La crisi del III secolo: la paura di vivere e l’anarchia militare

Tra il II e il III secolo cominciò a serpeggiare per tutto l’Impero romano una sorta di angoscia esistenziale che sembrò non risparmiare nessuno e che investì tutti i gruppi sociali, dai più umili a quelli più elevati. In particolare, Eric R. Doods, in Pagan and Christian in an Age of Anxiety (1965), interpretò il periodo compreso fra il principato di Marco Aurelio (161-180) e tutto il secolo successivo come un’epoca di decadenza economica e di perdita dei valori tradizionali, che avevano dominato sulla civiltà. Questa crisi ebbe come conseguenza anche proprio l’insinuarsi tra gli abitanti dell’Impero di una nuova spiritualità e di nuovi modi di concepire il mondo. Ciò, all’unisono con una diversa prospettiva intellettuale e un mutamento della mentalità, non più rivolta alla vita materiale, impresse una maggiore spinta alla diffusione di culti monoteistici e soteriologici, alla base del cui credo ponevano la speranza in una vita ultraterrena migliore.

Jules-Élie Delaunay, La peste a Roma. Olio su tela, 1859.

Siccome il risentimento verso il mondo era per Marco Aurelio la peggiore delle empietà, egli lo rivolgeva all’interno, contro sé stesso. Già in una lettera al proprio maestro e pedagogo, Frontone, scritta all’età di venticinque anni, il futuro Augustus si dichiarava irritato contro la propria incapacità di raggiungere l’ideale di vita filosofica che si era proposto: itaque poenas do, irascor, tristis sum, ζηλοτυπῶ, cibo careo (Front. Ad M. Caes. IV 13, p. 129 Pepe, «Perciò faccio penitenza, sono adirato con me stesso, sono triste e invidio gli altri, mi astengo dal cibo»). Le medesime sensazioni lo avrebbero, in seguito, perseguitato anche una volta divenuto imperatore: nei suoi Τὰ εἰς ἑαυτόν (Pensieri a sé stesso) Marco diceva di aver fallito il proprio ideale, di aver mancato una vita onesta; la sua esistenza lo aveva sfregiato, macchiato, «contaminato» (M. Aur. Med. VIII 1, 1). Egli confessava di aspirare a essere diverso da quello che era, ripromettendosi le seguenti parole: «Incomincia una buona volta a essere umano, finché sei in vita» (XI 18, 5, ἄρξαι ποτὲ ἄνθρωπος εἶναι, ἕως ζῇς). Eppure, ammetteva che «è duro per un uomo sopportare anche sé stesso» (V 10, 1, καὶ ἑαυτόν τις μόγις ὑπομένει).

M. Aurelio Antonino. Busto giovanile barbato, marmo, metà II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Quanto alle azioni dell’uomo e ai suoi casi, Marco si diceva: «Vedrai continuamente che le cose umane sono fumo e un nulla, soprattutto se terrai presente che ciò che una volta si è trasformato non esisterà mai più nel tempo infinito» (X 31, συνεχῶς θεάσῃ τὰ ἀνθρώπινα καπνὸν καὶ τὸ μηδέν, μάλιστα ἐὰν συμμνημονεύσῃς ὅτι τὸ ἅπαξ μεταβαλὸν οὐκέτι ἔσται ἐν τῷ ἀπείρῳ χρόνῳ). Così – riferendosi ai valori e ai successi personali –, «in questa fiumana, in cui non è possibile trovare un punto d’appoggio, quale si potrebbe apprezzare tra queste cose che ci passano accanto di corsa? Come se uno prendesse ad amare uno di quei passerotti che ci passano accanto e volan via, che già è scomparso alla vista» (VI 15, ἐν δὴ τούτῳ τῷ ποταμῷ, ἐφ’ οὗ στῆναι οὐκ ἔξεστιν, τί ἄν τις τούτων τῶν παραθεόντων ἐκτιμήσειεν; ὥσπερ εἴ τίς τι τῶν παραπετομένων στρουθαρίων φιλεῖν ἄρχοιτο, τὸ δ’ ἤδη ἐξ ὀφθαλμῶν ἀπελήλυθεν). E ancora: «Le cose tanto apprezzate nella vita sono vuote, marce, meschine, cagnolini che si mordono a vicenda, monelli rissosi che ridono e subito dopo piangono» (V 33, τὰ δὲ ἐν τῷ βίῳ πολυτίμητα κενὰ καὶ σαπρὰ καὶ μικρά· καὶ κυνίδια διαδακνόμενα καὶ παιδία φιλόνεικα, γελῶντα εἶτα εὐθὺς κλαίοντα).

Trofeo con armi barbariche (scudi, lance e un’ascia), posto fra le personificazioni di due province romane. Rilievo su plinto, marmo, II sec. d.C. dall’Hadrianeum. Roma, P.zzo dei Conservatori.

La pompa del trionfo sarmatico, riportato dall’imperatore nel 176, era ironicamente paragonata da Marco all’autocompiacimento di un ragno che coglie una mosca, alla preda catturata dai cacciatori (X 10). Per il princeps-filosofo questa non era vuota retorica, ma una concezione della condizione umana e aveva un significato profondamente serio.  Lui, che passava i suoi giorni ad amministrare un impero, poteva esprimere talvolta un desolato senso di non-appartenenza, di alienazione: «Nella vita umana la durata è un punto, la sostanza in perenne flusso, la sensazione oscura, la compagine del corpo intero corruttibile, l’anima eterna inquietudine, la sorte enigmatica, la fama incerta. Per dirla in breve, tutto ciò che riguarda il corpo è un fiume, tutto ciò che riguarda l’anima è sogno e vanità, la vita è una guerra e un soggiorno in terra straniera, la gloria postuma oblio» (II 17, 1, τοῦ ἀνθρωπίνου βίου ὁ μὲν χρόνος στιγμή, ἡ δὲ οὐσία ῥέουσα, ἡ δὲ αἴσθησις ἀμυδρά, ἡ δὲ ὅλου τοῦ σώματος σύγκρισις εὔσηπτος, ἡ δὲ ψυχὴ ῥόμβος, ἡ δὲ τύχη δυστέκμαρτον, ἡ δὲ φήμη ἄκριτον· συνελόντι δὲ εἰπεῖν, πάντα τὰ μὲν τοῦ σώματος ποταμός, τὰ δὲ τῆς ψυχῆς ὄνειρος καὶ τῦφος, ὁ δὲ βίος πόλεμος καὶ ξένου ἐπιδημία, ἡ δὲ ὑστεροφημία λήθη). L’imperatore lottava contro il predominio esclusivo di pensieri siffatti con tutta la forza della sua religione stoica, prendendo a guida la filosofia e ricordando a sé stesso che la sua stessa esistenza era parte e frazione della grande unità cosmica (VI 46).

Ora, non è mancato chi ha voluto scorgere in tanta autocritica e in tanto pessimismo aspetti morbosi, riconducibili a quella che gli psicologi moderni chiamerebbero una forma grade di depressione cronica, accompagnata da crisi d’identità. Con una maggiore prospettiva storica, invece, negli atteggiamenti di Marco Aurelio si possono riconoscere le manifestazioni di quell’angoscia che si stava diffondendo per tutta la compagine imperiale proprio a partire dal suo principato. Non è facile, in realtà, definire gli esatti confini cronologici di questa nuova tendenza spirituale né è possibile considerarla disgiunta da quegli aspetti di crisi sociale, economica e istituzionale che pure sarebbero emersi con prepotenza nel secolo successivo.

Filosofo seduto e pensante (dettaglio). Rilievo, marmo, II-III sec. d.C. da un sarcofago romano. Città del Vaticano, Grotte Vaticane.

Alcune avvisaglie sono comunque già avvertibili dall’inizio del principato e possono essere riconosciute nella progressiva diffusione e nel successo crescente dei culti misterici e orientali, un’indubbia reazione alla religione tradizionale romana. Ma è soprattutto nel II secolo, proprio nel corso di quella che è passata alla storia come «l’età d’oro degli Antonini», che la crisi spirituale si manifestò più pienamente. Un ruolo non trascurabile ebbe indubbiamente la peste che le legioni romane riportarono dall’Oriente nel 166-167 e che imperversò per anni, sterminando, secondo le stime, circa metà della popolazione dell’Impero. Un’epidemia tanto spaventosa dovette incidere profondamente su un mondo che, in larga parte privo di difese razionali e conoscenze medico-scientifiche, poneva all’origine dei fenomeni patologici la collera di divinità trascurate e vendicative; la contestuale diffusione di malattie mentali e di disagi psichici di varia natura fu quindi uno dei tanti terribili effetti della pestilenza.

La forte incertezza nel futuro creò le premesse per una profonda crisi spirituale e un’azione di straniamento dalla realtà quotidiana, una fuga verso il magico, il ricorso agli oracoli: ecco allora il diffondersi di certo misticismo, soprattutto di matrice orientale, i cui culti avevano per fondamento la promessa nell’immortalità dell’anima, la speranza nella salvazione, la rigenerazione della carne e il ritorno a una vita migliore.

Fedeli all’oracolo. Bassorilievo, calcare, II sec. d.C. Vicenza, Museo Archeologico.

Ma, allora, in che cosa cercavano rifugio gli abitanti dell’Impero per placare il loro senso di angoscia? Una prima risposta si può trovare nell’indubbia crescita di interesse che registrarono nel III secolo gli oracoli. Questo è stato verificato soprattutto dalle evidenze archeologiche negli antichi e tradizionali centri oracolari. Spesso città e intere comunità vi inviavano delegazioni per avere responsi su problemi che affliggevano la cittadinanza, come l’origine di una pestilenza o di una carestia. Numerosi erano anche i προφῆται, più o meno attendibili, maghi e ciarlatani, che venivano interpellati per un responso, esercitando persino la professione da privati. In certi casi, la richiesta assumeva un tono del tutto diverso, come domanda metafisica sulla natura del dio. A tal proposito, si possiedono varie redazioni di un oracolo proveniente dal santuario di Apollo a Claros, che risponde alla domanda: «Sei tu il dio o è qualcun altro?», tramandato dalla Theosophia Tubingensis (§. 13 Erbse), da Lattanzio (Lactant. Div. Inst. I 7, 1) e da un testo inciso sulle porte di Enoanda (SEG 27, 903). Apollo avrebbe vaticinato che, «al di sopra della volta iperurania, esiste una fiamma sterminata, mobile, eternità infinita» (Ἔσθ’, ὑπὲρ οὐρανίου κύτεος καθύπερθε λεγογχώς,  φλογµὸς ἀπειρέσιος, κινούµενος, ἄπλετος ἀίων), specificando che lui stesso e le altre divinità «non siamo che una minuscola particella del dio, noi messaggeri» (µικρὰ δὲ θεοῦ µερὶς ἄγγελοι ἡµεῖς). È questa una preziosa testimonianza della religiosità tradizionale nel II-III secolo e dei suoi orientamenti in senso enoteista, per cui il vecchio Olimpo, ormai sbiadito, subì una riorganizzazione su base gerarchica in modo da soddisfare l’esigenza primaria di quell’epoca, cioè quella di avere un solo dio con cui stabilire un dialogo intimo e personale o, addirittura, quel rapporto preferenziale che in passato sarebbe stato inconcepibile.

Naturalmente, l’incertezza sulla sorte della propria anima nell’aldilà era uno dei motivi di angoscia più diffusi: il II e il III secolo videro un aumento esponenziale del prestigio e del seguito di gruppi religiosi che assicuravano ai propri adepti un altro mondo dopo la morte, nel quale le difficoltà di tutti i giorni avrebbero trovato conclusione e pace. Ma se le persone di cultura media e inferiore si rivolgevano ai vari culti misterici con certa facilità, gli esponenti delle élites privilegiavano gli studi filosofici. Un seguace di Ermete Trismegisto affermava che «… la filosofia… consiste soltanto in una frequente contemplazione finalizzata alla conoscenza della divinità e in una santa devozione. Infatti, molti la confondono in molti modi» (Asclep. XII, Corp. Herm. II 312 Nock-Festugière, … philosophia, … sola est in cognoscenda divinitate frequens obtutus et sancta religio. Multi etenim et eam multifaria ratione confundunt).

Giovanni di Stefano (attribuito), Ermete Trismegisto. Tarsie, marmi policromi, 1488, dal pavimento della navata centrale. Siena, Duomo di S. Maria Assunta.

Nel II secolo, però, né il pensiero pagano né quello cristiano facevano ancora riferimento a un sistema riconosciuto e coerente, tanto meno a una ortodossia. Da questo punto di vista, il panorama dell’età degli Antonini e della prima età severiana era molto confuso: i cristiani erano divisi in innumerevoli gruppi spesso in lotta fra loro, mentre moltissimi Vangeli, Atti e Apocalissi, poi giudicati apocrifi, circolavano liberamente fra i fedeli. Per contro, le scuole filosofiche si dividevano fra stoiche, aristoteliche, pitagoriche e platoniche, e non mancò chi le avesse frequentate un po’ tutte, nel tentativo di trovare risposta alle proprie domande esistenziali. Una ben nota testimonianza di questo si trova nel Dialogo con Trifone di Giustino, in cui l’autore descrive di aver trascorso una ricerca del genere: dopo aver cercato invano di imparare qualcosa su Dio da uno stoico, da un peripatetico e da un pitagorico, alla fine si pose alla sequela di un platonico, che per lo meno gli diede la speranza di vedere Dio faccia a faccia, «visto che questo è lo scopo della filosofia di Platone» (Iustin. Tryph. II 3, 6, τοῦτο γὰρ τέλος τῆς Πλάτωνος φιλοσοφίας).

Nel III secolo, poi, mentre il Cristianesimo si diffondeva sempre più e altre sette, quali lo Gnosticismo, che dava ai propri accoliti solo cupe e lugubri prospettive, andavano scomparendo, il Neoplatonismo trovò nella figura di Plotino un interprete coerente, ma anche il protagonista più adatto per questa fase del paganesimo. Plotino, un mistico che in età matura aveva raggiunto attraverso una severa disciplina interiore la calma e la chiarezza, con il suo esempio e con i suoi scritti permise ai tradizionalisti di riafferrare il senso perduto del rapporto tra corpo e anima, fra uomo e mondo sensibile, fra dio e universo. Non è un caso che alcuni suoi discepoli sarebbero stati fra i più lucidi oppositori del Cristianesimo.

Uomini togati, forse senatori (dettaglio). Rilievo, marmo, 235, dal Sarcofago di Acilia. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

Ranuccio Bianchi Bandinelli, in Roma. La fine dell’arte antica (1970), mostrò come l’elemento irrazionale fece la propria comparsa anche nelle arti figurative di II e III secolo, manifestandosi sia nelle espressioni private, come ritratti e sculture funerarie, sia nelle rappresentazioni ufficiali quali il ritratto degli imperatori e i rilievi storici. Un’opera che rappresenta emblematicamente questo nuovo linguaggio espressivo è certamente la Colonna Antonina, realizzata fra i principati di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo (c. 176-193). Nel rilievo a spirale che si sviluppa lungo il fusto del monumento si fa spazio l’elemento soprannaturale. Questo è particolarmente evidente nelle scene del «Miracolo del fulmine» e del «Miracolo della pioggia», dove le divinità irrompono a risolvere la situazione a favore dei Romani. Nonostante il lucido razionalismo di Marco Aurelio, il tema dominante del periodo sembra piuttosto la fede in quella providentia deorum, che compare anche nelle monete del tempo.

Inoltre, a partire dalla seconda metà del II secolo, nella scultura furono volutamente accentuati alcuni tratti (occhi più grandi del naturale, pupilla profondamente incisa, testa inclinata), che facevano assumere ai volti espressioni di dolore, afflizione e angoscia. Con il III secolo, poi, il rigore formale della tradizione ellenistica cedette il passo a bruschi effetti chiaroscurali, su solchi profondi alternati a superfici lisce e luminose; alla rappresentazione naturalistica si sostituirono le illusioni ottiche e le rappresentazioni arbitrarie e simboliche. Barbe e capelli vennero resi in modo espressionistico, con fiorellini ravvicinati o fitti trattini. In queste rappresentazioni, Bianchi Bandinelli ravvisava l’espressione di angoscia spirituale, cui si affiancava una manifestazione di volontà di potenza, che non rifuggiva da ogni mezzo pur di affermarsi.

Nella pittura dello stesso periodo si diffuse l’effetto “a macchia”, che annullava il volume e i particolari delle figure, accentuandone l’intensità dell’espressione e il carattere simbolico. E anche quando l’artista voleva mantenere una certa solidità formale, la rappresentazione offriva una marcata drammaticità, approfondendo il contenuto umano delle scene.

Il «Miracolo della Pioggia». Rilievo, marmo di Carrara, c. 176-193, dalla Colonna Antonina. Roma, P.zza Colonna.

Gli storici sono concordi nel ritenere che il III secolo si sia profilato come un’incredibile concatenazione di eventi, accompagnata da una profonda trasformazione non solo nella psicologia delle persone e nell’estetica dell’arte, ma anche nel modo di vivere e di comunicare nel quotidiano, e pure nella maniera di rappresentare, il rapporto tra coloro che detenevano il potere e i subordinati. Fu dunque un periodo in cui le contraddizioni, i contrasti e i precari equilibri mai del tutto risolti della prima età imperiale conflagrarono per poi trovare una nuova, originale composizione. Cercare di spiegare i motivi e le dinamiche di questa crisi non è semplice, dal momento che essa investì gli strati profondi della compagine imperiale e ragioni diverse si intersecarono fra di loro in un groviglio quasi inestricabile.

Per quello che riguarda la storia politica, l’eliminazione di Severo Alessandro a Mogontiacum da parte dei soldati in tumulto nel 235 pose fine alla dinastia tradizionalmente definitiva «monarchia militare dei Severi», che nel complesso aveva rappresentato un periodo di stabilità per l’Impero. La definizione di «monarchia militare» allude al fatto che l’elemento militare era stato promotore del potere stesso e, insieme, al fatto che gli esponenti di tale dinastia si erano appoggiati con donativi e premi proprio agli eserciti. L’ammutinamento di Mogontiacum pose fine unilateralmente all’accordo tra soldati e imperatore: per tutta quanta la storia precedente, mai i soldati avevano pensato neppure un attimo di mettere in discussione l’istituto del principato e la sua autorità; la loro indispensabilità, riconosciuta dai fatti, li aveva spinti e li avrebbe spinti a proporre un proprio capax imperii, ponendo sempre più in ombra l’importanza del Senato.

I soldati della Cohors XX Palmyrenorum scrificano davanti al loro vexillum. Affresco, III sec. d.C. ca. da Dura Europos.

Il III secolo, e segnatamente il periodo tra il 235 e il 285, è altresì definito come «anarchia militare», definizione che sottolinea la preminenza dell’elemento militare nell’elezione imperiale. Si trattò del periodo più confuso della storia di Roma, tanto pernicioso nei suoi effetti da mettere a serio rischio la sopravvivenza stessa dell’Impero come entità politica. L’importanza, dunque, assunta dalle armi, garanti dell’integrità dello Stato, fu densa di conseguenze. La scelta del vertice era ormai saldamente nelle mani dei militari: gli stessi aspiranti alla porpora erano spesso esponenti della truppa, nemmeno ufficiali di alto rango e ancor più spesso di oscuri natali, se non addirittura di origine straniera. Molti di coloro che si succedettero nel giro di un cinquantennio rimasero in carica soltanto per pochi mesi, se non per pochi giorni; e, contrapponendosi l’uno all’altro, diedero vita a governi effimeri e ad ancor più effimeri progetti politici. Fu questa la stagione dei Soldatenkaiser.

Capo barbaro supplicante. Rilievo, marmo, fine II sec. d.C. dal pannello della clementia dell’arco di M. Aurelio. Roma, Arco di Costantino.

Il III secolo, tra l’altro, si aprì con la constatazione della presenza di una nuova realtà alle frontiere fluviali del Reno e del Danubio, nelle regioni comprese nel barbaricum. Quelle popolazioni che i Romani in precedenza avevano fronteggiato, e con le quali avevano sostanzialmente mantenuto una coesistenza relativamente pacifica, presentavano un assetto ben diverso da prima: non più parcellizzazione per pagi, sovente assai piccoli, con un’economia agricola di sussistenza e limitata allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, con migrazione quando queste fossero esaurite, ma una tendenza all’accorpamento, fino a costituire unità complesse e numerose di popoli: a tal proposito, si è parlato di «etnogenesi». L’attrazione naturale fu dunque verso l’Impero e questa attrazione aumentò, come entrarono in gioco vari fattori: l’aumento della popolazione, la diminuzione della produttività del suolo, dei cambiamenti climatici con un aumento della siccità estiva e della rigidità degli inverni, la spinta di altre tribù e popolazioni che migravano; si adducono tutti questi fenomeni per spiegare l’impulso delle genti barbariche verso il limes imperiale, e forse è più opportuno parlare di concomitanza di fattori.

Avvisaglie di questo mutato assetto si erano già manifestate ai tempi di Marco Aurelio, quando l’imperatore, prima con il collega Lucio Vero e poi da solo, aveva dovuto contenere la spinta offensiva di Quadi, Marcomanni, Iagizi e Sarmati. In effetti le cosiddette guerre marcomanniche avevano coinvolto gran parte dei barbari insediati lungo le frontiere e anche per loro si era trattato di un periodo di sconvolgimenti. Lungo tutto il confine, nel giro di poche generazioni avevano preso forma nuove popolazioni e nuovi raggruppamenti. Gli Alamanni comparvero nell’area tra l’alto Reno e l’alto Danubio, incorporando parte degli Svevi e di altre stirpi germaniche; a nord di costoro varie tribù, come i Bructeri e i Chatti, divennero note come Franci, una federazione di etnie mai completamente unite fino all’inizio del VI secolo. A est degli Alamanni, nell’alto Danubio, si stanziarono i Langobardi, mentre nel basso corso del fiume vennero alla ribalta potenti gruppi di genti che, nel corso del III, sarebbero diventati noti come Goti. Tutte queste popolazioni non abbandonarono le loro antiche tradizioni tribali: non si dovrebbe, perciò, prestare necessariamente fede ai Romani, quando utilizzavano tali etichette, poiché non vennero quasi mai a contatto con l’intero gruppo etnico e potrebbero non aver capito chi avessero di fronte. Le espressioni che utilizzavano per indicare queste genti sono, dunque, tutte ugualmente vaghe.

Guerriero germanico ferito e morente (dettaglio). Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

In ogni caso, dopo le guerre condotte da Marco Aurelio, i rapporti fra Romani e Marcomanni e Quadi si erano riallacciati e la dominazione romana era ripresa: si era tornati a chiedere l’approvazione di Roma per la scelta dei sovrani e, sotto Commodo, si era concesso loro di tenere regolari assemblee, solo in presenza di un ufficiale romano; alcuni barbari avevano preso la civitas, avevano prestato servizio nell’esercito, si erano stabiliti entro i confini dell’Impero: anche l’archeologia ha dimostrato l’esistenza di stretti rapporti commerciali nonché altri tipi di legame fra le due realtà, rinvenendo manufatti romani tra le sepolture dei benestanti e ceramiche di origine mediterranea anche nelle abitazioni più umili.

Nel 250 l’imperatore Decio inviò l’esercito nel regno greco del Bosforo, in Crimea, apparentemente allo scopo di scoprire gli spostamenti degli Sciti in quell’area (AE 1996, 1358). Purtroppo, il termine Σκύθοι, impiegato genericamente nella letteratura antica, non permette di conoscere il vero nome della stirpe in questione. Intorno al 500, Zosimo di Panopoli scriveva che erano state le popolazioni dei Borani, dei Goti, dei Carpi e degli Urugundi a invadere l’Impero romano tra il 253 e il 259 (Zos. I 27, 1; 31,1). I Carpi si trovano menzionati anche da un’altra fonte coeva (Dessippo, autore degli Σκυθικά, FGrH 100), ma la maggior parte degli storici ritiene che a determinare la caduta di Decio siano stati i Goti, anche perché Giordane (che, come Zosimo, scriveva nel VI secolo) afferma che uno dei primi re dei Goti fu Cniva, che era anche il nome del comandate «scita» (Jord. Get. 101-102). Chiunque essi fossero, nel 250 i barbari irruppero attraverso la frontiera e ad Abrittus inflissero una pesante sconfitta all’esercito romano guidato da Decio; lo stesso imperatore rimase ucciso.

Battaglia tra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo proconnesio, 251-252 d.C., dal sarcofago «Grande Ludovisi». Roma, Museo di P.zzo Altemps.

Nella catastrofica situazione che seguì, intorno al 253, Cipriano, vescovo di Cartagine, diede voce all’opinione condivisa dell’imminente collasso dell’Impero romano, scrivendo all’allora proconsole d’Africa, Demetriano (Cyprian. Ad Demetr. 3-5):

Illud primo in loco scire debes, senuisse jam mundum, non illis viribus stare quibus prius steterat, nec vigore et robore eo valere quo antea praevalebat. Hoc etiam, nobis tacentibus et nulla de Scripturis sanctis praedicationibusque divinis documenta promentibus, mundus ipse jam loquitur et occasum sui rerum labentium probatione testatur. Non hyeme nutriendis seminibus tanta imbrium copia est, non frugibus aestate torrendis solis tanta flagrantia est, nec sic vernante temperie sata laeta sunt, nec adeo arboreis foetibus autumna foecunda sunt. Minus de effossis et fatigatis montibus eruuntur marmorum crustae, minus argenti et auri opes suggerunt exhausta jam metalla, et pauperes venae breviantur in dies singulos et decrescunt, deficit in arvis agricola, in mari nauta, miles in castris, innocentia in foro, justitia in judicio, in amicitiis concordia, in artibus peritia, in moribus disciplina. Putasne tantam posse substantiam rei senescentis existere quantum prius potuit novellu adhuc et vegeta juventa pollere? Minuatur necesse est quicquid fine jam proximo in occidua et extrema devergit. Sic sol in occasu suo radios minus claro et igneo splendore jaculatur; sic, declinante jam cursu, exoletis cornibus luna tenuatur, et arbor quae fuerat ante viridis et fertilis, arescentibus ramis fit postmodum sterili senectute deformis; et fons qui, exundantibus prius venis, largiter profluebat, senectute deficiens, vix modico sudore distillat. Haec sententia mundo data est, haec Dei lex est, ut omnia orta occidant et aucta senescant, et infirmentur fortia, et magna minuantur, et cum infirmata et diminuta fuerint, finiantur. Christianis imputas quod minuantur singula, mundo senescente. Quid si et senes imputent Christianis quod minus valeant in senectute, quod non perinde ut prius vigeant auditu aurium, cursu pedum, oculorum acie, virium robore, succo viscerum, mole membrorum; et cum olim ultra octingentos et nongentos annos vita hominum longaeva procederet, vix nunc possit ad centenarium numerum perveniri? Canos videmus in pueris, capilli deficiunt antequam crescant; nec aetas in senectute desinit, sed incipit a senectute. Sic in ortu adhuc suo ad finem nativitas properat; sic quodcumque nunc nascitur, mundi ipsius senectute degenerat: ut nemo mirari debeat singula in mundo coepisse deficere, quando totus ipse jam mundus in defectione sit et in fine. Quod autem crebrius bella continuant, quod sterilitas et fames sollicitudinem cumulant, quod, saevientibus morbis, valetudo frangitur, quod humanum genus luis populatione vastatur, et hoc scias esse praedictum, in novissimis temporibus multiplicari mala et adversa variari, et appropinquante jam judicii die magis ac magis in plagas generis humani censuram Dei indignantis accendi. Non enim, sicut tua falsa querimonia et imperitia veritatis ignara jactat et clamitat, ista accidunt quod dii vestri a nobis non colantur, sed quod a vobis non colatur Deus.

Devi sapere che è invecchiato già questo mondo. Non ha più le forze che prima lo reggevano: non più il vigore e la forza per cui prima si sostenne. Anche se noi cristiani non parliamo e non esponiamo gli avvenimenti delle Sacre Scritture e delle profezie divine, lo stesso mondo già parla da sé e coi fatti stessi documenta il suo tramonto e il suo crollo. D’inverno non c’è più abbondanza di piogge per le sementi, d’estate non più il solito calore per maturarle, né la primavera è lieta del suo clima, né è fecondo di prodotti l’autunno. Diminuita, nelle miniere esauste, la produzione d’argento e oro, e diminuita l’estrazione dei marmi; impoverite, le vene danno di giorno in giorno sempre meno. Viene a mancare l’agricoltore nei campi, sui mari il marinaio, nelle caserme il soldato, nel Foro l’onestà, nel tribunale la giustizia, la solidarietà nelle amicizie, la perizia nelle arti, nei costumi la disciplina. Pensi veramente che un mondo così vecchio possa avere l’energia che la giovinezza ancora fresca e nuova poté un tempo trarre? È necessario che perda vigore tutto ciò che, appressandosi alla fine, volge al tramonto e alla morte. Così nel suo tramonto il sole manda raggi meno luminosi e infuocati, così al suo declino meno luminosa è la luna; e l’albero, che prima era stato fertile e verde, inaridendosi i rami, diventa sterile e deforme per vecchiaia. Tu dai la colpa ai cristiani, se tutto diminuisce con l’invecchiare del mondo, ma certo non è colpa dei cristiani se ai vecchi è diminuita la forza e più non hanno l’udito di un tempo, la rapidità e la forza visiva di un tempo, la robustezza e la gagliardia e sanità di un tempo; prima i longevi arrivavano a 800 e 900 anni, ora a stento a 100. Vediamo fanciulli canuti; i capelli scompaiono ancor prima di crescere; ormai la vita non finisce, ma comincia con la vecchiaia… Quanto alla frequenza maggiore delle guerre, all’aggravarsi delle preoccupazioni per il sopravvenire di carestie e sterilità, all’infierire di malattie che rovinano la salute; alla devastazione che la peste opera in mezzo agli uomini – anche ciò, sappilo, fu predetto: che negli ultimi tempi i mali si moltiplicano e le avversità assumono vari aspetti, e per l’avvicinarsi al dì del giudizio, la condanna di Dio sdegnato si muove a rovina degli uomini. Hai torto tu, nella tua stolta ignoranza del vero, di protestare che queste cose accadono perché noi non onoriamo gli dèi; accadono perché voi non onorate Dio.

Scena della moltiplicazione dei pani. Rilievo, marmo bianco, c. 330-339, dal sarcofago di Marco Claudiano. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme

Questo fu l’inizio vero e proprio della crisi del III secolo, durante la quale l’Impero subì gli attacchi dei barbari e dei Persiani e, fatto ancor più preoccupante, quelli di una moltitudine di usurpatori, alcuni dei quali aspirarono alla conquista del governo di tutto l’Impero, mentre altri sembrano aver mirato a un potere meramente regionale. Ciò produsse – si è detto – inevitabilmente una pesante recessione economica, che peraltro riguardò soltanto alcune zone dell’Impero: per esempio, ci fu un declino del numero degli insediamenti nell’area renana e in certe regioni dell’Italia, mentre pare che il Nordafrica e il Medio Oriente abbiano goduto di una notevole prosperità.

I problemi interni e le divisioni consentirono agli invasori barbarici di sfruttare la situazione. Nel frattempo, infatti, gli «Sciti» o Goti avevano cominciato a muoversi anche via mare: nel 252, passando per il Bosforo, avevano raggiunto l’Egeo e razziato le coste dell’Asia Minore, distruggendo il famoso tempio di Artemide Efesia. Nel 258 un altro gruppo attraversò il Ponto Eusino saccheggiando la costa settentrionale dell’Anatolia, spingendosi persino nell’entroterra fino alla Cappadocia. In quell’occasione, l’imperatore Valeriano guidò l’esercito da Antiochia verso nord, senza peraltro riuscire a risolvere la situazione, anche perché si trovò contemporaneamente impegnato ad affrontare l’attacco dei Sassanidi, che, com’è noto, si concluse con la disfatta e la cattura dell’imperatore stesso.

Scontro equestre tra Romani e barbari. Rilievo, marmo, c. 190, da un sarcofago romano. Dallas, Museum of Art.

Infatti, i pericoli per l’Impero non venivano soltanto dal barbaricum europeo. I Parti, eterni nemici di Roma, avevano continuato a minacciare i confini orientali alla fine del II e agli inizi del III secolo, fin quando sotto il principato di Severo Alessandro non furono assoggettati dai loro vassalli persiani (224-226). Apparentemente, questo per Roma significò soltanto cambiare interlocutore: non più il regno partico degli Arsacidi, ma l’Impero persiano dei Sassanidi. È contro questo che dovettero misurarsi Gordiano III, Filippo Arabo e Valeriano.

Un interessante spaccato degli effetti delle invasioni sulla vita dell’Impero è offerto dalla Lettera Canonica di Gregorio Taumaturgo, vescovo di Neocaesarea (l’ant. Kabeira, l’od. Niksar) nel Pontus. Il prelato si angustia per i peccati commessi dai Romani a seguito delle invasioni; non si preoccupa del fatto che qualcuno possa essersi cibato di carne offerta in sacrificio agli dèi, poiché, come egli afferma, tutti erano d’accordo che i barbari non avrebbero fatto sacrifici mentre si trovavano nell’Impero. Il vescovo, piuttosto, si preoccupa di chi poteva aver approfittato delle agitazioni e del trambusto per commettere rapine, impossessarsi di bottini abbandonati, ridurre in schiavitù i prigionieri sfuggiti ai razziatori; ma parla anche di chi si era unito alle schiere barbariche, «dimenticando di essere uomini del Ponto e cristiani, e si sono barbarizzati a tal punto da mandare alla forca persone della loro stessa gente e da indicare ai barbari, che non potevano conoscerle, strade e abitazioni» (Greg. Taumat. Ep. Canon. VII 9-10).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Approfittando della crisi, gli Iutungi invasero l’Italia: un’iscrizione proveniente da Augsburg (AE 1993, 1231) ricorda la loro disfatta e la liberazione di migliaia di prigionieri a opera delle forze congiunte degli eserciti dalla Raetia e dalla Germania. Forse proprio a seguito di questa crisi, Postumo, il governatore della Germania inferior, si proclamò Augustus nel 260. Peraltro, non sembra aver dimostrato interesse a estendere la propria autorità, reclamando tutto l’Impero: al contrario, egli si accontentò di governare quello che sarebbe stato chiamato Imperium Galliarum, standosene nella capitale, Colonia.

Nel 268/9 gli «Sciti», che questa volta pare fossero guidati dagli Eruli, invasero ancora il territorio romano, attaccando nuovamente dal mare. Il nuovo imperatore, Claudio II, riuscì a sconfiggerli nel 269, guadagnandosi il titolo di Gothicus Maximus; ma ciò non fermò gli assalti e, nel 270, muovendosi separatamente, gli Iutungi e i Vandali invasero l’Italia, mentre un rinnovato attacco dei Goti condusse all’abbandono della provincia della Dacia.

L’imperatore Aureliano (270-275) riuscì, infine, a ripristinare l’ordine e l’unità dell’Impero, mettendo fine al cosiddetto «Impero delle Galliae», respingendo l’ennesima invasione degli Iutungi e recuperando il controllo sulle province orientali. Queste, infatti, avevano costituito un regno indipendente da Roma: durante la crisi del 260, infatti, dell’aiuto prestato all’imperatore Gallieno contro i Persiani aveva approfittato Odenato, signore di Palmira e governatore della Syria; costui aveva esteso la propria influenza anche sull’Aegyptus, riscuotendo consenso in diverse province limitrofe; inoltre, per i suoi meriti era stato investito dei titoli di dux Romanorum e corrector totius Orientis. Alla sua morte, nel 267, la moglie Zenobia aveva assunto il potere, proclamando sé stessa e il figlio Waballato Augusti. Il regno di Palmira mantenne la propria autonomia e un certo prestigio finché Aureliano non intervenne e lo sconfisse, riportandone il territorio sotto il controllo di Roma. Non molto tempo dopo, comunque, anche Aureliano venne assassinato dai suoi stessi alti ufficiali.

Aureliano. Aureum. Mediolanum, c. 271-272, Au 4,70 g. Dritto: Imp(erator) C. L. Dom(itius) Aurelianus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto dell’imperatore laureato e corazzato, voltato a destra.

Probabilmente, a proposito di questi repentini cambi di vertice, la conseguenza più pesante del periodo fu il catastrofico declino della fiducia che i cittadini dell’Impero nutrivano nell’istituto imperiale e nella capacità del loro imperatore di difenderli. Per la prima volta si assistette non solo alla comparsa di imperatori «locali» (come Postumo nelle Galliae e Zenobia in Oriente nel 260, e Carausio in Britannia nel 286), ma anche allo scoppio di rivolte locali e regionali. Già nel 238 si era consumata la sollevazione dei proprietari terrieri dell’Africa proconsularis, che, oppressi dalla rapacità del fisco, si erano ribellati a Massimino Trace, armando i loro dipendenti e persino i loro schiavi; le forze leali all’imperatore avevano soffocato l’insurrezione in Africa, ma non avevano potuto impedire che il moto raggiungesse l’Italia e incontrasse il plauso del Senato, portando alla caduta di Massimino. Nelle province occidentali, a quanto sembra, endemico fu il fenomeno dei cosiddetti Bacaudae (“Bagaudi”). La questione di chi fosse precisamente questa gente e se ci sia stata una qualche continuità tra la loro prima comparsa alla fine del III secolo e il loro riemergere nel V è stata oggetto di aspre controversie tra gli interpreti moderni. Forse, per quanto attiene al III secolo, andrebbero considerati come «contadini allo sbando», che cercavano protezione nella leadership di personaggi di secondo piano, anziché dei piccoli aristocratici, proprietari terrieri o, perfino, dei visionari. Nel V secolo, anzi, questi ribelli potrebbero aver giocato un ruolo tanto significativo nel contribuire al crollo dell’autorità imperiale in alcune zone della pars Occidentis.

Non è possibile valutare esattamente quali siano state le ripercussioni della crisi del III secolo, ma con tutta probabilità si deve ritenere che furono assai pesanti. Non solo avviarono la riorganizzazione dell’Impero, ma produssero anche cambiamenti nel modo di concepire la compagine imperiale stessa. Tutti i Romani cives presero atto della fragilità delle istituzioni tradizionali e, forse, assunsero un atteggiamento nuovo nei confronti dei barbari: ora che l’Impero non si trovava più in posizione di superiorità e doveva tenersi sulla difensiva e che nessuno si aspettava nuove espansioni all’esterno, i barbari, dapprima visti come popolazioni che, un giorno, sarebbero state aggregate e incorporate nell’Impero, furono considerati solo come genti ostili a Roma.

Scena bucolica con villa rurale. Affresco, c. III secolo, da Augusta Treverorum (od. Trier).

È evidente che Roma si trovò a dover contrastare nemici esterni che premevano su tutti i fronti. Per poter far questo, si dovette puntare sulle forze armate, che subirono un forte aumento numerico, trasformazioni nella struttura e nel sistema di reclutamento, modificazioni quanto a tattica e a dislocazione. Naturalmente, per addivenire alle ingenti spese militari di mantenimento le autorità imperiali inasprirono l’imposizione fiscale. Laddove misure di difesa si fossero rivelate insufficienti, si fece ricorso ai mercenari, unità etniche composte o da barbari dediticii oppure da volontari, comunque non inquadrati nell’esercito romano. Queste formazioni offrivano il duplice vantaggio di integrare le fila delle truppe regolari e di familiarizzare i Romani con armamenti e tattiche loro estranee: si pensi ai cavalieri osroeni, clibanarii (cavalleria pesante d’assalto), arruolati in Oriente da Severo Alessandro, oppure agli equites cataphractarii istituiti da Gallieno. Spesso alcuni reparti di mercenari erano inviati a difesa delle aree di confine, come nel caso di un gruppo di Goti, distaccato nella fortezza di Mothana (nell’od. regione di Hawran, nella Siria meridionale). Un’iscrizione funeraria in greco, proveniente da quella località e risalente al 208, costituisce la prima testimonianza del ricorso a queste formazioni etniche già da Settimio Severo: μνημεῖον Γουθθα, υἱοῦ / Ἑρμιναρίου πραιποσίτου / γεντιλίων ἐν Μοθανοῖς ἀνα-/φερομένων, ἀπογεν‹ομέν›ου ἐτῶν ιδʹ. / ἔτι {²⁶ἔτει}²⁶ ρβʹ Περιτίου καʹ (AE 1911, 244, «[Questa è la] tomba di Gutta, figlio di Erminario, praepositus gentilium a Mothana, morto all’età di quattordici anni, nell’anno 102, nel ventunesimo giorno del mese di Peritio [= 28 febbr. 208]).

La sempre maggiore importanza via via assunta dai militari mutò la posizione dell’esercito nell’ambito dello Stato, garantendo ai suoi membri un posto migliore nella scala sociale. Come si è detto, il III secolo fu il periodo dei Soldatenkaiser, molti dei quali furono acclamati dalle truppe, spesso provenienti dai ranghi inferiori o ufficiali di carriera, e la cui nomina non sempre incontrò il plauso del Senato. Lo scenario dell’investitura degli Augusti mutò decisamente rispetto ai primi due secoli del principato, aprendo un’ulteriore incrinatura in un sistema ben collaudato e interrompendo il criterio di successione dinastica.

La fortezza romana di Qasr Bshir (Giordania), III secolo. Illustrazione di B. Delf.

Il bisogno di mantenere eserciti permanenti e che andavano continuamente incoraggiati e rabboniti con premi e donativi costrinse l’apparato imperiale a destinare alle forze armate una porzione sempre più grande delle entrate e, d’altra parte, a cercare nuovi modi per aumentarle. Questo non fu possibile se non con una forte esazione fiscale, che inizialmente gravò solo sulle province (con l’esclusione di quei territori che godevano dello ius Italicum), in particolare su quelle più ricche, dov’erano estese proprietà terriere in mano a diversi senatori: in questa prospettiva, dunque, è possibile leggere la rivolta del 238 in Africa proconsularis e sempre mutatis mutandis si può interpretare l’insurrezione dei Bacaudae nel 286 nelle Galliae. In ogni caso, l’esigenza di un più cospicuo gettito fiscale a un certo punto non risparmiò neppure l’Italia, già provata da carestie, spopolamento, invasioni e colonato, accelerando quel processo di provincializzazione che sarebbe culminato nella riforma amministrativa di Diocleziano.

In questo senso si erano manifestate alcune avvisaglie già sotto Adriano (117-138), quando l’imperatore aveva suddiviso la Penisola in quattro distretti, affidati ad altrettanti consulares; il processo era poi proseguito sotto Marco Aurelio con la creazione di quattro iuridices, con competenze analoghe ai predecessori; si era quindi arrivati con Caracalla da una parte all’istituzione del corrector Italiae (una sorta di amministratore o addirittura di governatore dell’Italia peninsulare), dall’altra all’istituzione dell’annona militaris, un’imposta in natura, al pagamento della quale ora dovevano contribuire pure gli Italici (gli abitanti della Lucania, per esempio, partecipavano attraverso l’invio di caro porcina, cioè carne di maiale, di cui la regione era particolarmente ricca). L’ultimo atto, prima di Diocleziano, fu siglato sotto Massimino Trace nel cruciale anno 238, quando, sia pur per un periodo limitato, l’Italia fu riorganizzata in dieci regiones a capo di ciascuna delle quali furono posti dei commissari speciali, i XXviri rei publicae curandae, con l’incarico di difendere lo Stato.

Clibanarius. Illustrazione di J. Shumate.

L’inasprimento della fiscalità si era manifestata sotto forme diverse. Alle imposte regolari costituite dai già gravosi tributum capitis e tributum soli, che colpivano rispettivamente la persona e il suolo, si erano aggiunte da una parte nuove forme di esazione, come l’annona militaris, dall’altra le già esistenti forme di imposizione irregolare – come la vicesima hereditatum (cioè una “tassa di successione” del 20%) e la vicesima libertatis (sulle manumissiones del 20%) – erano state estese a coloro che, con la Constitutio Antoniniana (212), erano entrati a far parte della cittadinanza romana. Sembra inoltre che fossero state raddoppiate, se si dà ascolto a Dione Cassio (DCass. LXXVII 9, 4-6). Come se ciò non bastasse, alle esazioni in denaro cominciarono poi ad affiancarsi sempre più spesso quelle in natura.

Ma a questi fattori di crisi economica occorre aggiungerne almeno altri due. Innanzitutto, va ricordato che la certezza di disporre di forza-lavoro in modo illimitato crollò miseramente nel corso del III secolo: ne furono causa la necessità di un sempre maggiore arruolamento, la iper-mortalità durante le innumerevoli guerre e ribellioni, e le epidemie. La peste, che si diffuse alla fine del principato di Marco Aurelio e che fu causa della morte dello stesso imperatore, non rimase purtroppo un fenomeno isolato: un nuovo contagio, sotto l’imperatore Probo, decimò una popolazione già decurtata dalle continue guerre. In secondo luogo, non si può trascurare che, pur non disponendo di un aumento di risorse in metallo prezioso, il conio monetale avvenne a ritmi serrati per venire incontro alle necessità amministrative: il governo imperiale ricorso all’espediente di eradere argento dal denarius, moneta argentea a maggiore circolazione; ma il rapporto 1:25 rispetto all’oro si fingeva inalterato, così da permettere un incremento nella quantità di moneta. È qui il germe dell’inflazione galoppante che tormentò la società dell’Impero per tutto il III secolo ed ebbe come conseguenza immediata l’aumento esponenziale dei prezzi, con enormi costi sociali. Questa situazione, mescolata alle condizioni di grande instabilità, portò a un forte contraccolpo anche nelle attività artigianali e nei traffici commerciali, con un impoverimento generale e una diminuzione della domanda.

Era fatale che tutto questo avesse forti ripercussioni anche sul piano religioso. In una cultura, come quella romana, in cui la pax deorum, cioè il rapporto armonioso tra uomo e divinità, era rispecchiata dalla felicitas imperii, cioè dalle sorti fortunate dell’Impero, era implicito che l’insuccesso, la sconfitta, il disordine scuotessero fin dalle fondamenta la fede religiosa. Di fronte a tale incrinarsi del sereno rapporto con gli dèi le reazioni furono di tipo diverso: o di fuga verso religioni consolatorie, misteriche, soteriologiche, oppure di condanna verso quello che veniva additato come il culto che avrebbe provocato l’ira degli dèi, cioè il monoteismo cristiano (di qui le persecuzioni dei cristiani, come quella di Massimino Trace, di Decio, di Valeriano e da ultimo di Diocleziano) o di tentativi sincretistici (come quello costituito dal culto di Iuppiter Dolichenus o dalla politica religiosa di Filippo Arabo).

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Plotino di Licopoli

I. La vita, l’opera, la scuola

Da Alessandria a Roma. | Della vita di Plotino (Πλωτῖνος) si sa quasi esclusivamente quello che riferisce il suo discepolo Porfirio nella Vita Plotini. Infatti, non solo Plotino non parlò mai di sé nella sua opera, ma non volle parlarne nemmeno con gli amici più intimi. Scrive Porfirio (Plot. 1):

Πλωτῖνος ὁ καθ’ ἡμᾶς γεγονὼς φιλόσοφος ἐῴκει μὲν αἰσχυνομένῳ ὅτι ἐν σώματι εἴη. Ἀπὸ δὲ τῆς τοιαύτης διαθέσεως οὔτε περὶ τοῦ γένους αὐτοῦ διηγεῖσθαι ἠνείχετο οὔτε περὶ τῶν γονέων οὔτε περὶ τῆς πατρίδος. Ζωγράφου δὲ ἀνασχέσθαι ἢ πλάστου τοσοῦτον ἀπηξίου ὥστε καὶ λέγειν πρὸς Ἀμέλιον δεόμενον εἰκόνα αὐτοῦ γενέσθαι ἐπιτρέψαι· οὐ γὰρ ἀρκεῖ φέρειν ὃ ἡ φύσις εἴδωλον ἡμῖν περιτέθεικεν, ἀλλὰ καὶ εἰδώλου εἴδωλον συγχωρεῖν αὐτὸν ἀξιοῦν πολυχρονιώτερον καταλιπεῖν ὡς δή τι τῶν ἀξιοθεάτων ἔργων;

«Plotino, il filosofo dell’età nostra, aveva l’aspetto di uno che si vergogna di essere in un corpo. In virtù di tale disposizione d’animo, egli aveva ritegno a parlare della sua nascita, dei suoi genitori, del suo luogo di provenienza. Sdegnava a tal punto il mettersi a disposizione di un pittore o di uno scultore che ad Amelio, il quale voleva convincerlo a che gli si facesse il ritratto, rispose: “Non basta, dunque, trascinare questo simulacro di cui la natura ci ha voluto rivestire; ma voi pretendete addirittura che io consenta a lasciare una più durevole immagine di tal simulacro, come se fosse davvero qualcosa che valga la pena di vedere?”».

Stando alla Suda (π 1811 Adler), Plotino nacque a Licopoli, presso il Delta del Nilo (od. Sajin al-Kum?), verso il 205, il tredicesimo anno di principato di Settimio Severo. Nel 232, all’età di ventott’anni, Plotino iniziò a dedicarsi interamente alla filosofia, entrando a far parte del circolo di Ammonio Sacca ad Alessandria, presso il quale rimase fino al 243. Mentre frequentava la scuola di Ammonio, Plotino si era convinto della necessità di un contatto diretto con la sapienza orientale, che, probabilmente, considerava il completamento di quanto avesse appreso dal maestro.

La spedizione contro i Sassanidi di Gordiano III nel 243 sembrò, dunque, offrirgli l’occasione propizia di confrontarsi con Gimnosofisti e Magi; così, Plotino lasciò Alessandra per seguire l’imperatore (Porph. Plot. 3). Si rivelò tuttavia un’esperienza drammatica, che non gli poté dare alcuno dei frutti sperati: il giovane imperatore fu ucciso in Mesopotamia e il filosofo riparò ad Antiochia, riuscendo solo a stento a salvarsi. Di qui egli non poté o non volle far ritorno in Egitto (probabilmente Ammonio era scomparso) e decise di recarsi a Roma, dove giunse ancora nel 244, quando M. Giulio Filippo era ormai asceso alla porpora. Allora Plotino aveva ormai raggiunto i quarant’anni e si sentiva, perciò, maturo per aprire nella capitale dell’Impero una scuola tutta sua.

Per circa un decennio (244-253) il filosofo tenne lezioni, rifacendosi alle conversazioni di Ammonio e al suo metodo, lasciando largo spazio alla discussione e alla diretta ricerca di coloro che lo frequentavano, ma senza comporre nessuno scritto. Si trattava di mantenere fede al vecchio patto stretto con due suoi condiscepoli, Erennio e Origene, sebbene più tardi avesse scoperto che essi lo avevano tradito. Solo dal 254 Plotino ruppe gli indugi e si mise a scrivere pure lui. Quando Porfirio giunse a Roma nel 263, Plotino aveva già composto ben ventun trattati. Ne scrisse altri ventiquattro fra il 264 e il 268, e i restanti nove dopo il 268.

Porfirio, ammesso nella scuola, ricevette dal maestro l’incarico di emendare e riordinare i vari scritti (Porph. Plot. 3-8; 24-25). Siccome questi testi erano stati redatti senza un ordine preciso, Porfirio decise di seguire il modello adottato da Andronico di Rodi nella pubblicazione delle opere di Aristotele, cioè di radunare insieme i libri che trattavano tematiche molto vicine. In più, Porfirio si lasciò guidare dalla convinzione del significato metafisico del numero e, combinando con la «perfezione del numero sei» l’«enneade», cioè il numero nove, divise i cinquantaquattro trattati plotiniani in sei gruppi di nove ciascuno e raggruppò gli argomenti affini, graduandoli, a seconda della difficoltà. Nacquero così quelle Enneadi, che contengono uno dei più alti messaggi filosofici dell’antichità.

La pubblicazione di Porfirio del corpus plotiniano avvenne tra il 300 e il 305. Nulla, invece, è rimasto dell’edizione che approntò il discepolo Eustochio né dei Cento libri di scolii agli scritti del maestro, raccolti da Amelio.

Profondamente amato e stimato da tutti, anche per la dirittura della sua vita, per la sua aspirazione a costituire una società di «saggi» seguaci della vita platonica, Plotino non solo ebbe molti scolari, uomini e donne, ma a lui ci si rivolse quale consigliere, tutore, amministratore di beni. Il maestro godette dell’immensa stima degli imperatori Gallieno e Salonina: a tal proposito, Porfirio riferisce che il filosofo, avvalendosi dell’amicizia e dell’affetto degli Augusti, progettava di far sorgere in Campania una città di filosofi, che avrebbe avuto il nome di Πλατωνόπολις (Porph. Plot. 12). Plotino scomparve nel 270, all’età di 66 anni, a causa di un male (non ben identificabile) che gli procurò piaghe nelle mani e sui piedi e gli arrochì notevolmente la voce. Negli ultimi tempi, a causa di questa malattia, egli aveva abbandonato la scuola e gli amici, ritirandosi nella tenuta di un vecchio conoscente in Campania, dove spirò in solitudine.

Un oratore che parla in un’aula di tribunale o un predicatore cristiano (?). Rilievo, marmo, IV sec. d.C. dal tempio di Ercole. Ostia, Museo Archeologico.

Caratteristiche e finalità della scuola plotiniana. | La scuola di Plotino non assomigliava probabilmente a nessuna delle precedenti. L’autorità e il prestigio che il filosofo si era acquistati presso l’aristocrazia furono tali che molti «al pensiero della morte imminente» gli affidavano i figli e le figlie da educare e i loro beni da conservare e amministrare, come «a un custode sacro e divino», sicché la casa in cui abitava (che apparteneva a una certa Gemina, di cui era ospite) brulicava di ragazzi, ragazze e vedove (Porph. Plot. 9). Da lui si recavano anche uomini politici al fine di comporre vertenze e liti e a lui si affidavano tutti come arbitro infallibile. Quanto al suo progetto di una città i cui abitanti avrebbero dovuto osservare «le leggi di Platone» (νόμοις… τοῖς Πλάτωνος), sebbene Gallieno e l’imperatrice Salonina avessero preso in seria considerazione la sua attuazione, fallì a causa delle trame dei cortigiani.

Le lezioni di Plotino erano frequentati da vari tipi di uditori. Alcuni erano occasionali e saltuari, attratti semplicemente dalla fama del maestro e, quindi, dalla curiosità. C’erano poi quelli che frequentavano con certa costanza, e fra questi comparivano numerosi senatori romani e nobili di origine orientale. Infine, c’erano i veri e propri «seguaci». È da notare che anche un certo numero di donne – come riferisce il biografo – prendeva parte alle lezioni. Agli scritti del maestro, invece, solo pochi avevano diritto di accesso, e solo dopo aver dimostrato di possedere precisi requisiti intellettuali e morali (Porph. Plot. 1-12).

Platone aveva fondato la sua Accademia per poter formare nella filosofia gli uomini che avrebbero dovuto rinnovare la πολιτεία; Aristotele aveva istituito il Peripato per organizzare in modo sistematico tutta la ricerca e tutto il sapere; Pirrone, Epicuro e altri avevano creato le loro scuole per cercare di dare alle persone l’ἀταραξία, la pace e la tranquillità dell’anima. La scuola di Plotino si prefiggeva un ulteriore fine: voleva insegnare agli aderenti a sciogliersi dalla vita di quaggiù per riunirsi al divino e poterlo contemplare fino al culmine di una trascendente unione estatica. Lo scopo della nuova istituzione era, dunque, religioso e mistico: quello stesso fine che stava alla base del progetto di Platonopoli.

Plotino. Busto (attribuito), marmo, c. 250-300, dalle Terme del Filosofo. Ostia, Museo Archeologico.

II. Ripresa e conclusione della «seconda navigazione»

Lo sviluppo delle istanze medioplatoniche e neopitagoriche. | Il moderno lettore delle Enneadi può avere spesso l’impressione che molte tesi non vengano dimostrate o che, perlomeno, non vengano convenientemente giustificate. Ma chi si soffermasse a questa impressione e valutasse non adeguatamente fondata la speculazione plotiniana, cadrebbe in un grave errore di prospettiva e ne pregiudicherebbe in modo irreparabile la comprensione. Occorre tener presente, infatti, che, nel secolo immediatamente precedente, il medioplatonismo e il neopitagorismo avevano raggiunto la loro ἀκμή. Questi movimenti avevano messo definitivamente in crisi il materialismo dei grandi sistemi ellenistici, avevano recuperato gli esiti della platonica «seconda navigazione» e avevano addirittura tentato di integrarli e di rielaborarli, tenendo conto soprattutto degli apporti di Aristotele, senza trascurare le istanze precedenti. Plotino, insomma, trovò alcune verità filosofiche già guadagnate e giustificate dai suoi predecessori.

Tra l’altro, già in antico si era notata certa somiglianza fra alcune tesi di Numenio e alcune parallele tesi di Plotino; anzi, questa somiglianza apparve tanto forte che ad Atene si accusò Plotino addirittura di plagio! Uno dei discepoli, Amelio, si sentì in dovere di difendere il maestro e di confutare pubblicamente con uno scritto questa accusa (Porph. Plot. 17). Se quest’accusa è infondata, è comunque innegabile l’esistenza di tangenze tra i due pensatori. Plotino, in sostanza, riprese le istanze sostenute dai medioplatonici e dai neopitagorici, ma le sviluppò e le portò a maturazione con una profondità, una lucidità e un’audacia senza paragoni, tali da eclissare i suoi immediati predecessori.

III. Il sistema di Plotino nei suoi fondamenti e nella sua struttura

La prima ipostasi: l’uno. | È impossibile intendere l’originalità e la novità di Plotino, se non si comprende la riforma che egli apportò alla metafisica platonica e aristotelica, la quale aveva condotto a risultati che, per più di un aspetto, erano stati rivoluzionari. È ben vero che in Platone si possono rintracciare spunti plotiniani ante litteram e che nella successiva storia del platonismo e del neopitagorismo questi spunti siano lievitati in modo considerevole. Eppure, Plotino andò ben oltre con una vera e propria rifondazione della metafisica classica.

Il principio ultimo del reale per Aristotele era costituito dall’essenza (οὐσία) e dall’intelligenza del Motore immobile (νοῦς). Invece, per Plotino il principio era ancora ulteriore: l’uno (τὸ ἕν). Questo si situa al di là dell’essere e oltre l’intelligenza, è trascendente. L’uno, dunque, per Plotino è il fondamento e il principio assoluto di tutte le cose: ogni realtà, più precisamente, è tale solo in virtù della sua unità. Se l’unità di una cosa si spezza, quella cosa cessa di esistere. La sussistenza di un elemento dipende, dunque, dalla sua unità: se si toglie questa, si toglie l’essere della cosa.

Una volta stabilito che l’essere degli enti dipende dalla loro unità, da che cosa deriva questa loro unità? Secondo Plotino, tutti gli elementi fisici ricevono unità dall’anima, la quale è appunto attività creatrice e coordinatrice di tutte le cose sensibili; perciò, è fondamento della loro unità. Ma allora l’anima stessa è unità o piuttosto l’anima imprime unità, ma non coincide con essa, e deriva essa stessa la propria unità da qualcos’altro? La risposta di Plotino è chiarissima: esistono gradi differenti di unità. In tal senso, l’anima detiene un grado di unità superiore a quello dei corpi, ma non è essa stessa unità. Dunque, l’anima introduce nel mondo fisico l’unità, però, a sua volta, la riceve da ciò che sta al di sopra, vale a dire dall’intelligenza (νοῦς) e dall’essere (οὐσία).

Eppure, sia l’intelligenza sia l’essere, per quanto godano di un grado superiore all’anima, non sono l’uno, perché implicano molteplicità: dualità di pensante e pensato e molteplicità di idee, cioè la totalità delle realtà intellegibili. La radice dell’unità, dunque, è qualcosa che trascende lo stesso νοῦς, qualcosa di assolutamente scevro di qualsivoglia pluralità, è l’uno in sé (Plot. Enn. VI 9, 1-12).

Infinitudine, trascendenza, ineffabilità. | Caratteristica fondamentale dell’uno è l’infinitudine. Da questa occorre partire per comprendere le differenze fra la metafisica di Plotino e quella classica. L’infinitudine era stata attribuita al principio (ἀρχή) solo da alcuni antichi filosofi della natura e in dimensione fisica. In Platone e in Aristotele era prevalsa l’idea che l’infinito (ἀπείρων) comportasse imperfezione (che fosse, cioè, sinonimo di indeterminato, incompiuto), mentre il finito (in quanto determinato, compiuto) era stato associato con il perfetto. Platone aveva inteso il principio primo come limite (πέρας), mentre il principio materiale come l’illimitato e l’infinito (ἀπείρων). Aristotele, poi, aveva dichiarato impossibile l’esistenza dell’infinito in atto, concependolo come puramente potenziale e circoscrivendolo alla categoria della quantità; inoltre, aveva affermato che il perfetto implica sempre un fine e il fine un limite.

E, dunque, che cosa significa l’infinito nella dimensione dell’immateriale? L’infinito plotiniano non è spaziale né quantitativo, ma, come in certa misura già in Filone di Alessandria, è inteso come illimitata, inesauribile, immateriale potenza produttrice. In tal senso, evidentemente, il concetto di potenza (δύναμις) assume non già il significato di potenzialità, poiché questo significato aristotelico era strutturalmente legato alla materia e al corporeo, ma di attività, come in Filone. Dunque, la potenza coincide con la forza attiva (ἐνέργεια), con l’atto puro, l’atto metafisico primo e supremo. Intendere l’uno come infinita potenza significa, dunque, concepirlo come infinita spirituale energia creatrice (Plot. Enn. V 5, 10-12; VI 9, 6).

Le rivoluzionarie conseguenze che il concetto positivo di infinito immateriale comportò nell’ambito della «seconda navigazione» furono le seguenti. L’uno non poteva essere inteso come idea (ἰδέα) platonica, perché forma ed essenza in Platone implicavano la finitudine, il limite, né tantomeno come sostanza immobile, eterna e separata, in senso aristotelico, perché anche questa essenza, ovvero il νοῦς, era concepita parimenti finita e determinata. Di conseguenza, siccome l’essere, com’era stato inteso e da Platone e da Aristotele, era l’essere dell’εἶδος e dell’οὐσία e, perciò, finito, si comprende per quale ragione Plotino sentisse la necessità di porre l’uno «al di sopra dell’essere e del pensiero» e di ribadire questa tesi nel corso di tutte le sue Enneadi. Era questa una nuova concezione di trascendenza, che, nell’ambito della grecità, non aveva se non assai vaghi precedenti, mentre aveva un chiaro antesignano in Filone Alessandrino. Il principio supremo per Plotino non solo trascendeva il mondo fisico, ma anche ogni forma di finitudine, compresa quelle poste da Platone e da Aristotele all’intelligibile e all’intelligenza. Si comprende, insomma, come all’uno Plotino tendesse ad attribuire determinazioni prevalentemente negative e a dichiararlo perfino «ineffabile» (Plot. Enn. V 3, 13).

Anubis. Mosaico (dettaglio), fine II-inizi III sec. da una domus urbana di Ariminium. Rimini, Museo della Città.

Le caratterizzazioni positive dell’uno. |Con il termine «uno» (τὸ ἕν) Plotino designava il principio supremo, senza però indicare un particolare uno, cioè una determinata unità, ma l’uno-in-sé, la causa e la ragione d’essere di tutte le altre cose, l’assolutamente semplice che è ragion d’essere del complesso e del molteplice. Anche queste precisazioni, comunque, possono trarre in inganno, giacché la semplicità dell’uno non è povertà, ma è infinita potenza, quindi infinita ricchezza: l’uno è potenza di tutte le cose, nel senso che tutte le porta all’essere e nell’essere le mantiene (Plot. Enn. III 9, 1; V 5, 13; VI 9, 6).

L’altra categoria che Plotino usa di frequente per riferirsi al principio assoluto è «bene» (ἀγαθόν). Anche in questo caso, non si tratta di un particolare bene, ma del bene-in-sé, ovvero non di qualcosa che ha il bene, ma che è il bene stesso, il bene assolutamente trascendente (Plot. Enn. II 9, 1; V 5, 13; VI 9, 6).

Sulla base di quanto si è fin qui detto, è ora possibile chiarire meglio il senso delle affermazioni secondo cui l’uno è al di sopra dell’essere, del pensiero e della vita. Plotino, evidentemente, non voleva dire che il principio primo fosse il non-essere, il non-pensiero o qualcosa che fosse privo di vita. Al contrario, egli intendeva significare che, come principio infinito da cui derivano l’essere, il pensiero e la vita, l’uno è alcunché di superiore a questi suoi prodotti. E, in effetti, Plotino usa questi termini quando si riferisce all’uno accompagnandolo con «per così dire», cioè in senso analogico, o addirittura parla di «super-pensiero», di «super-essere», di «super-vita» (Plot. Enn. VI 8, 14-16).

L’uno come attività auto-produttrice. |L’uno è la ragion d’essere di tutto ciò che a esso segue ed è tale proprio per il suo essere quello che è. Ma Plotino non si accontentava di una spiegazione a questo livello; egli pose una domanda ancora più radicale, toccando così i limiti estremi delle possibilità della metafisica: perché l’uno è ed è quello che è? Questo interrogativo, posto in altri termini, equivale alla seguente: perché esiste l’assoluto e perché l’assoluto è così com’è?

Innanzitutto, bisogna escludere che esso sia per caso o per accidente, perché possono esistere in siffatto modo solo le cose del mondo sensibile, soggette al divenire. In secondo luogo, esso può esistere per una libera scelta, del tipo di quella che presuppone l’esistenza di contrari sui quali deve operare, perché esso è al di là di tutto questo. Inoltre, non si può dire che esso esista di necessità, perché la necessità è a esso posteriore, anzi è proprio esso la legge e la necessità delle altre cose. E, ancora, non si può nemmeno parlare, nei confronti dell’assoluto, di un essere, di un’essenza e di una determinata natura e spiegare la sua attività in funzione della sua natura medesima, perché esso trascende ogni cosa e la sua attività è tale solo in senso analogico. Operari sequitur esse, avrebbero detto i filosofi medievali. Plotino per caratterizzare il suo assoluto avrebbe affermato il contrario: esse sequitur operari; o meglio, essere e operare, nell’assoluto, coincidono: il primo principio si auto-pone, crea sé stesso, è attività auto-produttrice. In esso la volontà corrisponde al suo atto e, quindi, al suo stesso essere: è volontà di essere ciò che è, è libertà totale e assoluta; vuole essere ciò che è, perché è quanto di più alto possa esistere, è valore supremo e supremo positivo (Plot. Enn. VI 8, 7).

Fëdor Bronnikov, I Pitagorici celebrano il sorgere del Sole. Olio su tela, 1899. Mosca, Tretyakov Gallery.

La processione di tutte le cose dall’uno. | Allora, perché e come dall’uno sono derivate tutte le altre cose? Perché l’uno, pago di sé stesso, non è rimasto in sé stesso? È questa, in fondo, la domanda metafisica di assai ardua soluzione. Anche il tentativo plotiniano di rispondere a questo problema rappresenta uno dei vertici della metafisica antica. Si tratta di una risposta originalissima, un unicum nella storia del pensiero occidentale.

Nel rispondere al quesito, Plotino si avvale, a più riprese, di immagini splendide, divenute giustamente famose. La più celebre è certamente quella della luce (Plot. Enn. IV 3, 17): la derivazione delle cose dall’uno è rappresentata come l’irraggiarsi della luce da una fonte luminosa in forma di cerchi successivi via via digradanti in intensità, mentre la fonte della luce permane in sé senza mai spegnersi. Il primo cerchio luminoso prodotto è l’intelligenza, la seconda ipostasi (ὑπόστασις); il cerchio successivo è l’anima, la terza ipostasi. Il cerchio che viene dopo segna il momento dello spegnersi della luce e simboleggia la materia, che abbisogna di un irraggiamento esterno, essendo ormai tenebra.

Plotino riprende questa immagine della luce (Plot. Enn. IV 1, 6) intrecciandola con altre: il fuoco che emana calore, la sostanza odorosa che emana profumo, il vivente che, giunto a maturità, genera. Altre due celebri immagini sono quella della sorgente inesauribile che genera i fiumi e quella dell’albero da frutto (Plot. Enn. III 8, 10). Infine, non meno interessante è l’immagine dei cerchi concentrici: l’uno è come il centro, la seconda ipostasi è come un cerchio immobile, mentre l’anima è come un cerchio mobile (Plot. Enn. IV 4, 10).

Queste immagini sono state spesso prese troppo alla lettera e alcuni interpreti si sono addirittura fermati a esse, fraintendendo così i concetti che esse dovrebbero chiarire. È sulla base di queste immagini che taluni hanno parlato di «emanazionismo», di «panteismo» e di «monismo». In realtà, le cose sono assai più complesse di quanto queste formule non lascino supporre. La plotiniana «processione dall’uno» era ben altra faccenda.

Da tutte le immagini usate dal filosofo si ricava che il principio rimane fisso e, restando, genera, nel senso che il suo generare non lo impoverisce, non lo condiziona. Ciò che è generato è inferiore al generante e non serve al generante; il generato ha bisogno del generante, non viceversa (Plot. Enn. V 3, 12).

Ora, data la sua infinita perfezione e la sua trascendente potenza, l’uno generante non è forse «necessitato» a creare? Può la fonte di luce non emanare luce, la fonte d’acqua non zampillare acqua, l’oggetto profumato non diffondere profumo? È proprio su questo punto che le immagini traggono in inganno, rivelando solo un aspetto del pensiero plotiniano e velando l’altro, che è proprio quello più nuovo. Plotino distingueva due tipi differenti di attività dell’uno e delle altre ipostasi: da una parte, l’attività dell’ente, dall’altra quella che deriva dall’ente. La prima è immanente all’ente, per così dire, mentre la seconda esce dall’ente e si dirige all’esterno. In altri termini, l’attività dell’ente coincide con la singola realtà, mentre l’attività che deriva dall’ente si dirige ad altro. Applicando questa distinzione all’uno, si dovrà parlare di un’attività dell’uno e di un’attività che deriva dall’uno: l’attività dell’uno è quella che lo fa essere, lo mantiene e lo fa rimanere; invece, l’attività che deriva dall’uno è quella che fa sì che dall’uno derivi o meglio proceda un’altra realtà. È chiaro che l’attività dall’uno dipenda strutturalmente dalla stessa attività dell’uno (Plot. Enn. V 4, 2).

La seconda ipostasi: l’intelligenza. | La generazione delle ipostasi implica un’ulteriore attività, che non è meno essenziale delle altre: senza di essa, infatti, le ipostasi stesse non potrebbero sussistere. Si tratta dell’attività del «rivolgersi» al principio da cui ciascuna deriva per «guardarlo» e «contemplarlo». E questa attività non è affatto espressa nelle immagini sopra ricordate. Di conseguenza, essa è stata misconosciuta (e talora del tutto ignorata) dagli interpreti, mentre essa rappresenta uno dei cardini attorno a cui ruota tutta la metafisica plotiniana. In particolare, per quanto riguarda la seconda ipostasi (νοῦς), è da rilevare che la potenza originaria non genera altro che qualcosa di indeterminato o informe; ciò può determinarsi e divenire forma soltanto «rivolgendosi» all’uno, guardandolo e contemplandolo.

Questo prodotto indeterminato e informe dell’uno è detto da Plotino «alterità» intelligibile, o «materia intelligibile», cioè pensiero indefinito, che può determinarsi appunto rivolgendosi all’uno. Tuttavia, anche questo «rivolgersi» all’uno non è ancora intelligenza, ma la causa che la fa essere. Plotino distingueva fra il «rivolgersi» della potenza all’uno, il quale la feconda e la informa, e il «riflettere» di questa potenza su sé stessa già fecondata. Questi due momenti, distinguibili solo logicamente e non cronologicamente, spiegano le due facce dell’intelligenza: nel primo momento nasce la sostanza (il contenuto del pensiero), nel secondo nasce il pensiero vero e proprio. Questa duplicità dei momenti giustifica altresì la nascita del molteplice (Plot. Enn. II 4-5; V 2, 1). Inoltre, la nascita della seconda ipostasi è il formarsi del molteplice: l’intelligenza, infatti, non pensa l’uno, ma pensa se medesima riempita e fecondata dall’uno; il molteplice sorge solamente all’interno della seconda ipostasi (Plot. Enn. VI 7, 16).

Oratore. Statua, marmo, II-III sec. da Eracleopoli Magna (Medio Egitto). Cairo, Egyptian Museum

Essere, pensiero, vita. | Se per Plotino l’uno è «potenza di tutte le cose» e l’intelligenza è, a sua volta, «tutte le cose» (V 4, 2), l’intelligenza è, anzitutto, inscindibile unione di essere e pensiero, è l’essere puro di Platone, quell’essere che è pienamente e non può non essere, ed è, a un tempo, il pensiero di pensiero di cui parlava Aristotele. In secondo luogo, l’intelligenza è anche vita, è «il vivente perfetto», il «vivente in sé», «vita infinita», non necessariamente legato alla dimensione fisica, ma è spirituale, immateriale e fuori dalla temporalità (Plot. Enn. VI 6, 7-8).

L’intelligenza come «cosmo intelligibile». |Nel nuovo contesto della dottrina ipostatica dell’intelligenza, Plotino riprende un’espressione coniata da Filone, per cui il platonico Iperuranio diveniva «cosmo intelligibile». Cogliendo dall’Alessandrino una serie di spunti e sulla base della propria inedita concezione dell’intelligenza come strutturale unità di essere e pensiero, Plotino procedette alla più audace riforma della dottrina delle idee proposta dalla speculazione antica.

La modifica principale consistette nella trasformazione dell’idea da mero «intelligibile» a intelligenza, o meglio in qualcosa che fosse contemporaneamente intelligibile e intelligenza, sostanza pensante in cui pensante e pensato coincidessero. Le idee diventavano forze o potenze intelligenti, vive: insomma, «spiriti» (Plot. Enn. IV 8, 3).

Connessa a questa era l’ulteriore modifica della concezione del rapporto sussistente fra le idee, fra ciascuna idea e la totalità delle idee, e viceversa. Plotino, superando Platone, giunse ad affermare che ciascuna idea fosse in certo senso tutte le altre. Inoltre, nella misura in cui l’intelligenza rinserra in sé tutte le cose, esistono idee di tutte le cose, e non solo delle specie, ma anche di tutte le possibili differenze in cui può presentarsi la specie. Così, per esempio, non esiste un’unica idea di uomo, ma tante idee di uomo quante sono le differenti conformazioni degli uomini, quante sono le differenze tra un individuo e l’altro.

In Plotino si incontra, altresì, la dottrina dei numeri ideali, ma in parte approfondita e chiarita: i numeri ideali (da distinguere nettamente da quelli matematici!) derivano tutti dallo stesso uno. La diade sorge dall’uno medesimo ed è illimitata e può ricevere limite dall’uno stesso. I numeri ideali derivano dalla delimitazione della diade da parte dell’uno. Tali numeri sono la forza che divide l’essere e fa nascere la molteplicità delle cose (Plot. Enn. V 1, 5; VI 6, 9-15).

Tutto quanto sopra è stato detto spiega la ragione per cui Plotino, con espressione filoniana, abbia descritto con νοῦς il «cosmo intelligibile», mondo dell’ordine e dell’armonia spirituale, mondo della bellezza. Secondo Plotino, la bellezza, in generale, coincide con la forma: una cosa è bella per quanto possiede di forma. L’intelligenza, che è il mondo delle forme e delle idee, vale a dire il sistema perfettamente ordinato delle forme nella loro totalità è la suprema e assoluta bellezza (Plot. Enn. I 6; V 8).

Scena nilotica. Affresco, ante 79, dal Tempio di Iside (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La terza ipostasi: l’anima. | L’intelligenza è potenza inesauribile e infinita e, in quanto tale, «trabocca» e genera un’altra realtà, gerarchicamente inferiore: l’anima (ψυχή). Per spiegare la processione (ἀπόρροια) dell’anima dall’intelligenza, Plotino si rifaceva agli stessi schemi di cui si era servito per chiarire la processione dell’intelligenza dall’uno. Dunque, analogamente, egli distinse tra un’attività dell’intelligenza, che rivolge a sé stessa, e un’attività dall’intelligenza, rivolta all’esterno; la seconda attività deriva dalla prima e, anzi, è conseguenza della prima, in quanto è proprio in grazia del proprio rivolgersi a sé medesima che l’intelligenza produce qualcos’altro (Plot. Enn. V 3, 7; VI 2, 22).

Il risultato di tale attività, comunque, non è ancora anima: occorre, come si è visto per l’intelligenza nei confronti dell’uno, che anche il prodotto dell’attività che procede dall’intelligenza si rivolga a guardare e a contemplare l’intelligenza medesima. L’anima, infatti, come prodotto dell’attività dell’intelligenza, è nei confronti di questa come la materia rispetto alla forma o come l’indeterminato rispetto alla determinazione formale (Plot. Enn. II 4, 3; V 1, 3-6). Rivolgendosi all’intelligenza e contemplandola, l’anima, appunto, «attraverso l’intelligenza» stessa vede il bene, cioè l’uno; entra in possesso del bene medesimo. In ultima analisi, sta proprio in questo aggancio all’uno, tramite l’intelligenza, il fondamento supremo della realtà dell’anima per Plotino (Plot. Enn. VI 7, 31).

L’anima nel sistema plotiniano. | La caratteristica essenziale dell’intelligenza consiste nel pensare, donde la sua dualità – il pensiero è sempre pensiero dell’essere – e la sua molteplicità – l’essere è una molteplicità di idee. L’uno, sosteneva Plotino, se vuole pensare deve farsi intelligenza, dato che l’uno come tale non può pensare. Ora, anche l’anima pensa, almeno nella misura in cui guarda e contempla il principio che l’ha generata, l’intelletto; ma la sua essenza consiste non nel pensare – altrimenti, non si distinguerebbe dall’intelligenza –, ma nel produrre e nel dar vita a tutte le altre cose che sono, quelle sensibili, nell’ordinarle e nel governarle (Plot. Enn. IV 8, 3; V 6, 2).

Ora, è da notare che questo «guardare» dell’anima alle cose che sono dopo di lei, questo «ordinare», «reggere», «comandare», coincidono con il suo produrre, generare e far vivere queste stesse cose. L’anima è principio creatore di tutte le cose. L’anima è, di conseguenza, non solo principio di movimento, ma essa stessa è movimento come vita (V 2, 1).

In conclusione, si può dire che, come l’uno deve diventare intelletto per pensare, così deve farsi anima per generare tutte le cose del mondo visibile. L’anima, dunque, costituisce il momento estremo nel processo di espansione dell’infinita potenza dell’uno, l’ipostasi cosmogonica che coincide con il momento in cui l’incorporeo genera il corporeo, manifestandosi nella dimensione del sensibile. Non bisogna dimenticare che le ipostasi successive all’uno, da un lato, in un certo senso sono l’uno stesso, nella misura in cui questo è la fonte e la potenza di tutto e, dall’altro, non sono l’uno, ma differenziazioni della potenza dell’uno, in cui il nuovo che sorge non distrugge l’antico, ma deriva proprio dal permanere dell’antico.

Scena di sposalizio. Rilievo, marmo, c. 280, dal cosiddetto Sarcofago dell’Annona, da una camera sepolcrale di via Latina. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme

La posizione intermedia dell’anima. | Plotino assegna all’anima una «posizione intermedia» e la considera «l’ultima dea» (Plot. Enn. IV 8, 5), l’estrema realtà intelligibile, che confina con il sensibile ed è la causa stessa che genera il sensibile. L’anima possiede «due volti» (IV 6, 3), orientati nell’una e nell’altra direzione, ma ciò esclude che essa abbia una natura mista di incorporeo e corporeo. L’anima si trova in posizione intermedia e ha due facce, perché nel generare il corporeo, pur continuando a essere e a permanere incorporea, le «accade» di aver a che fare con il corporeo da essa stessa prodotto, condividendone alcune caratteristiche, ma non nel modo in cui tali tratti sono propri del corporeo stesso.

Non essendo a priori divisa, l’anima «diventa divisibile nei corpi», non nella maniera in cui sono divisi questi, ma «senza deflettere dall’unità del suo essere» (Plot. Enn. IV 1, 1-2). La divisibilità dell’anima non significa la sua frantumazione in parti staccate successiva l’una dall’altra come avviene per i corpi, ma l’entrare intera in tutte le parti del corpo diviso, dato che essa non ha grandezza. L’anima è, dunque, divisa-e-indivisa, una-e-molteplice, in quanto è principio che produce, regge e governa il mondo sensibile: con la sua unità molteplice e divisa essa elargisce la vita a tutte le cose, con la sua unità indivisibile le riunisce e le controlla; è tutta dappertutto e dappertutto identica.

La pluralità dell’anima. | La questione dell’unità e della molteplicità proprie dell’anima, per la verità, risulta ancora più complessa se la si guarda da un’altra angolatura. Plotino, infatti, parlava di una molteplicità dell’anima non solo in senso orizzontale, ma anche in senso verticale, gerarchico. Malgrado l’ampiezza del linguaggio delle Enneadi su questo argomento, che talvolta rasenta l’equivoco, sembra che la gerarchia delle anime cui Plotino fa riferimento sia la seguente. In primo luogo, esiste un’anima suprema, universale, ossia nella sua interezza e purezza, ipostasi del mondo intelligibile; in secondo luogo, c’è un’anima del tutto, quella del mondo sensibile, che pone, regge e governa l’universo medesimo (anima mundi); infine, ci sono le anime particolari, che non creano, ma animano e reggono i diversi singoli corpi: ciascuna di esse scende nel proprio corpo, con il quale ha un rapporto più stretto che non l’anima dell’universo. Dall’anima suprema, perciò, derivano tutte le altre. L’anima del tutto e quelle individuali sono della stessa natura di quella e si differenziano per la maggiore o minore vicinanza con i corpi (Plot. Enn. IV 3, 5-6; VI 4, 4).

Uomini togati, forse senatori (dettaglio). Rilievo, marmo, 235, dal Sarcofago di Acilia. Roma, Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

IV. La processione del sensibile dall’intelligibile, il significato e il valore del cosmo fisico

La processione della materia. | Elemento caratteristico del mondo fisico è la materia sensibile. Anche nel mondo incorporeo esiste una materia, ma è puramente intellegibile. Quest’ultima detiene i caratteri propri dell’intellegibile medesimo: la semplicità, l’immutabilità e l’eternità. Diversamente, quella sensibile rivela tratti opposti. Secondo Plotino, caratteristica di ogni tipo di materia è l’essere indefinita, indeterminata, illimitata, ma quella sensibile è un’immagine di quella intellegibile e, in quanto copia si allontana dall’essere dell’originale, consegnandosi al negativo e al male.

La materia sensibile deriva dalla sua causa come possibilità ultima, cioè come estrema tappa di quel processo in cui l’impulso a creare e la forza produttiva si indeboliscono fino a esaurirsi completamente. La materia sensibile, anzi, diventa esaurimento totale e, quindi, privazione estrema della potenza dell’uno, dell’uno stesso e, in definitiva, del bene. Si noti che per Plotino il male non è inteso come forza negativa opposta alla positiva, ma come mancanza e privazione del positivo (Plot. Enn. I 8, 7; III 4, 15). Se la materia intellegibile è puro essere, quella sensibile deve necessariamente distinguersi come «non-essere»: beninteso, non si tratta del nulla, ma di ciò che è «diverso dall’essere» (I 8, 3). La materia fisica non è nulla di ciò che è proprio del mondo dell’essere, dell’intelligenza e dell’anima e, in genere, dell’intellegibile (Plot. Enn. III 4, 16; 6, 7).

Plotino cerca di determinare le ragioni di questa mancanza di ogni spessore ontologico proprio della materia. Essa è prodotta dall’anima, non dall’anima suprema, ma dal lembo estremo dell’anima universale, in cui la contemplazione si affievolisce, nella misura in cui l’anima si volge più a sé che all’intelligenza (Plot. Enn. III 9, 2; IV 3, 9).

Infine, Plotino cerca di approfondire ulteriormente la ragione della differente natura della materia rispetto alle realtà che la precedono puntando ancora una volta sul tipico concetto di contemplazione. L’anima superiore contempla e da questa contemplazione scaturisce la forza creatrice dell’anima cosmica. Questa forza creatrice è una contemplazione illanguidita, digradante quanto a intensità, tanto che «in quel digradare va quasi svanendo» (Plot. Enn. III 8, 5). E così la materia, prodotto di quest’attività che è languida contemplazione, non ha più la forza di volgersi verso chi l’ha generata e di contemplare a sua volta, tanto che tocca alla stessa anima sorreggerla, e quindi ordinarla, informarla, tenerla, in qualche modo, appesa all’essere. E così nasce, appunto, il cosmo sensibile.

Il disegno razionale del mondo. | Il mondo sensibile è costituito, nella sua totalità così come nelle sue parti, di materia e forma, ma a differenza della materia intellegibile, che è forza o potenza che perennemente cerca la sua forma, la possiede e in essa si attua, la materia sensibile non è positiva capacità di ricevere la forma, ma solo inerte possibilità di rifletterla, senza esserne a fondo veramente informata e vivificata. Insomma, la materia sensibile è tale da essere incapace di costruire una vera unità con la forma. La forma penetra nella materia solo «in modo menzognero», come un oggetto che si rifletta nello specchio (Plot. Enn. I 8, 14; III 6, 13).

Per creare il mondo fisico l’anima pone dapprima la materia, che è come l’estremità del cerchio di luce che si spegne e diviene oscurità; successivamente le dà forma, quasi squarciandone l’oscurità e recuperandola alla luce (Plot. Enn. IV 3, 9). Plotino, dunque, perviene alla conclusione che nell’universo sensibile non solo la forma ha un netto predominio, ma, al limite, il cosmo si risolve quasi per intero nella forma.

Defunto fra Osiride e Anubis. Dipinto su sudario di una mummia, fine II-inizi III secolo, dall’Oasi del Fayyum. Mosca, Museo Pushkin.

Genesi della temporalità. | Il passaggio dal mondo intellegibile a quello sensibile comporta anche il transito dall’essere al divenire, dall’eternità alla temporalità. Quest’ultima, a detta di Plotino, coincide con l’attività stessa con cui l’anima crea il mondo fisico, cioè con quell’attività che produce qualcosa che è altro dall’intelligenza e dall’essere, che sono invece nella dimensione dell’eterno. L’eternità, per Plotino, è vita senza mutamento, che è presente tutta intera simultaneamente.

Ebbene, l’anima, per una sorta di «temerarietà» e «desiderio di appartenere a sé stessa» (V 1, 1) o per «desiderio di trasferire in un diverso la visione di lassù» (III 7, 11), non paga di vedere il tutto simultaneamente, esce dall’unità, avanza e si distende, per così dire, in un prolungamento e in una serie di atti che si succedono l’un l’altro, e crea così un mondo sensibile che è, sì, fatta a immagine dell’intellegibile, ma che fatalmente volge e pone in successione di prima e di poi ciò che colà, invece, era tutto insieme e simultaneo. Così facendo, l’anima temporalizza sé stessa e, di conseguenza, il suo prodotto. Il mondo è strutturalmente nel tempo, così come è nell’anima e per l’anima.

Ne deriva che la vita dell’anima è la vita nella dimensione della temporalità a differenza di quella dell’intelligenza che è nell’eternità: la vita come temporalità è vita che scorre in momenti successivi, che crea scorrendoli, è rivolta sempre a momenti ulteriori ed è carica dei momenti trascorsi. Plotino, insomma, ripropone amplificandola la definizione platonica di tempo come «immagine dell’eterno».

V. Origini, natura e destino dell’uomo

L’uomo prima della sua discesa nel mondo sensibile. | Nella concezione di Plotino, l’umanità non nasce al momento in cui sorge il mondo corporeo, ma preesiste a esso sia pure in altra condizione, cioè come pura anima. Il filosofo afferma in tutta chiarezza che prima della nascita «noi eravamo lassù», nel mondo dell’essere e dell’intelligenza, «eravamo altri uomini» e anzi «dèi» (Plot. Enn. IV 4, 14), partecipi della vita spirituale del tutto, senza le scissioni e le lacerazioni che sono proprie della vita terrena. Anzi, Plotino precisa (IV 8, 4), addirittura, che le anime dei singoli erano in origine associate all’anima universale nel governo del mondo, come re accanto al signore supremo. Ma perché le anime degli uomini discendono nei corpi?

Si tratta dell’antico problema che aveva travagliato Platone e al quale egli non aveva saputo dare una soluzione conclusiva, oscillando fra opposte tesi: quella di una necessità ontologica e quella di una «colpa». Plotino riprende queste opposte posizioni e cerca di conciliarle, sulla base delle acquisizioni della sua riflessione metafisica.

Innanzitutto, occorre premettere che la ragione principale della discesa delle anime particolari nei corpi degli individui vada ricercata nella stessa legge che regola la processione (ἀπόρροια) di tutte le cose dall’uno. Secondo tale legge, dunque, l’anima mundi deve esplicare tutte le sue possibilità, producendo non solo l’universo in generale, ma anche, attraverso le anime particolari, tutti i viventi particolari, fra i quali anche gli uomini. Tutto ciò deve accadere, affinché l’infinita potenza dell’uno possa raggiungere la sua massima espressione, garantendo la perfezione del tutto. Insomma, come l’anima universale non può permanere come puro pensiero, altrimenti non si differenzierebbe dall’intelletto, così le anime particolari non possono permanere come intelligenze peculiari, ma devono assumere, per distinguersi dalla suprema intelligenza, la funzione che è loro propria, che consiste nell’ordinare, reggere e governare le cose sensibili.

È evidente che, così essendo, la discesa dell’anima nei corpi non è volontaria, in quanto non dipende da una scelta né da una liberazione dell’anima stessa, ma non può nemmeno costituire una colpa. Anzi, Plotino ammette addirittura che, se l’anima riesce a fuggire rapidamente dal corpo, non solo non riceve danno dall’aver assunto un corpo, ma un arricchimento, sia per aver contribuito all’attuazione delle potenzialità dell’universo sia per aver sofferto l’esperienza stessa del male, che le fa acquistare più chiara coscienza del bene e le permette di esplicare tutte le sue virtù.

Ritratto di filosofo (forse Plotino). Testa, marmo, c. 260, dalle Terme del Filosofo. Ostia, Museo Archeologico.

L’uomo e i rapporti fra anima e corpo. | Plotino porta alle sue estreme conseguenze anche l’equazione di uomo e anima, identità stabilita per la prima volta da Socrate e ontologicamente sviluppata da Platone. Nulla vieta, sostiene il Licopolitano, che si chiami «io» anche l’insieme di anima e di corpo, ma resta pur sempre che «l’uomo vero» è solo l’anima, anzi «l’anima separata» e «separabile» (Plot. Enn. I 1, 10). In verità, in più parti delle Enneadi, si afferma che in ogni essere umano esistano tre uomini e non semplicemente l’uomo interiore e l’uomo empirico. Questa tesi, che di primo acchito più stupire, diventa molto meno paradossale, non solo se misurata con i parametri dell’ontologia plotiniana, ma altresì se ricollegata alla tradizione medioplatonica, dalla quale lo stesso neostoico Marco Aurelio aveva tratto la sua triplice distinzione dell’individuo in νοῦς, ψυχή e σῶμα. È questa, sostanzialmente, la tripartizione da cui Plotino prende le mosse, trasformandola secondo i moduli della sua ontologia e dandole, per così dire, un inusitato spessore metafisico, in grazia della teoria della processione.

Questa tripartizione è riproposta anche in termini di «anima», nel senso che i «tre uomini» possono essere considerati come tre anime o meglio «tre potenze» dell’anima, dato che il «primo uomo» non è se non l’anima considerata nella sua tangenza con l’intelligenza; il «secondo uomo» è l’anima (o pensiero discorsivo), che è a mezzo fra l’intelligibile e il sensibile; il «terzo uomo» è l’anima che vivifica il corpo terreno (Plot. Enn. II 9, 2; IV 7, 6). Per Plotino, l’uomo è comprensibile solo nella dinamica di queste tre parti ed è un’anima che si serve del corpo. Tuttavia, da un lato, il corpo non è che una «caduta dell’anima» in ciò che è inferiore e l’anima è ragione governante il corpo, e in quanto tale mantiene su di esso una sua superiorità e un legame stretto con l’assoluto (Plot. Enn. IV 8, 8).

L’attività e le funzioni dell’anima. | Le attività elementari della vita vegetale e animale sono garantite dall’anima mundi: a questa, infatti, spetta la generazione del mondo, mentre le anime singole si occupano di produrre, vivificare e reggere ogni corpo. Come tutte le attività che sembrano appartenere ai corpi in generale sono, in realtà, proprie dell’anima che le produce, così tutte le attività che sembrerebbero appartenere al corpo particolare sono la diretta regia dell’anima che lo governa, cioè proprie e peculiari di quest’anima medesima. A tutti i livelli, l’anima è concepita come impassibile e capace solo di agire, perché l’incorporeo non può subire affezioni, in alcun modo, dal corporeo. Ma, allora, come si spiega la sensazione?

La risposta di Plotino è ingegnosa e distingue nettamente due tipi di sensazione: una esteriore, che non è altro se non l’affezione e l’impronta che i corpi producono sui corpi (in funzione della συμπάθεια che lega tutte le cose dell’universo fra loro e con il tutto), e la percezione sensitiva vera e propria, che è, invece, un atto conoscitivo dell’anima, che fattivamente coglie l’affezione. Dunque, quando si sente, il corpo umano patisce un’affezione da parte di un altro corpo; invece, l’anima entra in azione, non solo nel senso che «non le sfugge» (III 4, 2) l’affezione corporea, ma nel senso che essa «giudica» queste affezioni (III 6, 1). Anzi, per Plotino, nell’impressione sensoriale che si produce nel corpo umano, l’anima vede l’orma di forme intellegibili e, dunque, la stessa sensazione è, per l’anima, una forma di contemplazione dell’intelligibile nel sensibile.

Plotino attribuisce all’anima anche le facoltà dell’immaginazione e della memoria. Non il corpo di per sé né il corpo considerato in unione con l’anima sono capaci di ricordo, ma solo l’anima: il corpo è, al contrario, un impaccio e uno ostacolo al ricordare e, quindi, causa di oblio. Memoria e ricordo hanno però un rapporto strutturale con la temporalità, con il venir prima e dopo; l’anima, nella misura in cui entra in contatto con il corporeo, ha anche rapporto con la temporalità. Invece, tutto ciò che permane nell’identità e nell’eguaglianza dell’eterno non ha memoria, perché partecipa della simultanea presenza della totalità (Plot. Enn. IV 3, 26).

Diversa strutturalmente dalla memoria è la reminiscenza (ἀνάμνησις), la quale consiste in un conservare nell’anima ciò che all’anima stessa è in qualche modo connaturato, in quanto le deriva dal suo strutturale contatto con le realtà supreme. L’anima superiore è, infatti, agganciata eternamente all’intelletto: di conseguenza, nell’aldilà l’anima tende a lasciare cadere i ricordi legati al corporeo e al temporale, mentre nell’al-di-qua la reminiscenza delle cose supreme non può mai interamente oscurarsi (Plot. Enn. IV 3, 25-27). La più alta attività conoscitiva dell’anima consiste nel pensiero che coglie le idee e l’intelligenza; al di sopra di questa, però, l’anima possiede anche la capacità meta-razionale di cogliere lo stesso uno e con esso «unificarsi».

Allo stesso modo, sentimenti, passioni e volizioni e tutto ciò che a essi è legato vengono interpretati da Plotino come attività psichiche. Infatti, per il filosofo, è il corpo che patisce, mentre l’anima, propriamente, resta immune da affezione e agisce sul corpo, accorgendosi della passione del corpo e interessandosene di conseguenza.

La libertà dell’uomo. | L’attività più alta dell’anima consiste nella libertà. Da questo punto di vista, Plotino riprende le tradizionali dottrine platoniche e, come tutti i suoi predecessori, non riesce a liberarsi interamente dalle ipoteche dell’intellettualismo socratico. Ciononostante, sembra che egli abbia compiuto alcuni progressi, in virtù della sua nuova concezione dell’assoluto. L’uno, principio imprincipiato, è infatti essenzialmente libertà, volizione e causa di sé. Esso vuole e pone sé stesso, perché è bene. Pertanto, nell’assoluto la libertà coincide con la volontà del bene e nel voler essere bene.

Se così è, anche la libertà dell’uomo andrà cercata in questa stessa direzione. La libertà dell’intelligenza consiste nel porsi sulla scia del bene (IV 8, 4); analogamente, la libertà dell’anima consiste nel porre la propria forza operante sulle orme dell’intelletto e nell’agire di conseguenza, secondo quei modi che la portano a unirsi all’intelligenza, all’uno e al bene stessi. La libertà, dunque, secondo Plotino, non può consistere nell’attività pratica, cioè nell’agire esteriore, ma nella virtù e soprattutto nelle virtù più alte, nella contemplazione e nell’estasi. La libertà e la volontà sovrana, insomma, consistono nell’immateriale: l’anima è libera nella misura in cui, tramite l’intelligenza, tende al bene (Plot. Enn. VI 8, 6-7).

Scena di offerta delle primizie. Affresco, fine II sec. dalla Tomba di Padiosir Petosiris‎, dal Qārat el-Muzawwaqa, Oasi di Dakhla (Egitto).

Le vie del ritorno all’assoluto. | Plotino ridimensiona la dottrina delle virtù. Quelle «civili», che erano state la base dell’etica classica, sono per il filosofo egiziano semplicemente un punto di partenza, non un punto d’arrivo: giustizia, saggezza, fortezza e temperanza, intese in senso «politico», sono solo capaci di assegnare limiti e misure ai desideri e di eliminare false opinioni; sono dunque solo un’orma del bene supremo. Queste virtù sono una condizione per diventare simili al dio, ma l’assimilazione al dio è qualcosa di superiore: appunto, superiori alle virtù «civili» sono quelle intese come «purificazioni». Infatti, mentre le virtù politiche si limitano a moderare le passioni, le virtù come purificazioni liberano l’individuo dalle passioni medesime, consentendo all’anima di unirsi a ciò che le è affine, l’intelligenza (Plot. Enn. I 2, 1-3).

Quando l’anima ha raggiunto l’intelligenza e la contempla, allora, in questa contemplazione e imitazione, le virtù si trasfigurano. A questo punto, le virtù sono il modo di vivere dell’anima, che, distaccatasi dalle cose sensibili e rientrata totalmente in sé, vive in purezza la vita stessa degli dèi, assimilandosi all’intelligenza (Plot. Enn. I 2, 7).

Per Plotino, le virtù non sono le uniche vie che portano a unirsi al divino: rifacendosi a Platone, egli valorizza anche l’erotica e la dialettica, che sono, sia pure a diverso titolo e in differente misura, modi diversi con i quali l’anima si distacca, si libera e si purifica dal corporeo e si avvicina all’assoluto. L’erotica plotiniana, come quella platonica, è strettamente connessa alla bellezza, che è fondamentalmente la forma a tutti i livelli. Anche la bellezza sensibile è forma, il tralucere della forma intellegibile nel sensibile. Nella misura in cui ciò che è bello è forma, è connaturale all’anima ed è, quindi, capace di far rientrare l’anima in sé e di riportarla al ricordo delle sue divine origini. E la «trafittura» che prova l’amante nel vedere il bello, non è altro che metafisico ricordo delle proprie origini trascendenti (Plot. Enn. I 6, 4; III 5).

La riunificazione all’uno. | Le vie del ritorno all’uno sono, sostanzialmente, un ripercorrere a ritroso la metafisica processione dall’uno e, siccome le successive ipostasi derivano da esso per una sorta di differenziazione e di alterità ontologica (alle quali nell’uomo si aggiungono anche alterità morali), è evidente che il ricongiungimento all’uno dovrà consistere proprio nell’eliminazione di ogni difformità in una sorta di semplificazione (Plot. Enn. VI 9, 11). Questo è possibile perché l’alterità non è nell’ipostasi dell’uno, ma in quelle che seguono all’uno, soprattutto nell’umano. Così, immune da qualsiasi diversità, l’uno è presente sempre negli uomini, ma gli uomini sono presenti all’uno soltanto quando eliminano la propria alterità.

Spogliarsi di quest’ultima significa per la persona rientrare in sé stessa, nella propria anima, distaccandosi dal corpo e da tutto ciò che a esso inerisce, ma anche dalla stessa parte affettiva dell’anima e di tutto ciò che le è connesso. L’anima stessa deve, inoltre, eliminare la parola, il discorso e la ragione discorsiva, tutto ciò che in qualsivoglia modo la possa dividere dall’uno, perfino la conoscenza riflessa del proprio essere (Plot. Enn. III 6, 5; VI 9, 7). La frase che riassume in maniera icastica questo processo di purificazione totale dell’anima è: Ἄφελε πάντα («Spogliati di tutto», Plot. Enn. V 3, 17). Si tratta, indubbiamente, della concezione più radicale che si riscontra nella storia del pensiero antico. Spogliarsi di tutto non significa affatto impoverire o annullare sé stessi, ma, al contrario, vuol dire accrescersi, riempiendosi di divino e di infinito.

Il filosofo in cattedra. Rilievo, marmo, c. 260-280, dal cosiddetto Sarcofago di Plotino. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

L’estasi. | La tangenza con l’uno è detta ἔκστασις, che non può essere una forma di scienza né di conoscenza intellettuale e razionale. Consiste piuttosto nel contemplare in stretto contatto (senza riflessa distinzione tra soggetto e oggetto) il contemplato, in una compresenza, se non in un’unificazione totale con esso. Anche a tal riguardo, non pochi interpreti sono caduti in errore e hanno confuso l’estasi con uno stato di incoscienza o con alcunché di irrazionale. In verità, Plotino concepiva questo elemento come uno stato di iper-coscienza, come qualcosa di iper-razionale. Nell’estasi l’anima vede sé stessa divinizzata, riempita dell’uno e, nell’ordine del possibile, pienamente assimilata a esso. Dunque, il contemplare estatico dell’anima è un partecipare alla sussistenza dell’uno con tutte le caratteristiche che di esso sono peculiari: ossia l’essere al di sopra dell’essere, del pensiero, della ragione e della coscienza (Plot. Enn. VI 9, 11).

Che la dottrina dell’estasi sia stata divulgata in Alessandria soprattutto da Filone è indubitabile, così com’è altrettanto certo che Plotino ne abbia più volte fatta esperienza diretta. Tuttavia, è da rilevare che, mentre Filone concepiva biblicamente l’estasi come grazia, ovvero come «dono gratuito» di Dio, Plotino la reinserisce in una prospettiva collegata alle categorie greche: il dio non fa dono di sé ai mortali, ma questi possono salire a lui e a lui unirsi per loro forza naturale.

L’asse portante del pensiero plotiniano consiste nell’idea di «contemplazione creatrice», che è l’esatto opposto di quell’emanazionismo di cui qualche interprete ha parlato. Iniziando l’ottavo trattato della III Enneade, in cui il maestro illustra proprio il concetto di contemplazione (θεωρία), che rivoluziona tutti gli schemi più consolidati, Plotino utilizza un tono scherzoso per attutire l’impatto della nuova dottrina con il lettore: tutto è contemplazione (Plot. Enn. III 8, 1). Ma subito il tono ritorna serio: Plotino dimostra i due punti estremi della dottrina, concernenti, rispettivamente, la natura e l’attività pratica. Che l’intelligenza contempli l’uno e l’anima l’intelligenza e, attraverso l’intelligenza, l’uno medesimo, non poteva sembrare paradossale, data la struttura delle ipostasi. Piuttosto, potevano risultare estranee alla contemplazione la natura e la prassi: anche loro, secondo la dottrina plotiniana, sono contemplazione e prodotto della contemplazione (III 8, 3).

È evidente che, come la natura contempla e crea in quanto è anima, così anche nelle anime particolari contemplazione e azione dovranno essere strutturalmente interconnesse. Non solo la prassi dipende dalla contemplazione, risultando tanto più ricca quanto più ricca è la contemplazione, ma essa tende pure a ritornare alla contemplazione. La prassi, perfino nel suo più basso grado, anche senza saperlo, tende a una contemplazione (Plot. Enn. III 8, 6).

Dunque, la vera forza creatrice, asserisce Plotino, non è l’azione (πρᾶξις), ma la contemplazione (θεωρία): portando alle estreme conseguenze la concezione platonica, in Plotino la contemplazione diviene un concetto metafisico generale. La spirituale attività del «vedere» si trasforma in creare. Perciò, l’uno è una sorta di auto-contemplazione; l’intelligenza è contemplazione dell’uno e di sé riempita dell’uno; l’anima è contemplazione dell’intelligenza e di sé ripiena di intelligenza; la natura, estremo lembo dell’anima, è contemplazione di sé; la stessa zione non è che un più debole grado di contemplazione. La contemplazione è silenzio: tutta la realtà è dunque contemplazione e silenzio.

In questo senso, il «ritorno» all’uno mediante l’estasi diviene non altro che il ritorno mediante la contemplazione dell’uno. Estasi ricorre una sola volta nelle Enneadi. Il significato più appropriato sarebbe «semplificazione», che, come si è visto, consiste nell’eliminazione dell’alterità, separazione da tutto ciò che è terreno e molteplice, contemplazione in cui soggetto contemplante e contemplato si fondono: Καὶ οὗτος θεῶν καὶ ἀνθρώπων θείων καὶ εὐδαιμόνων βίος, ἀπαλλαγὴ τῶν ἄλλων τῶν τῇδε, βίος ἀνήδονος τῶν τῇδε, φυγὴ μόνου πρὸς μόνον («Ecco la vita degli dèi e degli uomini divini e beati: separazione dalle restanti cose di quaggiù, vita cui non aggrada più cosa terrena, fuga da solo a solo», Plot. Enn. VI 9, 11).

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ΠΕΡΙ ΤΟΥ ΚΑΛΟΥ

Afrodite Anadyomene. Torso, marmo, III-II sec. a.C. ca.
Afrodite Anadyomene. Torso, marmo, III-II sec. a.C. ca.

[1] Τὸ καλὸν ἔστι μὲν ἐν ὄψει πλεῖστον, ἔστι δ᾿ ἐν ἀκοαῖς κατά τε λόγων συνθέσεις, ἔστι δὲ καὶ ἐν μουσικῇ καὶ ἁπάσῃ· καὶ γὰρ μέλη καὶ ῥυθμοί εἰσι καλοί· ἔστι δὲ καὶ προιοῦσι πρὸς τὸ ἄνω ἀπὸ τῆς αἰσθήσεως καὶ ἐπιτηδεύματα καλὰ καὶ πράξεις καὶ ἕξεις καὶ ἐπιστῆμαί τε καὶ τὸ τῶν ἀρετῶν κάλλος. Εἰ δέ τι καὶ πρὸ τούτων, αὐτὸ δεἰξει. Τί οὖν δὴ τὸ πεποιηκὸς καὶ τὰ σώματα καλὰ φαντάζεσθαι καὶ τὴν ἀκοὴν ἐπινεύειν ταῖς φωναῖς, ὡς καλαί; Καὶ ὅσα ἐφεξῆς ψυχῆς ἔχεται, πῶς ποτε πάντα καλά; Καὶ ἆρά γε ἑνὶ καὶ τῷ αὐτῷ καλῷ τὰ πάντα, ἢ ἄλλο μὲν ἐν σώματι τὸ κάλλος, ἄλλο δὲ ἐν ἄλλῳ; Καὶ τίνα ποτὲ ταῦτα ἢ τοῦτο; Τὰ μὲν γὰρ οὐ παρ᾿ αὐτῶν τῶν ὐποκειμένων καλά, οἷον τὰ σώματα, ἀλλὰ μεθέξει, τὰ δὲ κάλλη αὐτά, ὥσπερ ἀρετῆς ᾑ φύσις. Σώματα μὲν γὰρ τὰ αὐτὰ ὁτὲ μὲν καλά, ὁτὲ δὲ οὐ καλὰ φαίνεται, ὡς ἄλλου ὄντος τοῦ σώματα εἶναι, ἄλλου δὲ τοῦ καλά. Τί οὖν ἐστι τοῦτο τὸ παρὸν τοῖς σώμασι; Πρῶτον γὰρ περὶ τούτου σκεπτέον. Τί οὖν ἐστιν, ὃ κινεῖ τὰς ὄψεις τῶν θεωμένων καὶ ἐπιστρέφει πρὸς αὑτὸ καὶ ἕλκει καὶ εὐφραίνεσθαι τῇ θέᾳ ποιεῖ; Τοῦτο γὰρ εὑρόντες τάχ᾿ ἂν ἐπιβάθρᾳ αὐτῷ χρώμενοι καὶ τὰ ἄλλα θεασαίμεθα. Λέγεται μὲν δὴ παρὰ πάντων, ὡς εἰπεῖν, ὡς συμμετρία τῶν μερῶν πρὸς ἄλληλα καὶ πρὸς τὸ ὅλον τὸ τε τῆς εὐχροίας προστεθὲν τὸ πρὸς τὴν ὄψιν κάλλος ποιεῖ καὶ ἔστιν αὐτοῖς καὶ ὅλως τοῖς ἄλλοις πᾶσι τὸ καλοῖς εἶναι τὸ συμμέτροις καὶ μεμετρημένοις ὑπάρχειν· οἷς ἁπλοῦν οὐδέν, μόνον δὲ τὸ σύνθετον ἐξ ἀνάγκης καλὸν ὑπάρξει· τό τε ὅλον ἔσται καλὸν αὐτοῖς, τὰ δὲ μέρη ἕκαστα οὐχ ἕξει παρ᾿ ἑαυτῶν τὸ καλὰ εἶναι, πρὸς δὲ τὸ ὅλον συντελοῦντα, ἵνα καλὸν ᾖ· καίτοι δεῖ, εἴπερ ὅλον, καὶ τὰ μέρη καλὰ εἶναι· οὐ γὰρ δὴ ἐξ αἰσχρῶν, ἀλλὰ πάντα κατειληφέναι τὸ κάλλος. Τά τε χρώματα αὐτοῖς τὰ καλά, οἷον καὶ τὸ τοῦ ἡλίου φῶς, ἁπλᾶ ὄντα, οὐκ ἐκ συμμετρίας ἔχοντα τὸ κάλλος ἔξω ἔσται τοῦ καλὰ εἶναι. Χρωσός τε δὴ πῶς καλόν; Καὶ νυκτὸς ἡ ἀστραπὴ ἢ ἄστρα ὁρᾶσθαι τῷ καλά; Ἐπί τε τῶν φωνῶν ὡσαύτως τὸ ἁπλοῦν οἰχήσεται, καίτοι ἑκάστου φθόγγου πολλαχῇ τῶν ἐν τῷ ὅλῳ καλῷ καλοῦ καὶ αὐτοῦ ὄντος. Ὅταν δὲ δὴ τῆς αὐτῆς συμμετρίας μενούσης ὁτὲ μὲν καλὸν τὸ αὐτὸ πρόσωπον, ὁτὲ δὲ μὴ φαίνηται, πῶς οὐκ ἄλλο δεῖ ἐπὶ τῷ συμμέτρῳ λέγειν τὸ καλὸν εἶναι, καὶ τὸ σύμμετρον καλὸν εἶναι δι᾿ ἄλλο; Εἰ δὲ δὴ μεταβαίνοντες καὶ ἐπὶ τὰ ἐπιτηδεύματα καὶ τοὺς λόγους τοὺς καλοὺς τὸ σύμμετρον καὶ ἐπ᾿ αὐτῶν αἰτιῷντο, τίς ἂν λέγοιτο ἐν ἐπιτηδεύμασι συμμετρία καλοῖς ἢ νόμοις ἢ μαθήμασιν ἢ ἐπιστήμαις; Θεωρήματα γὰρ σύμμετρα πρὸς ἄλληλα πῶς ἂν εἴη; Εἰ δ᾿ ὅτι σύμφωνά ἐστι, καὶ κακῶν ἔσται ὁμολογία τε καὶ συμφωνία. Τῷ γὰρ τὴν σωφροσύνην ἠλιθιότητα εἶναι τὸ τὴν δικαιοσύνην γενναίαν εἶναι εὐήθειαν σύμφωνον καὶ συνῳδὸν καὶ ὁμολογεῖ πρὸς ἄλληλα. Κάλλος μὲν οὖν ψυχῆς ἀρετὴ πᾶσα καὶ κάλλος ἀληθινώτερον ἢ τὰ πρόσθεν· ἀλλὰ πῶς σύμμετρα; Οὔτε γὰρ ὡς μεγέθη οὔτε ὡς ἀριθμὸς σύμμετρα· καὶ πλειόνων μερῶν τῆς ψυχῆς ὄντων, ἐν ποίῳ γὰρ λόγῳ ἡ σύνθεσις ἢ ἡ κρᾶσις τῶν μερῶν ἢ τῶν θεωρημάτων; Τὸ δὲ τοῦ νοῦ κάλλος μονουμένου τί ἂν εἴη;

[2] Πάλιν οὖν ἀναλαβόντες λέγωμεν τί δῆτά ἐστι τὸ ἐν τοῖς σώμασι καλὸν πρῶτον. Ἔστι μὲν γάρ τι καὶ βολῇ τῇ πρώτῃ αἰσθητὸν γινόμενον καὶ ἡ ψυχὴ ὥσπερ συνεῖσα λέγει καὶ ἐπιγνοῦσα ἀποδέχεται καὶ οἷον συναρμόττεται. Πρὸς δὲ τὸ αἰσχρὸν προσβαλοῦσα ἀνίλλεται καὶ ἀρνεῖται καὶ ἀνανεύει ἀπ᾿ αὐτοῦ οὐ συμφωνοῦσα καὶ ἀλλοτριουμένη. Φαμὲν δή, ὡς τὴν φύσιν οὖσα ὅπερ ἐστὶ καὶ πρὸς τῆς κρείττονος ἐν τοῖς οὖσιν οὐσίας, ὅ τι ἂν ἴδῃ συγγενὲς ἢ ἴχνος τοῦ συγγενοῦς, χαίρει τε καὶ διεπτόηται καὶ ἀναφέρει πρὸς ἑαυτὴν καὶ ἀναμιμνήσκεται ἑαυτῆς καὶ τῶν ἑαυτῆς. Τίς οὖν ὁμοιότης τοῖς τῇδε πρὸς τὰ ἐκεῖ καλά; καὶ γάρ, εἰ ὁμοιότης, ὅμοια μὲν ἔστω· πῶς δὲ καλὰ κἀκεῖνα καὶ ταῦτα; Μετοχῇ εἴδους φαμὲν ταῦτα. Πᾶν μὲν γὰρ τὸ ἄμορφον πεφυκὸς μορφὴν καὶ εἶδος δέχεσθαι ἄμοιρον ὂν λόγου καὶ εἴδους αἰσχρὸν καὶ ἔξω θείου λόγου· καὶ τὸ πάντη αἰσχρὸν τοῦτο. Αἰσχρὸν δὲ καὶ τὸ μὴ κρατηθὲν ὑπὸ μορφῆς καὶ λόγου οὐκ ἀνασχομένης τῆς ὕλης τὸ πάντη κατὰ τὸ εἶδος μορφοῦσθαι. Προσιὸν οὖν τὸ εἶδος τὸ μὲν ἐκ πολλῶν ἐσόμενον μερῶν ἓν συνθέσει συνέταξέ τε καὶ εἰς μίαν συντέλειαν ἤγαγε καὶ ἓν τῇ ὁμολογίᾳ πεποίηκεν, ἐπείπερ ἓν ἦν αὐτὸ ἕν τε ἔδει τὸ μορφούμενον εἶναι ὡς δυνατὸν αὐτῷ ἐκ πολλῶν ὄντι. Ἵδρυται οὖν ἐπ᾿ αὐτοῦ τὸ κάλλος ἤδη εἰς ἓν συναχθέντος καὶ τοῖς μέρεσι διδὸν ἑαυτὸ καὶ τοῖς ὅλοις. Ὅταν δὲ ἕν τι καὶ ὁμοιομερὲς καταλάβῃ, εἰς ὅλον δίδωσι τὸ αὐτό· οἷον ὁτὲ μὲν πάσῃ οἰκίᾳ μετὰ τῶν μερῶν, ὁτὲ δὲ ἑνὶ λίθῳ διδοίη τις φύσις τὸ κάλλος, τῇ δὲ ἡ τέχνη. Οὕτω μὲν δὴ τὸ καλὸν σῶμα γίγνεται λόγου ἀπὸ θείων ἐλθόντος κοινωνία.

[3] Γινώσκει δὲ αὐτὸ ἡ ἐπ᾿ αὐτῷ δύναμις τεταγμένη, ἧς οὐδὲν κυριώτερον εἰς κρίσιν τῶν ἑαυτῆς, ὅταν καὶ ἡ ἄλλη συνεπικρίνῃ ψυχή, τάχα δὲ καὶ αὕτη λέγῃ συναρμόττουσα τῷ παρ᾿ αὐτῇ εἴδει κἀκείνῳ πρὸς τὴν κρίσιν χρωμένη ὥσπερ κανόνι τοῦ εὐθέος. Πῶς δὲ συμφωνεῖ τὸ περὶ σῶμα τῷ πρὸ σώματος; Πῶς δὲ τὴν ἔξω οἰκίαν τῷ ἔνδον οἰκίας εἴδει ὁ οἰκοδομικὸς συναρμόσας καλὴν εἶναι λέγει; Ἤ ὅτι ἐστὶ τὸ ἔξω, εἰ χωρίσειας τοὺς λίθους, τὸ ἔνδον εἶδος μερισθὲν τῷ ἔξω ὕλης ὄγκῳ, ἀμερὲς ὂν ἐν πολλοῖς φανταζόμενον. Ὅταν οὖν καὶ ἡ αἴσθησις τὸ ἐν σώμασιν εἶδος ἴδῃ συνδησάμενον καὶ κρατῆσαν τῆς φύσεως τῆς ἐναντίας ἀμόρφου οὔσης καὶ μορφὴν ἐπὶ ἄλλαις μορφαῖς ἐκπρεπῶς ἐποχουμένην, συνελοῦσα ἀθρόον αὐτὸ τὸ πολλαχῇ ἀνήνεγκέ τε καὶ εἰσήγαγεν εἰς τὸ εἴσω ἀμερὲς ἤδη καὶ ἔδωκε τῷ ἔνδον σύμφωνον καὶ συναρμόττον καὶ φίλον· οἷα ἀνδρὶ ἀγαθῷ προσηνὲς ἐπιφαινόμενον ἀρετῆς ἴχνος ἐν νέῳ συμφωνοῦν τῷ ἀληθεῖ τῷ ἔνδον. Τὸ δὲ τῆς χρόας κάλλος ἁπλοῦν μορφῇ καὶ κρατήσει τοῦ ἐν ὕλῃ σκοτεινοῦ παρουσίᾳ φωτὸς ἀσωμάτου καὶ λόγου καὶ εἴδους ὄντος. Ὅθεν καὶ τὸ πῦρ αὐτὸ παρὰ τὰ ἄλλα σώματα καλόν, ὅτι τάξιν εἴδους πρὸς τὰ ἄλλα στοιχεῖα ἔχει, ἄνω μὲν τῇ θέσει, λεπτότατον δὲ τῶν ἄλλων σωμάτων, ὡς ἐγγὺς ὂν τοῦ ἀσωμάτου, μόνον δὲ αὐτὸ οὐκ εἰσδεχόμενον τὰ ἄλλα· τὰ δ᾿ ἄλλα δέχεται αὐτό. Θερμαίνεται γὰρ ἐκεῖνα, οὐ ψύχεται δὲ τοῦτο, κέχρωσταί τε πρώτως, τὰ δ᾿ ἄλλα παρὰ τούτου τὸ εἶδος τῆς χρόας λαμβάνει. Λάμπει οὖν καὶ στίλβει, ὡς ἂν εἶδος ὄν. Τὸ δὲ μὴ κρατοῦν ἐξίτηλον τῷ φωτὶ γινόμενον οὐκέτι καλόν, ὡς ἂν τοῦ εἴδους τῆς χρόας οὐ μετέχον ὅλου. Αἱ δὲ ἁρμονίαι αἱ ἐν ταῖς φωναῖς αἱ ἀφανεῖς τὰς φανερὰς ποιήσασαι καὶ ταύτῃ τὴν ψυχὴν σύνεσιν καλοῦ λαβεῖν ἐποίησαν, ἐν ἄλλῳ τὸ αὐτὸ δείξασαι. Παρακολουθεῖ δὲ ταῖς αἰσθηταῖς μετρεῖσθαι ἀριθμοῖς ἐν λόγῳ οὐ παντί, ἀλλ᾿ ὃς ἂν ᾖ δουλεύων εἰς ποίησιν εἴδους εἰς τὸ κρατεῖν. Καὶ περὶ μὲν τῶν ἐν αἰσθήσει καλῶν, ἃ δὴ εἴδωλα καὶ σκιαὶ οἷον ἐκδραμοῦσαι εἰς ὕλην ἐλθοῦσαι ἐκόσμησάν τε καὶ διεπτόησαν φανεῖσαι, τοσαῦτα.

[4] Περὶ δὲ τῶν προσωτέρω καλῶν, ἃ οὐκέτι αἴσθησις ὁρᾶν εἴληχε, ψυχὴ δὲ ἄνευ ὀργάνων ὁρᾷ καὶ λέγει, ἀναβαίνοντας δεῖ θεάσασθαι καταλιπόντας τὴν αἴσθησιν κάτω περιμένειν. Ὥσπερ δὲ ἐπὶ τῶν τῆς αἰσθήσεως καλῶν οὐκ ἦν περὶ αὐτῶν λέγειν τοῖς μήτε ἑωρακόσι μήθ᾿ ὡς καλῶν ἀντειλημμένοις, οἷον εἴ τινες ἐξ ἀρχῆς τυφλοὶ γεγονότες, τὸν αὐτὸν τρόπον οὐδὲ περὶ κάλλους ἐπιτηδευμάτων τοῖς μὴ ἀποδεξαμένοις τὸ τῶν ἐπιτηδευμάτων καὶ ἐπιστημῶν καὶ τῶν ἄλλων τῶν τοιούτων κάλλος, οὐδὲ περὶ ἀρετῆς φέγγους τοῖς μηδὲ φαντασθεῖσιν ὡς καλὸν τὸ τῆς δικαιοσύνης καὶ σωφροσύνης πρόσωπον, καὶ οὔτε ἕσπερος οὔτε ἑῷος οὕτω καλά. Ἀλλὰ δεῖ ἰδόντας μὲν εἶναι ᾧ ψυχὴ τὰ τοιαῦτα βλέπει, ἰδόντας δὲ ἡσθῆναι καὶ ἔκπληξιν λαβεῖν καὶ πτοηθῆναι πολλῷ μᾶλλον ἢ ἐν τοῖς πρόσθεν, ἅτε ἀληθινῶν ἤδη ἐφαπτομένους. Ταῦτα γὰρ δεῖ τὰ πάθη γενέσθαι περὶ τὸ ὅ τι ἂν ᾖ καλόν, θάμβος καὶ ἔκπληξιν ἡδεῖαν καὶ πόθον καὶ ἔρωτα καὶ πτόησιν μεθ᾿ ἡδονῆς. Ἔστι δὲ ταῦτα παθεῖν καὶ πάσχουσιν αἱ ψυχαὶ καὶ περὶ τὰ μὴ ὁρώμενα πᾶσαι μέν, ὡς εἰπεῖν, μᾶλλον μέντοι αἱ τούτων ἐρωτικώτεραι, ὥσπερ καὶ ἐπὶ τῶν σωμάτων πάντες μὲν ὁρῶσι, κεντοῦνται δ᾿ οὐκ ἴσα, ἀλλ᾿ εἰσὶν οἳ μάλιστα, οἳ καὶ λέγονται ἐρᾶν.

Volto femminile. Testa, marmo, 470-460 a.C. ca. dal Tempio E di Selinunte. Palermo, Museo Archeologico Regionale.
Volto femminile. Testa, marmo, 470-460 a.C. ca. dal Tempio E di Selinunte. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

[5] Τῶν δὴ καὶ περὶ τὰ ἐν οὐκ αἰσθήσει ἐρωτικῶν ἀναπυνθάνεσθαι δεῖ· τί πάσχετε περὶ τὰ λεγόμενα ἐπιτηδεύματα καλὰ καὶ τρόπους καλοὺς καὶ ἤθη σώφρονα καὶ ὅλως ἔργα ἀρετῆς καὶ διαθέσεις καὶ τὸ τῶν ψυχῶν κάλλος; Καὶ ἑαυτοὺς δὲ ἰδόντες τὰ ἔνδον καλοὺς τί πάσχετε; Καὶ πῶς ἀναβακχεύεσθε καὶ ἀνακινεῖσθε καὶ ἑαυτοῖς συνεῖναι ποθεῖτε συλλεξάμενοι αὑτοὺς ἀπὸ τῶν σωμάτων; Πάσχουσι μὲν γὰρ ταῦτα οἱ ὄντως ἐρωτικοί. Τί δέ ἐστι, περὶ ὃ ταῦτα πάσχουσιν; Οὐ σχῆμα, οὐ χρῶμα, οὐ μέγεθός τι, ἀλλὰ περὶ ψυχήν, ἀχρώματον μὲν αὐτήν, ἀχρώματον δὲ καὶ τὴν σωφροσύνην ἔχουσαν καὶ τὸ ἄλλο τῶν ἀρετῶν φέγγος, ὅταν ἢ ἐν αὐτοῖς ἴδητε, ἢ καὶ ἐν ἄλλῳ θεάσησθε μέγεθος ψυχῆς καὶ ἦθος δίκαιον καὶ σωφροσύνην καθαρὰν καὶ ἀνδρίαν βλοσυρὸν ἔχουσαν πρόσωπον καὶ σεμνότητα καὶ αἰδῶ ἐπιθέουσαν ἐν ἀτρεμεῖ καὶ ἀκύμονι καὶ ἀπαθεῖ διαθέσει, ἐπὶ πᾶσι δὲ τούτοις τὸν θεοειδῆ νοῦν ἐπιλάμποντα. Ταῦτα οὖν ἀγάμενοι καὶ φιλοῦντες πῶς αὐτὰ λέγομεν καλά; Ἔστι μὲν γὰρ καὶ φαίνεται καὶ οὐ μήποτε ὁ ἰδὼν ἄλλο τι φῆι ἢ τὰ ὄντως ὄντα ταῦτα εἶναι. Τί ὄντα ὄντως; Ἢ καλά. Ἀλλ᾽ ἔτι ποθεῖ ὁ λόγος, τί ὄντα πεποίηκε τὴν ψυχὴν εἶναι ἐράσμιον· τί τὸ ἐπὶ πάσαις ἀρεταῖς διαπρέπον οἷον φῶς; Βούλει δὴ καὶ τὰ ἐναντία λαβών, τὰ περὶ ψυχὴν αἰσχρὰ γινόμενα, ἀντιπαραθεῖναι; Τάχα γὰρ ἂν συμβάλλοιτο πρὸς ὃ ζητοῦμεν τὸ αἰσχρὸν ὅ τί ποτέ ἐστι καὶ διότι φανέν. Ἔστω δὴ ψυχὴ αἰσχρά, ἀκόλαστός τε καὶ ἄδικος, πλείστων μὲν ἐπιθυμιῶν γέμουσα, πλείστης δὲ ταραχῆς, ἐν φόβοις διὰ δειλίαν, ἐν φθόνοις διὰ μικροπρέπειαν, πάντα φρονοῦσα ἃ δὴ καὶ φρονεῖ θνητὰ καὶ ταπεινά, σκολιὰ πανταχοῦ, ἡδονῶν οὐ καθαρῶν φίλη, ζῶσα ζωὴν τοῦ ὅ τι ἂν πάθηι διὰ σώματος ὡς ἡδὺ λαβοῦσα αἶσχος. Αὐτὸ τοῦτο τὸ αἶσχος αὐτῆι ἆρα οὐ προσγεγονέναι οἷον ἐπακτὸν καλὸν φήσομεν, ὃ ἐλωβήσατο μὲν αὐτῆι, πεποίηκε δὲ αὐτὴν ἀκάθαρτον καὶ πολλῶι τῶι κακῶι συμπεφυρμένην, οὐδὲ ζωὴν ἔτι ἔχουσαν οὐδὲ αἴσθησιν καθαράν, ἀλλὰ τῶι μίγματι τοῦ κακοῦ ἀμυδρᾶι τῆι ζωῆι κεχρημένην καὶ πολλῶι τῶι θανάτωι κεκραμένην, οὐκέτι μὲν ὁρῶσαν ἃ δεῖ ψυχὴν ὁρᾶν, οὐκέτι δὲ ἐωμένην ἐν αὐτῆι μένειν τῶι ἕλκεσθαι ἀεὶ πρὸς τὸ ἔξω καὶ τὸ κάτω καὶ τὸ σκοτεινόν; Ἀκάθαρτος δή, οἶμαι, οὖσα καὶ φερομένη πανταχοῦ ὁλκαῖς πρὸς τὰ τῆι αἰσθήσει προσπίπτοντα, πολὺ τὸ τοῦ σώματος ἔχουσα ἐγκεκραμένον, τῶι ὑλικῶι πολλῶι συνοῦσα καὶ εἰς αὐτὴν εἰσδεξαμένη εἶδος ἕτερον ἠλλάξατο κράσει τῆι πρὸς τὸ χεῖρον· οἷον εἴ τις δὺς εἰς πηλὸν ἢ βόρβορον τὸ μὲν ὅπερ εἶχε κάλλος μηκέτι προφαίνοι, τοῦτο δὲ ὁρῶιτο, ὃ παρὰ τοῦ πηλοῦ ἢ βορβόρου ἀπεμάξατο· ὧι δὴ τὸ αἰσχρὸν προσθήκηι τοῦ ἀλλοτρίου προσῆλθε καὶ ἔργον αὐτῶι, εἴπερ ἔσται πάλιν καλός, ἀπονιψαμένωι καὶ καθηραμένωι ὅπερ ἦν εἶναι. Αἰσχρὰν δὴ ψυχὴν λέγοντες μίξει καὶ κράσει καὶ νεύσει τῆι πρὸς τὸ σῶμα καὶ ὕλην ὀρθῶς ἂν λέγοιμεν. Καὶ ἔστι τοῦτο αἶσχος ψυχῆι μὴ καθαρᾶι μηδὲ εἰλικρινεῖ εἶναι ὥσπερ χρυσῶι, ἀναπεπλῆσθαι δὲ τοῦ γεώδους, ὃ εἴ τις ἀφέλοι, καταλέλειπται χρυσὸς καὶ ἔστι καλός, μονούμενος μὲν τῶν ἄλλων, αὑτῶι δὲ συνὼν μόνωι. Τὸν αὐτὸν δὴ τρόπον καὶ ψυχή, μονωθεῖσα μὲν ἐπιθυμιῶν, ἃς διὰ τὸ σῶμα ἔχει, ὧι ἄγαν προσωμίλει, ἀπαλλαγεῖσα δὲ τῶν ἄλλων παθῶν καὶ καθαρθεῖσα ἃ ἔχει σωματωθεῖσα, μείνασα μόνη τὸ αἰσχρὸν τὸ παρὰ τῆς ἑτέρας φύσεως ἅπαν ἀπεθήκατο.

[6] Ἔστι γὰρ δή, ὡς ὁ παλαιὸς λόγος, καὶ ἡ σωφροσύνη καὶ ἡ ἀνδρία καὶ πᾶσα ἀρετὴ κάθαρσις καὶ ἡ φρόνησις αὐτή. Διὸ καὶ αἱ τελεταὶ ὀρθῶς αἰνίττονται τὸν μὴ κεκαθαρμένον καὶ εἰς Ἅιδου κείσεσθαι ἐν βορβόρωι, ὅτι τὸ μὴ καθαρὸν βορβόρωι διὰ κάκην φίλον· οἷα δὴ καὶ ὕες, οὐ καθαραὶ τὸ σῶμα, χαίρουσι τῶι τοιούτωι. Τί γὰρ ἂν καὶ εἴη σωφροσύνη ἀληθὴς ἢ τὸ μὴ προσομιλεῖν ἡδοναῖς τοῦ σώματος, φεύγειν δὲ ὡς οὐ καθαρὰς οὐδὲ καθαροῦ; Ἡ δὲ ἀνδρία ἀφοβία θανάτου. Ὁ δέ ἐστιν ὁ θάνατος χωρὶς εἶναι τὴν ψυχὴν τοῦ σώματος. Οὐ φοβεῖται δὲ τοῦτο, ὃς ἀγαπᾶι μόνος γενέσθαι. Μεγαλοψυχία δὲ δὴ ὑπεροψία τῶν τῆιδε. Ἡ δὲ φρόνησις νόησις ἐν ἀποστροφῆι τῶν κάτω, πρὸς δὲ τὰ ἄνω τὴν ψυχὴν ἄγουσα. Γίνεται οὖν ἡ ψυχὴ καθαρθεῖσα εἶδος καὶ λόγος καὶ πάντη ἀσώματος καὶ νοερὰ καὶ ὅλη τοῦ θείου, ὅθεν ἡ πηγὴ τοῦ καλοῦ καὶ τὰ συγγενῆ πάντα τοιαῦτα. Ψυχὴ οὖν ἀναχθεῖσα πρὸς νοῦν ἐπὶ τὸ μᾶλλόν ἐστι καλόν. Νοῦς δὲ καὶ τὰ παρὰ νοῦ τὸ κάλλος αὐτῆι οἰκεῖον καὶ οὐκ ἀλλότριον, ὅτι τότε ἐστὶν ὄντως μόνον ψυχή. Διὸ καὶ λέγεται ὀρθῶς τὸ ἀγαθὸν καὶ καλὸν τὴν ψυχὴν γίνεσθαι ὁμοιωθῆναι εἶναι θεῶι, ὅτι ἐκεῖθεν τὸ καλὸν καὶ ἡ μοῖρα ἡ ἑτέρα τῶν ὄντων. Μᾶλλον δὲ τὰ ὄντα ἡ καλλονή ἐστιν, ἡ δ᾽ ἑτέρα φύσις τὸ αἰσχρόν, τὸ δ᾽ αὐτὸ καὶ πρῶτον κακόν, ὥστε κἀκείνωι ταὐτὸν ἀγαθόν τε καὶ καλόν, ἢ τἀγαθόν τε καὶ καλλονή. Ὁμοίως οὖν ζητητέον καλόν τε καὶ ἀγαθὸν καὶ αἰσχρόν τε καὶ κακόν. Καὶ τὸ πρῶτον θετέον τὴν καλλονήν, ὅπερ καὶ τἀγαθόν· ἀφ᾽ οὗ νοῦς εὐθὺς τὸ καλόν· ψυχὴ δὲ νῶι καλόν· τὰ δὲ ἄλλα ἤδη παρὰ ψυχῆς μορφούσης καλά, τά τε ἐν ταῖς πράξεσι τά τε ἐν τοῖς ἐπιτηδεύμασι. Καὶ δὴ καὶ τὰ σώματα, ὅσα οὕτω λέγεται, ψυχὴ ἤδη ποιεῖ· ἅτε γὰρ θεῖον οὖσα καὶ οἷον μοῖρα τοῦ καλοῦ, ὧν ἂν ἐφάψηται καὶ κρατῆι, καλὰ ταῦτα, ὡς δυνατὸν αὐτοῖς μεταλαβεῖν, ποιεῖ.

[7] Ἀναβατέον οὖν πάλιν ἐπὶ τὸ ἀγαθόν, οὗ ὀρέγεται πᾶσα ψυχή. Εἴ τις οὖν εἶδεν αὐτό, οἶδεν ὃ λέγω, ὅπως καλόν. Ἐφετὸν μὲν γὰρ ὡς ἀγαθὸν καὶ ἡ ἔφεσις πρὸς τοῦτο, τεῦξις δὲ αὐτοῦ ἀναβαίνουσι πρὸς τὸ ἄνω καὶ ἐπιστραφεῖσι καὶ ἀποδυομένοις ἃ καταβαίνοντες ἠμφιέσμεθα· οἷον ἐπὶ τὰ ἅγια τῶν ἱερῶν τοῖς ἀνιοῦσι καθάρσεις τε καὶ ἱματίων ἀποθέσεις τῶν πρὶν καὶ τὸ γυμνοῖς ἀνιέναι· ἕως ἄν τις παρελθὼν ἐν τῆι ἀναβάσει πᾶν ὅσον ἀλλότριον τοῦ θεοῦ αὐτῶι μόνωι αὐτὸ μόνον ἴδηι εἰλικρινές, ἁπλοῦν, καθαρόν, ἀφ᾽ οὗ πάντα ἐξήρτηται καὶ πρὸς αὐτὸ βλέπει καὶ ἔστι καὶ ζῆι καὶ νοεῖ· ζωῆς γὰρ αἴτιος καὶ νοῦ καὶ τοῦ εἶναι. Τοῦτο οὖν εἴ τις ἴδοι, ποίους ἂν ἴσχοι ἔρωτας, ποίους δὲ πόθους, βουλόμενος αὐτῶι συγκερασθῆναι, πῶς δ᾽ ἂν ἐκπλαγείη μεθ᾽ ἡδονῆς; Ἔστι γὰρ τῶι μὲν μήπω ἰδόντι ὀρέγεσθαι ὡς ἀγαθοῦ· τῶι δὲ ἰδόντι ὑπάρχει ἐπὶ καλῶι ἄγασθαί τε καὶ θάμβους πίμπλασθαι μεθ᾽ ἡδονῆς καὶ ἐκπλήττεσθαι ἀβλαβῶς καὶ ἐρᾶν ἀληθῆ ἔρωτα καὶ δριμεῖς πόθους καὶ τῶν ἄλλων ἐρώτων καταγελᾶν καὶ τῶν πρόσθεν νομιζομένων καλῶν καταφρονεῖν· ὁποῖον πάσχουσιν ὅσοι θεῶν εἴδεσιν ἢ δαιμόνων προστυχόντες οὐκέτ᾽ ἂν ἀποδέχοιντο ὁμοίως ἄλλων κάλλη σωμάτων. Τί δῆτα οἰόμεθα, εἴ τις αὐτὸ τὸ καλὸν θεῶιτο αὐτὸ ἐφ᾽ ἑαυτοῦ καθαρόν, μὴ σαρκῶν, μὴ σώματος ἀνάπλεων, μὴ ἐν γῆι, μὴ ἐν οὐρανῶι, ἵν᾽ ἦι καθαρόν; Καὶ γὰρ ἐπακτὰ πάντα ταῦτα καὶ μέμικται καὶ οὐ πρῶτα, παρ᾽ ἐκείνου δέ. Εἰ οὖν ἐκεῖνο, ὃ χορηγεῖ μὲν ἅπασιν, ἐφ᾽ ἑαυτοῦ δὲ μένον δίδωσι καὶ οὐ δέχεταί τι εἰς αὐτό, ἴδοι, μένων ἐν τῆι θέαι τοῦ τοιούτου καὶ ἀπολαύων αὐτοῦ ὁμοιούμενος, τίνος ἂν ἔτι δέοιτο καλοῦ; Τοῦτο γὰρ αὐτὸ μάλιστα κάλλος ὂν αὐτὸ καὶ τὸ πρῶτον ἐργάζεται τοὺς ἐραστὰς αὐτοῦ καλοὺς καὶ ἐραστοὺς ποιεῖ. Οὗ δὴ καὶ ἀγὼν μέγιστος καὶ ἔσχατος ψυχαῖς πρόκειται, ὑπὲρ οὗ καὶ ὁ πᾶς πόνος, μὴ ἀμοίρους γενέσθαι τῆς ἀρίστης θέας, ἧς ὁ μὲν τυχὼν μακάριος ὄψιν μακαρίαν τεθεαμένος· ἀτυχὴς δὲ [οὗτος] ὁ μὴ τυχών. Οὐ γὰρ ὁ χρωμάτων ἢ σωμάτων καλῶν μὴ τυχὼν οὐδὲ δυνάμεως οὐδὲ ἀρχῶν οὐδὲ ὁ βασιλείας μὴ τυχὼν ἀτυχής, ἀλλ᾽ ὁ τούτου καὶ μόνου, ὑπὲρ οὗ τῆς τεύξεως καὶ βασιλείας καὶ ἀρχὰς γῆς ἁπάσης καὶ θαλάττης καὶ οὐρανοῦ προέσθαι χρεών, εἰ καταλιπών τις ταῦτα καὶ ὑπεριδὼν εἰς ἐκεῖνο στραφεὶς ἴδοι.

[8] Τίς οὖν ὁ τρόπος; Τίς μηχανή; Πῶς τις θεάσηται κάλλος ἀμήχανον οἷον ἔνδον ἐν ἁγίοις ἱεροῖς μένον οὐδὲ προιὸν εἰς τὸ ἔξω, ἵνα τις καὶ βέβηλος ἴδηι; Ἴτω δὴ καὶ συνεπέσθω εἰς τὸ εἴσω ὁ δυνάμενος ἔξω καταλιπὼν ὄψιν ὀμμάτων μηδ᾽ ἐπιστρέφων αὑτὸν εἰς τὰς προτέρας ἀγλαίας σωμάτων. Ἰδόντα γὰρ δεῖ τὰ ἐν σώμασι καλὰ μήτοι προστρέχειν, ἀλλὰ γνόντας ὥς εἰσιν εἰκόνες καὶ ἴχνη καὶ σκιαὶ φεύγειν πρὸς ἐκεῖνο οὗ ταῦτα εἰκόνες. Εἰ γάρ τις ἐπιδράμοι λαβεῖν βουλόμενος ὡς ἀληθινόν, οἷα εἰδώλου καλοῦ ἐφ᾽ ὕδατος ὀχουμένου, ὁ λαβεῖν βουληθείς, ὥς πού τις μῦθος, δοκῶ μοι, αἰνίττεται, δὺς εἰς τὸ κάτω τοῦ ῥεύματος ἀφανὴς ἐγένετο, τὸν αὐτὸν δὴ τρόπον ὁ ἐχόμενος τῶν καλῶν σωμάτων καὶ μὴ ἀφιεὶς οὐ τῶι σώματι, τῆι δὲ ψυχῆι καταδύσεται εἰς σκοτεινὰ καὶ ἀτερπῆ τῶι νῶι βάθη, ἔνθα τυφλὸς ἐν Ἅιδου μένων καὶ ἐνταῦθα κἀκεῖ σκιαῖς συνέσται. Φεύγωμεν δὴ φίλην ἐς πατρίδα, ἀληθέστερον ἄν τις παρακελεύοιτο. Τίς οὖν ἡ φυγὴ καὶ πῶς; Ἀναξόμεθα οἷον ἀπὸ μάγου Κίρκης φησὶν ἢ Καλυψοῦς Ὀδυσσεὺς αἰνιττόμενος, δοκεῖ μοι, μεῖναι οὐκ ἀρεσθείς, καίτοι ἔχων ἡδονὰς δι᾽ ὀμμάτων καὶ κάλλει πολλῶι αἰσθητῶι συνών. Πατρὶς δὴ ἡμῖν, ὅθεν παρήλθομεν, καὶ πατὴρ ἐκεῖ. Τίς οὖν ὁ στόλος καὶ ἡ φυγή; Οὐ ποσὶ δεῖ διανύσαι· πανταχοῦ γὰρ φέρουσι πόδες ἐπὶ γῆν ἄλλην ἀπ᾽ ἄλλης· οὐδέ σε δεῖ ἵππων ὄχημα ἤ τι θαλάττιον παρασκευάσαι, ἀλλὰ ταῦτα πάντα ἀφεῖναι δεῖ καὶ μὴ βλέπειν, ἀλλ᾽ οἷον μύσαντα ὄψιν ἄλλην ἀλλάξασθαι καὶ ἀνεγεῖραι, ἣν ἔχει μὲν πᾶς, χρῶνται δὲ ὀλίγοι.

Policleto. «Efebo Westmacott». Copia romana in marmo da originale greco, 450 a.C. ca. London, British Museum.
Policleto. «Efebo Westmacott». Copia romana in marmo da originale greco, 450 a.C. ca. London, British Museum.

[9] Τί οὖν ἐκείνη ἡ ἔνδον βλέπει; Ἄρτι μὲν ἐγειρομένη οὐ πάνυ τὰ λαμπρὰ δύναται βλέπειν. Ἐθιστέον οὖν τὴν ψυχὴν αὐτὴν πρῶτον μὲν τὰ καλὰ βλέπειν ἐπιτηδεύματα· εἶτα ἔργα καλά, οὐχ ὅσα αἱ τέχναι ἐργάζονται, ἀλλ᾽ ὅσα οἱ ἄνδρες οἱ λεγόμενοι ἀγαθοί· εἶτα ψυχὴν ἴδε τῶν τὰ ἔργα τὰ καλὰ ἐργαζομένων. Πῶς ἂν οὖν ἴδοις ψυχὴν ἀγαθὴν οἷον τὸ κάλλος ἔχει; Ἄναγε ἐπὶ σαυτὸν καὶ ἴδε· κἂν μήπω σαυτὸν ἴδηις καλόν, οἷα ποιητὴς ἀγάλματος, ὃ δεῖ καλὸν γενέσθαι, τὸ μὲν ἀφαιρεῖ, τὸ δὲ ἀπέξεσε, τὸ δὲ λεῖον, τὸ δὲ καθαρὸν ἐποίησεν, ἕως ἔδειξε καλὸν ἐπὶ τῶι ἀγάλματι πρόσωπον, οὕτω καὶ σὺ ἀφαίρει ὅσα περιττὰ καὶ ἀπεύθυνε ὅσα σκολιά, ὅσα σκοτεινὰ καθαίρων ἐργάζου εἶναι λαμπρὰ καὶ μὴ παύσηι τεκταίνων τὸ σὸν ἄγαλμα, ἕως ἂν ἐκλάμψειέ σοι τῆς ἀρετῆς ἡ θεοειδὴς ἀγλαία, ἕως ἂν ἴδηις σωφροσύνην ἐν ἁγνῶι βεβῶσαν βάθρωι. Εἰ γέγονας τοῦτο καὶ εἶδες αὐτὸ καὶ σαυτῶι καθαρὸς συνεγένου οὐδὲν ἔχων ἐμπόδιον πρὸς τὸ εἷς οὕτω γενέσθαι οὐδὲ σὺν αὐτῶι ἄλλο τι ἐντὸς μεμιγμένον ἔχων, ἀλλ᾽ ὅλος αὐτὸς φῶς ἀληθινὸν μόνον, οὐ μεγέθει μεμετρημένον οὐδὲ σχήματι εἰς ἐλάττωσιν περιγραφὲν οὐδ᾽ αὖ εἰς μέγεθος δι᾽ ἀπειρίας αὐξηθέν, ἀλλ᾽ ἀμέτρητον πανταχοῦ, ὡς ἂν μεῖζον παντὸς μέτρου καὶ παντὸς κρεῖσσον ποσοῦ· εἰ τοῦτο γενόμενον σαυτὸν ἴδοις, ὄψις ἤδη γενόμενος θαρσήσας περὶ σαυτῶι καὶ ἐνταῦθα ἤδη ἀναβεβηκὼς μηκέτι τοῦ δεικνύντος δεηθεὶς ἀτενίσας ἴδε· οὗτος γὰρ μόνος ὁ ὀφθαλμὸς τὸ μέγα κάλλος βλέπει. Ἐὰν δὲ ἴηι ἐπὶ τὴν θέαν λημῶν κακίαις καὶ οὐ κεκαθαρμένος ἢ ἀσθενής, ἀνανδρίαι οὐ δυνάμενος τὰ πάνυ λαμπρὰ βλέπειν, οὐδὲν βλέπει, κἂν ἄλλος δεικνύηι παρὸν τὸ ὁραθῆναι δυνάμενον. Τὸ γὰρ ὁρῶν πρὸς τὸ ὁρώμενον συγγενὲς καὶ ὅμοιον ποιησάμενον δεῖ ἐπιβάλλειν τῆι θέαι. Οὐ γὰρ ἂν πώποτε εἶδεν ὀφθαλμὸς ἥλιον ἡλιοειδὴς μὴ γεγενημένος, οὐδὲ τὸ καλὸν ἂν ἴδοι ψυχὴ μὴ καλὴ γενομένη. Γενέσθω δὴ πρῶτον θεοειδὴς πᾶς καὶ καλὸς πᾶς, εἰ μέλλει θεάσασθαι θεόν τε καὶ καλόν. Ἥξει γὰρ πρῶτον ἀναβαίνων ἐπὶ τὸν νοῦν κἀκεῖ πάντα εἴσεται καλὰ τὰ εἴδη καὶ φήσει τὸ κάλλος τοῦτο εἶναι, τὰς ἰδέας· πάντα γὰρ ταύταις καλά, τοῖς νοῦ γεννήμασι καὶ οὐσίας. Τὸ δὲ ἐπέκεινα τούτου τὴν τοῦ ἀγαθοῦ λέγομεν φύσιν προβεβλημένον τὸ καλὸν πρὸ αὐτῆς ἔχουσαν. Ὥστε ὁλοσχερεῖ μὲν λόγωι τὸ πρῶτον καλόν· διαιρῶν δὲ τὰ νοητὰ τὸ μὲν νοητὸν καλὸν τὸν τῶν εἰδῶν φήσει τόπον, τὸ δ᾽ ἀγαθὸν τὸ ἐπέκεινα καὶ πηγὴν καὶ ἀρχὴν τοῦ καλοῦ. Ἢ ἐν τῶι αὐτῶι τἀγαθὸν καὶ καλὸν πρῶτον θήσεται· πλὴν ἐκεῖ τὸ καλόν.

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Sulla bellezza

Autore anonimo. Ermafrodito dormiente. Copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, restaurato da David Larique (1619) e riadattato da Gian Lorenzo Bernini. Paris, Musée du Louvre.
Autore anonimo. Ermafrodito dormiente. Copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, restaurato da David Larique (1619) e riadattato da Gian Lorenzo Bernini. Paris, Musée du Louvre.

[1] La bellezza si trova soprattutto nella vista; ed è anche nell’udito, nella combinazione delle parole e nella musica di tutti i generi; infatti, le melodie e i ritmi sono belli; ed è anche, risalendo dalla sensazione verso un dominio superiore, nelle occupazioni, nelle azioni e nelle maniere d’essere che sono belle; e ancora c’è bellezza nella scienza e nella virtù. C’è una bellezza anteriore a questa? Ecco il tema di cui adesso tratteremo. Che cosa fa in modo che la vista possa percepire la bellezza nei corpi e l’udito nei suoni? Perché tutto ciò che è intimamente legato all’anima è bello? Ed è a causa di una sola e identica bellezza che tutte le cose belle sono belle, oppure c’è una bellezza che è propria dei corpi e ce n’è un’altra per gli altri esseri? E che cosa sono queste differenti bellezze o, meglio, che cos’è la bellezza? Certi esseri, come i corpi, sono belli non per la loro stessa essenza, ma per partecipazione; altri sono belli in se stessi, come la virtù. E questo è evidente: infatti gli stessi corpi a volte sono belli, a volte non lo sono, come se l’essere del corpo fosse differente dall’essere della bellezza. Che cos’è questa bellezza che è presente nei corpi? Questa è la prima cosa da indagare. Che cos’è, dunque, che attira lo sguardo di chi osserva, e fa volgere il capo, e fa provare la gioia della contemplazione? Se noi scopriamo che cos’è questa bellezza dei corpi, forse potremo servircene come di una scala per contemplare le altre bellezze. Tutti, per così dire, affermano che la bellezza visibile nasce dalla simmetria delle parti, l’una in rapporto all’altra, e ciascuna in rapporto all’insieme; a questa simmetria si aggiunge la bellezza del colore; dunque, la bellezza di tutti gli esseri è la loro simmetria e la loro misura; per chi pensa così, l’essere bello non sarà un essere semplice, ma soltanto e necessariamente un essere composto; l’insieme di questo essere sarà bello e ciascuna parte non sarà bella in sé, ma solo nella sua armonia con le altre. Però, se l’insieme è bello, bisogna pure che le parti siano belle anch’esse; certo, una bella cosa non può essere fatta di parti brutte: tutto ciò che la compone deve esser bello. E ancora: se fosse vera questa opinione, i colori belli, come la luce del Sole, sarebbero al di fuori della bellezza, perché sono semplici e non derivano affatto la loro bellezza dall’armonia delle parti. E l’oro, come mai è bello? E le luci che vediamo nella notte che cosa le rende belle? La stessa cosa per i suoni: svanirebbe la bellezza di un suono semplice, mentre spesso ciascuno dei suoni che compongono un brano musicale è bello anche da solo. E quando si vede lo stesso viso, con le proporzioni che restano identiche, ma un po’ appare bello, un po’ brutto, come si fa a non riconoscere che la bellezza che è nelle proporzioni è cosa diversa dalle proporzioni stesse, e che è per un’altra ragione che un viso ben proporzionato è bello? E se, passando alle belle occupazioni e ai discorsi belli, si vuol ancora vedere nella simmetria la causa della loro bellezza, che cosa significa parlare di simmetria per le occupazioni belle, per le leggi, per le conoscenze o per le scienze? I teoremi sono simmetrici gli uni agli altri: è questo che si vuol dire? O che essi sono in accordo tra loro? Ma può esserci consenso e accordo anche tra opinioni malvagie. Questa opinione: «la temperanza è una stoltezza» è in pieno accordo con quest’altra: «La giustizia è un’ingenuità generosa». Tra l’una e l’altra c’è corrispondenza e concordanza. Da ultimo, la virtù certamente rende bella l’anima, ed essa è bella in modo più reale delle bellezze sensibili di cui abbiamo prima parlato: ma in che senso essa avrà delle parti simmetriche? Non ci sono affatto parti simmetriche nella virtù, al modo in cui le grandezze o i numeri sono simmetrici, anche se è vero che l’anima contiene una molteplicità di parti. Infatti, secondo quali rapporti nasce la combinazione o la fusione delle parti dell’anima e dei teoremi scientifici? E l’intelligenza, che è isolata: in che consisterà la sua bellezza?

[2] Riprendiamo dunque il nostro discorso e diciamo subito che cos’è la bellezza dei corpi. È una qualità che diventa sensibile sin dalla prima impressione; attraverso l’intuizione l’anima la percepisce, la riconosce e l’accoglie in sé, plasmandosi in qualche modo su di essa. Quando invece ha l’intuizione di una cosa brutta, l’anima si agita e la rifiuta, respingendola come cosa che non si accorda con lei e che le è estranea. Ora, noi affermiamo che l’anima, per sua natura, è affine all’essenza delle realtà superiori ed è lieta, contemplando gli esseri della sua stessa natura, o almeno le loro tracce; attratta dalla loro vista, le rapporta a se stessa e sale così al ricordo di sé e di ciò che le appartiene. Ebbene, quale somiglianza può esservi tra le cose di quaggiù e quelle superiori? Se c’è somiglianza, deve essere possibile osservarla. Per quanto riguarda la bellezza, qual è la natura delle une e delle altre? La nostra tesi è che le cose sensibili sono belle perché partecipano di un’idea. Infatti, tutto ciò che è destinato a ricevere una forma e un’idea, ma non l’ha ancora, è privo di qualsiasi bellezza ed è estraneo alla ragione divina, perché non partecipa né della sua razionalità né della sua forma: è il brutto in assoluto. Ma brutto è persino tutto ciò che è sé dominato dalla forma e dalla ragione, ma non perfettamente: e questo accade perché la materia non può essere plasmata in modo perfetto secondo un’idea, ricevendo così la forma. Dunque, l’idea si avvicina alla materia e pone ordine tra le parti multiple, di cui una cosa è fatta, combinandole insieme. L’idea le riconduce a un tutto ordinato, e crea l’unità accordandole loro, perché essa stessa è una, e l’essere che prende da lei la forma deve dunque essere uno, almeno nei limiti in cui può esserlo una cosa composta da molte parti. La bellezza prende così dimora in questo essere, così ricondotto a unità, ed essa si dà sia a tutte le sue singole parti sia all’insieme. Quando poi la bellezza prende dimora in un essere che è già uno ed omogeneo, allora essa splende interamente: è come se la potenza della natura, procedendo come fa l’uomo attraverso l’arte, donasse la bellezza, nel primo caso, a una casa tutta intera con tutte le sue parti, nel secondo caso a una sola pietra. Così la bellezza del corpo deriva dalla partecipazione alla razionalità che proviene da Dio.

Venere accovacciata. Marmo. Copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico del III secolo a.C. Córdoba, Museo Arqueológico y Etnológico.
Venere accovacciata. Marmo. Copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico del III secolo a.C. Córdoba, Museo Arqueológico y Etnológico.

[3] C’è nell’anima una facoltà che corrisponde alla razionale bellezza di origine divina, e, dunque, sa riconoscerla; è proprio questa la facoltà che permette all’anima di giudicare le cose che le sono affini, benché le altre facoltà contribuiscano anch’esse. Forse l’anima pronuncia questo giudizio commisurando la cosa bella all’idea di bellezza che è in lei, servendosi di questa idea come ci si serve di un regolo per giudicare se una linea è diritta. Ma come può la bellezza delle cose sensibili accordarsi con la bellezza dell’idea, che è anteriore ad ogni corpo? È lo stesso che chiedersi come l’architetto, che ha costruito la casa reale lasciandosi guidare dall’idea di casa che aveva nella sua mente, possa valutare che questa casa reale sia bella. Può farlo perché l’essere esteriore della casa – se si fa astrazione dalle pietre – non è che l’idea interiore che si è sì suddivisa nella massa esteriore della materia, ma continua a manifestare, pur nella molteplicità, il suo essere indivisibile. Dunque, quando percepiamo nei corpi un’idea che plasma e domina la natura materiale – di per sé informe e per nulla affine all’idea – e ci rendiamo conto che c’è nelle cose sensibili una forma che si distingue perché subordina a sé tutte le altre, allora noi percepiamo d’un sol colpo la sparsa molteplicità della materia, riportandola e riducendola all’unità interiore e indivisibile dell’idea che vive in noi. Così percepiamo la forma delle cose sensibili perché è adatta e intonata a noi, e la accettiamo come affine alla nostra unità interiore. Allo stesso modo, un uomo onesto percepisce la dolcezza che osserva sul volto di un giovane come un segno di virtù che si accorda con la sua stessa vera virtù, che è quella interiore. La bellezza di un colore, che è qualcosa di semplice, nasce da una forma che domina l’oscurità della materia e dalla presenza nel colore di una luce incorporea, che è ragione e idea. Per questo più degli altri corpi, il fuoco è bello in se stesso: paragonato agli altri elementi che compongono la materia, ha quasi il rango dell’idea. Infatti, ha in natura la posizione più alta, è il più leggero tra tutti i corpi, al punto da essere quasi immateriale. Rimane sempre puro, perché non accoglie in sé gli altri elementi che compongono la materia, mentre tutti gli altri accolgono in se stessi in fuoco: essi, infatti, possono riscaldarsi, mentre il fuoco non può raffreddarsi. Solo il fuoco per sua natura possiede i colori e da lui le altre cose ricevono la forma e il colore. Il fuoco brilla di luce chiara simile a un’idea. Le cose a lui inferiori quando si allontanano dalla sua luce cessano di essere belle, perché esse non partecipano interamente dell’idea del colore. Vi sono poi le armonie musicali impercettibili ai sensi che danno vita alle armonie sensibili. Per merito loro l’anima diventa capace di intuire la bellezza, grazie all’identità che esse introducono in un soggetto differente. Ne segue che le armonie sensibili derivano da rapporti numerici che non sono affatto rapporti qualsiasi, ma sono subordinati all’azione sovrana di una forma. Ho detto così abbastanza sulle bellezze sensibili, immagini e ombre che, in fuga dal loro mondo, vengono nella materia, la ordinano e le danno l’aspetto che tanto ci commuove.

[4] Quanto alle realtà belle di grado più elevato, non ci è dato di percepirle attraverso le sensazioni, ma la nostra anima le vede e sa giudicarle belle anche senza l’aiuto degli organi di senso. Ma per far questo dobbiamo elevare il nostro spirito e raggiungere lo stato della contemplazione, dopo aver lasciato in basso il mondo delle sensazioni. Non si può dir nulla sulla bellezza delle cose sensibili senza averle viste e riconosciute come belle (se si è, per esempio, ciechi dalla nascita); allo stesso modo, non si può dire se una maniera di comportarsi è bella se non si vive dentro di sé con amore questa bellezza; e così è per le scienze e le altre realtà simili. Dobbiamo divenire capaci di vedere come è bello il volto della giustizia e della temperanza: non sono così belle né la stella del mattino né la stella della sera. Solo un’anima capace di contemplazione sa intuire questo genere così elevato di bellezza. E l’intuizione provoca gioia, provoca commozione e stupore in modo ben più forte che nel caso precedente, perché adesso l’anima contempla la realtà che ha il carattere della verità. L’anima, nel contemplare le realtà belle, prova grandi emozioni: lo stupore, la dolce tensione dello spirito, il desiderio, l’amore, la deliziosa eccitazione. Ed è possibile provare queste emozioni (e l’anima le prova di fatto) anche contemplando le cose belle visibili solo allo spirito: tutte le anime le provano, ma soprattutto quelle più sensibili al richiamo dell’amore. Ed è così anche per la bellezza dei corpi: tutti la vedono, ma non tutti ne sentono egualmente il fascino. Coloro che lo sentono di più, ebbene quelli dobbiamo davvero dire che sono sensibili all’amore.

[5] Bisogna, quindi, chiarire che cos’è l’amore per le cose non sensibili. Che emozioni provate quando sentite che un’azione è bella? Che sentimenti provate di fronte al carattere di una persona bella, alle abitudini di vita moderate, e più in generale alla virtù e alla bellezza dell’anima? E vedendo la vostra stessa bellezza interiore, che cosa provate? Che cos’è questa follia, questa emozione, questo desiderio di stare raccolti in voi stessi quasi non aveste un corpo? Perché è questo che prova chi vive davvero l’amore nella propria anima. E qual è l’oggetto dell’amore? Non certo una forma, un colore, una grandezza: è, invece, l’anima che non ha colore, ma splende di invisibile luce, illuminata dalla temperanza e dalle altre virtù. Così l’amore vi colpisce tutte le volte che vedete in voi stessi o contemplate in altri la grandezza d’animo, la correttezza del carattere, la purezza dei costumi, il coraggio su un volto dall’espressione ferma, la gravità, il rispetto di sé che è il segno di un’anima calma, serena ed impassibile. Su tutto questo splende la luce dell’intelligenza, che è di natura divina. Dunque, per tutte queste cose noi proviamo inclinazione e amore: ma in che senso le diciamo belle? Non c’è dubbio infatti che lo siano, e chiunque le contempli affermerà che esse sono la vera realtà. Ma di che natura sono queste realtà? Nella loro essenza sono belle, non c’è dubbio, ma la ragione desidera ancora sapere che cosa esse siano e perché esse fanno sì che l’anima che le possiede faccia innamorare le altre di sé. Che cos’è, dunque, che come una luce splende su tutte le virtù? Vogliamo, per ragionar per contrari, procedere per opposizioni e domandarci cos’è la bruttezza? Forse sarà utile per comprendere l’oggetto delle nostre ricerche sapere che cos’è la bruttezza e perché essa si manifesta. Sia dunque un’anima brutta, intemperante e ingiusta. Essa è piena di un gran numero di desideri e delle più profonde inquietudini, paurosa per vigliaccheria, invidiosa per grettezza. Quest’anima pensa bene, ma non pensa che a oggetti mortali e bassi: sempre tortuosa, incline ai piaceri impuri, vive la vita delle passioni del corpo e trova il suo piacere solo nella bruttezza. Non diremo allora che la sua bruttezza è sopravvenuta dall’esterno su quest’anima come una malattia che la offende, la rende impura e ne fa un impasto confuso di mali? Così la sua vita e le sue sensazioni hanno perduto la loro purezza: l’anima conduce una vita oscurata dall’impurità del male, una vita contaminata dai germi della morte. Essa non è più capace di vedere ciò che un’anima deve vedere: non le è più consentito di raccogliersi in se stessa perché essa è continuamente attirata nella regione dell’esteriorità, inferiore e carica di oscurità. Impura, travolta da ogni lato per l’attrazione delle cose sensibili, essa è mescolata con molti caratteri del corpo. Poiché essa ha accolto in sé la forma della materia, differente da lei, ne è rimasta contaminata, e la sua stessa natura è rimasta inquinata da ciò che è inferiore. È come se un tale immerso nel fango di un pantano non mostrasse più la sua bellezza, ma di lui si vedesse soltanto il fango di cui è coperto. La bruttezza è sopravvenuta su di lui per l’aggiunta di un elemento estraneo e sarà una bella impresa riacquistare la propria bellezza: dovrà pulirsi e lavarsi bene e solo così tornerà ad essere quel che egli era. Abbiamo dunque ragione di dire che la bruttezza dell’anima deriva da questo mescolarsi impuro con il corpo e dalle inclinazioni verso la materia. La bruttezza per l’anima è il non essere in sé pura, come per l’oro è di essere mescolato a terra: se si toglie questa terra, l’oro rimane ed è bello perché depurato dalle scorie di altre materie e puro in se stesso. Nello stesso modo, isolata dai desideri che provengono dal corpo, con cui essa aveva legami troppo stretti, liberata dalle altre passioni, purificata da tutte le scorie della materia, l’anima rimane pura in se stessa, tolte tutte le brutte impurità che le provenivano da una natura diversa dalla sua.

Amore e Psiche. Statua, marmo, IV sec. d.C., dalla Domus di Amore e Psiche (Ostia).
Amore e Psiche. Statua, marmo, IV sec. d.C., dalla Domus di Amore e Psiche (Ostia).

[6] È proprio come dice un vecchio detto: la temperanza, il coraggio, tutte le virtù e la prudenza stessa sono delle purificazioni. È per questo che gli iniziati ai Misteri dicono con parole velate che l’anima non purificata persino nell’Ade vivrà in un pantano, perché l’essere impuro ama il fango a causa dei suoi vizi, come i porci il cui corpo è impuro. In che consisterà dunque la vera temperanza se non nel non unirsi ai piaceri del corpo, ma a fuggirli come impuri? Essi non permettono all’anima di rimanere pura. Il coraggio consisterà nel non temere la morte. Ora la morte è la separazione dell’anima dal corpo. Non temerà questa separazione quell’anima che è vissuta isolata dal corpo. La grandezza d’animo nasce dal disprezzo delle cose che passano. La prudenza è il pensiero stesso che si allontana da tutto ciò che passa e conduce l’anima verso l’alto. L’anima, una volta purificata, diviene dunque una pura forma, pura razionalità. Essa diviene pura realtà intellettuale, liberata da ogni scoria di materia. Così appartiene interamente alla sfera di ciò che è divino, là dove è la sorgente della bellezza: da lì, infatti, proviene tutto ciò che è bello. Dunque, l’anima restituita alla pura intellegibilità torna ad essere bella. Ma l’intelligenza e ciò che ne deriva è per l’anima una bellezza propria e non le deriva dall’esterno, perché l’anima pura è adesso realmente se stessa. Per questo si dice –  con ragione – che il bene e la bellezza dell’anima consistono nel rendersi simile a Dio, perché da Dio deriva la bellezza e tutto ciò che costituisce l’essenza della vera realtà. Ma la bellezza è realtà autentica, la bruttezza è una natura differente da questa realtà. La bruttezza e il male, quanto alla loro origine, sono la stessa cosa, così come sono la stessa cosa il buono e il bello. Il bene e la bellezza si identificano. Bisogna dunque ricercare con mezzi analoghi il bello e il buono, il brutto e il cattivo. Bisogna anzitutto fissare il principio che la bellezza è il bene e da questo bene l’intelligenza deriva immediatamente la sua bellezza. E l’anima è bella per l’intelligenza: le altre bellezze, delle azioni e dei costumi, derivano dal fatto che l’anima imprime in esse la sua forma. L’anima poi produce tutto ciò che chiamiamo corpo, ed essendo un essere di natura divina – frammento della bellezza divina – essa rende belle tutte le cose con cui entra in contatto e che domina, almeno nei limiti in cui ad esse è consentito partecipare della bellezza.

[7] Bisogna dunque risalire verso il Bene, che è ciò a cui tende ogni anima. Chi l’ha visto, sa cosa voglio dire, e in che senso esso è bello. Come Bene, è desiderato e il desiderio tende verso di lui; ma lo si raggiunge solo risalendo verso la regione superiore, piegandosi verso di lui e spogliandosi dei vestiti indossati nella discesa. Nello stesso modo chi sale ai santuari dei templi deve purificarsi, deporre i suoi vecchi abiti e avanzare nudo; e, infine, abbandonato lungo questa salita tutto ciò che è estraneo a Dio, può guardare da solo a solo nel suo isolamento, nella sua semplicità e purezza, l’Essere da cui tutto dipende, verso cui tutto guarda, perché è l’essere, la vita e il pensiero; perché è causa della vita, dell’intelligenza e dell’essere. Se lo si vede, quest’Essere, quale amore e quale desiderio sentirà l’anima che vorrà unirsi a lui! E quale emozione accompagnerà questo piacere! Infatti, colui che non l’ha ancora visto, può tendere verso di lui come verso un bene: ma colui che l’ha visto, lo amerà per la sua bellezza, sarà colmo di commozione e di piacere, di gioioso stupore, di amore pieno e desiderio ardente. Dimenticherà gli altri amori e disprezzerà le pretese bellezze da cui prima era attratto. È questo che provano tutti coloro che hanno conosciuto le forme divine o demoniche e non ammettono ormai la bellezza degli altri corpi. Questo crediamo che essi provino, se hanno visto il bello in sé in tutta la sua purezza, non il bello che è appesantito dal corpo e dalla materia, ma quello che – puro – è al di sopra della terra e del cielo. Tutte le altre bellezze sono acquisite, non pure, ma frutto di un misto, non originarie: tutte vengono dal puro bello in sé. Se, dunque, si vede il bello in sé – che dona la bellezza ad ogni cosa pur restando puro in se stesso e senza ricevere nulla dall’esterno – non si resterà forse in questa contemplazione godendo in lui? Quale bellezza ci mancherà ancora? È questa, infatti, la vera e originaria bellezza che rende belli coloro che la amano e degni di essere a loro volta amati. È qui per l’anima la più grande e suprema battaglia, per la quale essa concentra tutti i suoi sforzi, per non restare senza la più alta delle visioni. Se l’anima raggiunge questa meta, allora è felice grazie a questa visione della bellezza; se non la raggiunge, è davvero infelice. Infatti, chi non sa godere della bellezza del colore e dei corpi belli non è più infelice di chi non ha potere, o di chi non ha fatto carriera, o non è un re. Infelice è colui che non incontra affatto la bellezza, e lui solo. Per incontrarla, bisogna lasciare là dove sono i regni e il potere dell’intera terra, del mare e del cielo, se grazie a questo abbandono ci si può volgere nella direzione che permette di vederla.

[8] Qual è, dunque, il modo per ottenere questa visione? Quale il mezzo? Come potremo contemplare questa bellezza immensa che resta in qualche modo protetta nell’interiorità del suo santuario e che non si mostra all’esterno, perché i profani possano vederla? Suvvia, chi può vada dunque e la segua fin nella sua intimità: abbandonata la visione sensibile, che è propria degli occhi, non dobbiamo rivolgerci più verso lo splendore dei corpi che pure prima ammiravamo tanto. Infatti, se pur osserviamo la bellezza dei corpi, non dobbiamo rivolgerle la nostra attenzione, ma sapere che essa è un’immagine, una traccia, un’ombra: dobbiamo, invece, rivolgerci verso quella bellezza di cui la bellezza dei corpi è immagine. Chi, infatti, si rivolge alla bellezza sensibile per conoscerla come se essa fosse in sé reale, sarà simile all’uomo che volle vedere la sua immagine bella riflessa sull’acqua (come la favola, credo, lascia ben intendere). E così cadde nell’acqua profonda, e sparì. Allo stesso modo capita a chi si lascia attrarre dalla bellezza dei corpi e non l’abbandona; non sarà però il suo corpo a cadere nelle profondità oscure e funeste per l’intelligenza, ma la sua anima: egli vivrà con le ombre, cieco abitante dell’Ade. Rifugiamoci, dunque, presso la nostra cara patria: ecco il vero consiglio che dobbiamo darci. Ma come potremo rifugiarci là? Per quale sentiero risalire alla nostra meta? Faremo come Ulisse, che fuggì – dicono – dalla maga Circe e da Calipso: egli non volle rimanere presso di loro, malgrado il piacere degli occhi e tutte le bellezze sensibili di cui poteva godere presso di loro. La nostra patria è il luogo da cui siamo venuti, e nostro padre è là. Cosa sono, dunque, questo viaggio e questa fuga? Non lo compiremo con i nostri piedi, perché non si tratta di passare da una terra a un’altra. Non si tratta di preparare dei cavalli o una nave, ma di distogliere lo sguardo dalle realtà sensibili e, chiusi gli occhi dinnanzi ad esse, cambiare questa maniera di guardare con un’altra. Si tratta, quindi, di risvegliare in noi un’altra facoltà, che tutti possediamo, ma ben pochi usano.

Venere. Testa, marmo, II sec. d.C. Boston, Museum of Fine Arts.
Venere. Testa, marmo, II sec. d.C. Boston, Museum of Fine Arts.

[9] Che cosa vedono, dunque, questi occhi interiori? Appena risvegliati, certo non possono sostenere la vista delle realtà luminose. Bisogna abituare l’anima pian piano a osservare dapprima le belle abitudini di vita, poi le opere – e non intendo gli oggetti materiali prodotti dal lavoro dell’artigiano, ma le azioni degli uomini buoni. Subito dopo, bisogna che ci educhiamo a osservare l’anima di coloro che compiono azioni belle. Come si fa a scrutare dentro l’anima di un uomo buono per scoprire la sua bellezza? Coraggio, ritorna in te stesso e osservati: se non vedi ancora la bellezza nella tua interiorità, fa come lo scultore di una statua che deve diventare bella. Egli scalpella il blocco di marmo, togliendone delle parti, leviga, affina il marmo finché non avrà ottenuto una statua dalle belle linee. Anche tu, allora, togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, lucida ciò che è opaco perché sia brillante, e non cessare mai di scolpire la tua statua, finché in essa non splenda il divino splendore della virtù e alla tua vista interiore appaia la temperanza assisa sul suo sacro trono. La tua anima si è così trasformata? Ti vedi in questo modo? Hai tu con te stesso un rapporto puro, senza che alcun ostacolo si frapponga fra te e te, senza che nulla di estraneo abbia inquinato la tua purezza interiore? Sei tu, interamente, divenuto splendente di pura luce? Non una luce – dico – che si può misurare per forma o dimensione, che può diminuire o aumentare indefinitamente per grandezza, ma una luce assolutamente al di là di ogni misura, perché essa è superiore a ogni grandezza e a ogni quantità? Riesci adesso a vederti così? Tu stesso allora sei divenuto pura visione, vivi presso te stesso e, pur restando nel mondo di quaggiù, ti sei innalzato interiormente. Allora, senza più bisogno di guida, fissa il tuo sguardo e osserva. Il tuo occhio interiore ha dinnanzi a sé una grande bellezza. Ma se cerchi di contemplarla con occhio ammalato, o non pulito, o debole, avrai troppo poca energia per vedere gli oggetti più brillanti e non vedrai nulla, anche se sei dinnanzi a un oggetto che può essere visto. Bisogna che i tuoi occhi si rendano simili all’oggetto da vedere, e gli siano pari, perché solo così potranno fermarsi a contemplarlo. Mai un occhio vedrà il Sole senza essere divenuto simile al Sole, né un’anima contemplerà la bellezza senza essere divenuta bella. Che ciascun essere divenga simile a Dio e bello, se vuol contemplare Dio e la bellezza. Innalzandosi verso la luce, giungerà dapprima presso l’intelligenza, e qui potrà osservare che tutte le idee sono belle e si accorgerà che è lì la bellezza, proprio nelle idee. Per esse, infatti, che sono i prodotti e l’essenza stessa dell’intelligenza, esiste ogni realtà bella. Ciò che è al di là della bellezza, noi lo identifichiamo come la natura del bene, e il bello le è dinnanzi. Anzi, per usare una formula d’insieme, si dirà che il primo principio è il bello, ma – per fare una distinzione tra ciò che è intellegibile – bisognerà distinguere il bello, che è il luogo delle idee, dal Bene che è al di là del bello e che ne è la sorgente e il principio. Ovvero si comincerà col fare del bello e del bene un solo e identico principio. Ma, in ogni caso, il bello è nel regno delle cose che possono essere colte con la mente.

Il Neoplatonismo

di N. ABBAGNANO, Storia della filosofia. I – Il pensiero greco e cristiano: dai Presocratici alla scuola di Chartres, Novara 2006, 399-412.

La «scolastica» neoplatonica

Il neoplatonismo è l’ultima manifestazione del platonismo nel mondo antico. Esso riassume e porta alla formulazione sistematica, e (con Proclo) addirittura scolastica, le tendenze e gli indirizzi che si erano manifestati nella filosofia greca e alessandrina dell’ultimo periodo. Elementi pitagorici, aristotelici, stoici vengono fusi con il platonismo in una vasta sintesi che doveva influenzare potentemente tutto il corso del pensiero cristiano e medievale, e, attraverso di esso, anche quello del pensiero moderno. Il neoplatonismo è così la manifestazione più cospicua dell’orientamento religioso che prevale nella filosofia dell’età alessandrina. Esso è altresì la prima forma storica della scolastica, se con tal nome s’intende la filosofia che cerca di realizzare una comprensione razionale delle verità religiose tradizionali. Difatti l’atteggiamento religioso implica che la verità come tale non va cercata: essa è stata rivelata ed è garantita dalla tradizione. Dall’altro lato, occorre comprendere, spiegare e difendere tale verità; e a questo scopo viene utilizzata la filosofia che meglio vi si presta, in questo caso il platonismo.

Il neoplatonismo quindi non ha niente a che fare con il platonismo originario e autentico. È invece una specie di scolastica che utilizza il platonismo, in confusa mescolanza con altri elementi dottrinali eterogenei, allo scopo di giustificare un atteggiamento religioso. Il fatto che Proclo, il più consapevole rappresentante della scolastica neoplatonica, abbia considerato spuri la Repubblica e le Leggi di Platone, che mal si prestano, per il loro dominante interesse politico, ad essere utilizzati ai fini di un’apologetica religiosa, è una prova evidente della cesura che c’è tra platonismo e neoplatonismo e dell’impossibilità di utilizzare quest’ultimo come elemento di comprensione storica del platonismo originario.

Accademia platonica. Mosaico, ante 79 d.C. Pompei, Casa di T. Siminio Stefano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale
L’Accademia di Platone. Mosaico, I sec. a.C., dalla Casa di T. Siminio Stefano a Pompei. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Fondatore del neoplatonismo è Ammonio Sacca, vissuto tra il 175 e il 242 d.C. senza lasciare alcuno scritto. Egli era bracciante (donde il soprannome di «Sacca»); in seguito insegnò in Alessandria la filosofia platonica.

Tra i suoi scolari si annoverano Origene – che non è da confondere con l’Origene cristiano – e Cassio Longino (213-273 d.C. ca.), retore e filologo, sotto il nome del quale ci è giunto lo scritto Sul sublime, che però non è suo.

La maggiore figura del neoplatonismo è Plotino. Nato a Licopoli in Egitto nel 203/4 d.C., partecipò alla spedizione dell’imperatore Gordiano contro i Persiani per conoscere le dottrine dei Persiani e degli Indiani; al ritorno si stabilì a Roma, dove la sua scuola ebbe tra i suoi ascoltatori numerosi senatori romani. L’imperatore Gallieno e sua moglie Salonina furono tra i suoi ammiratori. Egli morì in Campania a 66 anni, nel 269/70 d.C.

Il suo scolaro Porfirio di Tiro (nato nel 232/3 e morto al principio del IV secolo) pubblicò gli scritti del maestro ordinandoli in sei Enneadi, ossia libri di nove parti ciascuno. Porfirio è anche autore di numerose opere originali. Tra queste particolarmente importanti una Vita di Plotino, una Vita di Pitagora e l’Introduzione alle Categorie di Aristotele che è un commentario allo scritto aristotelico in forma di dialogo. L’interesse fondamentale di Porfirio è pratico-religioso. Egli trae dalla dottrina di Plotino motivi per difendere la religione pagana.

Maestro di retorica con i suoi allievi. Rilievo, marmo, IV sec. d.C. da un sarcofago romano
Maestro di retorica con i suoi allievi. Rilievo, marmo, IV sec. d.C. da un sarcofago romano.

Plotino: Dio

Plotino accentua sino all’estremo limite la trascendenza di Dio, sulla quale avevano già insistito i Neopitagorici e Filone. Ma mentre Filone ancora identificava Dio con l’essere, Plotino afferma che Dio è «al di là dell’essere» (V 5, 6); «al di là della sostanza» (VI 8, 19); «al di là della mente» (III 8, 9) in modo che è trascendente rispetto a tutte le cose, pur producendole e tenendole in essere lui stesso (V 5, 12). Così la causa dell’essere viene in qualche modo staccata dall’essere, come ciò che è inafferrabile e inesprimibile da parte dell’uomo. Il nome che è meno inadeguato a indicare Dio, è, secondo Plotino, quello di Uno; e ciò sia perché Dio è l’unità, cioè la causa semplice ed unica di tutte le cose; sia perché il nome «Uno» si presta a designare ciò che è semplice e diverso da tutte le cose che vengono dopo (V 4, 1). Plotino stesso avverte però che questo nome non contiene altro che l’esclusione del molteplice; e, salvo quest’esclusione, non è più adeguato degli altri ad esprimere Dio (V 5, 6). Con queste considerazioni, Plotino inizia quello che si chiamò in seguito la teologia negativa, cioè la determinazione di Dio attraverso il riconoscimento dell’impossibilità di predicare di lui tutte e ciascuna le determinazioni finite.

D’altronde, la definizione di Dio come unità non ha niente a che fare con il monoteismo. Conformemente a tutta la tradizione greca, Plotino esplicitamente difende il politeismo come conseguenza necessaria dell’infinita potenza della divinità: «Non restringere la divinità ad un unico essere: farla vedere così molteplice come essa si manifesta, ecco ciò che significa conoscere la potenza della divinità, capace, pur restando quella che è, di creare una molteplicità di dèi che si connettono con essa, esistono per essa e vengono da essa» (II 9, 9).

Per una divinità concepita in questo modo la creazione non può essere un atto di volontà, che implicherebbe un mutamento nell’essenza divina. La creazione avviene in modo tale che Dio rimane immobile al centro di essa, senza volerla né consentirvi. Essa è un processo di emanazione (ἀπόρροια), simile a quello per il quale la luce si spande intorno al corpo luminoso o il calore intorno al corpo caldo, o meglio simile al profumo che emana dal corpo odoroso (V 1, 6). Utilizzando la nozione aristotelica di Dio come «pensiero del pensiero» (νόησις νοήσεως) Plotino interpreta l’emanazione stessa come il pensiero che l’Uno pensa di sé. L’Uno, pensandosi, dà origine all’Intelletto, che è la sua immagine (V 4, 2); l’Intelletto, pensandosi, dà origine all’Anima, che è immagine dell’Intelletto (IV 8, 3). Trascorrendo da immagine a immagine, l’emanazione è anche un processo di degradazione. Ciò che emana dall’Uno è inferiore all’Uno, proprio come la luce è meno luminosa della sorgente da cui emana e l’onda del profumo è meno intensa a misura che si allontana dal corpo odoroso. Gli esseri che emanano da Dio non possono dunque aver né la sua perfezione né la sua unità, ma procedono sempre più verso l’imperfezione e la molteplicità.

Plotino: le emanazioni

La prima emanazione dell’Uno è l’Intelletto (νοῦς) che è l’immagine più vicina di esso. l’Intelletto contiene già la molteplicità in quanto implica la distinzione tra il soggetto che pensa e l’oggetto pensato. Questo Intelletto, come il λόγος o il Verbo di Filone, è la sede delle idee platoniche. Esso corrisponde al Dio di Aristotele.

Dall’Intelletto procede la seconda emanazione, l’Anima mundi (ἡ ψυχὴ τοῦ κόσμου), che è Verbo e Atto dell’Intelletto, come l’Intelletto lo è dell’Uno. L’Anima da un lato guarda all’Intelletto da cui proviene e con ciò pensa; dall’altro guarda a se stessa e si conserva; dall’altro ancora, guarda a ciò che è dopo di lei e lo ordina, lo governa e lo regge. Così l’Anima universale ha una parte superiore che è rivolta all’Intelletto e una parte inferiore che è rivolta al corpo: con questa governa l’universo corporeo ed è Provvidenza (πρόνοια).

Dio, l’Intelletto e l’Anima mundi costituiscono un mondo intellegibile. Il mondo corporeo suppone per la sua formazione, oltre l’azione dell’Anima mundi, un altro principio da cui derivino l’imperfezione, la molteplicità e il male. Questo principio è la materia, concepita da Plotino negativamente, come privazione di realtà e di bene. La materia è all’estremo inferiore della scala alla cui sommità c’è Dio. Essa è l’oscurità che comincia là dove termina la luce; quindi non-essere e male.

Le anime singole sono parti dell’Anima mundi. L’Anima universale ha penetrato la materia vivificandola e penetrandola tutta, ma rimanendo in se stessa unica e indivisibile. Essa produce l’unità e la sympátheia di tutte le cose del mondo; giacché queste, avendo un’unica anima, si richiamano l’un l’altra come le membra di uno stesso animale.

Dominato com’è dall’Anima universale, il mondo ha un ordine e una bellezza perfetti. Per scoprire quest’ordine bisogna guardare al tutto nel quale trova il suo posto e la sua funzione ogni singola parte, anche quella apparentemente imperfetta o cattiva. Il vizio stesso ha una funzione utile al tutto perché diventa un esempio della forza della legge e finisce per arrecare utili conseguenze (III 2, 5).

Ritratto di filosofo (forse Plotino). Testa, marmo, c. 260, dalle Terme del Filosofo. Ostia, Museo Archeologico.
Ritratto di filosofo (forse Plotino). Testa, marmo, c. 260, dalle Terme del Filosofo. Ostia, Museo Archeologico.

Plotino: la coscienza e il ritorno a Dio

Nella filosofia di Plotino diventa centrale e dominante un concetto che già si era affacciato nella speculazione degli Stoici: quello di coscienza. Coscienza non è la consapevolezza dei propri stati interni: ma l’atteggiamento del saggio che non ha bisogno di uscire fuori di sé per trovare la verità e che perciò tiene lo sguardo costantemente rivolto a se stesso. La coscienza è in questo senso il campo privilegiato in cui si manifestano nella loro evidenza le verità più alte cui l’uomo può giungere e la fonte o il principio stesso di tali verità cioè Dio. Il presupposto di questo concetto è l’autosufficienza del saggio, su cui avevano insistito gli Stoici e che aveva dominato le speculazioni morali degli Stoici romani. La distinzione stabilita da Epitteto tra «le cose che sono in nostro potere» cioè i nostri aspetti spirituali e «le cose che non sono in nostro potere» cioè le cose esterne, come fondamento degli atteggiamenti morali dell’uomo, non è che un corollario del principio della coscienza. Per indicare la coscienza come introspezione o auscultazione interiore, Plotino adopera espressioni come «ritorno a se stesso», «ritorno all’interiorità», «riflessione su di sé»; e contrappone costantemente questo atteggiamento proprio del saggio a chi invece fa leva, per la condotta della sua vita, sulla conoscenza delle cose esterne. «Il saggio – dice Plotino – trae da se stesso ciò che rivela agli altri e guarda a se stesso giacché non solamente tende ad unificarsi e ad isolarsi dalle cose esterne, ma è rivolto a se stesso e trova in sé tutte le cose» (III 8, 6).

Il ritorno a Dio è un itinerario che l’uomo può iniziare e percorrere solo mediante il ritorno a se stesso. Le tappe del ritorno a Dio sono le tappe della progressiva interiorizzazione dell’uomo; e in primo luogo della sua liberazione da ogni dipendenza o rapporto con l’esteriorità corporea. Plotino afferma pertanto che il primo dovere dell’uomo è quello di sottrarsi ai suoi legami con il corpo e di purificarsi mediante le virtù. Le virtù sono vie di purificazione perché sono vie di liberazione dall’esteriorità. Con l’intelligenza e la sapienza, l’anima dell’uomo si abitua a operare da sola, senza l’aiuto dei sensi corporei; con la temperanza si libera dalle passioni; con il coraggio non teme di separarsi dal corpo; con la giustizia fa sì che comandino in sé soltanto la ragione e l’intelletto (I 2, 3). La virtù come purificazione costituisce tuttavia soltanto una condizione liberatrice dell’itinerario interiore verso Dio. Nella musica, nell’amore e nella filosofia l’anima trova le vie positive del ritorno a Dio.

Attraverso la musica l’uomo deve procedere oltre i suoni sensibili, cercando di raggiungere i loro rapporti e le loro misure per sollevarsi a quell’armonia intellegibile ch’è la stessa bellezza. Attraverso l’amore, l’uomo si solleva gradualmente (secondo il processo già descritto da Platone nel Fedro) dalla contemplazione della bellezza corporea a quella della bellezza incorporea la quale è un riflesso o un’immagine del Bene, cioè di Dio. La bellezza difatti risplende nelle cose che sono più vicine alla perfezione; una statua è più bella di un blocco di marmo, un corpo vivo più bello di una statua. Ma al di là della bellezza l’uomo deve procedere con la filosofia verso la fonte stessa della bellezza, che è Dio. A Dio tuttavia egli non potrà arrivare attraverso l’intelligenza, perché questa è condizionata dal dualismo del soggetto che pensa e dell’oggetto pensato, mentre Dio è assoluta unità. Nella visione di Dio non c’è più intervallo, non c’è più dualità, ma l’anima si unisce a Dio totalmente, con uno slancio di amore. Non si tratta neppure di una visione: ma «di ἔκστασις e di semplificazione, di quiete e di congiunzione, di completa dedizione». Questa condizione può essere raggiunta dal filosofo solo raramente. Porfirio ci testimonia che nei sei anni in cui fu con il maestro, Plotino raggiunse l’ékstasis solo quattro volte.

Giovanni di Stefano (attribuito), Ermete Trismegisto. Tarsie, marmi policromi, 1488, dal pavimento della navata centrale. Siena, Duomo di S. Maria Assunta
Giovanni di Stefano (attribuito), Ermete Trismegisto. Tarsie, marmi policromi, 1488, dal pavimento della navata centrale. Siena, Duomo di S. Maria Assunta.

La scuola siriaca

Lo scolaro di Porfirio, Giamblico di Calcide, morto verso il 330, inizia il cosiddetto «Neoplatonismo siriaco», molto più vicino di quello plotiniano alle fonti orientali. Egli fu autore di numerosi scritti, dei quali ci restano cinque libri dell’opera Sui misteri degli Egiziani. Giamblico è un teologo più che un filosofo. Egli moltiplica le emanazioni plotiniane suddividendole in tante divinità, alle quali fa corrispondere gli dèi della religione popolare. Insiste quindi sul valore della θεουργία, che è la virtù magica dei riti e delle formule propiziatorie. La divinità, egli dice, non può essere persuasa ad agire dal nostro pensiero, perché la perfezione non è condotta ad agire da ciò che è imperfetto. Essa agisce invece in virtù dei simboli e delle formule che essa stessa ha suggerito agli uomini. Il Neoplatonismo inclinava così con Giamblico verso una teologia mitica che si prestava a giustificare tutte le superstizioni delle credenze pagane.

Giamblico ebbe numerosi scolari che, dalle notizie che ci sono rimase, appaiono sprovvisti di ogni originalità. Quanto l’imperatore Giuliano volle dare nuova vita al paganesimo per rimetterlo a fondamento della vita politica dell’Impero, ricorse appunto alla filosofia neoplatonica nella forma che Giamblico le aveva dato.

Frattanto la scuola platonica di Alessandria continuava ed ebbe nuovo lustro da una donna, Ipazia, che cadde, nel 415, vittima del fanatismo della plebe cristiana suscitatale contro dal vescovo Cirillo.

Dagli scritti del suo scolaro Sinesio di Cirene (nato verso il 370) che nel 411 divenne vescovo di Tolemaide, pare che ella abbia esposta la dottrina neoplatonica secondo l’insegnamento di Giamblico.

Socrate a banchetto. Mosaico, c. 361-363, da una villa romana a Qalaat al-Madiq, presso Apamea (Syria). Bruxelles, Musée du Cinquantenaire
Socrate a banchetto. Mosaico, c. 361-363, da una villa romana a Qalaat al-Madiq, presso Apamea (Syria). Bruxelles, Musée du Cinquantenaire.

La scuola di Atene

L’ultima fase del Neoplatonismo fu dedicata prevalentemente al commento delle opere di Platone e di Aristotele. Al principio del V secolo, capo della scuola ateniese era Plutarco di Atene, figlio di Nestorio, che morì molto vecchio nel 401/2 e commentò Platone e Aristotele.

La speculazione metafisica fu invece coltivata da Siriano (il maestro di Proclo) il quale si rifece specialmente a Platone, che riteneva superiore ad Aristotele e che volle conciliare coi Pitagorici e coi Neoplatonici.

Proclo è il maggior rappresentante dell’indirizzo ateniese. Nato a Costantinopoli nel 410 ed educato in Licia, a 20 anni si recò ad Atene dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 485. Le opere più importanti sono il Commentario al Timeo, alla Repubblica, al Parmenide, all’Alcibiade I e al Cratilo, e due scritti sistematici, l’Istituzione teologica e la Teologia platonica.

Proclo dette alla filosofia neoplatonica la sua forma definitiva. A lui succedono numerosi pensatori che seguono le sue orme, ma non offrono nessun contributo originale alla sua dottrina. All’ultima generazione di Neoplatonici appartiene Simplicio, i cui commenti a molte opere aristoteliche hanno per noi la massima importanza come fonti di tutto il pensiero antico e rappresentano pure una notevole opera di pensiero.

Nell’anno 529 Giustiniano vietò l’insegnamento della filosofia ad Atene e confiscò l’ingente patrimonio della scuola platonica. Damascio che ne era il capo con altri sei compagni, tra cui Simplicio, si rifugiò in Persia; ma di lì tornarono presto disillusi. Il pensiero platonico oramai non sussisteva più come tradizione indipendente perché era stato assorbito e assimilato dal pensiero cristiano.

L’ultimo rappresentante di esso si può dire sia stato Severino Boezio. Boezio tradusse e commentò i principali scritti dell’Organo aristotelico e l’Introduzione alle categorie di Porfirio. Scrisse anche un Commentario di quest’opera e altri lavori di logica, matematica e musica. Nel carcere scrisse poi l’opera che lo rese famoso per tutto il Medio Evo, La consolazione della filosofia. Quest’opera non è originale, ma risulta dall’utilizzazione di varie fonti, tra le quali il Protrettico di Aristotele, forse conosciuto attraverso qualche scritto più recente che lo riproduceva. Il punto di vista di Boezio è un platonismo eclettico. Da Platone, Boezio attinge il concetto della divinità come sommo Bene; con Aristotele considera Dio come il primo motore immobile; con gli Stoici ammette la provvidenza e il fato. Sebbene sia cristiano, nella sua filosofia segue da vicino il Neoplatonismo dell’epoca. Egli presenta nella sua persona il passaggio dall’Antichità al Medio Evo; è l’ultimo romano e il primo scolastico.

La dottrina di Proclo

Il punto fondamentale della filosofia di Proclo è l’illustrazione di quel principio triadico che è proprio del Neoplatonismo. Ogni processo si compie per via di una somiglianza delle cose che procedono con ciò da cui procedono. Un essere che ne produce un altro rimane in se stesso immutato, ma la cosa prodotta necessariamente gli somiglia.

Ora il prodotto, in quanto ha qualcosa d’identico al producente, resta in esso, in quanto ha qualche cosa di diverso procede da esso. ma essendo simile è in qualche modo identico e diverso, dunque rimane e procede insieme, e non fa nessuna delle due cose senza l’altra. Ora ogni essere che procede per sua natura da una cosa ritorna verso di essa. Vi ritorna in quanto non può fare a meno di aspirare alla propria causa che è per esso il bene; e ogni essere desidera il bene. Questo ritorno o conversione si compie per la somiglianza di chi ritorna con ciò a cui ritorna (Ist. Teol., 30, 32). Con ciò Proclo distingue nel processo di emanazione di ogni essere dalla sua causa tre momenti: 1°, il permanere (μονή) immutabile della causa in se stessa; 2°, il procedere (πρόοδος) da essa dell’essere derivato che per la sua somiglianza con essa le rimane attaccato e insieme se ne allontana, 3°, il ritorno o conversione (ἐπιστροφή) dell’essere derivato alla  sua causa originaria. Quel processo dell’emanazione che Plotino aveva illustrato in termini metaforici con l’esempio della luce e dell’odore, viene giustificato da Proclo con questa dialettica del rapporto tra la causa e la cosa prodotta per la quale esse nello stesso tempo si connettono, si separano e si ricongiungono in un processo circolare nel quale il principio e la fine coincidono.

Il punto di partenza dell’intero processo è l’Uno, Causa prima e Bene assoluto, che Proclo, come Plotino, ritiene inconoscibile e inesprimibile. Dall’Uno procede una molteplicità di Unità o Enadi, che sono anch’esse Beni supremi e Divinità e fanno da intermediarie tra l’Uno originario e il mondo dell’Intelletto. L’Intelletto, che è la terza fase dell’emanazione, è diviso da Proclo in tre momenti: l’intellegibile (l’oggetto dell’Intelletto), che è l’essere; l’intellegibile-intellettuale, che è la vita; l’intellettuale (l’Intelletto come soggetto), che è l’Intelletto. L’essere e la vita vengono a loro volta divisi in vari momenti ad ognuno dei quali Proclo fa corrispondere una divinità della religione popolare. Il quarto momento dell’emanazione è l’Anima, divisa in tre specie: la divina, la demoniaca e l’umana; le prime due vengono ancora suddivise e identificate con divinità o esseri della religione popolare.

Il mondo è organizzato e governato dall’Anima divina. Il male non deriva dalla divinità, ma dall’imperfezione dei gradi medi e bassi della scala del mondo e dalla loro deficiente accettazione del bene divino. La materia non può essere causa del male perché essa è stata creata da Dio come necessaria per il mondo.

Oltre le facoltà distinte nell’anima da Platone e da Aristotele, Proclo ammette in essa una facoltà superiore a tutte, l’Uno nell’anima, che corrisponde all’Uno nel mondo ed è la facoltà adatta a conoscerlo. Il processo dell’elevazione morale ed è la facoltà adatta a conoscerlo. Il processo dell’elevazione morale e intellettuale dell’anima culmina nel congiungimento estatico con l’Uno. I gradi ultimi di questo processo di elevazione sono l’amore, la verità e la fede. L’amore porta l’uomo fino alla visione della bellezza divina; la verità fino alla sapienza divina e alla conoscenza perfetta della realtà. Ma solo la fede lo porta, al di là della conoscenza e di ogni divenire, al riposo e al mistico congiungimento con ciò che è inconoscibile e inesprimibile.