo pseudo-platonico a lui intitolato (Ps.-Plat., Hipparch. 228b–c):
a Ipparco, che era il più anziano e sapiente tra i figli di Pisistrato. Egli, oltre a fornire molte altre belle prove della sua sapienza, portò per primo in questa terra anche i poemi di Omero, e obbligò i rapsodi a recitarli durante le Panatenee, dandosi il cambio e in sequenza, come fanno ancora oggi.
(trad. it. M.L. Gatti)
Pittore Eufileto. Corsa a piedi con quattro atleti. Pittura vascolare da un’anfora panatenaic a a figure nere, fine VI sec. a.C. ca., dall’Italia meridionale. London, British Museum.
Anzitutto Ipparco fu il primo a portare in Attica tà Omḗrou épē. La nostra fonte non precisa ulteriormente quali fossero questi poemi; certamente erano quelli diffusi nelle occasioni panelleniche da quei rapsodi che si proclamavano discendenti di Omero e detentori unici e veritieri delle parole rivelate dalle Muse all’antico poeta. Si trattava di un oggetto di pregio e di prestigio, la cui performance tornava a gloria della città e del tiranno che la governava. Il valore – se vogliamo la timḗ – di questi poemi è rivelato dalla notizia (Hippostr. FGrHist 568F5) secondo cui Cineto di Chio fu il primo a recitare tà Omḗrou épē a Siracusa fra il 504 e il 501.
Inoltre Ipparco impose ai rapsodi di recitare le loro storie – in verità lo Pseudo-Platone usa il verbo díeimi, cioè «percorrere», che implica una sorta di movimento attraverso qualcosa di precostruito, e rende assai ben la procedura compositiva in performance – ex upolḗpseōs ephexēs, cioè «dandosi il cambio e in sequenza», secondo una modalità ancora operante al tempo della composizione dell’Ipparco. I rapsodi, in altre parole, non potevano raccontare ognuno una sezione degli épē di Omero a loro scelta, ma dovevano narrare una storia continua, dandosi il cambio in una sorta di staffetta poetica.
La riforma di Ipparco dovrebbe collocarsi intorno al 530, anche se non tutti sono d’accordo nel ritenerne accertata la storicità. In effetti, Diogene Laerzio (I 57), citando lo storico megarese Dieuchida (FGrHist 486F6) attribuisce l’introduzione della performance a staffetta a Solone: «(Solone) fece una legge secondo la quale i canti di Omero dovevano essere recitati a staffetta, in modo che dove il primo terminava, da lì doveva cominciare il secondo. Dunque Solone fece maggiore luce su Omero di Pisistrato, come dice Dieuchida nel quinto libro delle sue Storie megaresi».
Nagy ritiene che entrambe le versioni siano valide da un punto di vista storico, perché entrambe forniscono una spiegazione della specifica modalità di performance introdotta nel VI secolo a.C. ad Atene. Si tratterebbe insomma di un mito eziologico, formatosi a partire da una realtà di fatto, cioè la staffetta dei rapsodi.
Ciò che conta, comunque, è che negli ultimi decenni del VI secolo ad Atene non solo venivano recitati dai rapsodi alle Panatenee gli épē di Omero, ma che i cantori, dandosi il cambio, producevano un testo – orale di dimensione e complessità inusitate rispetto all’abituale pratica rapsodica.
La “regola panatenaica” dovette essere una novità talmente importante e significativa, che di essa è possibile individuare almeno due riflessi nei poemi omerici. Quando l’ambasceria giunge alla tenda di Achille, trova l’eroe impegnato in una performance poetica (Il. IX, 185 -191):
E giunsero alle tende e alle navi dei Mirmidoni,
e lo trovarono che con la cetra sonora si dilettava,
bella, ornata; e sopra vi era un ponte d’argento.
Questa, quando abbatté la città di Eezione, scelse per sé fra le spoglie;
si dilettava con essa, cantava glorie di eroi.
Patroclo solo, in silenzio, gli sedeva dirimpetto,
spiando l’Eacide, quando smettesse il canto.
Non siamo in presenza di una performance rapsodica perché, come sempre nei poemi, l’immagine riflessa del rapsodo attuale nel mondo eroico è quella di un cantore che accompagna il suo canto con la cetra. Il ruolo di Patroclo non è però quello di un passivo, o anche partecipe, ascoltatore. Egli stesso è parte della tradizione d’imprese gloriose condivise con Achille; per questo attende che il compagno interrompa il suo canto per subentrargli […].
Ulteriore traccia della performance panatenaica si trova all’inizio dell’Odissea; il cantore, dopo la presentazione della materia del suo canto, cioè le vicissitudini di Odisseo legate al ritorno, torna a rivolgersi alla Musa (Od., I 10):
τῶν ἁμόθεν γε, θεά, θύγατερ Διός, εἰπὲ καὶ ἡμῖν.
di queste cose, da un punto qualsiasi, dea, figlia di Zeus, dì anche a noi.
L’avverbio amòthen, un unicum in Omero, introduce una prospettiva autoriflessiva che non è delimitata solo a un compiacimento per la propria abilità compositiva. È invece probabile che qui il cantore celebri la propria capacità (certo anch’essa dono della Musa) di iniziare il racconto da un punto qualsiasi, corrispondente al momento in cui il precedente cantore ha concluso la propria performance. L’abilità con cui il cantore è fiero viene, secondo un usuale procedimento, proiettata al di là, e in questo caso al di sopra, del cantore stesso. Possiamo in definitiva osservare una sorta di regressione temporale della performance panatenaica, cui corrisponde anche un costante innalzamento di livello assiologico. Lo Pseudo-Platone e Dieuchida (o meglio la sua fonte attica) collocano la performance a staffetta al tempo di Pisistrato e Solone, cioè nel tempo lontano degli antenati; l’Iliade proietta nel tempo degli eroi, e l’Odissea la colloca infine nel mondo divino.
Solo nel contesto della performance panatenaica diventa possibile pensare a poemi di dimensione incommensurabile con la performance naturale e normale di un cantore. La narrazione a staffetta dà luogo – a livello orale – a una struttura monumentale che non è immaginabile a partire da una successione slegata di performance di cantori diversi, ognuno dei quali sviluppa un diverso episodio, in sé concluso.
A questo punto, Omero diventa non solo famoso, ma anche grande. West ha mostrato come il nome di Omero si imponga a partire dal 520 a.C. ca. Possiamo sospettare che questo non si leghi solo all’affermazione degli épē di Omero nei contesti panellenici, ma che derivi anche da una particolare evoluzione della tradizione che si rifaceva al suo nome. La norma panatenaica caratterizza in modo unico e peculiare la tradizione omerica rispetto alle altre.
L’esistenza di un testo scritto degli épē di Omero anteriore alla riforma panatenaica è molto discussa, ma in definitiva possibile, a due secoli dall’introduzione della scrittura in Grecia, e con il fiorire – a partire dall’inizio del VI secolo – dal commercio con l’Egitto, produttore unico del papiro, il principale materiale scrittorio. Occorre però interrogarsi sulla natura di questi testi. In assenza di una fruizione della poesia attraverso la lettura, questi scritti dovevano avere a che fare con il mondo dei rapsodi e con le loro performance. Quale ne fosse la funzione (anche di aiuto per la performance), difficilmente la loro forma, dimensione e complessità saranno state diverse da quella che le performance anteriori e diverse da quella panatenaica presupponevano. Le notizie, di varia antichità e autenticità, relative a operazioni di scrittura di testi poetici appaiono tutte riguardare testi di limitata estensione, compatibili con una performance rapsodica. È il caso dell’Inno ad Apollo che, testimone il Certamen (18 p. 44, 21-27 Wilamowitz = ll. 315-21 Allen), gli abitanti di Delo avrebbero fatto scrivere su una tavola di legno e avrebbero dedicata nel tempio di Artemide. I Beoti che abitavano intorno all’Elicona, a loro volta, indicarono a Pausania (IX, 31, 4) una tavola di piombo (uno strano materiale per una dedica) con inciso il testo delle Opere e giorni di Esiodo: di quale antichità non è dato sapere. Lo storico Gorgon (FGrHist 515F18) riferisce che l’Olimpica VII di Pindaro fu dedicata, scritta a lettere d’oro, nel tempio di Atena Lindia.
La scrittura, sotto qualsiasi forma, di un poema monumentale è altra cosa. Essa diventa possibile solo a partire dalla recitazione panatenaica che, a livello orale, fornisce il modello di un tale poema, senza tuttavia che l’esistenza di un tale modello sia la causa diretta della registrazione scritta.
In altre parole, la norma panatenaica non dipende dall’esistenza di un testo già fissato e messo per iscritto dei poemi, che non esistono in una dimensione monumentale: questa dimensione è conseguenza della norma stessa. D’altra parte la registrazione scritta non può neppure essere considerata una conseguenza diretta della norma panatenaica. In una cultura tradizionale non esiste necessità di una registrazione scritta di un testo, la cui esistenza è sempre e comunque resa possibile dalla realizzazione in performance. La scrittura è qualcosa di diverso, le cui ragioni vanno cercate fuori o oltre la fruizione del testo. Inoltre, a differenza di quanto ho pensato per anni, ritengo ora poco realistica l’idea di un testo scritto prodotto per servire da copione o anche solo per controllare le performance panatenaiche.
West, che sostiene la tesi di una scrittura molto antica dei poemi, ritiene possibile che il testo scritto dei poemi fosse conservato: dalla famiglia del poeta; da una comunità di rapsodi (gli Omeridi di Chio); in un tempio come oggetto dedicato. Delle tre possibilità, l’unica che abbia un qualche sostegno dalle fonti è la terza, la dedica in un tempio. Ai casi già ricordati – Inno ad Apollo, Opere e giorni, Olimpica VII di Pindaro – occorre aggiungere che Eraclito dedicò la sua opera nel tempio di Artemide a Efeso.
Vi è un tratto comune in tutte queste dediche: la scrittura materializza qualcosa che materiale non è, e rende possibile l’offerta e la dedica al dio. La performance, infatti, produce un testo che esiste solo nel momento e nel luogo della performance medesima. Nei santuari e nelle città del VI secolo le performance dei canti panellenici sono oggetti di valore, che sono però assai difficili da esibire (a differenza, per es. di una mitria di Sardi, bramata da Cleide, figlia di Saffo [fr. 98 Voigt]), per attestare la fama e il valore di chi li possiede. Come possessore dei canti non intendo il cantore, che è in grado di esibirsi in qualsiasi momento, bensì il committente – sia esso una città, un tiranno o un altro potente – che ingaggia e attira presso di sé un grande cantore, capace di una performance eccezionale. Per altri generi poetici la soluzione più ovvia consiste nell’invitare e trattenere, dietro lauti compensi, il poeta alla propria corte, nella città, ecc.
Per la performance panatenaica questo non è possibile. Per quanto sappiamo, la norma panatenaica valeva solo per le competizioni rapsodiche delle Grandi Panatenee, cioè ogni quattro anni. L’eccezionalità e il valore del testo (orale) prodotto alle Panatenee derivavano dall’azione sequenziale di numerosi rapsodi. L’esibizione non temporanea del testo panatenaico richiedeva perciò qualcosa di nuovo. E questo consistette, credo, in una registrazione scritta di un testo paragonabile, per quantità e qualità, a quello panatenaico.
di M. Marconi, Culto della dea nel mondo ellenistico, in Enciclopedia delle religioni (a cura di M. Eliade), vol. XI – Religioni del Mediterraneo e del Vicino Oriente antico, 2002.
Il termine ellenistico indica non tanto una cultura, quanto piuttosto un’epoca. Non si può utilizzare, infatti, un unico termine per descrivere nella sua totalità uno sviluppo storico così complesso, e ancor meno per comprendere l’esperienza religiosa di quel tempo, poiché ogni forma religiosa, per sua stessa natura, va ben oltre i confini di una rigida classificazione. In verità, ancora prima dell’epoca ellenistica, concezione di carattere religioso avevano già cominciato a circolare in quella grande koiné che caratterizzava la civiltà che si estendeva dal fiume Indo fino alla penisola iberica; e fu proprio sulle sponde del Mediterraneo che questa civiltà raggiunse il suo massimo splendore. Così alcuni culti cosiddetti “stranieri” non vennero avvertiti come estranei, ma, al contrario, furono invece accolti da un significativo numero di seguaci: basta pensare a quanto fossero ampiamente diffusi il culto di Cibele e quello di Iside. Questi fatti giustificano anche il motivo per cui fu possibile che Tyche, un nome caro al pensiero filosofico, in origine indicasse una dea del lontanissimo pantheon degli Egei.
Tyche. Busto, marmo, II sec. d.C. da Perge. Antalya, Arkeoloji Müzesi.
Il mito di Tyche è piuttosto povero di elementi; ne veniamo a conoscenza non tanto attraverso testi scritti, ma piuttosto grazie al nome stesso che significa “fato”, “destino”. In Esiodo (Teogonia, 346 ss.), Tyche viene presentata come figlia di Teti e di Oceano: si tratta pertanto di una delle Oceanine, le antichissime figlie (πρεσβύταται κουραί) di quella lontana coppia di divinità. La prima di queste figlie esercitava il suo potere sull’acqua del mare, mentre la seconda su quella dei fiumi. Pindaro (Olimpica 12) ci illumina sulla questione: Τύχη Σώτειρα (“Tyche, la Salvatrice”), che, al tempo di Pindaro, era stata trasformata in una figlia di Zeus, fu chiamata a difendere la città siciliana di Imera. Era lei che vegliava sul destino delle navi, delle battaglie e delle riunioni dei cittadini. Non si può forse intravedere in questa figura una riproduzione di Atena Poliade? In realtà si credeva che il destino della πόλις dovesse necessariamente subire un’evoluzione, che poteva essere tanto verso un futuro prospero, quanto verso un terribile declino e si attribuiva tale evoluzione a Tyche, la dea degli eventi: in questo senso, dunque, Tyche si dimostrò un’efficiente protettrice della città per gli abitanti di Imera.
Statua di Iside-Tyche-Pelagia. Marmo, I-II sec. d.C. ca. Museo Archeologico Nazionale di Atene.
Secondo il poeta che viene richiamato da Pausania (VII, 26, 8), Tyche non è semplicemente una delle Moire, ma, al contrario, è di esse la più potente: per questo motivo era venerata con l’appellativo di “potnia” (“regina”); in altri termini: una grande dea. Nell’opera omerica, la Moira assumeva un ruolo ancora più importante di quello di Zeus stesso. Tracce di un culto in suo onore sono ravvisabili nelle statue ritrovate in diversi santuari greci; secondo le descrizioni lasciateci da Pausania, a volte la divinità regge il cosiddetto corno di Amaltea (IV, 30, 6; VII, 26, 8), che simboleggia l’abbondanza, mentre in altre occasioni porta in braccio il piccolo Pluto, che rappresenta una garanzia di ricchezza. Pausania osservava (IX, 16, 2) che «ella sembra quasi la sua balia da latte»: simili immagini diffondono grazia, proprio come suggerisce l’epiteto ἀγαθή (“buona”) che, diceva sempre Pausania (V, 15, 6), richiama alla mente anche l’idea della grazia e rivela la dea nella maniera più adeguata e la riscatta da quella oscura ambiguità che rimane implicitamente sottintesa, in modo tanto evidente, nel significato del suo nome.
Sempre secondo la testimonianza di Pausania (IX, 39, 5), a Lebadea in Beozia, nei pressi del sito oracolare (μαντεῖον) di Trofonio, si trova un luogo che è dedicato contemporaneamente a Τύχη Ἀγαθή e a un demone non meglio precisato, che si potrebbe presentare quale controparte maschile della sorte. Anche costui è qualificato con l’attributo di Ἀγαθός. Ma queste due figure possono essere considerate una coppia astratta solamente in apparenza, dal momento che in realtà erano esseri estremamente concreti, connotati da una magia positiva che difendeva e proteggeva dal male. È inoltre importante sottolineare che in quel luogo chiunque volesse consultare Trofonio veniva trattenuto affinché si preparasse. Risulta altrettanto significativo il fatto che a Tebe, secondo Pausania (IX, 16, 2), il santuario (ἱερόν) dedicato a Tyche si trovava accanto a quello di Tiresia: ancora una volta la divinità del destino era posta vicino a un oracolo capace di predire gli eventi.
Statua di Tyche. Marmo, seconda metà del II secolo a.C. Paul Getty Museum.
A Roma, la dea Fortunasembrava particolarmente adatta per incarnare la traduzione del nome Tyche: infatti, la si considerava figlia di Giove, proprio come Tyche era stata fatta discendere da Zeus. Inoltre la dea Fortuna, implicitamente, portava con sé tutte quelle importanti analogie formali che, nel corso del tempo, avrebbero poi permesso la nascita di una forma di sincretismo religioso. Anche Fortuna era legata a una realtà arcaica mitica e rituale, che in origine aveva il suo centro a Praeneste(l’attuale Palestrina), dov’era venerata non soltanto con gli attributi di una dea materna (sono state trovate numerose statue di terracotta raffiguranti figure femminili che allattano neonati), ma anche con quelli di una dea della profezia, funzione questa che rispondeva alla sua naturale vocazione. Il culto che le veniva tributato a Praeneste contemplava tre diverse cerimonie che avevano luogo ad aprile, mentre a Roma, alle calende dello stesso mese, durante le celebrazioni dei Veneralia, le donne ricordavano anche il culto della Fortuna Virile, che in seguito venne confusa con Venere Verticordia. L’epiteto Virilis, inoltre, è uno dei molti ricordati da Plutarco quando, appunto, descriveva il culto di Tyche (Quaestiones Romanae, 74).
Tyche e Fortuna subirono un graduale impoverimento tanto nel mito quanto nel rito, proprio perché i loro stessi nomi le facevano apparire quali divinità legate agli eventi e pertanto manifestavano in questo modo il loro innegabile potere di agire su una realtà che è di per se stessa fugace e precaria. Non sorprende, quindi, che il pensiero filosofico si sia appropriato del nome di Tyche (così come quello di Fortuna), e che lo abbia separato dal suo contesto religioso per farle rappresentare solamente quella dimensione di inevitabilità del destino che gravita intorno all’umanità: in fondo, non l’aveva già previsto re Edipo, quando (1080 ss.) definì se stesso un figlio della Tyche?
Nuovi atteggiamenti religiosi si diffusero anche in Grecia, dove apparvero divinità che, pur non essendo di origine greca, tuttavia non erano così straniere come a prima vista si potrebbe pensare. La talassocrazia minoica aveva inaugurato nuove rotte marine che collegavano Creta all’Egitto fin dalla lontana preistoria; i Micenei avevano viaggiato lungo queste rotte e le avevano migliorate, tanto da renderle anche delle vie che consentissero il passaggio di elementi culturali.
Ricostruzione grafica del Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina, II secolo a.C.
In questo modo si cominciò a delineare una vera e propria koiné mediterranea, di cui possediamo una buona documentazione grazie sia ai ritrovamenti archeologici che alla decifrazione della Lineare B. Tale koiné era ancora in piena attività in epoca storica: Erodoto (II, 155 s.), più o meno consapevolmente, ce lo ha dimostrato nel momento in cui ha tracciato i contorni di quell’interpretatio Graeca delle divinità degli Egizi secondo la quale il dio Horus sarebbe stato il corrispettivo del greco Apollo, Iside di Demetra, Bubastis di Artemide. Per Leto, la dea dell’oracolo di Buto, situato nel delta del Nilo, Erodoto non trovò nessuna corrispondenza, o, forse meglio, non la cercò affatto. Questo fatto piuttosto insolito venne spiegato da Uberto Pestalozza (in uno studio dedicato a Leto e successivamente inserito nel volume Pagine di religione mediterranea, Milano 1942) nella maniera seguente: Leto era la divinità più antica e più importante, che esprimeva i suoi giudizi ricorrendo al suo potere oracolare; «di conseguenza, sia il suo nome che il suo culto furono ereditati intatti dall’Egitto dinastico… e in Egitto Leto fu sempre Leto, dall’età mediterranea fino a quella ellenistica e romana». Alla luce di una tale esperienza religiosa non può risultare del tutto nuova o inattesa quell’altra forma di koiné che si diffuse durante l’epoca ellenistica e che esercitò una così grande influenza storica e culturale e che in un primo momento interessò la sola Grecia e, in seguito, riguardò tanto la Grecia quanto Roma. Quando si esamina il significato culturale di questo fenomeno, si richiama spesso il fatto che esso comportò un passaggio da Oriente a Occidente; ma forse non si è prestata un’attenzione adeguata a quel movimento che si registrò invece in direzione opposta, e che portò la lingua greca, e con essa anche la cultura greca, in Egitto e in Persia e addirittura fino ai confini dell’India.
Bisogna inoltre pensare che probabilmente l’istituzione e la diffusione di quei culti misterici, che non erano propriamente di origine greca, siano attribuibili a una sorta di disagio interiore, che risultava tanto evidente durante l’epoca ellenistica. Tali culti misterici ruotavano intorno al dramma della morte, sofferta e infine vinta, della divinità e per questo incoraggiavano i fedeli a sperare nell’esistenza di qualche cosa dopo la morte. I Greci si erano già trovati a stretto contatto con i drammi esistenziali di due grandi divinità di origine cretese. In primo luogo con le vicende della dea duali, ovvero della madre e della figlia (Demetra e Kore), le quali fecero la loro esperienza attraverso l’evento del matrimonio, che va interpretato come la morte della κόρη (“vergine”), che rivive infine come νύμφη (“moglie”) nell’aldilà accanto ad Ade. In secondo luogo con il dramma del dio Dioniso, che da bambino sopportò un pericolo pari a quello della morte. Nella religione greca, inoltre, si potevano trovare alcune altre figure cretesi minori: per esempio quella di Croco, il giovane che, secondo il mito, fu incidentalmente ucciso da Hermes proprio come Giacinto lo fu da Apollo: dal sangue degli eroi defunti nacquero le piante bulbose che, molto prima che si iniziasse ala coltivazione del grano, potevano già evocare l’idea di una resurrezione annuale. Anche i Greci, perciò, conservavano il ricordo di antichi racconti mitici grondanti di lacrime e sangue, ed è pertanto storicamente fuorviante credere, secondo quanto afferma lo stesso Omero a proposito degli abitanti dell’Olimpo, che la religione sia caratterizzata da divinità perfettamente «felici e immortali»; questa presentazione offertaci da Omero, peraltro, non risulta veritiera neppure nell’ambito della sua stessa opera, come ben dimostra già il libro I dell’Iliade.
Fortuna e un uomo nudo accovacciato fra due serpi, con graffito (cacator cave malu[m]). Affresco. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Storie sacre come quelle appena ricordate avevano peraltro l’umanità di accettare culti provenienti da paesi lontani, che traessero la loro origine da eventi di cui fossero protagoniste figure divine, ma nient’affatto privi di sangue e di lacrime. Così avvenne a proposito del mito di Iside e di Osiride, che, dopo aver lasciato la sua terra natia (l’Egitto), si mosse in direzione dell’Asia Minore, raggiunse la Grecia (il punto di arrivo fu Corinto) e in seguito l’Italia e, nel I secolo a.C., fu introdotto anche a Roma. Il mito, che faceva di fratello e sorella una coppia di sposi non turbava minimamente la sensibilità religiosa dei Greci, i quali, pur avendo condannato da ormai molto tempo i matrimoni consanguinei all’interno della loro società, tuttavia continuavano a venerare Zeus ed Hera, entrambi figli di Crono e di Rea, come la coppia di sposi par excellence.
Era questo il motivo da cui traeva ispirazione la tragedia di Eschilo, il poeta che, secondo Mario Untersteiner (in Le origini della tragedia e del tragico, dalla preistoria ad Eschilo, Torino 1955), «scopre e canta la natura contraddittoria della realtà». Probabilmente anche il modo in cui Osiride affrontava la morte non doveva turbare affatto la sensibilità religiosa dei Greci: al contrario, si riconosceva qualche cosa di prodigioso nella capacità dimostrata dal dio di fecondare la propria sposa, Iside, che giaceva prona su di lui. Ma di che cosa erano capaci gli dèi? Horus, nato da questa unione, divenne il vendicatore del padre. L’immagine di Iside che tiene in braccio il bambino Horus rende la dea immediatamente familiare e questa iconografia più recente la libera dalla sua originaria severità ieratica.
In modo analogo a quanto avvenne con Tyche, anche ad Iside venne attribuito il corno dell’abbondanza. Veniva chiamata Isityche: un appellativo che lasciava trasparire il potere da lei detenuto nella sua terra natia, per esempio a File, dove prometteva ai suoi fedeli che avrebbe prolungato loro la vita. Da questo punto di vista, dunque, appariva molto più potente di quanto non fossero le divinità greche o romane, fatto questo che non bisognerebbe trascurare quando si considera il prestigio di cui godette nel mondo in cui era immigrata. Tuttavia fu proprio in questo ampio mondo della sua diffusione – fatta eccezione per il periodo in cui si svolgevano le due principali solennità in suo onore: il Navigium Isidis, in primavera, quando si tributavano onori a Iside come esperta di navigazione (non viene forse in mente Atena?), e la Inventio Osiridis, in autunno, quando invece si ricordava la dea totalmente coinvolta dalle vicissitudini del dio Osiride – ; fu proprio in questo mondo della sua diffusione che il culto egizio introdusse un’importante novità, costituita da una forma di culto che doveva essere svolta quotidianamente dai suoi sacerdoti, i quali erano tenuti a ripetere tutta una serie di gesti e di litanie nel corso dell’intera giornata, dal mattino fino al tramonto. Questo esempio è unico e non paragonabile nemmeno all’assiduo servizio religioso prestato dalle Vestali: la religione greca e quella romana si caratterizzavano entrambe proprio per il fatto di non essere scandite da una serie di giorni festivi periodici, e non da azioni di devozione regolari e compiute quotidianamente.
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