Crizia, Teramene e il regime dei Trenta Tiranni

di D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 471 sgg.

 

Crizia, procugino di Platone, capo dei trenta costituenti, che vanno sotto il nome di Trenta Tiranni, è una figura di politico intellettuale. Come intellettuale, egli appartiene a tutti gli effetti alla storia della letteratura greca: è autore di poesie esametriche ed elegiache, di tragedie, di costituzioni (politeîai), queste ultime in versi e in prosa. È un personaggio, anche, di diversi dialoghi platonici. È ovvio che la testimonianza platonica va presa cum grano salis, perché contiene una libera rielaborazione delle situazioni. In ogni caso, le tematiche che Platone ricollega con personaggi storici che rende protagonisti, hanno caratteristiche che vanno tenute presenti in sede storica almeno nei loro termini generali. Non sarà forse tutto Crizia, ciò che Platone gli ascrive nei dialoghi, ma in qualche modo si respira il campo di interessi, lo stile, l’orientamento di Crizia. Sulla ricostruzione del personaggio grava un enigma di fondo: la famosa accusa sul tentativo che egli avrebbe compiuto di instaurare la democrazia in Tessaglia, armando i penesti[1]. Ed è l’unico tratto che sembra configurare una posizione democratica estrema del personaggio; ma i suoi inizi lo avvicinano ad Alcibiade, in una familiarità molto stretta. Ed in ogni caso va tenuta presente la realtà ateniese da cui proviene. Certamente nell’ultima fase, nel periodo dei Trenta, Crizia matura una posizione filo-laconica al cento per cento, fino ad ipotizzare una riduzione di Atene nei termini politici di Sparta. Alcuni elementi mostrano però la complessità del personaggio. La realtà ateniese era così nuova, così grande, che anche gli avversari della democrazia, per filo-spartani che fossero, ne erano fortemente condizionati. Cimone aveva forte ammirazione per Sparta, eppure rimase nella democrazia. Via via, questa ammirazione per Sparta condusse personaggi di questo stampo fino a una rottura con la tradizione: ed è il caso di Crizia.

La sua prima elegia parla, secondo un’ottica tipicamente greca, dei luoghi dove sono nate certe invenzioni; le città vengono caratterizzate dal punto di vista storico-culturale. E allora è richiamato il gioco del còttabo, siciliano; i bei sedili sono invenzioni dei Tessali; famosi i letti di Mileto e di Chio; famose le coppe dorate e i bronzi dei Tirreni; famosi i Fenici per l’invenzione dell’alfabeto, Tebe per il carro; i Cari hanno inventato le navi da carico; infine, Atene ha creato il tornio, è dunque la città della ceramica. L’elemento artigianale è perciò quello per cui si caratterizza Atene, e le parole di Crizia suonano ossequio a una civiltà di tipo artigianale-urbano; non alla democrazia, ma certo a una città in cui la forma politica democratica è maturata proprio a ridosso del grande sviluppo delle attività artigianali.

Platone. Testa, copia romana in marmo da originale del 348-347 a.C. ca. München Glyptothek
Platone. Testa, copia romana in marmo da originale del 348-347 a.C. ca. München Glyptothek.

Ci sono insomma in Crizia elementi della cultura dell’ambiente ateniese, che finiscono per condizionare anche chi, nell’esito storico finale, agisce come nemico di quella democrazia. Un’elegia è dedicata ad Alcibiade, quanto basta per indicare la familiarità dei rapporti tra i due. Forti erano dunque i nessi tra i due allievi di Socrate; e sulla condanna del filosofo pesò notoriamente il fatto che dalla sua scuola fossero usciti personaggi come Alcibiade e Crizia. Un frammento delle Costituzioni in versi riguarda Sparta e il modo di bere a Sparta: qui il simposio è contenuto in forme di gioia temperata, senza eccessi. Ma è soltanto uno dei casi in cui Crizia si trova ad elogiare Sparta. Le Costituzioni, che gli vengono attribuite, riguardano Atene e la Tessaglia, oltre che Sparta stessa. Egli elogia il comportamento severo e guardingo degli Spartani verso gli iloti[2]. Nel discorso che egli tiene alla boulḗ contro Teramene, la costituzione degli Spartani è definita come kallístē politeía, «la più bella delle costituzioni»; a Sparta c’è un’assoluta compattezza di comportamento all’interno del governo: quel che è approvato dalla maggioranza degli efori, è eseguito anche dalla minoranza (una regola che, ad Atene, Teramene finirà con il violare, ricorrendo a strumenti che nella democrazia sono consentiti, cioè il biasimare e l’opporsi)[3].

Teramene, che aveva contribuito all’instaurazione del nuovo regime prima e dopo la sconfitta, ne divenne presto vittima, non volendo avallarne tutti gli eccessi. Spogliato dei diritti politici e sottoposto a processo di fronte alla boulḗ, fece un’autodifesa tanto appassionata quanto inutile […]. Nella sua apologia, Teramene definisce in termini negativi la sua posizione come contraria agli estremismi nei confronti dei quali si colloca al centro: «Non sono mai stato con i dēmotikoí, o con i tyrannikoí, non sono mai stato contro i kaloí kaì agathoí (i galantuomini)»[4]. La rappresentazione che Aristotele dà della situazione politica ateniese al cap. 34 della Costituzione degli Ateniesi, quando parla di tre partiti, se pur non rende completa giustizia alle posizioni particolari, è perciò grande intuizione storica. Non c’è più la rigidità dei fronti, non c’è più il bipartitismo del pieno V secolo. Prima i contrasti (Plutarco, Pericle 11, 3) erano «venature del metallo», poi con Pericle erano divenuti «tagli profondissimi» all’interno di Atene; ora invece non c’è più l’opposizione frontale, il che cambia qualitativamente tutte le posizioni politiche. Teramene giustifica la sua posizione politica nelle vicende del 411, quando, come abbiamo visto, si era guadagnato il soprannome di «coturno». La costituzione dei Quattrocento Teramene l’aveva certo promossa, ma egli dice che l’aveva voluta proprio il popolo, per accattivarsi gli Spartani, meglio disposti a far pace con un governo oligarchico; e per questo Teramene non se ne fa carico. Nel 404 Teramene era stato il protagonista delle trattative di pace tra Atene e Sparta, ed anche allora con comportamenti che avevano avuto sempre qualcosa di ambiguo: raggiunti gli Spartani, restò presso di loro per tre mesi, pur senza avere la posizione di ambasciatore plenipotenziario; riuscì ad ottenerla dopo, quando trattò la pace, approvata dagli Ateniesi in un clima di paura e sfiducia. Poco dopo lo troviamo con i Trenta; impressionante il suo dibattito con Crizia, e il tentativo di rifugiarsi presso la eschára del bouleutḗrion (l’altare centrale della sede del consiglio), per sottrarsi alla condanna. Ma, nonostante il suo discorso faccia un’impressione positiva sui buleuti, nessuno muove un dito per lui, e soprattutto Crizia conta sull’effetto intimidatorio dei giovani che assistono con i pugnali sotto le ascelle; sembra una scena d’epoca repubblicana romana e dà invece solo l’idea del turbamento politico in corso ad Atene.

Diodoro (XIV 5) fa intervenire in suo aiuto Socrate, di cui – egli dice – Teramene era discepolo. Nelle genealogie culturali, non c’è limite alla fantasia degli antichi: Teramene sarebbe stato anche il maestro di Isocrate[5]. Si creerebbe così una linea genealogica Socrate-Teramene-Isocrate, interessante per ciò che ciascuno rappresenta in filosofia, politica, retorica; interessante anche per le assimilazioni che questa ideale genealogia istituisce, in primo luogo per il problema di Socrate e la posizione mediana, centrista, che a conti fatti si individua in lui. Del resto, per Isocrate e la sua scuola, democrazia e pátrios politeía finiscono con l’identificarsi. Quelle che erano le tre posizioni politiche vigenti ad Atene dal 404, secondo lo schema aristotelico, finiscono col dar luogo a una sostanziale ricomposizione; sicché, nel corso del IV secolo, si ha una convergenza di fatto delle posizioni che si riconducono all’idea di pátrios politeía, e persino certe istanze di parte oligarchica possono figurare sotto il connotato della democrazia. La pátrios politeía non riuscirà a diventare il nuovo modello politico; formalmente sarà la democrazia, infatti, a vincere, ma essa si adatterà (e qui si completa il processo di ricomposizione) ad assorbire tante istanze della pátrios politeía, e in tanto essa non sarà contrastata, in quanto sarà trasformata. Il processo, anche sul piano lessicale, è chiaro, se seguiamo con attenzione la storia della parola dēmokratía, che nel IV secolo si avvia a significare di nuovo «forma libera, repubblicana», a recuperare cioè quel significato generico di opposizione alla tirannide e alla monarchia, che però non oblitera mai in assoluto la possibilità di un significato più specifico[6].

Trasibulo, che nel 403 restaura la democrazia ad Atene, ha parecchi punti di merito verso il regime democratico: lo troviamo nel 411 a Samo, fra i protagonisti di quello scisma democratico, che ha avuto forti conseguenze, mentre Teramene regge, fino a un certo punto, il gioco dei Quattrocento. Nel 404 Trasibulo è esule; è fra i “grandi esuli”, che Teramene ricorda nel suo discorso di replica a Crizia, quando dice ai Trenta: «I veri traditori sono coloro che hanno fatto in modo che lasciassero la città personaggi come Trasibulo, Anito e Alcibiade[7]». Alcibiade viene ricordato una volta sola: la seconda volta Teramene parla soltanto di Trasibulo e di Anito; è possibile che questo significhi che, nel momento in cui Teramene fa il suo discorso, Alcibiade fosse già stato ucciso. La carriera di Teramene presenta mutamenti e ambiguità, che sono in molti personaggi dell’epoca. È soprattutto in ambienti oligarchici che insorge l’immagine del traditore, del «coturno», della banderuola; all’interno di quel gruppo, egli non ha rispettato le regole della solidarietà; ha consentito sempre e solo fino a un punto e, quando ha dissentito, lo ha fatto con cambiamenti di rotta, che hanno lasciato del tutto scoperti i suoi malaugurati compagni di viaggio. Bisogna riconoscergli, però, sul piano teorico, una fondamentale coerenza: ed è nel senso della pátrios politeía.

All’epoca corrono del resto diversi progetti di riforma del corpo civico. Uno è appunto quello di Teramene, che accetta, nel 411, il numero orientativo di 5000 cittadini, ma in realtà inclina verso una costituzione “oplitica”, cioè una costituzione in cui i pieni diritti siano nelle mani degli opliti (e cavalieri): restano esclusi i teti, quelli della cosiddetta democrazia marinara: teti nella funzione sociale, marinai nella funzione militare[8]. È una fortissima limitazione, anche se non persegue il numerus clausus come condizione; infatti, è solo un criterio orientativo. La posizione di Crizia può definirsi oplitica in senso stretto, anzi strettissimo, tanto è vero che neanche comprende tutti gli opliti; un grosso ruolo qui sembrano averlo i cavalieri, che si aggirano attorno ai 1000[9]. È una posizione estrema: 300, forse 4000, che sono meno dei 9000 che, largheggiando, costituiscono il corpo degli opliti di Teramene. Formisio è uno degli esuli rientrati dal Pireo. Anch’egli è un riformatore, in senso riduttivo, del corpo civico: la cittadinanza non spetta a tutti, bensì solo a coloro che posseggono terra in Attica[10]. Se fosse stato approvato il suo decreto, ben 5000 degli Ateniesi sarebbero stati privati dei diritti politici, forse su 30000 (alcuni studiosi sospettano dati più bassi, tenuto conto delle perdite di guerra). Il criterio di Formisio è diverso da quello di Teramene e di Crizia, è dichiaratamente economico, sembra più largo di quello puramente oplitico, e comporta un’esclusione abbastanza limitata.

Neanche questo progetto passerà. Di fatto, la democrazia restaurata di Trasibulo, da Archino, da Anito, si presenta formalmente come un ritorno alla vecchia costituzione. In realtà molte cose cambiano. Ci sono modifiche nei meccanismi legislativi di controllo, oltre che cambiamenti nella distribuzione della ricchezza, che finiscono con l’assorbire le istanze di cui si erano fatti portatori altri gruppi politici. Ma i progetti pullulano, ed è un brulichio di posizioni, da Formisio ad Anito, a Clitofonte, a Teramene, personaggi tutti di quel gruppo che viene ricordato da Aristotele come il campo dei fautori della pátrios politeía. Si vede come ciò che dice Aristotele sia vero in senso lato e non vero per quanto riguarda le differenze. È un raggruppamento politico, con molte sfumature al suo interno. Clitofonte è un personaggio poco noto, però personaggio di dialoghi platonici (ce n’è uno intitolato a lui; egli compare anche nella Repubblica in connessione con il sofista Trasimaco). Clitofonte è, nel 411, l’autore di un emendamento famoso al decreto di Pitodoro, che nel 411 istituiva una commissione di 30 probuli (completando così la vecchia commissione di 10), sopra i quarant’anni, che dovevano redigere una costituzione. Sono trenta costituenti per la salvezza della città. Veniva consentito, a chiunque lo volesse, proporre integrazioni, perché da tutto si scegliesse il “meglio” politico. Clitofonte fa un emendamento, nella forma tipica per i decreti conservati in epigrafi: «Il resto, come lo ha detto Pitodoro; poi bisogna in aggiunta cercare delle leggi patrie, che Clistene pose quando istituì la democrazia, perché sentite queste decidessero per il meglio, in quanto la costituzione di Clistene non era popolare, ma vicina a quella di Solone». Opera, in sostanza, l’idea di una cernita all’interno dei nómoi; bisognava scegliere quelli che, fra i più recenti, somigliavano maggiormente alla legislazione di Solone. La ricerca delle tradizioni ha dunque questo senso: ricercare e valorizzare le norme tradizionali che si sono conservate fino a un certo periodo (a esclusione della democrazia radicale di Efialte e di Pericle). Non si esclude tutta la vicenda della democrazia, ma solo una parte di essa, operando una cernita all’interno delle strutture costituzionali e legislative, in quanto le leggi sono concepite come un fascio che si è troppo ingrossato, e di cui solo il filo risalente alle fasi più lontane viene conservato (cfr. Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 29, 3).

Nell’emendamento di Clitofonte si parla di pátrioi nómoi, cioè di «leggi patrie»; nel 404 si parlerà con certezza di pátrios politeía. C’è differenza? Alla lettera una gran differenza non c’è. Finley considera alcuni momenti della storia politica anglo-sassone e americana e il senso che ha in essa il richiamo alla “costituzione degli antenati”, cioè al valore costitutivo passato; la trasformazione politica non si può proporre, se non operando su modelli[11]. Qualcosa di più e di diverso bisogna dire però sul mondo greco. Certo, pátrioi nómoi non significa «leggi specifiche», di contro a una pátrios politeía che indicherebbe le «leggi di livello costituzionale». Per questo aspetto non si può distinguere; ma è tutto il contesto delle due esposizioni che va rimeditato. Noi vediamo che i pátrioi nómoi, nell’emendamento di Clitofonte, appaiono come un correttivo, un elemento accessorio, della proposta di Pitodoro di riformare la costituzione «per la salvezza» di Atene; di fronte a un’idea generale ancora indefinita, c’è la ricerca del “meglio” politico. In concreto, per Clitofonte si tratta di recuperare le leggi poste da Clistene quando istituì la democrazia, in quanto la sua costituzione viene sentita in ambienti oligarchici come non troppo popolare, ma alquanto vicina alla costituzione di Solone. Così si pensa di garantirsi nei confronti degli affezionati alla democrazia: si tutelano quelle leggi di origine lontana, che sono state accolte, fra altre, nel fascio delle leggi della democrazia.

Nel 411, quasi ad eliminare delle degenerazioni, venivano abrogati due istituti: la graphḗ paranómōn, e i misthoí, tranne poche eccezioni. La graphḗ paranómōn è la denuncia scritta di proposte che vanno contro le leggi. I misthoí, cioè le indennità, rappresentano l’apporto della democrazia periclea[12].

Nella storia dell’idea di pátrios politeía va comunque definita la funzione di Trasimaco. Clitofonte è collegato con il sofista Trasimaco, dei cui scritti possediamo solo frammenti. Nel primo di essi – un’orazione riportata nel commendo di Dionisio a Demostene per ragioni stilistiche – Trasimaco tra l’altro afferma: «Basta per noi il tempo trascorso, e il doverci trovare in guerra, invece che in pace». Noi non sappiamo esattamente che cosa sia questa guerra. Non è del tutto chiaro che sia un pólemos esterno (in tal caso dovrebbe essere la guerra del Peloponneso, perciò il testo andrebbe datato prima del 404); poco dopo si fa riferimento a ostilità reciproche e a conflitti (tarachaí), a cui si è arrivati, invece che alla concordia (homónoia). Il frammento di Trasimaco si potrà pur collocare nel 411, con il suo riferimento a un dibattito in corso sull’idea di pátrios politeía; ma è escluso che l’espressione sia testimonianza di un dibattito in corso del 404[13]. Ma perché costituzione “patria”? Dei “padri”, nel senso della generazione precedente? O dei “padri” intesi in generale, come antenati? Se pensiamo che la linea divisoria della storia della democrazia è il 461, ebbene, nel 411, o nel 404/3, si poteva realmente usare l’espressione “costituzione patria”, per risalire al di là del periodo efialteo-pericleo, e pur tuttavia riferirsi ai propri genitori. Un uomo di cinquant’anni, nato circa il 461 o il 454, può riferirsi effettivamente ai suoi “genitori”, quando ha in mente l’epoca anteriore alla riforma di Efialte.

Nel 404 l’idea aveva la funzione di mettere un freno al popolo. Il quadro aristotelico (Costituzione degli Ateniesi, 34, 3) è più articolato, nel distinguere tra un’oligarchia estrema, rappresentata dalle eterie, una democrazia tradizionale, che è quella di Trasibulo (e che poi si affermerà), e la posizione mediana di coloro che ricercano la pátrios politeía. Questo dibattito è storicamente comprensibile, se si tiene presente che, a conti fatti, le posizioni contrapposte si scioglieranno nella democrazia del IV secolo; e la democrazia greca deve passare attraverso questa fase per diventare, nella concezione di un conservatore come Polibio, nel II secolo a.C., la forma positiva del regime popolare, a cui egli contrappone, come forma negativa, l’ochlokratía (dominio della massa)[14].

Teramene vuole un oplitismo costituzionalmente definito; e lo dice con chiarezza quando afferma: «Io non sono dell’avviso che sia una buona democrazia quella in cui non abbiano parte al potere gli schiavi e quelli che venderebbero la città per una dracma, e che non sia una buona oligarchia quella in cui la città non sia tiranneggiata da pochi. Sempre ho ritenuto come forma migliore quella basata su coloro che possono sostenere la città con i cavalli e con gli scudi: e non cambio idea»[15]


[1] Senofonte, Elleniche II 3, 36 (sull’attività di Crizia in Tessaglia nel discorso di Teramene). Forse è il personaggio che compare nel Crizia e nel Timeo di Platone (altri vi vede il nonno); è comunque evocato nel Carmide 161b.

[2] Con le altre politeîai in prosa (Sparta, Atene, Tessaglia, ecc.) gli è attribuita la paternità del Perì politeías che va sotto il nome di Erode Attico, importante per la descrizione della situazione delle città di Tessaglia al tempo di Archelao re di Macedonia (413-399 a.C.). L’autore del discorso esorta i Larissei, come sembra, all’alleanza con gli Spartani e alla resistenza alla Macedonia. Obiezioni sull’attribuzione alla fine del V sec. a.C. in [Erode Attico], Perì politeías, a c. di U. Albini, Firenze 1968.

[3] Sul valore decisivo del criterio della maggioranza nelle decisioni degli efori di Sparta, cfr. Senofonte, Elleniche II 3, 34 (dal discorso di Crizia contro Teramene).

[4] Senofonte, Elleniche II 3, 4749.

[5] Per la tradizione che fa di Teramene un maestro di Isocrate, cfr. Münscher, in RE IX 2, 1916, col. 2153.

[8] Vd. avanti, n. 15.

[9] Cfr. P. Cloché, La restauration démocratique à Athènes en 403 av. J.C., Paris 1915, pp. 7 sgg. (i cavalieri sono cittadini, compresi nei 3000), con argomenti non decisivi.

[10] Cfr. Dionisio d’Alicarnasso, De Lysia 32. Sulla cifra di 9000 a cui di fatto si arrivò, cfr. Lisia, XX 13 (Per Polistrato).

[13] Cfr. Sofisti. Testimonianze e frammenti III, a cura di M. Untersteiner, Firenze 1954, pp. 3 sgg., in part. fr. 1 (Perì politeías).

[14] Polibio, VI 4, 6; 57, 9 (a 9, 7 cheirokratía, dominio delle mani, probabilmente).

Callino, fr. 1 West

di F. Ferrari, La porta dei canti. Storia e antologia della lirica greca, Bologna 2000, pp. 89-92. Cfr. I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca. Vol. I – Dalle origini al V secolo a.C., Firenze 2004, pp. 319-320.

 

Verso la metà del VII secolo a.C. i Cimmeri, dopo aver abbandonato le loro sedi a nord del Mar Nero ed essersi spinti verso il Caucaso, attraversarono l’Asia minore commisti ad altri gruppi (fra cui in particolare i Treri, su cui cfr. fr. 4 West: Τρήρεας ἄνδρας ἄγων, «conducendo uomini treri») e sospinti a loro volta da scorrerie scitiche, invasero lo stato lidio di Gige conquistando Sardi (nel 652 a.C., dopo averla messa a ferro e fuoco) e distruggendo Magnesia sul Meandro, e infine si riversarono su alcune città ioniche della costa dell’Egeo, fra cui Smirne ed Efeso (cfr. Mazzarino, 130-135). Appunto nell’ambito di una scorreria contro Efeso un poeta di questa città, quel Callino che Aristotele (fr. 676 Rose) e Didimo di Alessandria (cfr. Orione s.v. ἔλεγος, «canto») consideravano il più antico poeta elegiaco, esorta i concittadini a ridestarsi dal torpore che li paralizza e a lottare a difesa della pólis e del suo territorio. Le informazioni sulla biografia di questo poeta sono oltremodo scarse: le uniche notizie che riusciamo a racimolare provengono da fonti indirette letterarie. Callino visse verso la metà del VII secolo a.C., un po’ prima di Archiloco, secondo la testimonianza di un verso di quest’ultimo, citato dal geografo Strabone (Geografia, XIV 1, 4). Data la grande affinità con le elegie di Tirteo, si è in genere supposto che anche quelle di Callino, e in particolare il fr. 1 West (l’unico di una certa ampiezza – 21 versi – che di lui ci sia pervenuto), fossero recitati sul campo di battaglia. Questo frammento è tramandato da Giovanni Stobeo (IV 10, 12) all’interno della rubrica “elogio dell’ardimento”.

Cavaliere. Statuetta, bronzo, 560-550 a.C. da Grumetum (Lucania). London, British Museum
Cavaliere. Statuetta, bronzo, 560-550 a.C. da Grumetum (Lucania). London, British Museum.

D’altra parte proprio l’attacco del brano, segnato dall’antitesi fra l’attuale «stare distesi» e l’esortazione (παραίνεσις) a mostrare per il futuro animo prode, ha più plausibilmente suggerito lo scenario di un simposio (cfr. Tedeschi 1991, 95-104): il poeta esorterebbe i presenti a disertare i conviti e le feste, cui ora si abbandonano ignari, ad abbandonare la vita di mollezze e agi cui erano ormai avvezzi, per organizzarsi di fronte al pericolo contro di cui già lottano le comunità vicine. Dobbiamo considerare che questi 21 versi non sarebbero altro che la continuazione (preceduta, con ogni probabilità, da una lacuna) dell’esortazione vera e propria; qui si descrive essenzialmente l’azione della guerra finalmente intrapresa per cacciare i barbari invasori, e il poeta si lascia trasportare a un’esortazione dal tono decisamente epico (il debito di Callino con l’epos omerico è evidentissimo). Del resto, qui, per la prima volta nella letteratura greca – almeno per quanto ci è dato sapere – in questi versi la celebrazione di personaggi e di eventi mitici scompare per lasciare spazio all’esaltazione di un nuovo tema: il senso della collettività e la consapevolezza degli obblighi che legano il cittadino alla patria. Di fronte alla minaccia nemica, che può rappresentare un rischio per la sopravvivenza della stessa pólis, l’uomo coraggioso, l’ἀνήρ per antonomasia, non può e non deve pensare a se stesso, ma al contesto affettivo e sociale in cui vive, rappresentato dalla famiglia e dalla sua città, trovando in sé la forza per affrontare il pericolo e la morte; e se da solo «compie imprese degne di molti», proprio come gli eroi e i semidei cui gli Ioni facevano risalire la propria stirpe, la lode e il ricordo non gli sarebbero stati tributati grazie al canto degli aedi, ma sarebbero scaturiti dalla riconoscenza e del rimpianto dei suoi stessi concittadini. A sostegno della nuova concezione esistenziale, il poeta non nega i tradizionali valori dell’antica aristocrazia, ma li modifica e non li considera più qualità esclusive di singoli individui, determinate dall’appartenenza di sangue a una classe sociale privilegiata, ma li estende all’intera comunità della pólis, creando la figura del cittadino-combattente e conferendo al valore guerriero un diverso significato e un nuovo scopo, che s’identifica nello spirito di sacrificio per la salvezza della comunità.

L’esortazione è articolata ora attraverso interrogative concatenate (vv. 1-3), ora per imperativi perentori (vv. 5 e 9), e viene puntellata da sequenze raziocinanti, spesso marcate da γάρ («infatti»; cfr. vv. 6, 12, 18, 20), tese a sottolineare i vantaggi, anche pratici, del coraggio. Così il brano si sviluppa secondo sezioni ben definite, ora riflessive ora parenetiche: di qui un’enfasi ben distribuita, elaborata anche con l’impiego studiato dell’enjambement (cfr. in particolare vv.  2, 8, 13, 15: si tratta, per gli ultimi tre, di enjambement “periodici”, tali cioè che coinvolgono la nervatura del periodo sintattico) e di altri stilemi quali l’iperbato (lo stacco fra μάχεσθαι, «combattere», e δυσμενέσιν, «contro i nemici», ai vv. 6-8, e fra θάνατόν γε φυγεῖν, «sfugga alla morte», e ἄνδρα, «un uomo», ai vv. 12 s.) e l’espressione “polare” (v. 17).

I valori individualistici del mondo omerico appaiono calati in un contesto civico ben più ampio e diversificato, che ha di mira tanto i ricchi che i meno abbienti (cfr. v. 17), in funzione di un destinatario che (seppur probabilmente rappresentato dal simposio aristocratico) tende a identificarsi, almeno come mostra il carattere generalizzato delle allocuzioni, dapprima ai νέοι («giovani», v. 2) e poi a un onnicomprensivo τις, («ciascuno», vv. 5 e 9).

 

Fonte: Stobeo IV 10, 12 all’interno della rubrica ἔπαινος τόλμης («elogio dell’ardimento»)

Metro: Il distico elegiaco (ἐλεγεῖον) è costituito da un esametro dattilico e dal cosiddetto pentametro, il quale solo apparentemente consiste nella giustapposizione di cinque metra, ma in realtà deriva dalla duplicazione del colon detto hemiepes maschile.

 

ˉ˘˘ˉ˘˘ˉ˘˘ˉ˘˘ˉ˘˘ˉ˘

ˉ˘˘ˉ˘˘ˉ‖ˉ˘˘ˉ˘˘ˉ

 

Μέχρις τεῦ κατάκεισθε; κότ᾽ ἄλκιμον ἕξετε θυμόν,

ὦ νέοι; οὐδ᾽ αἰδεῖσθ᾽ ἀμφιπερικτίονας

ὧδε λίην μεθιέντες; ἐν εἰρήνηι δὲ δοκεῖτε

ἧσθαι, ἀτὰρ πόλεμος γαῖαν ἅπασαν ἔχει.

…………………………………………

καί τις ἀποθνήισκων ὕστατ᾽ ἀκοντισάτω.

τιμῆέν τε γάρ ἐστι καὶ ἀγλαὸν ἀνδρὶ μάχεσθαι

γῆς πέρι καὶ παίδων κουριδίης τ᾽ ἀλόχου

δυσμενέσιν· θάνατος δὲ τότ᾽ ἔσσεται, ὁκκότε κεν δὴ

Μοῖραι ἐπικλώσωσ᾽· ἀλλά τις ἰθὺς ἴτω

ἔγχος ἀνασχόμενος καὶ ὑπ᾽ ἀσπίδος ἄλκιμον ἦτορ

ἔλσας, τὸ πρῶτον μειγνυμένου πολέμου.

οὐ γάρ κως θάνατόν γε φυγεῖν εἱμαρμένον ἐστὶν

ἄνδρ᾽, οὐδ᾽ εἰ προγόνων ἦι γένος ἀθανάτων.

πολλάκι δηϊοτῆτα φυγὼν καὶ δοῦπον ἀκόντων

ἔρχεται, ἐν δ᾽ οἴκωι μοῖρα κίχεν θανάτου.

ἀλλ᾽ ὁ μὲν οὐκ ἔμπης δήμωι φίλος οὐδὲ ποθεινός,

τὸν δ᾽ ὀλίγος στενάχει καὶ μέγας, ἤν τι πάθηι·

λαῶι γὰρ σύμπαντι πόθος κρατερόφρονος ἀνδρὸς

θνήισκοντος, ζώων δ᾽ ἄξιος ἡμιθέων·

ὥσπερ γάρ μιν πύργον ἐν ὀφθαλμοῖσιν ὁρῶσιν·

ἔρδει γὰρ πολλῶν ἄξια μοῦνος ἐών.

 

Fino a quando ve ne starete distesi?[1] Quando, o giovani,

avrete animo prode[2]? E non avete vergogna[3] dei vicini,

così esageratamente rilassando le vostre energie? E

credete di sedere in pace, ma la guerra domina tutto

[il territorio.

…………………………………………………..

…e ciascuno morendo scagli il giavellotto per l’ultima volta.

Infatti, è cosa onorevole e magnifica per un uomo combattere

per la sua terra e per i figli e per la sposa legittima

contro i nemici[4]; e la morte allora sarà quando

le Moire[5] (la) fileranno; ma, suvvia, ciascuno avanzi diritto

sollevando l’asta e stringendo sotto lo scudo un cuore

intrepido, non appena si accenda la mischia di guerra.

Infatti, non è in alcun modo predestinato che

un uomo sfugga alla morte, neppure se è prole di progenitori

immortali. Spesso, sfuggito alla mischia e al rombo dei giavellotti

ritorna, ma in casa lo coglie destino di morte,

ma l’uno (il disertore), tuttavia, non è caro al popolo né è degno

di rimpianto, l’altro invece lo piangono l’umile e il grande

se gli capita qualcosa: perché c’è compianto nel popolo tutto

per l’uomo prode, se muore, ma se sopravvive è degno dei semidei:

perché lo vedono nei loro occhi come una torre:

compie, infatti, pur essendo solo, imprese degne di molti.

Aryballos in ceramica a forma di testa di guerriero elmata, VI sec. a.C. dalla Grecia orientale. New York, Metropolitan Museum of Art
Aryballos in ceramica a forma di testa di guerriero con elmo, VI sec. a.C. dalla Grecia orientale. New York, Metropolitan Museum of Art.

*********************************

Note:

[1] Cfr. Iliade XXIV, 128.

[2] Cfr. Tirteo fr. 10, 17.

[3] La αἰδώς, il senso di vergogna e di scrupolo che il guerriero prova di fronte alla prospettiva di mostrarsi vile, è fondamentale nella concezione omerica della virtù guerresca, ma questo sentimento viene qui riferito al rapporto con la comunità (cfr. Odissea II, 64 s.).

[4] Cfr. Iliade XV, 494-499: «su, combattete contro le navi; e chi fra di voi, ferito o colpito, debba incontrare destino di morte, muoia: non è sconveniente per lui morire difendendo la patria, ma sono salvi per il futuro la sposa e i figli, e intatti i beni e la casa, se mai gli Achei se ne andranno con le navi dalla terra paterna».

[5] Le dee del destino, corrispondenti alle Parche romane, che presiedono alla μοῖρα o “porzione” di vita assegnata a ciascuno.

Properzio, Elegia I, 1 – Cinzia, primo amore

in F. Piazzi, A. Giordano Rampioni, Multa per aequora – Letteratura, antologia e autori della lingua latina, vol. 2: Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004, pp. 295-303.

L’elegia proemiale del Monòbiblos mette subito in primo piano la vicenda sentimentale del poeta, amante non corrisposto che cerca la liberazione dalla malattia d’amore. Ciò sembra contrastare con la consuetudine della poesia alessandrina, che assegnava alla prima composizione di una raccolta una funzione programmatica e metaletteraria (indicazioni riguardo alle scelte formali, al ruolo del poeta, al lettore privilegiato). Così il Liber di Catullo si apriva con una composizione, dedicata a Cornelio Nepote, che illuminava la poetica dell’autore. In realtà, neanche Properzio si sottrae alla convenzione: infatti, questa elegia fornisce tutta una serie di coordinate di poetica, implicitamente indica i modelli letterari, dichiara il legame con la tradizione neoterica (riallacciandosi all’alessandrinismo patetico e sentimentale di Meleagro, di cui è ripreso un epigramma nei vv. 4-5), dà le chiavi di lettura anche delle composizioni seguenti. Come in un’overture, sono qui polifonicamente condensati temi, motivi, topoi che, variati, ritorneranno in tutta la raccolta: l’amore come centro esclusivo di ogni interesse esistenziale del poeta; l’innamoramento causato dalla bellezza degli occhi (v.1); Eros lottatore invincibile (v.4) e, come nella poesia greca, astuto tessitore di trame (v.17); l’amore come furor (v.7), forza invincibile, malattia dell’animo (v.26) in conformità con l’ideologia elegiaca; la vita sbandata e “negativa” dell’amante non più illuminata dalla ragione (nullo uiuere consilio, v.6); l’amore come seruitium, disponibilità ad affrontare ogni tipo di labores pur di vincere la resistenza dell’amata (v.9); il pallore e la consunzione fisica come “indici figurali” dell’amore infelice; l’esperienza mitica – l’exemplum e contrario di Milanione – intesa come paradigma del vissuto (vv.9-18); i vari remedia amoris: il ricorso alla magia per fare innamorare la donna (vv.19-24), l’appello agli amici perché aiutino il poeta a guarire dalla passione disperata (vv.25-30), la commutatio loci o viaggio terapeutico in terre remote (v.29); l’ira dell’amante come segno della fine del seruitium amoris e la conquista della parrhesìa, cioè della libertà di parola prima negata allo schiavo d’amore (v.28); il topos del poeta praeceptor amoris che, guarito ormai dall’insana passione, dona consigli agli amici identificati con il pubblico della sua opera (vv.31-38). E poi c’è, emergente dall’intera composizione, la contraddizione già catulliana (Carmen 75) tra la convinzione che un amore così non meriti d’essere vissuto e la difficoltà, forse l’impossibilità, di porvi fine. C’è, come già in Catullo, il valore ideologico della passione amorosa, che crea un sistema di valori alternativo a quello tradizionale, in contrasto con la morale “benpensante” basata sulla priorità del negotium sull’otium, del matrimonio su un legame non regolato dalla legge: questo è evidente soprattutto nel v.5. Da questo punto di vista l’elegia proemiale si configura come una Priamel – schema retorico che opponeva il proprio all’altrui genere di vita (bios) – abbreviata e rovesciata. La topica dell’àristos bios (“la vita migliore”) riconduceva la varietà delle propensioni umane alle quattro classi seguenti: vita consacrata al potere, alla ricchezza, al piacere, alla sapienza. Nell’elegia properziana, la vita del saggio è esclusa (nullo uiuere consilio, v.6), quelle per il potere e la ricchezza sono unificate nel bios cui è destinato il dedicatario Tullo. Rimane la vita per il piacere (philènos bios), che sembrerebbe la più congeniale alle propensioni naturali del poeta, anche se, in base al codice elegiaco, questo piacere si traduce in infelicità (v.1, miserum me), passione devastante (v.7, furor), malattia (v.26, non sani pectoris), mentre l’oggetto del desiderio si rivela essere un male (v.35, malum). La rassegna delle forme di vita altrui (Lebensbilder) contrapposte alla propria ricorre in altri luoghi della poesia properziana, ad esempio in II 1, 43 ss: «Il marinaio narra dei venti, il contadino dei tori, / il soldato conta il numero delle ferite, il pastore delle pecore; / io invece canto le lotte combattute in un angusto letto: / ognuno consumi il giorno nell’arte che conosce» (trad. it. L. Canali).

 

     Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis,

contactum nullis ante cupidinibus[1].

tum mihi constantis deiecit lumina fastus

et caput impositis pressit Amor pedibus,

5   donec me docuit castas odisse puellas

improbus, et nullo uiuere consilio[2].

et mihi iam toto furor hic non deficit anno,

cum tamen aduersos cogor habere deos[3].

Milanion nullos fugiendo, Tulle, labores

10 saeuitiam durae contudit Iasidos[4].

nam modo Partheniis amens errabat in antris,

ibat et hirsutas ille uidere feras[5];

ille etiam Hylaei percussus uulnere rami

saucius Arcadiis rupibus ingemuit.

15 ergo uelocem potuit domuisse puellam:

tantum in amore preces et bene facta ualent[6].

in me tardus Amor[7] non ullas cogitat artis,

nec meminit notas, ut prius, ire uias.

at uos, deductae quibus est fallacia lunae

20 et labor in magicis sacra piare focis,

en agedum dominae mentem conuertite nostrae,

et facite illa meo palleat ore magis[8]!

tunc ego crediderim uobis et sidera et amnis

posse Cytaeines ducere carminibus[9].

25 et uos, qui sero lapsum reuocatis, amici,

quaerite non sani pectoris auxilia[10].

fortiter et ferrum saeuos patiemur et ignis,

sit modo libertas quae uelit ira loqui[11].

ferte per extremas gentis et ferte per undas,

30 qua non ulla meum femina norit iter:

uos remanete, quibus facili deus annuit aure,

sitis et in tuto semper amore pares[12].

in me nostra Venus[13] noctes exercet amaras,

et nullo uacuus tempore defit Amor.

35 hoc, moneo, uitate malum: sua quemque moretur

cura, neque assueto mutet amore locum.

quod si quis monitis tardas aduerterit auris,

heu referet quanto uerba dolore mea![14]

 

Pinax degli sposi. Affresco parietale, fine I sec. a.C. – inizi I sec. d.C., dall’ambiente 3 della Domus del Lararium, Assisi.

 

Cinzia, per prima ha fatto prigioniero me, sventurato, coi suoi occhi,

io che mai prima ero stato toccato dalla passione.

Da allora Amore mi fece abbassare gli occhi ostinatamente alteri

e mi calcò il capo, premendovi sopra i piedi

finché m’insegnò, crudele (qual è), a detestare le fanciulle perbene

e a condurre una vita senza senno.

E già da un anno intero questa follia non m’abbandona,

mentre sono costretto ad avere gli dèi avversi.

Milanione, accettando ogni prova, o Tullo

piegò la crudeltà dell’insensibile Iaside.

Infatti, ora si aggirava fuori di sé per le grotte del Partenio,

ora andava a scovare le fiere irsute;

anche lui, colpito dalla clava di Ileo,

ferito, rivolse il suo lamento alle rupi d’Arcadia.

Così poté domare la rapida fanciulla:

tanto in amore valgono le preghiere e le buone azioni.

Nel mio caso, invece, l’Amore pigro non riesce ad escogitare espedienti,

e non si ricorda di percorrere, come prima, le note vie.

Ma voi, che fate credere di aver tirato giù la luna,

e vi affannate a compiere riti propiziatori su magici altari,

suvvia, cambiate i sentimenti della mia donna

e fate che il suo viso impallidisca più del mio!

Allora io potrei credere che poi possiate indirizzare il corso

degli astri e dei fiumi con incantesimi della Cytea.

E voi, amici, che troppo tardi richiamate indietro chi è caduto,

cercate dei rimedi per il mio cuore malato.

Sopporterò con coraggio sia il bisturi sia le crudeli cauterizzazioni,

purché io abbia la libertà di dire ciò che l’ira mi suggerisce.

Portatemi fra genti e mari remoti,

dove nessuna donna conosca il mio cammino:

voi, a cui il dio annuì con orecchio benevolo, restate

e siate sempre concordi in amore tranquillo.

Quanto a me, la mia Venere agita le mie notti amare,

e Amore non mi lascia neppure per un momento.

Vi avverto, evitate questo male: ciascuno resti fedele

alla propria amata né si allontani dal suo consueto amore.

Ché se qualcuno troppo tardi presterà attenzione ai miei ammonimenti,

con quanto dolore, ahimé, ricorderà le mie parole!

(trad. it. F. Cerato)

 

Scena erotica. Mosaico, I sec. d.C. da Centocelle. Berlin, Kunsthistorisches Museum.

 

L’elegia I 1 e l’epigramma di Meleagro

 

Come abbiamo accennato sopra, ha un carattere programmatico la citazione, fatta fin dai primi versi, di un epigramma di Meleagro di Gadara, autore prediletto dai neoteroi e da Catullo, ed espressione dell’alessandrinismo più tipico. Scrive A. La Penna: «Properzio implicitamente dichiara il suo legame con la tradizione neoterica e mostra al suo pubblico dotto di saper utilizzare anche l’alessandrinismo più aggiornato e moderno. Tuttavia, egli cerca di piegare la grazia dell’epigrammista verso un pathos più vigoroso e più alto»[15].

 

 

τόν με Πόθοις ἄτρωτον ὑπὸ στέρνοισι Μυΐσκος

ὄμμασι τοξεύσας, τοῦτ᾽ ἐβόησεν ἔπος·

“τὸν θρασὺν εἷλον ἐγώ· τὸ δ᾽ ἐπ᾽ ὀφρύσι κεῖνο φρύαγμα

σκηπτροφόρου σοφίας ἠνίδε ποσσὶ πατῶ”.

τῷ δ᾽, ὅσον ἀμπνεύσας, τόδ᾽ ἔφην

“φίλε κοῦρε, τί θαμβεῖς;

καὐτὸν ἀπ᾽ Οὐλύμπου Ζῆνα καθεῖλεν Ἔρως”.

 

Il mio petto non era stato ancora ferito dai desideri.

Fu Musco a colpirlo con gli strali degli occhi, e gridava:

«Ho catturato l’audace! Ecco: calpesto coi piedi

il suo orgoglio di sapientone austero».

E io, ripreso fiato un istante: «Di che ti stupisci, caro ragazzo?

Eros ha cacciato anche Zeus giù dall’Olimpo»[16].

 

Pittore del Bacio (attribuito). Scena erotica. Pittura vascolare dal frammento di una kylix attica a figure rosse, 450 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.

 

La differenza con il testo properziano è soprattutto nella chiusa arguta (la pointe epigrammatica), dove la constatazione che perfino Zeus è stato vinto da Eros sdrammatizza la situazione dell’amante non corrisposto. In tal modo l’assenza di reciprocità in amore è presentata come una condizione normale. Invece, l’elegia properziana assume toni di grande drammaticità. Al dialogo subentra la confessione dolente fatta dall’io lirico del poeta, che fin dal primo verso comunica la propria irrimediabile infelicità (v.1, miserum me). Anche l’adozione del mito di Milanione, che ha un esito opposto a quello della vicenda di Properzio, e l’apostrofe agli innamorati felici esaltano, isolandola, la disperazione del poeta. La differenza di tono tra le due composizioni implica il «carattere accessorio» (E. Lefèvre) dell’elemento greco, che certo non ha determinato la genesi dell’elegia, ma deve considerarsi solo un «motto», un motivo di decorazione, un élément de culture, come è possibile osservare anche in Orazio.

 

Lingua e antropologia

 

Secondo S. Alfonso, nell’elegia I 1 alcune scelte lessicali rendono con precisione il senso della caduta morale e sociale di Properzio. Prima di cedere al servitium amoris egli era un fortis civis, come si deduce dal v.3 (tum mihi constantis deiecit lumina fastus), cioè possedeva la constantia, la saldezza di chi non si lascia scuotere dagli eventi. Si tratta di una virtù eminentemente romana, associabile alla saggezza (cfr. Cic. Off. I 40: fortis… animi et constantis est non perturbari) e nel campo amoroso congiunta alla fides (cfr. Prop. II 26, 27: multum in amore fides, multum constantia prodest). Dopo l’incontro con Cinzia la situazione di partenza si rovescia: alla constantia subentra il furor, cioè il suo contrario (cfr. Sall. Cat. II 25: hinc constantia, illinc furor [la prima attribuita agli ottimati, il secondo ai catilinari]). Il primitivo orgoglio – reso dal termine fastus usato metaforicamente (cfr. Verg. Aen. III 326-327: stirpis Achilleae fastus iuuenemque superbum / tulimus) e da lumina indicante lo sguardo balenante e baldanzoso – è piegato dagli ocellis seducenti di Cinzia. La quale, nell’azione della cattura (v.1, cepit), cede il posto ad Amore, con questo in parte identificandosi. Infatti, «la posizione posticipata di Amor induce a considerare Cynthia come soggetto non solo di cepit, ma anche di deiecit e di pressit, sino al momento in cui viene menzionato il vero soggetto»[17]. Il senso della caduta fatale dall’elevata condizione originaria è bene espresso da deicere (Th.L.L.: «deorsum iacere, praecipitare, de superiore loco detrudere») che, unito a lumina, significa imporre all’avversario l’abbassamento dello sguardo, segno trasparente di sottomissione. Anche nell’elegia I 13 l’innamoramento si traduce, in questo caso non per Properzio ma per Gallo, in una caduta che non consente di praeteritos… succedere fastus («risalire alla primitiva baldanza»).

 

Scena erotica. Affresco parietale, ante 79 d.C., dalla Casa del Ristorante. Pompei, Parco Archeologico.

 

Chi era Cinzia?

 

Properzio non la descrive con precisione. Solo ne delinea i tratti salienti della figura e l’incedere maestoso: II 2, 3, fulua coma est longaeque manus et maxima toto / corpore et incedit uel Ioue digna soror («Ha fulva la chioma, lunghe le braccia, grande  / la persona, e incede quasi sorella degna di Giove», trad. it. L. Canali). Accenna agli occhi neri e alle movenze sensuali (II 12, 23-24: lumina nigra… / molliter ire), alla toilette minuziosa (I 15, 5 ss. «puoi ravviare con le mani i capelli pur ieri acconciati, / studiare il tuo volto con lungo indugio, / adornare il petto con gemme orientali…»), al trucco esotico dernier cri che prevedeva tatuaggi azzurri alla moda britannica e parrucche bionde: II 18, 23, «Ora, o dissennata, imiti anche i Britanni con il volto dipinto / e ti diverti a colorare i capelli d’uno splendore / straniero?». Frequenti sono i cenni all’esuberanza sessuale: I 2, 13, «lotta nuda con me, strappata la tunica»; II 15, 4 ss., «quante battaglie d’amore abbiamo ingaggiato, / allontanato il lume. Infatti, ella ora lottava con me / a seni nudi, ora indugiava a lungo coperta dalla tunica […] / come abbiamo intrecciato le braccia in diverse forme d’amplesso!». Cinzia è anche colta, gareggia in poesia con Corinna, maestra di Pindaro, danza come Arianna, suona la lira: II 3, 16 ss., «Ella danza leggiadramente, portato il vino, pari ad Arianna… / tenta i carmi con il plettro eolio, / è dotta al pari delle Muse nell’accordarli alla lira / … compete con gli scritti dell’antica Corinna». Le doti di fascino, sensualità, raffinatezza richiamano la Lesbia di Catullo e la Sempronia di un celebre ritratto di Sallustio. Ma secondo A. La Penna[18], Cinzia non è confrontabile con queste aristocratiche simili a cortigiane per i loro costumi disinibiti, ma che non dovevano guadagnarsi da vivere. Cinzia doveva essere mantenuta per soddisfare i suoi lussi e capricci, e quindi avere degli amanti, che Properzio in un “canto della gelosia” le attribuisce in numero superiore a quello dei frequentatori delle cortigiane famose: II 6, 1 ss., «Non a tal punto riempivano la casa di Laide… / né tanto numerosa un tempo fu la turba / di Taide con la quale si trastullò il popolo ateniese / né trasse intenso piacere da tanti uomini Frine». Cinzia non doveva essere proprio una prostituta (meretrix), ma una cortigiana di alto bordo (amica), qualcosa di simile alle cortigiane colte del Rinascimento. Che fosse di ceto sociale inferiore a quello di Properzio lo dimostra l’elegia II 7, nella quale i due amanti esultano per il ritiro, da parte di Augusto, di una legge matrimoniale che avrebbe costretto il poeta a sposare Cinzia, e quindi a lasciarla. Infatti, non poteva prendere in moglie legalmente una donna di rango sociale più basso, probabilmente una liberta (e certamente liberte erano anche la donna cantata da Gallo e le donne di Tibullo, Delia e Nemesi). Ma c’è anche chi suppone che Cinzia fosse una matrona scostumata (come Lesbia) con la quale il poeta avrebbe avuto una relazione adulterina e c’è perfino chi ne nega l’esistenza.

 

Scena di amplesso (symplegma) fra una prostituta e il cliente. Statua, marmo, I sec. d.C. Monaco, Glyptothek.

 

Note:

[1] vv. 1-2, Cynthia… cupidinibus: la menzione in incipit di Cinzia, referente principale della poesia di Properzio, funge da senhal, parola che nella lirica provenzale indica il nome fittizio della persona amata o il tema dominante dell’opera. La centralità di Cinzia è rafforzata dalla collocazione di ocellis (i begli occhi della donna) in excipit, altra posizione forte dopo quella iniziale. Così Cinzia è emblematicamente all’inizio e alla fine del primo verso (quello che nella poesia antica conferiva la massima memorabilità, al punto da divenire, come in questo caso, il titolo dell’opera). Cinzia è inizio e fine, come Properzio dirà in I 12, 9: Cynthia prima fuit, Cynthia finis erit. Lo pseudonimo Cynthia è da collegare (come anche la Delia di Tibullo), attraverso il monte Cinto sull’isola di Delo, ad Apollo e alla poesia. Apuleio svela la convenzione letteraria: «Catullo cantò Lesbia invece di Clodia… Properzio celò Ostia col nome di Cinzia, Tibullo cantò in versi Delia, ma nel cuore aveva Plania» (Apol. 10). Questi pseudonimi miravano a «proiettare le protagoniste della vita galante romana sullo sfondo greco del mito e della letteratura» (Labate). prima… ocellis: prima (predicativo) non indica che Cinzia fu la prima relazione amorosa in senso assoluto, ma il primo (e l’ultimo) vero amore; ocellus, diminutivo di oculus con forte valore affettivo, piuttosto che riduttivo (cfr. Cat. 3, 18: flendo…rubent ocelli), implica anche una capacità subdola di seduzione, una leggiadria apparentemente inoffensiva; cfr. Prop. I 15: …ocellis, / per quos saepe mihi credita tua perfidia est («gli occhi per i quali ho spesso creduto alla tua perfidia»); II 26, 13: quod si tuos uidisset Glaucus ocellos, / esses Ionii facta puella maris («Se Glauco avesse visto i tuoi occhi, saresti divenuta ninfa del mare Ionio»). L’innamoramento che nasce dalla bellezza degli occhi è in Omero (Il. XIV 294 – Zeus, vedendo Era sul monte Ida, avverte lo stesso sentimento d’amore provato nella prima unione), in Saffo (fr. 31 V.), è teorizzato in Platone (Phaedr. 251a) e sarà un topos della lirica amorosa europea, stilnovistica in particolare (vd. ad es. G. Cavalcanti, Voi che per li occhi mi passaste ‘l core). suis… ocellis: iperbato a cornice; l’arma (gli occhi di Cinzia) iconicamente e graficamente imprigiona la vittima, miserum me, che è condizione topica, nella poesia elegiaca, dell’amante, il quale spesso si autocompiange per un amore infelice; cfr. Cat. 8, 1: Miser Catulle, desinas ineptire. cepit: l’irretimento amoroso è reso graficamente dall’iperbato che chiude la frase; l’amore è assimilato alla guerra, l’amante al soldato. L’idea della milita amoris implica una visione dell’amore come sentimento conflittuale e violento e giustifica il vasto repertorio di metafore militari comuni nella poesia elegiaca. Ma il topos era già presente nella lirica greca sia ellenistica sia arcaica. contactum… cupidinibus: contactum, da contingere, significa «colpito, ferito» (cfr. Th.L.L. contingere: «telo apprehendere») dalle frecce di Cupido, al quale può alludere cupidinibus. Ma potrebbe anche significare «contagiato» (Th.L.L.: «inficere, contaminare») dato il valore negativo di morbus devastante che la passione amorosa assume agli occhi di Properzio. Ma le due interpretazioni, l’amore come ferita e l’amore come malattia, non si escludono a vicenda. cupidinibus: è difficile stabilire se vada scritto con l’iniziale maiuscola, riconoscendo nelle Cupidines, la personificazione degli Amorini (Erotes), armati di frecce, della tradizione ellenistica (cfr. cfr. Cat. 3, 1: Iugete, Veneres Cupidinesque) – nel qual caso andrebbe inteso come dativo d’agente – oppure se il termine indichi invece il concetto astratto della passione amorosa. Del resto, nell’elegia II 29 una turba di Amorini, che dichiara di essere stata assoldata da Cinzia, circonda Properzio ubriaco, minacciandolo di sottoporlo ad atroci sevizie per la sua infedeltà.

 

Amorino guerriero. Mosaico, III sec. d.C. Pafo, Casa di Perseo.

 

[2] vv. 3-6, tum… consilio. constantis… fastus, genitivo di qualità, indica la perduta fierezza del vinto; fastus prima che «sontuosità» significa «orgoglio», «disprezzo» (cfr. fastidium e fastidire): è il termine tecnico della poesia erotica e indica la durezza d’animo, lo sguardo fermo e sprezzante di chi non è stato assoggettato al potere di Amore. L’abbassarsi degli occhi esprime soggezione, ma anche impossibilità di incontrare lo sguardo dell’amata, quindi assenza di reciprocità amorosa. et caput… pedibus: come il gladiatore o il soldato vincitore sull’avversario; cfr. Verg. Aen. X 495: laeuo pressit pede, dove Turno infierisce sul vinto Pallante. Ancora una metafora bellica, questa volta per indicare la guerra tra l’innamorato e Amore, dio terribile possessore di armi infallibili. Di fronte allo strapotere del dio, chi ama è destinato a soccombere. È questo il topos, comune nella poesia erotica alessandrina, di Eros lottatore. I vv.4-5 imitano, come si è accennato nell’introduzione, un epigramma di Meleagro, un autore prediletto dai neoteroi e da Catullo. donec… consilio: è qui presente il topos ellenistico dell’éros didáskalos («Amore che insegna»); cfr. Verg. Buc. VIII 47-48: saeuus Amor docuit natorum sanguine matrem / commaculare manus («il feroce Amore insegnò alla madre a macchiare le mani col sangue dei figli»). Ma il contenuto dell’insegnamento non è chiaro e le interpretazioni sono almeno due: l’amore per Cinzia, donna libera e spregiudicata, induce il poeta a una vita disperata precludendogli il matrimonio con una ragazza seria e di buona famiglia; oppure, il poeta ha imparato a odiare le ragazze sorde all’amore e inaccessibili come Cinzia (dando a castas il senso di «dure, restie»). Ma, considerando che Cinzia doveva essere una cortigiana, anche se di alto bordo, risulta più convincente la prima interpretazione: «Scegliendo l’elegia d’amore, il poeta sceglie l’isolamento nell’universo elegiaco e la schiavitù d’amore, che comporta l’abbandono del decoro sociale, la rinuncia a una carriera, per una vita socialmente inattiva e sterile, la nequitia» (Gazich). nullo… consilio: l’iperbato accresce il pathos dell’espressione. La sconsideratezza può consistere, a seconda del senso dato a castas puellas, nel detestare le fanciulle virtuose o nel fissarsi su un amore non corrisposto. Si tratta comunque di una condizione disperata, come si ricava dal richiamo fatto subito dopo al mito di Milanione. Lachman interpretava nullo uiuere consilio come un periodo di sfrenatezza sessuale. D’altro avviso è Fedeli: «Nullo uiuere consilio significa vivere sine ratione e rappresenta uno stato d’animo analogo all’amentia (v.11) di Milanione».

[3] vv. 7-8, et… deos. Furor, contrapposto a consilium precedente, è l’amore-passione che toglie il senno. È il topos, comune alla poesia erotica ellenistica, dell’amore come male della mente (furor, insania); cfr. Verg. Buc. X 60: haec sit nostri medicina furoris (riferito a Cornelio Gallo). Ma furor è una condizione che implica l’emarginazione e la pericolosità sociale. In Tusc. III 11, Cicerone chiarisce che nei confronti di chi è in preda al furor si prendevano provvedimenti drastici (come l’interdizione dall’uso del patrimonio personale) non previsti per l’insania, cioè la moderata follia congiunta a stoltezza. Dunque, chi è in preda al furor amoroso è anche posto ai margini della società e privato della dignità di civis. cum… deos: la proposizione avversativa si giustifica col fatto che il poeta, proprio per l’intensità e sincerità del suo amore, si attenderebbe di godere del favore degli dei, cioè di essere ricambiato da Cinzia. In realtà, la condizione di furor in cui il poeta si trova lo pone in una condizione di miseria che implica la contrarietà degli dei, cfr. Cat. 76, 11-12: quin tu animo offirmas atque istinc teque reducis / et dis inuitis desinis esse miser? cogor: esprime lo stato di soggezione in cui Amore ha ridotto il poeta, ma anche «la consapevolezza che la situazione in cui si è cacciato lo porta ad avere gli dei aduersi» (S. Alfonso).

[4] vv. 9-10, Milanion… Iasidos: come di consueto, Properzio confronta la propria esperienza con quella di un personaggio mitico, per sublimarla rendendola paradigmatica. Con gusto alessandrino, trasceglie la versione meno nota (quella arcade) del mito: Milanione difende Atalanta, vergine cacciatrice, figlia di Iaso, dalla violenza dei centauri Reto e Ilèo, restando ferito da una freccia di quest’ultimo e riuscendo, infine, a conquistare l’amore della fanciulla. Secondo la versione beotica (la più nota) del mito, Atalanta, contraria alle nozze, sfida alla corsa i pretendenti, promettendosi al vincitore. È vinta da Ippòmene che, durante la gara, getta in terra delle mele d’oro che la fanciulla si attarda a raccogliere. Naturalmente il parallelismo tra il poeta e Milanione è solo parziale, perché il primo consegue l’oggetto del desiderio, il secondo rimane inappagato. Le analogie tra Cinzia e Atalanta riguardano la duritia e «l’atteggiamento che infrange le regole di comportamento del personaggio femminile, perché è la donna a dominare sull’uomo e ad imporre le sue leggi» (S. Alfonso). nullos… labores: è un altro topos della poesia erotica; l’innamorato è pronto ad affrontare ogni travaglio pur di vincere la ritrosia dell’amata. Tulle: amico di Properzio, nipote di Volcacio Tullo (cos. 33 a.C. insieme con Ottaviano Augusto) e dedicatario del monòbiblos. A lui il poeta si rivolge altre volte nel corso dell’opera (I 6; I 14; I 22). saeuitiam: è sempre, nella poesia erotica, la crudeltà di chi disdegna l’amore (cfr. Hor. Carm. II 12, 26): Properzio, che sopporta pene non inferiori a quelle sofferte da Milanione, non riesce, tuttavia, a conquistare Cinzia, che si rivela più dura di Atalanta.

 

Nicolas Colombel, Atalanta e Ippomene. Olio su tela, 1680

 

[5] vv. 11-12, nam…feras: versi tormentati, che spiegano (nam) quali fossero i labores affrontati da Milanione con devozione eroica. La difficoltà è nella correlazione non usuale modo…et (invece di modo… modo, «ora… ora»). Si è ipotizzata la perdita, tra questi versi, di un distico che contenesse un secondo membro ugualmente introdotto da modo. La traduzione possibile con questo testo è: «Infatti ora si aggirava fuori di sé nelle grotte del Partenio e andava a scovare le fiere irsute». Il Partenio è un monte dell’Arcadia, coerentemente con l’adozione della versione arcadica del mito. Su questo monte, Iaso aveva fatto esporre Atalanta; il fatto che tale circostanza non venga chiarita prima solleva ulteriori dubbi sull’integrità del testo. amens, parola chiave della poesia erotica, riprende il tema del furore amoroso richiamando la condizione del poeta, che da quando ha conosciuto Cinzia trascorre la vita nullo consilio (v.6). L’aggettivazione favorisce l’identificazione del poeta con l’exemplum mythicum: «quanto maggiore sarà l’analogia tra i due innamorati, tanto più sorprendente risulterà l’esito rovesciato dell’esperienza properziana» (P. Fedeli).

[6] vv. 15-16, ergo… ualent: ergo evidenzia, come il nam del v.11, il legame esistente tra i servigi resi ad Atalanta e il premio ottenuto (l’amore della donna), implicitamente rilevando l’iniquità della sorte toccata al poeta, per il quale solo non pare valere il nesso tra benefacta e ricompensa. La contrapposizione tra i due destini è espressa in modo esplicito nei versi successivi. Come spesso nell’elegia il mito è un termine di confronto con l’esperienza personale del poeta. Però, in questo caso, il confronto non è per analogia, ma per contrasto, per antitesi: Atalanta cede, Cinzia invece resiste (exemplum e contrario). tantum… ualent: verso d’intonazione gnomica che sintetizza una “legge” dell’amore, che però non vale per Cinzia.

[7] v. 17, in me: segna il passaggio dall’exemplum mitologico alla sfera personale. Fedeli ha notato «la complessità strutturale del carme il cui focus narrativo si sposta da una condizione di carattere generale alla condizione personale del poeta innamorato». tardus Amor: solo per il poeta Amore è “pigro” e non sa trovare un mezzo per fare innamorare Cinzia. Eppure, è un dio velocissimo e alato, che solitamente scocca dardi fulminei. È qui rovesciato il topos ellenistico della tempestività di Amore.

[8] vv. 19-22, at uos… magis! Il poeta supplica le maghe che facciano innamorare Cinzia. la forma dell’apostrofe è quella della preghiera: invocazione con indicazione delle prerogative magiche (vv.19-20), richiesta d’aiuto (vv.21-22), promessa di ricompensa (vv.23-24). Il ricorso alla magia è un topos della poesia erotica greca e latina. Secondo S. Alfonso, la ricerca di remedia esterni spiega il diverso esito della vicenda del poeta rispetto a quella di Milanione. Mentre l’amentia di questo è congiunta all’audacia, Properzio non trova in se stesso la constantia e l’ardire necessari. quibus… lunae: il poeta non sembra credere troppo in questa capacità soprannaturale, spesso indicata tra le prerogative delle maghe (cfr. Verg. Buc. VIII 69: carmina [«le formule magiche»] uel caelo possunt diripere lunam). In particolare, le maghe tessale godevano di tale fama (Apul. Met. I 3). La sua pare piuttosto una sfida: se davvero sanno prodursi in una performance tanto spettacolare, allora facciano anche innamorare Cinzia. Inoltre, la disperazione giustifica il ricorso a questo estremo rimedio, tema caro agli alessandrini. facite… magis: dato che il pallore è sintomo dell’innamoramento (cfr. Ovid. Ars am. I 729: palleat omnis amans: hic est color aptus amanti), Properzio prega che Cinzia s’innamori di lui più perdutamente di quanto lui ama lei. Il trascolorare del viso come «indice figurale» dell’innamoramento è riscontrabile nella poesia erotica alessandrina, nella commedia latina e greca, e già Saffo scriveva: «sono più verde dell’erba».

 

Fattucchiera e due donne. Mosaico, ante 79 d.C. Pompei, Villa di Cicerone. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

[9] vv. 23-24, tunc… carminibus; et sidera et amnis… ducere: sono alcuni degli exploits spettacolari tradizionalmente attribuiti alle streghe. Cfr. Apul. Met. I 8: Saga… potens… fontes durare… sidera extinguere («Una strega capace di rendere di sasso i corsi d’acqua e di spegnere le stelle»). Si noti l’ironia del polisindeto (et… et…). Cytaeines: «la donna di Cytae». Cytae, in Colchide sul Mar Nero, è la città di Medea, maga per eccellenza ed esperta di ogni farmaco (panphàrmakos). Figlia di Eeta, re di Colchide, aiuta Giasone a conquistare il vello d’oro e lo segue lasciando la patria e il padre. Come narra Euripide nella tragedia Medea, ella è abbandonata dall’eroe, che intende sposare Glauce, figlia del re di Corinto. La vendetta di Medea consisterà nell’uccidere la futura sposa con una veste preziosa che uccide chi la tocca. Poi fugge sul carro del sole (e questo particolare del mito spiega la connessione della figura di Medea con il culto di Helios). Di Medea Apollonio Rodio nelle Argonautiche scrive: «ferma le acque dei fiumi… incanta le stelle» (III 532). Anche Tibullo la ricorda: «si dice che lei sola abbia le erbe malefiche di Medea» (Eleg. I 2, 53).

[10] vv. 25-26, et uos… auxilia: la richiesta fatta dall’amante infelice agli amici, perché lo aiutino a guarire dal male d’amore è un topos della poesia erotica, ma qui sembra logicamente incompatibile con il precedente appello, rivolto alle maghe, di fare innamorare Cinzia; o si prega di essere ricambiati o s’invoca la liberazione. Per rendere alternative le due richieste, si è pensato di correggere il tràdito et con aut. A meno di non considerare la preghiera alle maghe come una sorta di adynaton, cioè come la richiesta di una grazia considerata impossibile (Labate).

[11] vv. 27-28, fortiter… loqui. Le cauterizzazioni (saeuos igni) e le incisioni praticate col bisturi (ferrum) nella scienza medica rinviano ancora alla metafora della malattia d’amore (non sani pectoris, v.26), per guarire la quale occorrono interventi radicali e dolorosi. Cfr. Ovid. Rem. Am. 229 ss.: ferrum patieris et ignes. La sintassi spezzata rende la concitazione dell’animo. Inoltre, ferro e fuoco sono comuni metafore della passione nella poesia amorosa. libertas… loqui: libertas loquendi; la riconquista della libertà d’espressione propria di un uomo libero (parrhesìa), finora repressa dalla domina, segna la fine del servitium amoris. Anche questo è un topos della poesia erotica.

[12] vv. 29-32, ferte… pares. L’iterazione dell’imperativo ferte esprime l’abbandono fiducioso nelle mani degli amici, ma anche l’urgenza di attuare tale remedium. È la variante amorosa del topos della commutatio loci (mutamento di luogo per curare i mali dell’animo); cfr. Cic. Tusc. IV 77: loci… mutatione tamquam aegroti non conualescentes saepe curandum est («bisogna curarlo con cambiamenti di luogo, come si fa con i malati che non si rimettono»). Nella poesia erotica, è spesso unito al topos dell’amicizia come disponibilità ad accompagnare in capo al mondo l’amico malato d’amore; cfr. Cat. 11 e, per la vastità degli spazi, 101, 1: multas per gentes et multa per aequora uectus. La “terapia” è codificata anche da Ov. Rem. am. 214: i procul et longas carpere perge uias. Anche nell’elegia III 21 Properzio esprime l’intenzione di partire per Atene per liberarsi dell’amore, definito grauis e turpis. ferte… ferte: più espressivo di ducite, rende l’idea del corpo inerte e senza più volontà, che gli amici devono trasportare quasi materialmente sollevandolo. L’anafora esprime il senso della gravità del male e dell’urgenza dell’intervento. La determinazione dell’innamorato a liberarsi dal giogo del servitium amoris è un motivo ricorrente nell’elegia. qua… iter: il risentimento per Cinzia si estende iperbolicamente a tutte le donne. Si noti il quasi dispregiativo feminae: per gli elegiaci le altre donne sono solo feminae, mentre la loro donna è domina o, più affettuosamente, puella. L’iperbato meum… iter prolunga la distanza che Properzio intende frapporre tra sé e le donne del mondo. uos… pares: il poeta ora si rivolge agli amanti fortunati in genere.

 

John William Waterhouse, Giasone e Medea. Olio su tela, 1907.

 

[13] v. 33, nostra Venus ha avuto varie interpretazioni: «Venere nostra signora» (di tutti gli amanti, felici e infelici); «la mia Venere» (ben diversa dalla Venere degli amanti fortunati); «la mia dea» (cioè Cinzia). La seconda sembra essere la più convincente, perché s’intona con il sentimento vittimistico di dolorosa diversità espresso nei versi precedenti.

[14] vv. 35-38, hoc…mea: la fine dell’elegia rispecchia la condizione attuale del poeta che, ormai guarito dall’insana passione, è generoso di insegnamenti agli amici. Egli ammonisce gli innamorati fortunati a rimanere accanto alla loro donna, se non vogliono soffrire come lui. La conclusione didascalica non è estranea alla natura gnomica originaria dell’elegia e ricalca il motivo, comune nella poesia erotica, del poeta praeceptor amoris. L’apostrofe ai giovani amanti definisce il tipo di pubblico: «Properzio pensa ai giovani innamorati e sa bene che solo conquistando il loro favore riuscirà ad assicurare la giusta lode ai propri carmi. Ciò è evidente in particolare in I 7, 23-24: “… allora / avrò il mio posto tra i talenti di Roma; i giovani / sul mio sepolcro non potranno non dire: ‘Sei qui / grande poeta della nostra passione’”» (P. Fedeli).

[15] A. La Penna, L’integrazione difficile, Torino 1997, p. 125.

[16] Anth. Pal. XII 101, trad. it. G. Guidorizzi.

[17] S. Alfonso, Cinzia, gli occhi, la cattura del poeta. Properzio I 1 e la svolta d’amore, Aufidus 10 (1990), pp. 19-51.

[18] A. La Penna, op. cit., Torino 1977, p. 18.

Archiloco, l’Epodo di Colonia (P. Köln inv. 7511 = F 196A West²)

I versi contro Neobule, da cui traspare il realismo tagliente e aggressivo della poesia giambica, anche se il metro usato è diverso, sono animati da una spiccata misoginia. L’ammirata e tenera contemplazione dell’innamorato di un tempo, affascinato dalla «pelle delicata come un fiore» e dal «dolce incanto del volto» della sua donna, si trasforma ora nella spietata descrizione della sua decadenza fisica, per culminare in un pungente sarcasmo, di fronte al comportamento di lei, che, ormai sfiorita, continua ad atteggiarsi come se fosse ancora nel pieno della giovanile freschezza.

La sfortunata vicenda amorosa avrebbe avuto un seguito. Nel 1974, trasmesso da un rotolo papiraceo del I-II secolo d.C., Reinhold Merkelbach e Martin West pubblicarono l’editio princeps di un epodo di Archiloco, che è il più lungo frammento a tutt’oggi noto del giambografo (P. Köln inv. 7511 = F 196A West2). Mutilo della parte iniziale, il papiro è lacunoso lungo il margine destro; ma, in virtù dei contributi critici che alla sua esegesi hanno dedicato numerosi studiosi, è possibile ricostruirne, sia pure nelle linee generali, il contenuto: Archiloco racconta, verosimilmente a una cerchia di amici riuniti a simposio, una vicenda erotica di cui sono stati protagonisti egli stesso e una fanciulla che è stata ragionevolmente identificata con la sorella minore di Neobule, la donna un tempo amata dal poeta. La parte superstite propone un disinibito quanto «imbarazzante» dialogo fra l’«io» narrante e la ragazzina: l’imbarazzo, invero, è da addebitare più che altro a Merkelbach, che accusò addirittura Archiloco di essere «ein schwer Psychopath» («uno psicopatico grave»). In realtà, come è stato autorevolmente dimostrato, il testo dell’epodo non giustifica tali sospetti di pedofilia nei confronti del poeta (anche perché l’età sponsale era nella Grecia arcaica molto più bassa degli standard cui si è abituati oggi), per non parlare – come ha segnalato lo specialista di Archiloco, Francesco Bossi (Studi su Archiloco, 1990) – «dell’eventualità che sia tutta un’invenzione letteraria, forse costruita per gettare discredito sul clan rivale».

P. Köln 7511. Archiloco, Epodo di Colonia – fr. 196A, 17 West2
P. Köln inv. 7511. Archiloco, Epodo di Colonia (F 196A West²).
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

πάμπαν ἀποσχόμενος·

ἶσον δὲ τολμ[… ^ –

εἰ δ᾽ ὦν ἐπείγεαι καί σε θυμὸς ἰθύει,

ἔστιν ἐν ἡμετέρου

ἣ νῦν μέγ᾽ ἱμείρε[ι σέθεν

καλὴ τέρεινα παρθένος· δοκέω δέ μι[ν

εἶδος ἄμωμον ἔχειν·

τὴν δὴ σὺ ποιή[σαι φίλην.»

τοσαῦτ᾽ ἐφώνει· τὴν δ᾽ ἐγὼ ἀνταμει[βόμην·

«Ἀμφιμεδοῦς θύγατερ,

ἐσθλῆς τε καὶ [περίφρονος

γυναικός, ἣν νῦν γῆ κατ᾽ εὐρώεσσ᾽ ἔ[χει,

τ]έρψιές εἰσι θεῆς

πολλαὶ νέοισιν ἀνδ[ράσιν

παρὲξ τὸ θεῖον χρῆμα· τῶν τις ἀρκέσε[ι.

τ]αῦτα δ᾽ ἐφ᾽ ἡσυχίης

εὖτ᾽ ἂν μελανθη[ – ^ –

ἐ]γώ τε καὶ σὺ σὺν θεῶι βουλεύσομεν.

π]είσομαι ὥς με κέλεαι·

πολλὸν μ᾽ ε[ – x – ^ –

θρ]ιγκοῦ δ᾽ ἔνερθε καὶ πυλέων ὑποφ[λύσαι

μ]ή τι μέγαιρε φίλη·

σχήσω γὰρ ἐς ποη[φόρους

κ]ήπους· τὸ δὴ νῦν γνῶθι. Νεοβούλη[ν

ἄ]λλος ἀνὴρ ἐχέτω·

αἰαῖ, πέπειρα, δὶς τόση,

ἄν]θος δ᾽ ἀπερρύηκε παρθενήϊον

κ]αὶ χάρις ἣ πρὶν ἐπῆν·

κόρον γὰρ οὐ κ[ατέσχε πω,

ἥβ]ης δὲ μέτρ᾽ ἔφηνε μαινόλις γυνή.

ἐς] κόρακας ἄπεχε·

μὴ τοῦτ᾽ ἐφοῖτ᾽ ἀν[ – ^ –

ὅ]πως ἐγὼ γυναῖκα τ[ο]ιαύτην ἔχων

γεί]τοσι χάρμ᾽ ἔσομαι·

πολλὸν σὲ βούλο[μαι ^ –

σὺ] μὲν γὰρ οὔτ᾽ ἄπιστος οὔτε διπλόη,

ἡ δ]ὲ μάλ᾽ ὀξυτέρη,

πολλοὺς δὲ ποιεῖτα[ι φίλους·

δέ]δοιχ᾽ ὅπως μὴ τυφλὰ κἀλιτήμερα

σπ]ουδῆι ἐπειγόμενος

τὼς ὥσπερ ἡ κ[ύων τέκω.»

τοσ]αῦτ᾽ ἐφώνεον· παρθένον δ᾽ ἐν ἄνθε[σιν

τηλ]εθάεσσι λαβὼν

ἔκλινα· μαλθακῆι δ[έ μιν

χλαί]νηι καλύψας, αὐχέν᾽ ἀγκάληις ἔχω[ν,

δεί]ματι παυ[σ]αμένην

τὼς ὥστε νεβρ[ὸν – ^ –

μαζ]ῶν τε χερσὶν ἠπίως ἐφηψάμην

ἧι πα]ρέφηνε νέον

ἥβης ἐπήλυσιν χρόα

ἅπαν τ]ε σῶμα καλὸν ἀμφαφώμενος

θερμ]ὸν ἀφῆκα μένος

ξανθῆς ἐπιψαύ[ων τριχός.

Pittore anonimo. Scene erotiche. Pittura vascolare dai frammenti di un vaso potorio a figure rosse, V sec. a.C. Berlin, Altes Museum.
Pittore anonimo. Scene erotiche. Pittura vascolare dai frammenti di un vaso potorio a figure rosse, V sec. a.C. Berlin, Altes Museum.
«. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

astenendoti del tutto;

ma ugualmente sopporterai (?)…

Se proprio hai fretta e il desiderio ti urge,

c’è qui da noi

colei che ora molto desidera le nozze,

fanciulla bella e tenera; penso che il suo

aspetto non abbia biasimo:

costei tu falla tua!».

Queste cose mi diceva, e io le rispondevo:

«Figlia di Anfimedò,

nobile e saggia

donna, che ora la putrida terra trattiene,

piaceri della dea sono

molti per i giovani uomini,

oltre a quello divino: uno fra quelli sarà sufficiente.

Ma queste cose, con tranquillità

quando la nera…

io e te insieme alla dea decideremo.

Mi farò convincere come tu mi esorti:

molto…

da sotto il fregio e le porte allontanati,

mia cara, non rifiutarti:

mi dirigerò, infatti, verso gli erbosi

giardini; ma ora sappi questo. Neobule,

se la sposi un altro uomo!

Ahimè, è appassita, ha il doppio dei tuoi anni,

il fiore virginale è svanito,

e con esso il fascino che prima aveva:

sazietà, infatti, non conosce,

ma della giovinezza mostrò il termine, donna folle!

Che vada in malora!

Che non mi capiti,

sposando una donna simile,

di essere oggetto della malizia dei vicini!

Preferisco di molto te!

Tu non sei infida né doppia,

mentre lei è troppo astuta,

e si fa molti amici;

io temo di fare figli ciechi e prematuri,

spinto dalla fretta

così come la cagna».

Queste cose le dicevo; poi, presa la fanciulla,

tra i fiori splendenti

la distesi; con un morbido mantello

la coprii, cingendole il collo con un braccio,

mentre lei pavida

come un cerbiatto…

Con le mani le toccai dolcemente il seno,

proprio là dove mostrava la pelle fresca,

incanto di giovinezza;

E tutto il bel corpo accarezzando,

emisi la bianca potenza,

sfiorando il biondo pelo.

Nei primi cinque versi conservati, la fanciulla, reagendo e alla proposta di matrimonio e alle profferte sessuali che le saranno state avanzate dall’uomo nella parte perduta a inizio del papiro, lo invita ad «astenersi del tutto» (πάμπαν ἀποσχόμενος v. 1) e gli suggerisce, se proprio non può tenere a freno le sue voglie, di «fare sua sposa» (τὴν δὴ σὺ ποιή[σαι φίλην v. 8) Neobule, la «bella e tenera ragazza» (καλὴ τέρεινα παρθένος v. 6), che «ora molto desidera le nozze» (ἣ νῦν μέγ᾽ ἱμείρε[ι σέθεν v. 5). Alla fanciulla Archiloco risponde ai vv. 10-41, affermando che, «al di fuori del rapporto completo», la dea offre ai giovani molte gioie (vv. 13-14); e, dopo averla rassicurata che asseconderà la sua volontà (π]είσομαι ὥς με κέλεαι v. 19), dichiara che si augura che sia un altro uomo a sposare Neobule (vv. 24-25); quindi, contrappone le qualità fisiche e morali delle due sorelle: la maggiore è sin troppo matura e non possiede più il fiore virginale e il fascino di un tempo (vv. 26-28), e, per di più, è «folle» (μαινόλις γυνή v. 30), sicché, se la sposasse, egli diventerebbe lo zimbello dei vicini (vv. 33-34); invece, egli desidera fortemente quella giovane (πολλὸν σὲ βούλο[μαι v. 35), la quale, a differenza di Neobule, non è doppia né infida né scaltra, e non trama inganni (vv. 36-38). Concluso al v. 41 il suo intervento, Archiloco distende la fanciulla tra fiori rigogliosi, ricoprendola con un morbido mantello, e, dopo averla abbracciata, cingendole il collo, mentre lei è paralizzata per la paura come una cerbiatta, le tocca dolcemente il seno e le nudità (vv. 42-51); e, raggiunto l’orgasmo, emette lo sperma (θερμ]ὸν ἀφῆκα μένος v. 52), «toccando il biondo pelo» della ragazza.

Pittore Onesimo. Scena erotica. Kylix attica a figure rosse, 510-500 a.C. ca., da Vulci. British Museum
Pittore Onesimo. Scena erotica. Pittura vascolare da una κύλιξ attica a figure rosse, c. 510-500 a.C. da Vulci. London, British Museum.

Come si può ben constatare, nella poesia archilochea il tema dell’eros è sviluppato con grande varietà di toni; alcuni frammenti rivelano una sensualità molle e delicata e danno vita a immagini femminili gentili e aggraziate, come quella di un’etera dalla lunga chioma che le copre, rigogliosa e profumata, le spalle e la schiena (… ἡ δέ οἱ κόμη / ὤμους κατεσκίαζε καὶ μετάφρενα «… e la chioma ombrava gli omeri e il dorso», F 31 West2); un’altra appare invece adorna di un ramo di mirto e di una rosa (ἔχουσα θαλλὸν μυρσίνης ἐτέρπετο / ῥοδῆς τε καλὸν ἄνθος… «si dilettava a tenere un ramo di mirto e un bel fiore di rosa…», F 30 West2). Si è pensato che in questi frammenti il poeta vagheggiasse la bellezza della sua promessa sposa, Neobule; ma siccome una fonte antica (Sinesio, Elogio della calvizie XI 75) afferma che nel primo di essi Archiloco elogiava le magnifiche chiome di un’etera, è probabile che anche il secondo fosse dedicato a una ragazza di piacere. A sostegno di questa ipotesi si potrebbe ricordare che il mirto e la rosa, piante sacre ad Afrodite, erano emblematiche della sfera sessuale, così come il provocante profumo della mirra: … ἐσμυριχμένας κόμην / καὶ στῆθος, ὡς ἂν καὶ γέρων ἠράσσατο («chiome e seno profumati di mirra, da far impazzire di desiderio anche un vecchio» F 48 West2).

***

Riferimenti Bibliografici:

F. Bossi, Studi su Archiloco, Bari 1990².
W.M. Calder, Archilochus, the Cologne Erotic Fragment: A Note, CJ 75 (1979), 42-43.
C. Carey, Archilochus and Lycambes, CQ 36 (1986), 60-67.
E. Degani, Archiloco, in Id., G. Burzacchini, Lirici greci, Bologna 2005², 3-42.
C.C. Eckerman, Teasing and Pleasing in Archilochus’ First Cologne Epode, ZPE 179 (2011), 11-19.
T. Gelzer, T., Archilochus und der neue Kölner Papyrus (Pap. Colon, inv. 7511), MH 32 (1975), 12-32.
B. Gentili, N. Russello, Archiloco, Frammenti, Milano 1993.
J. Henderson, The Cologne Epode and the Conventions of Early Greek Erotic Poetry, Arethusa 9 (1976), 159-179.
M. Kivilo, Archilochus, in Early Greek Poets’ Lives: The Shaping of the Tradition, Leiden-Boston 2010, 87-120
F. Lasserre, Les épodes d’Archiloque, Paris 1950.
M. Markovich, A New Poem of Archilochus: P. Colon. inv. 7511, GRBS 16 (1975), 5-14.
R. Merkelbach., M.L. West, Ein Archilochos-Papyrus, ZPE 14 (1974), 97-113.
C. Miralles, J. Pòrtulas, Archilochus and the Iambic Poetry, Roma 1983.
A. Nicolosi, Ipponatte, Epodi di Strasburgo. Archiloco, Epodi di Colonia (con un’appendice su P. Oxy. 4708), Bologna 2007.
D. Obbink, A New Archilochus Poem, ZPE 156 (2006), 1-9.
W. Rösler, W., Die Dichtung des Archilochos und die neue Kölner Epode, RhM 119 (1976), 289-310.
S.R. Slings, Three Notes on the New Archilochus Papyrus, ZPE 18 (1975), 170.
S.R. Slings, Archilochus, the Hasty Mind and the Hasty Bitch, ZPE 21 (1976), 283-288.
S.R. Slings, First Cologne Epode, in J.M. Bremmer et alii (eds.), Some Recently Found Greek Poems, Leiden 1987, 24-61.
G. Tarditi, Archilochus, Roma 1968.
M. Treu, Archilochos und die Schwestern, RhM 119 (1976), 91-126.
J. Van Sickle, Archilochus: A New Fragment of an Epode, CJ 71 (1975), 1-15.
J. Van Sickle, The New Erotic Fragment of Archilochus, QUCC 20 (1976), 123-156.
J. Van Sickle, On the Cologne Epode’s End Again: An Antinote in Memory of Cedric Whitman, CJ 75 (1980), 225-228.
M.L. West, Two Notes on the Cologne Epode of Archilochus, ZPE 26 (1977), 44-48.
M.L. West, Iambi et elegi Graeci ante Alexandrum cantati, I, Oxford 1989², 1-108.

Il simposio. Origine, ambiente, caratteristiche

di I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca. Vol.I Dalle origini al V secolo a.C., Firenze 2004, pp. 299-301.

 

Nel mondo greco, il simposio (sympósion) rappresentò un momento di aggregazione di grande importanza culturale, sociale, politica e sacrale. Si trattava di una riunione esclusivamente maschile che ebbe probabilmente la sua più lontana origine nel cosiddetto “banchetto ospitale” descritto nei poemi omerici, celebrato in occasioni particolari, con scopi sia pratici che celebrativi (Il. VII. 313-344; Od. IX. 1-38). Anche l’associazione fra l’assunzione del cibo, la sacralità e l’ascolto del canto, tipica del simposio in età storica, era già presente nei poemi omerici; tale consuetudine traspare infatti nell’accoglienza riservata da Achille ai compagni che si recano da lui in ambasceria. In primo luogo, al momento del loro arrivo, l’eroe suona la cetra, rievocando «glorie di eroi» (kléa andrōn), mentre Patroclo lo ascolta in silenzio; subito dopo, il Pelide invita il compagno a porre in mezzo un cratere più grande, a mescolare una maggiore quantità di vino e ad offrire una coppa a ciascuno dei presenti. Segue poi l’offerta di cibo, preceduta dal sacrificio agli dèi sul focolare domestico; soltanto al termine del pasto, Fenice, il più anziano del gruppo, espone ad Achille il motivo della loro visita (Il. 186-221). Nell’Odissea si vedono i cantori che intrattengono gli ospiti; questi sono aedi professionisti, ospiti fissi del re a cui dedicano le loro performances, nelle quali compaiono anche argomenti entrati da poco a far parte della tradizione epica, come il racconto del rientro degli eroi dalla Troade (Od. I. 326-344), o il ben noto inganno del cavallo.
Nei poemi omerici, il “banchetto” è generalmente definito daís, mentre il vocabolo sympósion compare per la prima volta in due frammenti del VII secolo a.C., uno di Alceo ed uno di Teognide, per indicare un momento di aggregazione sostanzialmente diverso dal convito eroico, cioè una forma di intrattenimento privato, riservata ad occasioni particolarmente solenni. Oltre che al bere, sancito da regole che imponevano la moderazione, il simposio era dedicato alla discussione di argomenti politici, culturali o filosofici, all’ascolto della poesia, del canto e della musica, a vari generi di intrattenimento; le uniche donne che vi prendevano parte erano musiciste, danzatrici, acrobate, giocoliere, disposte anche ad altre prestazioni richieste dagli ospiti. Un simile ambiente favoriva un genere di comunicazione interpersonale scherzosa e seria al tempo stesso, non priva di una certa sfumatura competitiva, ma sempre contenuta nei limiti dell’autocontrollo e del buon gusto.
Fra gli svaghi preferiti c’erano l’improvvisazione poetica e giochi che si configuravano come vere e proprie gare, con premi per i vincitori; notissimo quello del còttabo, che consisteva nell’infilare un dito nell’ansa della coppa quasi vuota, facendola roteare e cercando di colpire, con un ben mirato spruzzo del poco vino rimasto, alcuni gusci di noce che galleggiavano nell’acqua di un ampio recipiente, così da affondarli.

 

Pittore Cleofrade. Simposiasta che gioca al kottabos. Pittura vascolare sul tondo di una kylix attica a figure rose, 480 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.

 

Tali caratteristiche, che escludevano, almeno teoricamente, qualunque forma di eccesso (hýbris), sottolineavano l’assoluta diversità del «bere insieme» greco da consuetudini analoghe presenti anche presso popolazioni barbariche, come Sciti e Traci. Tuttavia, queste norme non erano sempre rispettate nel corso del kōmos, la manifestazione finale del simposio, una chiassosa scorribanda per le vie della città, che si concludeva con canti di vario genere – provocatori, erotici, politici, rituali – rivolti a ben precisi destinatari. Talvolta, i comasti si abbandonavano a critiche pungenti e diffamatorie (psógoi), a minacce, a profferte amorose; in qualche caso, i personaggi presi di mira rispondevano per le rime, come dimostra l’espressione proverbiale eis melíttas ekōmasas,«hai stuzzicato le api».
Il simposio aveva anche una connotazione religiosa, sottolineata dalla libagione iniziale in onore di Zeus, a cui prendevano parte tutti i presenti, seguita da quella in omaggio ad altre divinità. I partecipanti formavano un insieme omogeneo per estrazione sociale, educazione e stile di vita, l’ideologia politica, vista la loro origine, era di solito improntata ad un forte conservatorismo aristocratico. L’appartenenza ad un gruppo politico, detto heitaireía, “eteria”, era rafforzata da un giuramento che ne sanciva la sacralità, la compattezza e l’impegno totale. In conseguenza di ciò, il simposio rappresentava un ambiente di elezione per la determinazione di un ḗthos, un “comportamento comune”, diverso dal legame di sangue che univa i componenti di un génos, ma non meno forte e non necessariamente in contrasto con esso.
Lo spazio destinato al simposio era l’andrōn, la “sala degli uomini”, che, nell’abitazione privata di un aristocratico o alla reggia di un sovrano o di un tiranno, aveva le stesse funzioni dell’antico mégaron, la grande sala del focolare descritta nei poemi omerici; tali riunioni rappresentavano un’alternativa sia all’ambiente dell’oikos, in cui si svolgeva la normale vita familiare del singolo, sia all’agorà, centro della vita collettiva della comunità. I commensali stavano sdraiati, singolarmente o in coppia, su lettucci o divani distribuiti lungo le pareti della sala, secondo una consuetudine che determinava nello stesso tempo l’organizzazione dello spazio simposiale e le dimensioni del gruppo. Poiché l’andrōn era una sala appositamente disegnata per contenere un numero fisso di lettucci, di solito sette, undici o quindici, il numero degli invitati oscillava tra i quattordici e i trenta, cosa che favoriva la formazione di piccoli gruppi omogenei e di forte stabilità.

 

Scena simposiale, Affresco, 480-470 a.C. ca. da Paestum, Tomba del Tuffatore (Parete settentrionale).

 

Uno dei rituali del simposio riguardava la separazione del cibo dalle bevande, consumati insieme durante il pasto normale (il deîpnon, “cena”); invece, nel corso del successivo sympósion ci si dedicava soprattutto al vino, accompagnandolo con semplici focacce, dette pópana, o con dolci, come le pyramídes, pasticcini di sfoglia di farina ripieni di miele e ricotta. Anche l’arredo del simposio presentava caratteristiche proprie, con mobili di buona fattura, talora decorati ad intarsio, resi più confortevoli da cuscini e tappezzerie e con vasellame apposito per le esigenze simposiali: il cratere per mescolare acqua e vino, lo psychthḗr per far raffreddare la miscela, brocche per distribuirlo e una notevole varietà di coppe per berlo.
Le immagini che ornano il vasellame rappresentano scene ispirate ai miti eroici, episodi di guerra e situazioni desunte dai repertori poetici, oppure immagini di attività tipicamente maschili, comuni nella vita dell’aristocrazia, come l’atletica, la caccia e il corteggiamento omosessuale.
Poiché la poesia e la musica costituivano l’elemento centrale del simposio, esso divenne l’ambiente di elezione della lirica, lontana tanto dall’universale oggettività dell’ἔπος, quanto dalla funzione pubblica del canto nelle solennità civili, religiose o agonistiche. Con il doppio flauto (aulós), tipico delle attività militari, si accompagnava la poesia elegiaca; fra gli strumenti a corda si utilizzavano il bárbiton e la lýra a sette corde; quest’ultima – inventata da Terpandro di Lesbo – divenne lo strumento tipico di questo genere poetico. Le forme metriche riflettevano la consuetudine della gara spontanea e della creazione estemporanea da parte di poeti occasionali: il distico elegiaco era particolarmente adatto all’improvvisazione, quando un tema scelto veniva sviluppato a turno da tutti i convitati.
Le componenti essenziali dell’atmosfera simposiale venivano indicate con i termini di euphrosýnēhēsychíacháris.

 

Gruppo dei pittori della Situla di Dublino. Apollo, Dioniso ed Hermes a banchetto. Pittura vascolare su situla apula a figure rosse, 350-330 a.C.

 

Il primo significava propriamente “gioia”, ma anche “festa”, e indicava la condizione psicologica, individuale e collettiva, derivante dalla presenza di persone amiche e gradite, non troppo numerose e ben selezionate, dal clima festivo (il simposio infatti era in genere la conclusione in ambiente privato di una panḗgyris, una “festività pubblica”, oppure la celebrazione di una lieta occasione personale); il secondo esprimeva la “serenità” o la “tranquillità” dei partecipanti, liberi da preoccupazioni immediate e disponibili a condividere pienamente la gradevole esperienza di una compagnia piacevole e stimolante. Tale atmosfera era arricchita dalla pístis, la “fiducia”, e dalla “concordia” o “identità di vedute” (homónoia), da cui scaturivano tranquillità e confidenza reciproca. Infine, con l’ultimo termine, che indicava la “grazia”, si esprimeva la raffinata capacità estetica di godere di tutto ciò che il simposio offriva di bello e di gradevole: suppellettili eleganti, fiori, profumi, vivande e vini di alta qualità, presentati da servi di bell’aspetto e di modi garbati, divertimenti di vario genere, ma, soprattutto, la conversazione, la musica, il canto.
I temi della poesia simposiale riflettevano gli interessi del gruppo e il suo aristocratico stile di vita: le imprese eroiche, la guerra, l’attività politica e l’incitamento all’azione – dai toni ora polemici, ora esortativi – ; gli inni, sia seri sia scherzosi, erano dedicati agli dèi preposti al simposio. Mancavano del tutto gli accenni alla vita familiare e al ruolo della donna libera, mentre erano frequenti le liriche ispirate all’amore etero ed omosessuale e le allusioni alle etere o alle schiave che partecipavano al simposio in veste di cantanti, danzatrici, musiciste ed intrattenitrici.