La giustizia secondo Esiodo

Nella pagina critica riportata di seguito, la studiosa statunitense Jenny Strauss Clay, grecista dell’Università della Virginia, trae le conclusioni di un articolato discorso che interpreta Le opere e i giorni di Esiodo come un sentiero verso la virtù.

di J. Strauss Clay, Works and Days. Tracing the Path to Arete, in F. Montanari, A. Rengakos, C. Tsagalis (eds.), Brill’s Companion to Hesiod, Leiden-Boston 2009, 80-83 passim.

La quinta e ultima età, quella del ferro, non è introdotta secondo lo stile catalogico che contraddistingue le altre, ma con un’esclamazione accorata di Esiodo (vv. 174-175): Μηκέτ’ ἔπειτ’ ὤφελλον ἐγὼ πέμπτοισι μετεῖναι / ἀνδράσιν, ἀλλ’ ἢ πρόσθε θανεῖν ἢ ἔπειτα γενέσθαι («Avessi potuto io non vivere con la quinta stirpe / degli uomini, ma fossi morto prima oppure nato dopo!»). In certi contesti, il desiderio del poeta è stato erroneamente interpretato come un riferimento a uno schema ciclico, secondo cui l’età dell’oro o quella degli eroi sarebbero ritornate dopo la distruzione dell’età del ferro. Ma questo non può essere: l’intento parenetico dell’intero poema delle Opere e i giorni sarebbe compromesso; perché cambiare la propria vita, se in ogni caso arriveranno tempi migliori? Inoltre, l’età del ferro si differenzia dalle altre anche per non essere stata prodotta direttamente dagli dèi, ma per essere la diretta discendenza degli eroi, dopo che le divinità hanno preso le distanze dal genere umano […].

Gaetano Gandolfi, Allegoria della Giustizia. Olio su tela, post 1760. Paris, Musée du Louvre.

L’età del ferro ha due fasi, una cattiva e l’altra peggiore. Per quanto difficili possano essere le cose nella prima fase, nondimeno al bene si trova sempre mescolato il male. E prossima a venire è una concezione apocalittica del futuro, quando ogni forma di violenza e di ingiustizia non sarà soltanto tollerata, ma anche onorata, e la forza detterà legge. Il rispetto per i vincoli familiari, per i genitori e per gli dèi sarà calpestato, mentre lo spergiuro e i discorsi duri e contorti trionferanno, fino all’allontanamento di Αἰδώς e Nέμεσις […]. Eppure, l’orribile visione del futuro descritta da Esiodo non è inevitabile: il mondo è un crocevia, e soltanto gli insegnamenti del poeta stesso possono prevenire la catastrofe finale.

Le prime tre lezioni di Esiodo (il mito di Contesa, Prometeo e le cinque età) trasmettono messaggi differenti, ma in tutte e tre Zeus è artefice della condizione umana. Mentre il mito di Prometeo è rivolto sia a Perse sia ai re, gli altri sono apparentemente rivolti solo al fratello. Tuttavia, Esiodo inizia affermando di voler risolvere la contesa con Perse, e dunque le parti chiamate in causa non sono solamente sé stesso e il fratello; siccome i crimini di Perse hanno avuto l’appoggio dei re, il poeta deve anche troncare il legame sciagurato tra questi e il congiunto. Oltre ad accusare le loro malefatte passate, Esiodo deve anche convincere le due parti che la giustizia, che pure sembra andare contro l’interesse del singolo, è conveniente, e deve persuadere il fratello che il lavoro, di per sé spiacevole, avrà una sua ricompensa […]. Esiodo […] punta ai re, usando un genere letterario che richiede la loro attiva partecipazione per decifrarne il messaggio: essi devono riconoscersi nella favola dello sparviero e dell’usignolo. Stretto fra gli artigli del rapace, l’usignolo (ἀηδών) geme miseramente per il suo destino, ma il predatore gli risponde brutalmente che, nonostante il piccolo volatile sia un bravo cantore (ἀοιδός), egli farà di lui ciò che vorrà e potrà divorarlo, se così gli pare. Il messaggio apparente della favola è che in un mondo in cui il simile divora il simile le parole, anche quelle di Esiodo, come nel caso del povero usignolo, non valgono contro la forza bruta […]. Rivolgendosi bruscamente a Perse, Esiodo, in una serie di vivide personificazioni (vv. 213-224), assume la voce della Giustizia stessa: il fratello deve dare ascolto a essa e smetterla di ingraziarsi Tracotanza (ὕβρις), che schiaccia tanto gli umili (come Perse) quanto i migliori e fa sì che entrambi vadano incontro al disastro.

William-Adolphe Bouguereau, Némesis (o L’umore notturno), 1882. Havana, Museo Nacional de Bellas Artes.

La Giustizia, adesso personificata, prima gareggia contro Tracotanza, su cui alla fine sarà vittoriosa, ma la violenza che essa subisce dai re «divoratori di doni», che decretano la disonestà, provoca l’indignazione pubblica. In lacrime, essa si allontana, programmando il castigo per coloro che le fanno violenza. In un dittico, poi, sono affiancate le gioie godute dalla città giusta e le varie sventure che si abbattono su quella ingiusta (vv. 225-247). Infatti, anche la malvagità di uno solo può scatenare la punizione divina sull’intera comunità. Notiamo che Zeus, nel suo ruolo punitivo, è di gran lunga più visibile nella città ingiusta che in quella giusta. Questa discussione può avere diversi significati per Perse e per i re, ma suggerisce comunque che promuovere la giustizia è nell’interesse di entrambi. Lasciando Perse a valutare se le sue passate attività di favoreggiamento dei re perversi siano veramente state vantaggiose, il poeta per la prima volta si rivolge loro direttamente, questa volta non attraverso gli enigmi di una favola, ma con una fragorosa, triplice minaccia (vv. 248-269): i 30.000 guardiani di Zeus (che sono gli spiri defunti dell’età aurea) osservano la loro ingiustizia; e la Giustizia, che aveva lasciato in lacrime, adesso denuncia i torti a suo padre Zeus, così che la comunità possa pagare per le malefatte dei suoi re. Essi non possono fuggire, perché lo sguardo di Zeus in persona vede che tipo di giustizia essi stanno dispensando.

L’eroe dell’Odissea

di A. HEUBECK, Interpretazione dell’Odissea, in Odissea, I (libri I-IV), a cura di S. WEST, trad. it. di G.A. PRIVITERA, Milano 1981, pp. XXXI ss.

Certo è che la figura dell’eroe, quale appare nell’Odissea, è ampiamente caratterizzata da tratti che l’aedo ha mutuato dall’Iliade, dove già si trovano. Lì Odisseo è uno dei re, che con i loro uomini prendono parte alla spedizione punitiva degli Atridi: come gli altri, anch’egli dispone di un considerevole regno, che gli consente di unirsi all’armata degli Achei con una flotta di dodici navi. Il poeta colloca l’eroe tra i più grandi. Quanto a coraggio e a forza in combattimento, Odisseo non è superato quasi da nessuno, se si prescinde da Achille e da Aiace; per astuzia politica e intelligenza strategica egli batte tutti: è l’immagine ideale di un uomo in cui sono unite in splendida armonia tutte le virtù dell’eroismo aristocratico. Ci si può spingere ancora oltre e affermare che questa immagine dell’eroe, nei suoi tratti essenziali, reca l’impronta dell’epica preomerica. Esiste una serie di indizi che fanno capire come Odisseo avesse un posto fisso nell’epos troiano già da tempo: il suo stesso soprannome, già iliadico, di «distruttore di città» (πτολίπορθος) trova una sensata spiegazione solo se si presuppone che già nell’epos preomerico Odisseo fosse colui che con l’astuzia del cavallo di legno aveva reso possibile e realizzato la conquista di Ilio.

Pittore Dolone. Odisseo interroga Tiresia. Lato A di un calyx-krater lucano a figure rosse, IV sec. a.C. Paris, Cabinet des Médailles.

Questo pone un problema. Come si spiega che quest’eroe regale, al quale l’epos omerico e perfino quello precedente avevano assegnato un posto fisso nella galassia degli eroi, agisca poi nell’Odissea, per larghi tratti della storia, in un modo che è separato da quello degli eroi stessi da un profondo e autentico abisso, e sembri possedere lineamenti che lo accostano più a Sindbad il marinaio che non ai suoi nobili compagni di casta e d’armi? Forse l’aedo conosceva e utilizzava una tradizione, parallela a quella epica e indipendente da essa, che aveva preservato un’immagine più antica e originaria? Ma forse è più plausibile un’altra ipotesi.

Alfred Heubeck ritiene possibile che sia stato per primo il poeta dell’Odissea a spedire l’eroe dell’epos troiano, con il suo viaggio avventuroso, nel regno delle favole; ad attribuirgli esperienze che originariamente erano legate ad altre figure, sia a quelle anonime della favola popolare e marinaresca, sia a quelle della poesia preomerica. Che alcuni personaggi e alcune vicende, ora connessi con Odisseo, originariamente fossero propri della saga e della poesia argonautica, è un’ipotesi che la ricerca ha reso quanto mai plausibile.

In tal caso, l’arricchimento della tradizionale immagine dell’eroe con elementi nuovi, che in origine non gli appartenevano, sarebbe opera del cantore odissiaco, e ciò che può averlo indotto a questo passo ardito, forse si potrebbe persino indovinare. A fondamento del poema sta il fatto che a Odisseo sia consentito di rivedere la patria solo molto tardi, anzi quasi troppo tardi: ma solo se Odisseo durante il viaggio verso casa si smarrisce in un mondo dal quale non esiste ritorno tra gli uomini senza l’aiuto divino, diventa comprensibile come la navigazione da Troia a Itaca si dovesse trasformare in una decennale peregrinazione in terre sconosciute e remotissime.

Autore anonimo. Un aedo canta accompagnandosi alla lira. Pittura vascolare su kyklix attica a figure nere, 515 a.C. ca. Wisconsin, Chazen Museum of Art.

Ma le dimensioni con cui con questo viaggio si colloca l’eroe non si estendono soltanto nello spazio e nel tempo. A lui tocca affrontare pericoli che prima nessuno aveva dovuto superare. In questo ritorno gli viene sottratto, a poco a poco, tutto ciò che un tempo gli era appartenuto e gli era caro: così, un lungo cammino lo conduce dalla lotta contro i Ciconi, dov’egli è ancora interamente eroe iliadico, per una dolorosa via fin dove anche l’ultimo relitto dell’antico splendore svanisce, nell’umiliazione e nello scoramento più profondi, fino al punto in cui nemmeno uno dei suoi amici è sopravvissuto, e della flotta una volta così superba non è rimasta che una trave della chiglia della nave ammiraglia.

Ma forse la perdita dello splendore e della forza, del potere e della ricchezza, non è ancora l’esperienza più amara. Un destino inesorabile lo trascina in un mondo in cui le virtù dell’eroismo aristocratico rivelano le loro fragilità, e dove hanno perduto dignità e valore, dove la volontà nobile ed eroica si riduce a vuoto atteggiamento e a ridicolo gesto: il mondo in cui Odisseo si sente protetto è scivolato in una lontananza irraggiungibile ed esiste soltanto nel suo ricordo nostalgico.

Attraverso la rappresentazione epica si scorge la spiritualità del poeta, che è divenuto cosciente della problematicità, della validità limitata, del valore relativo delle norme di vita aristocratica, che erano state per la precedente poesia eroica l’impalcatura di una concezione ideale del mondo, i pilastri di un mondo sacro. È lo spirito di un uomo che alle ardue questioni della vita e dell’esistenza umana ha anche da dare una risposta diversa da quella dei suoi predecessori: mentre questi nella loro poesia avevano contrapposto alla realtà di una vita spesso amara, faticosa e colma di dolore, l’immagine ideale di un mondo fittizio, nel quale valeva la pena di vivere, di combattere e anche di morire; e mentre essi trasportavano gli ascoltatori, per mezzo della parola poetica, dalle difficoltà quotidiane in un irreale mondo di splendore, l’aedo odissiaco smaschera questa immagine ideale in tutta la sua limitatezza, unilateralità e relatività. Certo anch’egli trascina il suo pubblico in un mitico mondo di sogno, ma questo diviene contemporaneamente l’immagine speculare del mondo reale dove l’umanità vive, nel quale dominano bisogno e angoscia, terrore e dolore, e nel quale l’individuo è immerso senza scampo. Tuttavia, il poeta non si arresta a questo amaro riconoscimento e al suo messaggio: vale la pena di vivere in questo mondo reale e di dominare la vita, rispondendo alle sue sfide e costrizioni con l’atteggiamento e con il contegno giusti.

Gruppo del pittore Leagro. Una nave. Pittura vascolare dall’interno di una kylix attica a figure nere, 520 a.C. ca., da Cerveteri. Paris, Cabinet des médailles.

Non che le virtù aristocratiche del coraggio, del valore, del senso dell’onore, della saggezza, della prudenza, in una mutata visione dell’uomo e della sua esistenza, abbiano perduto la loro validità: al contrario. Hanno però bisogno di un’integrazione: la saggezza da sola vale poco, quando non le si unisca un’intelligenza astuta e calcolatrice, e vi sono nella vita minacce e pericoli da cui non ci si può salvare soltanto con il coraggio e il valore, situazioni in cui una rigida adesione alle ideali norme aristocratiche sarebbe stolida e folle, avvenimenti che si possono e si debbono soltanto sopportare con pazienza se non ci si vuole arrendere. Se è tanto bello e attraente indugiare con lo sguardo su una splendida immagine ideale, altrettanto necessario è vedere le cose come sono. Odisseo è l’«eroe» che ha imparato – forse contro voglia, stringendo i denti – a far sua questa nuova concezione e ad affrontare tutto il dolore e la miseria che la vita riserva all’uomo. a ciò lo abilitano virtù che, avendo ancora le radici nel modello aristocratico ma insieme superandolo, includono nuove attitudini, e cioè appunto questa capacità di progettare e di calcolare astutamente, di mascherarsi e di nascondersi, ma anche una capacità, ammirevole e inimmaginabile, di sopportare pazientemente. L’idea così spesso ribadita di Odisseo come modello del navigatore ardito e temerario, dell’avventuriero senza pace che sfida pericoli, dello scopritore curioso per il quale il proprio mondo è diventato troppo piccolo e al quale non bastano mai le esperienze di cose nuove e sconosciute, trova ben poco spazio nell’immagine dell’eroe quale si crede di dover delineare, né coglie in ogni modo l’essenziale.

Non è certo un caso se, accanto alla visione davvero fosca, priva di illusioni, e anzi pessimistica dell’uomo e della sua condizione – primo accordo di una Stimmung che in seguito guadagnerà peso e significato nella lirica greca arcaica –, non manca neppure un elemento di conciliazione e di consolazione. Tutte le fatiche, i dolori e le sventure giungono nell’Odissea a un lieto fine: reduce dal più profondo avvilimento, Odisseo ritrova presso i Feaci sé stesso; chi ha minacciato e distrutto un antico e venerabile ordine riceve in patria la meritata punizione, chi è fedele e timorato degli dèi ha il premio che gli spetta. L’εὐνομία, lo stato in cui ciascuno ha il posto dovuto e può perseguire la propria attività quotidiana in pace e senza pericoli, sparge tutto il suo splendore sopra una terra benedetta. In questa prospettiva conciliatrice, con cui il poeta lascia il suo pubblico, appare sotto una nuova luce anche la movimentata successione di eventi, con tutti i suoi pericoli e le sue umiliazioni, le paure e le atrocità: tale prospettiva è basata sulla fede del poeta, il quale – anche se ha visto con più chiarezza e meno illusioni di altri a quale minaccia l’umanità sia esposta in un mondo crudele – è in grado di inquadrare questa constatazione in una visione più profonda e più comprensiva, fondata su concezioni tradizionali non meno che su uno spirito autonomo e indipendente.

Esiodo

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. 1. Dalle origini al V secolo a.C., Messina-Firenze 2004, 267-279.

1. Una vita per la poesia

Gli antichi erano incerti sulla cronologia di Esiodo, il primo poeta greco che abbia una fisionomia decisamente storica e non leggendaria. Alcuni, come Eforo di Cuma (nato intorno al 390 a.C.), lo considerarono anteriore a Omero; altri, come Senofane (vissuto intorno al 545 a.C.), posteriore; Erodoto (Hdt. II 53), il quale attingeva a fonti locali antichissime, sosteneva che Omero ed Esiodo fossero vissuti entrambi quattro secoli prima di lui, e cioè verso l’850 a.C., e stabilirono i fondamenti della religione dei Greci, nonché una precisa dottrina sugli dèi, assegnando a essi nomi e prerogative e referendo notizie sulla loro origine e sul loro aspetto esteriore. Ma le indicazioni più attendibili sono probabilmente quelle che si possono ricavare dall’opera stessa del poeta, tenendo conto delle notizie autobiografiche che egli stesso fornisce, del quadro sociale e politico della Beozia, quale il poeta lo descrive, oltre che dell’influenza della lingua omerica, evidente nei suoi poemi. In base a tutti questi elementi, è possibile ritenere che Esiodo sia di circa un secolo più recente di Omero e che sia vissuto intorno al 750 a.C.

Pittore di Esiodo. Musa che accorda due κιθάραι. Pittura vascolare da una coppa attica a fondo bianco, 470-460 a.C. c. da Eretria. Paris, Musée du Louvre.

Oltre che per la sua indiscutibile storicità, Esiodo si distingue da Omero anche per il fatto di aver rivelato, per primo nella letteratura occidentale, il proprio nome, posto come una σφραγίς (“sigillo”) all’inizio di uno dei suoi poemi, la Teogonia, violando in questo modo il rigoroso anonimato tipico dei cantori epici, che nascondevano la propria identità nel racconto oggettivo delle gesta eroiche. Dai brani autobiografici contenuti nelle opere maggiori si apprende che il padre del poeta, nativo della colonia eolica di Cuma in Asia Minore, dopo aver esercitato senza successo il commercio, per evitare di finire in miseria, si era trasferito in Beozia, una regione aspra e isolata, le cui uniche risorse erano l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, vivendo in un oscuro villaggio di contadini, nei pressi del monte Elicona: Ascra, definita dallo stesso Esiodo χεῖμα κακῇ, θέρει ἀργαλέῃ, οὐδέ ποτ’ ἐσθλῇ («d’inverno cattiva, aspra d’estate, piacevole mai», Op. 640).

La scelta di questo borgo fu probabilmente determinata dalle affinità culturali della Beozia con l’Eolide d’Asia, oltre che dalla sua vicinanza al monte Elicona, ritenuto dimora delle Muse, e alla città di Tespie, sede del loro culto. Esiodo e suo fratello minore, Perse, crebbero in questo mondo agreste e solitario, dai lunghi e gelidi inverni e dalle estati aride e ardenti, aiutando il padre nel lavoro dei campi. Proprio a Esiodo, che da ragazzo pascolava il bestiame paterno alle pendici boscose dell’Elicona, apparvero le Muse; com’egli narra ampiamente nel proemio della Teogonia (Th. 22-34), si trattò di una vera e propria investitura poetica, dato che le dee gli offrirono un ramo d’alloro e gli insegnarono la divina arte del canto che celebra il passato e il futuro. Questa straordinaria esperienza (sogno? suggestione? rapimento estatico?) fu decisiva per il giovane; venuto a conoscenza della poesia epica forse dagli Omeridi, giunti, nel loro costante errare, anche in Beozia, egli decise di usare il loro stesso metro, l’esametro, per cantare argomenti ben diversi dalle gesta degli eroi: la dura e tenace attività quotidiana con la quale gli uomini strappavano alla terra i mezzi per sopravvivere e l’insieme delle credenze religiose che rispettava e che aveva imparato a conoscere da varie fonti. Fattosi dunque rapsodo di professione, Esiodo compose le Opere e giorni e la Teogonia.

Pittore della Chimera. Sirena barbata. Pittura vascolare da un piatto corinzio, dalla Beozia. 580-579 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Quando il padre del poeta morì, i due figli avrebbero potuto godere di una certa agiatezza, grazie all’eredità toccata loro. Ma Perse dilapidò in poco tempo i suoi beni; e con la complicità di giudici corrotti, riuscì a ottenere anche una parte delle terre toccate al fratello. Non contento neanche di ciò, intentò al poeta una nuova causa, cercando di spogliarlo anche di quanto restava. Questa lite fornì a Esiodo lo spunto occasionale per il suo poema, le Opere e giorni, in cui volle esaltare, in un’ottica altamente morale e religiosa, l’origine e il fine del lavoro umano, voluto da Zeus e destinato a essere la fonte di una ricchezza misurata e onesta, l’unica a cui gli dèi accordino stabilità e lunga durata.

L’attività poetica di Esiodo non mancò di riservargli significative gratificazioni; egli stesso menziona l’unica occasione in cui viaggiò per mare (Op. 654-659):

ἔνθα δ’ ἐγὼν ἐπ’ ἄεθλα δαΐφρονος Ἀμφιδάμαντος

Χαλκίδα [τ’] εἰσεπέρησα· τὰ δὲ προπεφραδμένα πολλὰ

ἄεθλ’ ἔθεσαν παῖδες μεγαλήτορες· ἔνθα μέ φημι

ὕμνῳ νικήσαντα φέρειν τρίποδ’ ὠτώεντα.

τὸν μὲν ἐγὼ Μούσῃσ’ Ἑλικωνιάδεσσ’ ἀνέθηκα

ἔνθα με τὸ πρῶτον λιγυρῆς ἐπέβησαν ἀοιδῆς.

Io allora per i giochi funebri in onore del prode Anfidamante

andai per mare fino a Calcide; molti premi in palio

avevano posto i figli di quell’uomo magnanimo; là ti dico

con un inno io vinsi e riportai un tripode orecchiuto,

e lo consacrai alle Muse Eliconie,

dove per la prima volta mi iniziarono al canto armonioso.

Apollo ed Ercole si contendono il Tripode delfico. Bassorilievo, marmo, I-II sec. d.C. Baltimore, Walters Art Museum.

Si recò a Calcide nell’Eubea, attraversato il braccio di mare chiamato Euripo, per partecipare, con un inno, all’agone poetico tenutosi durante i giochi funebri in onore di Anfidamante, un cittadino in vista, caduto in una battaglia navale durante la guerra tra Calcide ed Eretria per il dominio della pianura del fiume Lelanto. Di questo episodio parla anche Plutarco (Sept. 153f) e, sebbene la datazione dell’evento rimanga incerta (forse fra il 730 e il 700 a.C.), la cronologia del conflitto consentirebbe di collocare la vita di Esiodo approssimativamente tra l’VIII e il VII secolo:

ἀκούομεν γὰρ ὅτι καὶ πρὸς τὰς Ἀμφιδάμαντος ταφὰς εἰς Χαλκίδα τῶν τότε σοφῶν οἱ δοκιμώτατοι ποιηταὶ συνῆλθον ἦν δ᾽ ὁ Ἀμφιδάμας ἀνὴρ πολεμικός, καὶ πολλὰ πράγματα παρασχὼν Ἐρετριεῦσιν ἐν ταῖς περὶ Ληλάντου μάχαις ἔπεσεν.

Sentiamo dire infatti che anche ai funerali di Anfidamante si riunirono a Calcide, tra i sapienti del tempo, i poeti più illustri; Anfidamante era un uomo di guerra che, dopo aver causato molti guai agli Eretriesi, cadde negli scontri per il Lelanto.

Del tutto leggendaria è invece la notizia di una gara poetica fra Omero ed Esiodo, confluita nel cosiddetto Certamen Homeri et Hesiodi, una composizione piuttosto singolare; in essa, il pubblico avrebbe assegnato la vittoria a Esiodo, dimostrando di preferire la celebrazione del lavoro agricolo, duro, ma sereno e pacifico, a quella delle sanguinose opere di guerra. Prive di fondamento sono le informazioni sulla morte del poeta (riscontrabili nel lessico Suda e nelle epitomi del bizantino Giovanni Tzetze), dalle quali si può dedurre, come sola notizia attendibile, che la sua tomba, oggetto di venerazione per gli abitanti di Ascra, fu trasferita nel IV secolo a.C. a Orcomeno, dopo la distruzione del “natio borgo selvaggio” di Esiodo a opera dei Tespiesi.

Pittore di Amasis. Sileni che vendemmiano e preparano il vino. Pittura vascolare da un’anfora a campana attica a figure nere, 540-430 a.C. c. Würzburg, Martin von Wagner Museum.

2. La Teogonia

Con la Teogonia (Θεογονία), composta in esametri, Esiodo si propose per primo l’arduo compito di organizzare il grande numero delle figure divine e dei loro miti, inquadrandoli in uno schema che si richiamava ai “cataloghi” di stampo omerico (cfr., per esempio, il “catalogo delle navi” di Iliade II). Le motivazioni di fondo, alla base dell’ispirazione, derivarono al poeta da un’eccezionale capacità di considerare il mondo e di domandarsi come fosse divenuto quello che era; dare una risposta a questo quesito, per un uomo dell’VIII secolo a.C., non poteva che equivalere a immaginare un complesso di atti, di manifestazioni, di interventi in un mondo di dèi, ciascuno dei quali, con il suo proprio modo di essere e di agire dava esistenza e ragion d’essere agli elementi della natura. In questo modo, il vastissimo patrimonio di storie sacre, libere per loro stessa natura da troppo vincolanti nessi logici e cronologici, fu sistemato attraverso il criterio delle genealogie in un insieme ordinato, fondato sulle categorie logiche di causa ed effetto e di successione nel tempo. In conseguenza di ciò, il mito perse, in buona parte, la sua originaria natura, indipendente da precise connotazioni spaziali e temporali, per assumere caratteristiche di narrazione ordinata e ben comprensibile, e si orientò anche verso quel processo di sempre più completa razionalizzazione, che avrebbe di lì a poco caratterizzato gli esordi del pensiero filosofico.

La Teogonia di Esiodo, dunque, rappresenta un’interpretazione sistematica del mondo fisico e metafisico, ma, nonostante sia un’opera sugli dèi, essa non è un testo religioso: l’autore infatti non manifesta alcun sentimento di pietà o di venerazione particolare per le divinità di cui parla, tranne che per le Muse, sue protettrici.

Pyxis attica a figure rosse. Opera attribuita al pittore Esiodo. Il pastore Tamiri e le Muse, 460-450 a.C. ca. Boston, Museum of Fine Arts.

Il poema si apre con un’invocazione alle Muse che dimorano sull’Elicona, il monte poco distante da Ascra. Le divine fanciulle apparvero al poeta che stava pascolando gli armenti, esortandolo a celebrare la stirpe degli immortali; Esiodo si affrettò a obbedire e cominciò la sua opera, narrando proprio la nascita delle Muse e indicando per primo i loro nomi e i loro attributi (vv. 1-115).

Dopo il proemio, il poeta descrive il Caos primordiale; questo non era disordine, confusione o mescolanza, ma un immenso spazio vuoto, un’enorme voragine, un baratro (χάος < χαίνω < χάσκω, “aprirsi”, “spalancarsi”). Da esso nacquero Eros, Gea, Erebo e Notte; quest’ultima produsse i suoi contrari, l’Etere luminoso e il Giorno, mentre da Gea ebbero origine Urano, i Monti e Ponto. A questo punto intervenne Eros, che, con la sua potenza, diede inizio alla serie degli accoppiamenti e delle generazioni. Dall’unione di Urano e Gea nacquero le sette coppie di Titani (occupanti i pianeti che devano nome ai giorni della settimana), il più giovane dei quali fu Crono. Dopo i Titani vennero alla luce i Ciclopi e i giganti Centimani. Ma Urano temeva l’immensa forza dei propri figli e, perciò, appena nati, li ricacciava tutti nell’ampio ventre della madre (vv. 116-160).

Secondo il racconto esiodeo, dunque, esistevano divinità molto antiche, la cui nascita si sottraeva a qualsiasi tentativo di individuazione cronologica; ma esistevano entità soprannaturali anche più recenti, che da quelle erano derivate attraverso complicati intrecci genealogici: nessuna di loro, insomma, esisteva da sempre, ma era immortale.

Soffocata dai figli che non potevano più uscire dal suo grembo, Gea produsse dalle sue stesse viscere l’acciaio e ne fabbricò una grande falce; poi chiese l’aiuto di Crono, il più giovane e astuto tra i Titani. Quest’ultimo attese il momento in cui Urano stava per congiungersi alla madre e lo evirò. Il membro reciso cadde nel mare e formò una schiuma bianca (ἀφρός), da cui nacque una fanciulla bellissima, Afrodite, la dea dell’amore. Crono prese allora il posto del padre e, unendosi alla titanide Rea, generò con lei molti figli. Tuttavia, poiché temeva che qualcuno di loro potesse detronizzarlo come lui aveva fatto con il padre, li inghiottì tutti appena nati (vv. 161-467).

Pittore di Nausicaa (attribuito). Rea e Crono. Pittura vascolare da una πελίκη attica a figure rosse, c. 460-450 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

Rea era profondamente addolorata per la sorte dei suoi figli. Così, quando si accorse di essere incinta per l’ennesima volta, decise di salvare l’ultimo nato. Al momento del parto si nascose e dopo, avvolta nelle fasce una pietra, la consegnò a Crono, perché la inghiottisse. Il neonato salvato dalla madre era Zeus; egli fu nascosto, con la complicità di Gea, in una caverna del monte Ida, sull’isola di Creta. Qui fu allevato dalle Ninfe e, una volta divenuto adulto, si vendicò del padre, costringendolo a rigettare i figli che aveva divorato e che vivevano ancora dentro di lui, poiché appartenevano alla stirpe degli immortali. Fra loro c’erano Ade, a cui Zeus assegnò l’oltretomba, e Poseidone, che divenne signore della terra e dei mari. In questo modo, Zeus stabilì il suo regno, destinato a durare in eterno e al quale sono subordinati sia gli dèi sia i mortali (vv. 468-506).

Ma la conquista del potere divino non fu senza difficoltà; Zeus incontrò l’opposizione degli altri Titani che tentarono di spodestarlo. Ne scaturì un’immane lotta, detta appunto Titanomachia. Gli dèi, che presero sede sull’Olimpo, furono aiutati dai Centimani e dai Ciclopi, che fabbricarono loro le armi necessarie a combattere gli smisurati zii. Dopo aver assegnato agli altri fratelli le loro prerogative e i poteri, Zeus instaurò la propria definitiva signoria sull’universo. Successivamente, il dio contrasse una serie interminabile di relazioni amorose, da cui gli nacquero le maggiori divinità olimpiche, come Apollo, Artemide, Efesto, Ares, Dioniso, Hermes, ma anche eroi e altri semidei. Atena, invece, uscì armata direttamente dalla testa del padre e divenne la sua figlia prediletta (vv. 507-960). A questo punto, Esiodo inizia il catalogo delle dee, che concepirono figli da uomini mortali, a cui segue un’invocazione alle Muse, perché cantino le donne mortali che generarono dei semidei da unioni divine; in questo modo la conclusione della Teogonia si allaccia al Catalogo delle donne (vv. 961-1022).

Pittore di Atena. Eracle e Atlante. Pittura vascolare da una λήκυθος attica a figure nere, fine VI-inizi V secolo a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

3. Le Opere e giorni

Le Opere e giorni (Ἔργα καὶ ἡμέραι) è un poema in esametri che deve il titolo al suo contenuto; infatti, nella prima parte il poeta descrive le attività degli uomini e, nella seconda, i giorni favorevoli e sfavorevoli per eseguire i vari lavori campestri. Sull’autenticità di quest’ultima sezione sono stati avanzati dei dubbi; si pensa infatti che l’epilogo del poema abbia subito un rimaneggiamento e che il calendario dei giorni abbia sostituito un finale originario. In conseguenza di ciò, anche il titolo dell’opera, che in origine doveva essere solo Opere, sarebbe stato modificato nella forma attuale.

Il contenuto del poema, sul cui interesse biografico si è già detto, si presenta come una singolare mescolanza di tradizione e di innovazione, ben visibile anche nel linguaggio. Esso, da un lato, è strettamente connesso a quello dell’ἔπος omerico, anche se con qualche elemento eolico e beotico; dall’altro, presenta caratteristiche ben diverse, che si evidenziano soprattutto nell’uso di termini particolari, ricollegabili sia alla tradizione popolare, sia al linguaggio misterioso degli oracoli; e forse, riconducibili anche a tradizioni autoctone molto antiche, addirittura pre-omeriche. Peculiarità tipica di questo linguaggio è l’indicare le cose non direttamente con il loro nome, ma con una specie di descrizione-definizione: così la chiocciola è la «porta-casa» (φερέοικος), il ladro, il «dorme di giorno» (ἡμερόκοιτος), il polpo, il «senz’ossa» (ἀνόστεος), la mano, la «cinque-rami» (πέντοζος).

Altra interessante caratteristica del poema è la coesistenza, in esso, di racconti mitici accanto a descrizioni realistiche della vita e dell’attività umana e a consigli ed esortazioni di carattere morale.

L’opera si apre con un proemio caratterizzato da aspetti tradizionali e innovativi al tempo stesso. Contiene infatti l’invocazione alle Muse, tipica della poesia aedica; però, mentre il poeta epico indicava subito dopo in modo conciso ma esauriente l’oggetto del suo canto e lo sviluppava poi coerenza (l’ira di Achille, l’ingegno multiforme di Odisseo), Esiodo chiede alle Muse di celebrare Zeus, loro padre, ma tratta poi dell’esistenza umana, con le sue miserie, i suoi dolori, le ingiustizie. Tuttavia, la figura del dio supremo come garante e difensore della giustizia appare in sottofondo, come una costante presenza su cui si basa il messaggio morale di tutto il poema. Inoltre, se l’esaltazione di Zeus presente nel proemio può richiamare la tradizione innologica, nella quale il nome della divinità era seguito dall’elenco dei suoi attributi e delle sue prerogative, la successiva introduzione di un elemento autobiografico è senz’altro innovativa: Esiodo invoca infatti l’aiuto di Zeus, affinché il dio lo assista nel non facile compito di impartire al fratello Perse i precetti morali su cui dovrà fondare la propria esistenza (vv. 1-10).

Pittore di Klügmann. Una Musa che legge. Pittura vascolare su λήκυθος attico a figure rosse, 435-425 a.C. ca., dalla Beozia. Paris, Musée du Louvre.

Per esortare il fratello alla giustizia, Esiodo gli narra la leggenda delle due Contese (ἔριδες), delle quali l’una è cattiva e odiata da tutti, perché suscita fra gli uomini guerra e discordia; l’altra, invece, nata per prima, è buona e può identificarsi con lo spirito di emulazione, che ispira all’uomo una sana competitività e lo spinge così a migliorarsi. La breve narrazione mitica si conclude con un’apostrofe a Perse, il quale già una volta era andato contro la giustizia, ad accontentarsi della sua parte e a non ricadere più nell’errore commesso, tendando di appropriarsi anche dei beni del fratello, defraudandolo con la complicità di giudici «divoratori di doni», δωροφάγοι (vv. 11-41).

Dopo gli ammonimenti al fratello, Esiodo narra il mito di Pandora: intende così spiegare perché gli uomini siano sottoposti per volontà di Zeus a quella dura necessità del lavoro alla quale Perse vorrebbe sottrarsi, anche a costo di violare la giustizia. Zeus, volendo punire il titano Prometeo, che aveva rubato il fuoco divino per donarlo agli umani, ordinò a Efesto di plasmare una bellissima figura, alla quale tutti gli altri dèi fecero dono delle grazie più seducenti, dandole però anche una mente subdola e ingannatrice. Hermes, poi, la chiamò Pandora, Πανδώρα (“dono di tutti”); la condusse da Epimeteo (Ἐπιμηθεύς, “Colui che pensa dopo”), il fratello sciocco di Prometeo e gliela offrì da parte di tutti gli Olimpi. Prometeo aveva ammonito il fratello a non accettare nessun dono che venisse da Zeus, ma Epimeteo s’invaghì immediatamente di Pandora e volle farla sua. Esisteva sulla Terra un orcio ben chiuso, nel quale si trovavano malattie, vecchiaia, morte e ogni genere di sciagure; e non appena Pandora lo vide, fu presa dall’irresistibile curiosità di sapere che cosa contenesse. Perciò ne alzò il coperchio e tutti i mali si sparsero fra gli umani, che fino ad allora ne erano stati immuni. Così l’esistenza divenne per loro un cumulo di sofferenze e di miserie, a cui non è dato sottrarsi, perché nessun mortale può sfuggire al destino (vv. 42-90).

Dopo essersi soffermato a descrivere con dolente realismo la dura esistenza che Zeus ha inesorabilmente prescritto agli uomini, Esiodo rievoca le quattro ere che hanno preceduto quella attuale. La prima fu l’età dell’oro, felice, serena, allietata da un’eterna primavera, nella quale anche la morte, senza dolore e simile a un sonno soave, non suscitava alcuno spavento. Poi venne l’età dell’argento, durante la quale gli uomini, dopo la nascita, rimanevano bambini per cent’anni, ignari di ogni male. Ma una volta superato questo periodo, diventavano sfrontati, violenti e rifiutavano agli dèi ogni forma di rispetto e di culto. Perciò, Zeus li annientò, sprofondandoli nelle viscere della terra. L’età successiva fu quella del bronzo, in cui gli uomini furono guerrieri terribili e crudeli, avidi solo di lotte e di sangue: finirono perciò con lo sterminarsi a vicenda, scomparendo così dalla faccia della terra. Zeus allora creò la nobile stirpe dei semidei, chiamati anche “eroi”, che fu la generazione precedente a quella che ora abita la Terra. La loro stirpe, assetata di gloria, perì nelle guerre di Tebe e di Troia, e lasciò posto alla quinta generazione, quella del ferro, oppressa da fatiche e miserie d’ogni tipo, tanto che il poeta dichiara apertamente che non avrebbe mai voluto appartenere a essa, ma essere morto prima o nato più tardi. Anche questa generazione è destinata a essere annientata da Zeus e quella che seguirà, sarà caratterizzata dal disprezzo di ogni legge umana e divina; allora Aἰδώς (la “Coscienza”) e Nέμεσις (il “Rispetto”) abbandoneranno definitivamente la Terra, lasciando gli esseri umani sprofondati nel male e in balia di se stessi (vv. 106-201).

Poeta greco (forse Esiodo). Testa, marmo, copia romana I secolo a.C.

Il triste quadro dell’età del ferro, dominata dalla violenza e dalla sopraffazione, senza più alcun freno morale, suggerisce al poeta lo sconsolato apologo dello sparviero e dell’usignolo. Uno sparviero aveva catturato un usignolo e lo teneva serrato fra gli artigli; e mentre quello si lamentava pietosamente, il crudele rapace esclamò: «Che hai da frignare? Ormai sei preda di uno molto più forte di te! Per quanto melodioso possa essere il tuo canto, verrai dove ti porterò io, che deciderò a mio piacere se divorarti o lasciarti libero! Stolto è chi pensa di resistere a qualcuno di più forte di lui!». Dalla dura ma lucida morale dell’apologo, Esiodo trae ancora una volta spunto per rinnovare a Perse il consiglio di onorare la giustizia, perché solo nell’assoluto rispetto di essa uomini e città possono avere una vita felice, sotto lo sguardo onnisciente di Zeus. I malvagi, invece, non devono illudersi di sfuggire alla punizione che li attende: infatti, ogni volta che una legge viene violata e l’ordine infranto, Dike, la vergine figlia di Zeus, se ne lamenta con l’onnipotente padre, che interviene a restaurare l’equilibrio; solo nel rispetto di esso, gli uomini possono prosperare e sono felici, per quanto è concesso ai mortali di esserlo (vv. 202-285).

Di qui fino alla conclusione del poema, la trattazione esiodea verte principalmente, in modo più coerente, sul lavoro dei campi, in rapporto al trascorrere delle stagioni. Si hanno così le descrizioni dell’autunno, dell’inverno, della primavera, dell’estate e della vendemmia, accompagnate ciascuna da precisi ed esaurienti consigli tecnici, con un fine evidentemente didascalico. Poi Esiodo si abbandona ancora all’autobiografismo, rievocando la sua unica esperienza di navigazione e la vittoria ottenuta con un inno nei giochi funebri di Anfidamante. Il poema si conclude con una nuova serie di consigli a Perse; con questi, il poeta intende far capire al fratello e a tutti gli uomini la profonda eticità di un’esistenza fondata sul lavoro e sull’accettazione consapevole delle sacre leggi della giustizia (vv. 286-828).

4. I nuovi valori etico-sociali in Esiodo

Esiodo non è, in assoluto, il primo poeta greco a trattare il tema del lavoro umano, poiché anche l’épos omerico offre numerose informazioni in proposito, soprattutto nell’Odissea, in cui si possono ravvisare situazioni e personaggi apparentemente vicini a quelli descritti nell’opera di Esiodo. Ciononostante, la società omerica, chiusa in un rigido classismo, ha il suo vertice nell’aristocrazia guerriera, che determina ed esprime anche i valori etici dominanti; e in questa classe, l’idea del lavoro è generalmente associata a quella dell’appartenenza a una condizione umile o addirittura servile. In Esiodo, il discorso appare completamente diverso e opposto a questa morale di casta. Quando il poeta afferma che il lavoro non arreca vergogna e che l’unica cosa vergognosa è starsene in ozio (Op. 311-313, ἔργον δ’ οὐδὲν ὄνειδος, ἀεργίη δέ τ’ ὄνειδος. / εἰ δέ κεν ἐργάζῃ, τάχα σε ζηλώσει ἀεργὸς / πλουτεῦντα· πλούτῳ δ’ ἀρετὴ καὶ κῦδος ὀπηδεῖ, «Il lavoro non è vergogna, vergogna è l’inerzia. / Se lavorerai, ben presto il pigro invidierà la tua ricchezza; / e alla ricchezza si accompagnano valore e fama»), egli intende sottolineare la profonda eticità del suo pensiero: non lavorare significa dare spazio all’inerzia (ἀεργίη), che genera tracotanza e discordia e distrugge la giustizia, perché viene meno al disegno di Zeus, che ha voluto che gli uomini ricavassero il loro sostentamento dalla dura e costante fatica. Se la pigrizia dell’uomo suscita lo sdegno degli dèi, essa non manca di suscitare anche il giusto risentimento di coloro per i quali il lavoro è una forma di vita morale, un’ἀρετή, che si contrappone a quella del guerriero. nell’ottica della società in cui Esiodo è vissuto, l’uomo valente (ἐσθλός) è colui che si procura la ricchezza (ὄλβος, πλοῦτος) non solo con i ricchi doni ottenuti da altri o con il bottino di guerra, ma con il proprio lavoro (ἔργον), conquistandosi la fama (κύδος) grazie alla propria onestà.

Pittore anonimo. Aratura e semina dei campi. Pittura vascolare su una coppa attica a figure nere, c. 530 a.C. Paris, Musée du Louvre.

Naturalmente la vita dei campi possiede anche una propria religiosità e riti propri, che non si esaltano nello splendore di cerimoniali solenni, ma che testimoniano comunque il continuo e consapevole rapporto fra uomo e divinità. Quando la gru lancia il suo grido caratteristico, il contadino si accinge alla semina, invocando Zeus Ctonio e Demetra, perché il grano che affida alla terra dia buon frutto (Op. 465 ss.) e gli sia evitato di soffrire la fame nel cuore di un rigido inverno. Da parte loro, gli dèi non mancano di dimostrarsi benevoli verso chi è giusto e pio e gli permettono anche di accumulare un’onesta ricchezza. Anche da questo punto di vista, Esiodo testimonia una significativa innovazione delle concezioni socio-economiche del suo tempo: nel mondo omerico la ricchezza del signore era rappresentata dalla proprietà terriera e dagli allevamenti, di cui egli si limitava a godere i proventi, frutto delle fatiche altrui. I beni del re guerriero si accrescevano con il bottino, con il riscatto dei prigionieri o con il guadagno della loro vendita come servi, con il saccheggio o con la pirateria. A ciò si aggiungevano i premi delle gare e i doni degli ospiti. Tuttavia, questi oggetti, anche se preziosi, non rappresentavano tanto un valore materiale (cioè commerciale), quanto piuttosto un ambito segno di prestigio sociale: accuratamente conservati fra i cimeli di famiglia, destinati a tramandarsi in eredità di generazione in generazione, essi venivano esibiti e ostentati con orgoglio, in omaggio alla convinzione che la ricchezza dovesse essere mostrata per testimoniare il rango di chi la possedeva. In Esiodo, la ricchezza si acquisisce e si mantiene soprattutto con il lavoro, e fra le attività produttive, l’agricoltura in specie è foriera di benessere.

Al secondo posto viene il commercio (ἐμπορίη), che però è anch’esso strettamente legato al lavoro agricolo e che consiste, per lo più, nello smercio delle derrate alimentari. Questo non significa che Esiodo non avesse nozione di un commercio a più ampio raggio, che si realizzava soprattutto grazie alla navigazione: il tempo in cui il poeta visse (tra la metà dell’VIII e del VII secolo a.C.), caratterizzato dal vasto movimento della seconda colonizzazione, non permetteva certo di ignorare questa attività, in conseguenza della quale stava nascendo e prosperando una nuova classe sociale. Esiodo dimostra di non trascurare questo nuovo aspetto dell’economia ellenica e, pur conservando al riguardo un atteggiamento prudente, non ne disconosce i vantaggi, così come non manca di considerarne i pericoli (Op. 619 ss.), con l’equilibrio di chi, assistendo al rapido sviluppo di un’attività inedita, non vorrebbe però che quella tradizionale venisse dimenticata. Anche il commercio può dare naturalmente ricchezza; l’importante è che l’uomo si attenga sempre a criteri di misura e giustizia, senza offendere Zeus né Dike. Se lo facesse, tutto quello che ha accumulato andrebbe in breve tempo distrutto: l’eccesso, infatti, porta fatalmente alla prevaricazione, violando l’equilibrio universale (κόσμος) di cui il Cronide è principio e difensore; ogniqualvolta esso sia infranto dallo spirito di trasgressione (ἀκοσμία) che caratterizza la natura degli umani, il dio supremo interviene per restaurarlo, punendo i colpevoli con inflessibile giustizia.

Anche il mondo divino ebbe un tempo il suo momento di disordine e di violenza, prima dell’avvento di Zeus e degli dèi Olimpi; allora, le divinità non avrebbero potuto porsi come esempio di comportamento per l’umanità. Ma dopo che Zeus ebbe instaurato nel suo regno l’ordine e l’equilibrio, l’uomo ha acquistato un modello da cui non può né deve discostarsi, se non vuole ripiombare in un χάος analogo a quello primordiale. In questo modo, il κόσμος divino, prima noto soltanto come argomento di miti, diviene la base morale della vita associata degli uomini, che trae da esso credibilità e universalità.

5. La poesia di Esiodo

L’opera esiodea, talvolta sottovalutata nel suo valore poetico, influì sulla cultura greca posteriore non tanto dal punto di vista formale e linguistico (come accadde invece con Omero), quanto per la sua eticità severa e profondamente sentita, solida radice di tutta la morale arcaica. La visione esistenziale del poeta, fondata su una religiosità autentica, sul rispetto della giustizia, ma anche sulla realistica e dolente consapevolezza della tendenza umana alla trasgressione, offrì spunti essenziali alla grande poesia tragica del V secolo, dopo essere stata la base del pensiero politico di Solone.

D’altro canto, la viva e sensibile osservazione della vita agreste e del paesaggio in cui essa si svolgeva, portò talvolta Esiodo a raggiungere momenti altissimi di poesia della natura. Si consideri, per esempio, la descrizione dell’ardente estate mediterranea, con il suo assetato paesaggio, in cui brillano, come vivide macchie di colore, i fiori violetti e spinosi del cardo (Op. 582-584):

Ἦμος δὲ σκόλυμός τ’ ἀνθεῖ καὶ ἠχέτα τέττιξ

δενδρέῳ ἐφεζόμενος λιγυρὴν καταχεύετ’ ἀοιδὴν

πυκνὸν ὑπὸ πτερύγων, θέρεος καματώδεος ὥρῃ.

Quando fiorisce il cardo e la cicala canora

posata sull’albero, battendo fittamente le ali,

spande il suo stridulo canto, nei giorni spossanti d’estate.

Capra (Amaltea). Testa (dettaglio), bronzo, 120-100 a.C. ca. Cleveland, Museum of Art.

Dopo le calde giornate dell’estate, la stagione di Demetra, l’apparire della costellazione di Orione indica il sopraggiungere dell’autunno, il tempo di Dioniso. È il momento di pensare a riporre il raccolto, a conservare il foraggio per gli animali, ad affrontare la fatica gioiosa della vendemmia (Op. 597-617):

– Δμωσὶ δ’ ἐποτρύνειν Δημήτερος ἱερὸν ἀκτὴν

δινέμεν, εὖτ’ ἂν πρῶτα φανῇ σθένος Ὠρίωνος,

χώρῳ ἐν εὐαεῖ καὶ ἐυτροχάλῳ ἐν ἀλωῇ.

μέτρῳ δ’ εὖ κομίσασθαι ἐν ἄγγεσιν· αὐτὰρ ἐπὴν δὴ

πάντα βίον κατάθηαι ἐπάρμενον ἔνδοθι οἴκου,

θῆτά τ’ ἄοικον ποιεῖσθαι καὶ ἄτεκνον ἔριθον

δίζησθαι κέλομαι· χαλεπὴ δ’ ὑπόπορτις ἔριθος·

καὶ κύνα καρχαρόδοντα κομεῖν, μὴ φείδεο σίτου,

μή ποτέ σ’ ἡμερόκοιτος ἀνὴρ ἀπὸ χρήμαθ’ ἕληται.

χόρτον δ’ ἐσκομίσαι καὶ συρφετόν, ὄφρα τοι εἴη

βουσὶ καὶ ἡμιόνοισιν ἐπηετανόν. αὐτὰρ ἔπειτα

δμῶας ἀναψῦξαι φίλα γούνατα καὶ βόε λῦσαι.

– Εὖτ’ ἂν δ’ Ὠρίων καὶ Σείριος ἐς μέσον ἔλθῃ

οὐρανόν, Ἀρκτοῦρον δὲ ἴδῃ ῥοδοδάκτυλος Ἠώς,

ὦ Πέρση, τότε πάντας ἀποδρέπεν οἴκαδε βότρυς,

δεῖξαι δ’ ἠελίῳ δέκα τ’ ἤματα καὶ δέκα νύκτας,

πέντε δὲ συσκιάσαι, ἕκτῳ δ’ εἰς ἄγγε’ ἀφύσσαι

δῶρα Διωνύσου πολυγηθέος. αὐτὰρ ἐπὴν δὴ

Πληιάδες θ’ Ὑάδες τε τό τε σθένος Ὠρίωνος

δύνωσιν, τότ’ ἔπειτ’ ἀρότου μεμνημένος εἶναι

ὡραίου· πλειὼν δὲ κατὰ χθονὸς ἄρμενος εἴη.

Ordina ai suoi servi di battere in cerchio il sacro frumento

di Demetra, non appena compare la forza di Orione,

in un luogo ben ventilato, sull’aia perfettamente circolare.

Dopo averlo misurato, riponilo con cura nei recipienti; quando poi

avrai sistemato dentro casa, dopo averlo raccolto, tutto il vitto necessario

ti consiglio di procurarti un servo senza famiglia o una serva

senza figli; una serva con un lattante al seno è un fastidio;

e di nutrire un cane dai denti aguzzi; non risparmiare sul suo cibo,

affinché un ladro, un “dormigiorno”, non ti derubi dei beni.

Poi, riponi foraggio e paglia, affinché tu ne abbia

in abbondanza per i buoi e i muli. Dopo, lascia che i servi

riposino le loro ginocchia e sciogli i buoi.

Quando Orione e Sirio avranno raggiunto il centro della volta

celeste e l’Aurora dalle rosee dita potrà scorgere Arturo,

allora, o Perse, cogli tutti i grappoli e portali in casa:

esponili al sole dieci giorni e dieci notti

e per cinque tienili all’ombra; al sesto, raccogli nei recipienti

i doni di Dioniso apportatore di gioia. Ma in seguito, quando

le Pleiadi e le Iadi e la forza di Orione

saranno tramontate, allora pensa all’aratura

al momento opportuno; e che il grano sotterra dia buon frutto.

Nelle Opere e giorni, in ogni periodo dell’anno, le occupazioni agricole sono indicate e scandite dal sorgere e dal tramontare delle costellazioni: quelle dell’autunno sono Orione, Sirio, le Pleiadi, le Iadi. Tutti questi astri, già ricordati anche da Omero (il lungo viaggio di Odisseo non ha altra guida se non la loro presenza o la loro assenza nel cielo notturno), sono personaggi mitologici mutati in stelle, secondo una trasformazione, detta καταστερισμός. Orione era un cacciatore gigantesco, figlio di Poseidone: siccome aveva tentato di usare violenza ad Artemide, la dea si era vendicata inviando contro di lui un enorme scorpione, che lo uccise pungendolo a un piede. Dopo la sua morte, egli e il suo cane Sirio furono trasformati negli astri che portano il loro nome: entrambi compaiono in cielo nel momento più caldo dell’estate, nei giorni detti appunti della “canicola”, spesso malsani e causa di febbri e malattie (da ricordare, a questo proposito, la similitudine fra l’apparizione di Achille, splendente nelle sue armi, e il funesto brillare di Sirio, in Il. XXII 25-32). Entrambe le costellazioni di Orione e di Sirio rimangono visibili fino al sopraggiungere dell’autunno, quando, secondo il mito, il sorgere dello Scorpione costringe Orione alla fuga. È il momento in cui scompaiono dal cielo anche le Pleiadi e le Iadi, figlie del titano Atlante, mutate in stelle quando il loro padre fu condannato da Zeus a sostenere per sempre sulle sue fortissime spalle la volta del cielo. La loro sparizione segnala l’approssimarsi della stagione più inclemente dell’anno ed è perciò necessario che le messi e il frutto della vendemmia siano accuratamente riposti. Così il brano, che si è aperto con il nome di Demetra, si chiude con quello di Dioniso, il dio del vino e della gioia che da esso deriva.

Pittore di Pan. Un cacciatore e il suo cane. Pittura vascolare da una λήκυθος attica a figure rosse, c. 470 a.C. Boston, Museum of Fine Arts.

Tuttavia, accanto a questa manifestazione di religiosità, tipica della poesia esiodea, si accompagna un palese richiamo ad aspetti più duri e realistici della vita agreste. Salvaguardare i prodotti della terra è necessario alla sopravvivenza tanto quanto averli coltivati e raccolti; pertanto, essi devono essere difesi dai ladri e affidati alla custodia di chi non ha nessun altro impegno, nemmeno affettivo. Di qui, il consiglio di servirsi di «un servo senza famiglia» e di un feroce cane da guardia, robusto, aggressivo e nutrito senza risparmio. Può apparire sconcertante per la sensibilità di oggi che il poeta esorti il fratello a non lesinare cibo per il cane, dopo aver affermato brutalmente che una serva che allatta «è sempre un fastidio», ma l’ottica del poeta è improntata a un realismo ben lontano dallo spirito dell’idillio campestre. L’uomo dell’antichità era pienamente consapevole dell’aspra lotta quotidiana per la sopravvivenza, i sentimenti erano quasi sempre destinati ad avere la peggio e lo ammetteva senza ipocrisie.

Di grande efficacia poetica è anche il passo in cui Esiodo descrive i rigidi giorni invernali, che, per questa loro natura, accomunano tutte le creature nella sofferenza (Op. 504-528):

– Μῆνα δὲ Ληναιῶνα, κάκ’ ἤματα, βουδόρα πάντα,

τοῦτον ἀλεύασθαι καὶ πηγάδας, αἵ τ’ ἐπὶ γαῖαν

πνεύσαντος Βορέαο δυσηλεγέες τελέθουσιν,

ὅς τε διὰ Θρῄκης ἱπποτρόφου εὐρέι πόντῳ

ἐμπνεύσας ὤρινε, μέμυκε δὲ γαῖα καὶ ὕλη·

πολλὰς δὲ δρῦς ὑψικόμους ἐλάτας τε παχείας

οὔρεος ἐν βήσσῃς πιλνᾷ χθονὶ πουλυβοτείρῃ

ἐμπίπτων, καὶ πᾶσα βοᾷ τότε νήριτος ὕλη·

θῆρες δὲ φρίσσουσ’, οὐρὰς δ’ ὑπὸ μέζε’ ἔθεντο·

τῶν καὶ λάχνῃ δέρμα κατάσκιον· ἀλλά νυ καὶ τῶν

ψυχρὸς ἐὼν διάησι δασυστέρνων περ ἐόντων·

καί τε διὰ ῥινοῦ βοὸς ἔρχεται οὐδέ μιν ἴσχει,

καί τε δι’ αἶγα ἄησι τανύτριχα· πώεα δ’ οὔτι,

οὕνεκ’ ἐπηεταναὶ τρίχες αὐτῶν, οὐ διάησι

ἲς ἀνέμου Βορέω· τροχαλὸν δὲ γέροντα τίθησιν

καὶ διὰ παρθενικῆς ἁπαλόχροος οὐ διάησιν,

ἥ τε δόμων ἔντοσθε φίλῃ παρὰ μητέρι μίμνει,

οὔπω ἔργα ἰδυῖα πολυχρύσου Ἀφροδίτης,

εὖ τε λοεσσαμένη τέρενα χρόα καὶ λίπ’ ἐλαίῳ

χρισαμένη μυχίη καταλέξεται ἔνδοθι οἴκου,

ἤματι χειμερίῳ, ὅτ’ ἀνόστεος ὃν πόδα τένδει

ἔν τ’ ἀπύρῳ οἴκῳ καὶ ἤθεσι λευγαλέοισιν·

οὐ γάρ οἱ ἠέλιος δείκνυ νομὸν ὁρμηθῆναι,

ἀλλ’ ἐπὶ κυανέων ἀνδρῶν δῆμόν τε πόλιν τε

στρωφᾶται, βράδιον δὲ Πανελλήνεσσι φαείνει.

Ma il mese di Leneone, giorni terribili, ciascuno dei quali

uccide un bue, sfuggilo, e così pure le sue lunghe gelate

che appaiono sulla terra quando soffia Borea,

che, attraverso la Tracia nutrice di cavalli, si scaglia sull’ampio mare,

scatenandone la furia; e mugghiano la terra e i boschi;

a decine esso stronca nelle forre dei monti le querce dalle alte chiome

e gli imponenti abeti, quando s’abbatte sulla fertile terra

e allora leva un grido tutta l’immensa foresta.

Gli animali rabbrividiscono e infilano la coda fra le zampe,

anche quelli la cui pelle è coperta da un fitto vello; il vento

gelido li penetra, benché abbiano il corpo coperto dalla pelliccia;

passa anche attraverso il cuoio del bue, che non riesce a fermarlo;

raggiunge anche la capra dal folto pelo; ma la violenza

del vento Borea non raggiunge le pecore, grazie alla loro lana

abbondante; però, piega in due, come un cerchio, il dorso del vecchio.

Esso non raggiunge neppure la fanciulla dalla tenera pelle,

ancora ignara delle opere dell’aurea Afrodite,

che se ne sta chiusa in casa presso la cara madre;

dopo aver lavato il corpo delicato e averlo unto con denso olio,

si stende per dormire, ben riparato all’interno della casa

nei giorni invernali, quando il polpo, il “senz’ossa”, si succhia

un tentacolo, nella sua tana senza fuoco in un triste ritiro;

infatti, il sole non gli mostra del cibo su cui gettarsi,

ma compie il suo giro al disotto del popolo e della città

degli uomini neri e appare più tardi a tutti gli Elleni.

Pittore di Brygos. Una donna intenta a cardare la lana. Pittura vascolare da una λήκυθος attica a figure rosse, 480-470 a.C. c. Boston, Museum of Fine Arts.

Il mese di Leneone, che prendeva nome dalla celebrazione delle Lenee, festività in onore di Dioniso, era detto anche Poseideone e coincideva con il periodo più freddo dell’anno, fra gennaio e febbraio. Nel descriverlo, Esiodo si sofferma in primo luogo sulla caratteristica peggiore di questa stagione: le violente bufere di vento, che, nel cuore dell’inverno, infuriavano sul mare e spazzavano la campagna beotica, facendo strage di alberi e costringendo tutte le creature a cercare disperatamente un riparo contro il gelo pungente. Al drammatico realismo rappresentativo della grandiosa scena di tempesta, in cui la natura si mostra nel suo aspetto più ostile, contribuisce la potente intensità di connotazione uditiva determinata dall’originale catacresi di verbi come μυκάομαι (“muggire”) e βοάω (“gridare”), usati ai vv. 508 e 511 per indicare il cupo suono del vento nelle gole montane e lo schianto degli alberi spezzati. Si assiste così al capovolgimento dell’applicazione di questa figura retorica rispetto a Omero, che si serviva spesso di immagini visive e uditive desunte dal mondo naturale per indicare la violenza delle battaglie o l’aggressività dei guerrieri, mentre Esiodo attribuisce qui comportamenti umani agli elementi naturali. Subito dopo, l’attenzione del poeta si rivolge alle creature costrette a subire il morso crudele dell’inverno, rifiutando un τόπος largamente diffuso, secondo cui la natura si sarebbe mostrata più clemente verso le fiere che nei confronti del genere umano, fornendo ai primi un folto pelame per difendersi dal freddo e lasciando invece l’uomo nudo e vulnerabile. Agli occhi di Esiodo, umani e animali soffrono allo stesso modo, con qualche rara eccezione; al suo attendo spirito di osservazione il comportamento delle creature selvatiche (θῆρες, v. 512) e quello degli animali domestici, come capre e buoi, offre lo spunto per quadri di rara incisività descrittiva, a cui l’uso dell’antitesi conferisce una particolare efficacia. Così, all’immagine delle pecore difese dal loro folto manto lanoso si contrappone quella del vecchio ripiegato su se stesso nel tentativo di ripararsi dalla violenza delle raffiche; con la descrizione della fanciulletta ben riparata insieme alla madre nelle stanze più interne della casa, contrasta il surreale squallore della «tana senza fuoco» del polpo, il «senz’ossa», che, non potendo uscire in cerca di prede nel mare tempestoso, cerca di ingannare la fame succhiando uno dei suoi stessi tentacoli. Il sole, in questi giorni, è scomparso dall’Ellade e compie il suo corso nella terra remota degli «uomini neri» (ἐπὶ κυανέων ἀνδρῶν δῆμόν), in una lontananza che rievoca toni di fiaba, forse simili a quelli dei racconti che la fanciulla poco prima descritta ascolta dalla «cara madre», prima di abbandonarsi tranquillamente al sonno nella sua stanza calda e ben protetta.

La grandezza poetica di Esiodo è confermata dal fatto che, circa un secolo più tardi, un grande poeta lirico, Alceo, gli sarebbe stato debitore per la descrizione dell’estate, ripresa, in tempi più recenti, da Carducci, D’Annunzio e Montale. Tuttavia, se questi poeti furono colpiti dall’efficacia rappresentativa dei suoi versi, furono soprattutto Teocrito e Virgilio a comprendere appieno la profondità della sua opera, nutrita da vive e forti qualità umane. Ispirato dal senso della natura, dalla fatica, ma anche dalla bellezza e dalla religiosità della vita dei campi, Esiodo seppe sviluppare nei suoi versi un’acuta meditazione sulla condizione universale dell’uomo, resa talvolta cupa da una nota di amaro pessimismo; ma anche una visione così sconsolata trova un saldo sostegno etico e il conforto della propria infelicità nella sicura consapevolezza degli altissimi valori che l’umanità può esprimere da sé e nel costante arricchimento ricavato dal rapporto con gli altri.

Due donne (forse Demetra e Kore). Statuetta, terracotta, IV sec. a.C. da Tanagra. London, British Museum.

6. La poesia didascalica: una forma di epica

Nei tempi in cui la tradizione orale prevaleva ancora su quella scritta, l’esametro fu usato anche per la composizione di opere didascaliche, destinate cioè a trasmettere insegnamenti e precetti. Si riteneva infatti che l’uso del verso, scandito secondo un ritmo preciso e sempre uguale, favorisse l’apprendimento mnemonico in modo duraturo e più rapido della prosa. Poiché la poesia didascalica si serviva dell’ἔπος (questo è il termine con cui si indicava l’esametro), essa non fu considerata in Grecia un genere letterario autonomo, ma una forma di epica. Esiodo, Empedocle, Parmenide e molti altri, la usarono per la trattazione di argomenti di genere vario, storico, filosofico, tecnico e morale, prima che, in pieno V secolo a.C., la prosa prendesse in questo campo il sopravvento sulla poesia.

Dopo un lungo periodo di declino, l’epica didascalica ricomparve in età ellenistica, con autori come Arato di Soli (315-240 a.C. circa), che si occupò di meteorologia in un grande poema, intitolato Phaenomena, e Nicandro di Colofone (vissuto nel III secolo a.C.), autore di due opere riguardanti gli animali velenosi di vario tipo, dai rettili agli insetti, e la cura contro i loro morsi o punture. Il successo dell’epica didascalica fu notevole anche nel mondo latino: basterà ricordare che al I secolo a.C. appartengono il De rerum natura di Tito Lucrezio Caro, la massima voce dell’Epicureismo latino, e le Georgiche di Publio Virgilio Marone, ispirate oltre che ad Arato e allo stesso Lucrezio, anche all’opera di Esiodo, il più antico poeta didascalico. Cicerone (De finibus IV 4, 10) affermava che questo genere letterario dev’essere considerato come una forma di ars, in cui poeta e destinatario svolgono rispettivamente i ruoli di magister e discipulus; il primo guida il secondo nello studio e nell’apprendimento della res, cioè dell’argomento, del contenuto specifico dell’opera, come la filosofia, l’astronomia, l’agricoltura, la medicina o altro, sviluppato e reso più piacevole poetarum more (“secondo l’uso dei poeti”), che è poi quello di miscere utili dulci (“unire l’utile al dilettevole”), servendosi di tutti gli abbellimenti resi possibili dalla poesia.

Pittore di Achille. Una Musa che suona la lira. Pittura vascolare da un λήκυθος attico con sfondo bianco, 440-430 a.C. ca.

7. Il proemio delle Opere e giorni

Nel corso delle diverse epoche, i canoni della poesia didascalica furono stabiliti dai vari autori prendendo come punto di riferimento gli Ἔργα καὶ ἡμέραι di Esiodo e strutturando le proprie opere secondo uno schema fisso, che prevedeva un proemio, uno o più appelli al destinatario e una serie di digressioni. In particolare, il proemio del poema didascalico si differenziava nettamente da quello epico tradizionale per la sua soggettività; infatti, mentre l’aedo si considerava un puro strumento della Musa ispiratrice, il poeta didascalico rivendicava per sé la scelta degli argomenti e i modi della loro interpretazione ed esposizione. Nel breve prologo delle Opere e giorni, Esiodo esordisce con un’invocazione alle Muse che sembrerebbe in perfetta armonia con la tradizione omerica; ma negli ultimi versi, egli identifica il suo destinatario, il fratello Perse, con il quale erano sorti dei dissapori a proposito della divisione del lascito paterno, ed esprime il proposito dichiaratamente educativo, di annunciare a Perse parole di verità, perché impari a vivere secondo le norme di giustizia, che devono regolare i rapporti fra gli uomini e che sono state sancite dallo stesso Zeus:

Μοῦσαι Πιερίηθεν ἀοιδῇσι κλείουσαι,

δεῦτε Δί’ ἐννέπετε, σφέτερον πατέρ’ ὑμνείουσαι.

ὅν τε διὰ βροτοὶ ἄνδρες ὁμῶς ἄφατοί τε φατοί τε,

ῥητοί τ’ ἄρρητοί τε Διὸς μεγάλοιο ἕκητι.

ῥέα μὲν γὰρ βριάει, ῥέα δὲ βριάοντα χαλέπτει,

ῥεῖα δ’ ἀρίζηλον μινύθει καὶ ἄδηλον ἀέξει,

ῥεῖα δέ τ’ ἰθύνει σκολιὸν καὶ ἀγήνορα κάρφει

Ζεὺς ὑψιβρεμέτης, ὃς ὑπέρτατα δώματα ναίει.

κλῦθι ἰδὼν ἀίων τε, δίκῃ δ’ ἴθυνε θέμιστας

τύνη· ἐγὼ δέ κε Πέρσῃ ἐτήτυμα μυθησαίμην.

O Muse della Pieria, che concedete gloria con il canto,

qua, cantate Zeus, inneggiando il padre vostro,

con l’aiuto del quale gli uomini mortali sono oscuri o famosi,

conosciuti o sconosciuti per volontà del possente Zeus.

Facilmente, infatti, egli rende forti, facilmente abbatte il forte,

facilmente umilia il superbo ed esalta l’umile,

facilmente raddrizza chi è storto e piega l’orgoglioso,

Zeus altitonante, che abita eccelse dimore.

Dammi ascolto, guardando e udendo, e con giustizia raddrizza

le sentenze; io voglio dire a Perse parole di verità.

Gustave Moreau, Esiodo e le Muse. Olio su tela, 1860. Paris, Musée Gustave Moreau.

Il testo è caratterizzato da una raffinata elaborazione retorica, a partire dalla scelta di collocare, alla fine di versi consecutivi, parole che terminano con elementi vocalici analoghi se non identici (vv. 1-2: κλείουσαι / ὑμνείουσαι; vv. 5-6: χαλέπτει / ἀέξει; vv. 7-8: κάρφει / ναίει).

Oltre a questi casi di omoteleuto, tra le figure retoriche si segnalano:

  • il poliptoto, nel nome di Zeus (Δί’, v. 2; Διὸς, v. 4; Ζεὺς, v. 8) e nel verbo ἰθύνω (ἰθύνει, v. 7; ἴθυνε, v. 9);
  • l’anastrofe (ὅν τε διὰ, con nesso relativo, v. 3);
  • la variatio nell’espressione del complemento di causa Διὸς μεγάλοιο ἕκητι (v. 4), rispetto a ὅν τε διὰ del verso precedente;
  • l’anafora interna dell’avverbio ῥέα (“facilmente”, v. 5) e quella iniziale del suo equivalente ῥεῖα (vv. 6-7);
  • la figura etimologica βριάει… βριάοντα (v. 5).

Particolarmente accurata è la disposizione delle parole, spesso funzionale al contenuto dei versi. Ai vv. 3-4, che presentano entrambi Zeus come artefice del destino degli umani, a βροτοὶ ἄνδρες si accompagnano due coppie di aggettivi sinonimici, secondo una disposizione chiastica (ἄφατοί τε φατοί τε, / ῥητοί τ’ ἄρρητοί τε). Gli aggettivi che compongono ciascuna coppia compaiono nella forma positiva e negativa (quest’ultima ottenuta con il prefisso ἀ- privativo) e derivano dalla medesima radice, rispettivamente φη-/φα- e ϝερ-.

Ai vv. 5-6, costituiti da brevi frasi che alludono al potere di Zeus di innalzare oppure di umiliare la condizione umana, si nota il parallelismo nella disposizione delle forme verbali e dei rispettivi complementi oggetto (ῥέα μὲν γὰρ βριάει, ῥέα δὲ βριάοντα χαλέπτει, / ῥεῖα δ’ ἀρίζηλον μινύθει καὶ ἄδηλον ἀέξει), che risulta invece chiastica al verso successivo (ἰθύνει σκολιὸν / ἀγήνορα κάρφει, v. 7).

La particolare successione degli elementi nei due brevi enunciati dei vv. 9-10 (δίκῃ δ’ ἴθυνε θέμιστας / τύνη· ἐγὼ δέ κε Πέρσῃ ἐτήτυμα μυθησαίμην) fa sì che i due soggetti (τύνη ed ἐγὼ) si trovino in posizione ravvicinata, conferendo speciale rilievo ai ruoli concomitanti di Zeus, garante della giustizia, e di Esiodo, poeta-educatore. Il proemio termina ribadendo la funzione dei protagonisti del rapporto educativo: Zeus, che dà le direttive, e il poeta, che le recepisce e le trasmette. A essi si aggiunge l’allievo, nel caso specifico Perse, fratello di Esiodo, ma, idealmente, qualunque essere umano.

Gli dèi omerici

di G. SISSA, M. DETIENNE, La vita quotidiana degli dèi greci, Roma-Bari 1987, 7 ss.

Una serie di giornate assolate e di notti scure: accadimenti singolari e improvvisi si susseguono sullo sfondo di una temporalità sicura, continua, piena di abitudini, nutrita di inezie. In primo piano, nel movimento del racconto, si urtano gli incidenti e i sussulti di una guerra che, d’un tratto, è divenuta epica e febbrile allorché, per una questione d’onore, è esplosa la collera di un eroe. Il campo di battaglia si trova nel paese degli uomini, sulle rive dello Scamandro, ma gli dèi vi sono ben più che coinvolti: la dirigono, la fomentano, si ostinano in essa. Prendono le decisioni e le armi. La guerra di Troia appartiene a loro. Chi strappa gli eserciti al torpore, alla tensione immobile, all’attesa vana in cui sono inutilmente trascorsi anni interi? Chi stabilisce la strategia di quelle memorabili giornate di sortite, imboscate, assalti e duelli? È Zeus, il padre degli dèi e degli uomini, a spezzare la monotonia dell’assedio, nel momento in cui risponde alle lagnanze di una dea offesa nella persona di suo figlio. È lui a decidere quando ordinare la risoluzione e la fine del conflitto.

Divinità barbata (Zeus o Hermes). Testa, marmo pentelico, 450-440 a.C. ca. dal Pireo. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Al re degli Argivi egli invia un messaggio, un sogno mendace, e scatena così il terribile scontro che si concluderà con la presa della città. E il sogno, pur ingannando Agamennone riguardo ai suoi successi immediati, non nasconde la natura divina della sua origine. L’immagine parlante che appare al re addormentato, col viso di Nestore, venerabile consigliere, evoca infatti l’assemblea degli abitanti dell’Olimpo: «Gli Immortali, abitanti dell’Olimpo, non hanno più opinioni divergenti. Tutti si sono piegati alla preghiera di Hera. I Troiani sono ormai votati alla sventura». Una discordia fra gli dèi paralizzava ogni attività; il segno di un dio riscuote dall’inerzia.

Per il poeta dell’Iliade, la dinamica della guerra di Troia e la storia frenetica delle sue battaglie sono nelle mani degli abitanti dell’Olimpo. La lite tra Achille e il suo re costituisce un’occasione, un accidente originario. «Canta, o dea, l’ira di Achille, figlio di Peleo»; così ha inizio il poema. Ma l’autore, il motore affatto mobile di tale diverbio fra un eroe, figlio di una dea, e un re di ceppo mortale, è un dio. Certo, il poeta chiede alla dea che il racconto si svolga a partire dal momento «in cui una lite improvvisa oppose il figlio di Atreo, protettore del suo popolo, e il divino Achille». Ma questo inizio ne cela un altro. All’origine della disputa che oppone l’uno all’altro un re e il suo miglior paladino si delinea un’altra causa, decisiva e divina. «Quale degli dèi, dunque, ha seminato discordia fra loro in una tale lite e battaglia?», domanda il poeta. E Apollo fa la sua comparsa, da protagonista. All’origine della lite sta dunque il figlio di Latona e di Zeus: è lui che ha visto il capo degli Achei trattare sprezzantemente uno dei suoi sacerdoti, è lui che «scende dalle vette dell’Olimpo, con cuore corrucciato», per vendicarsi. Agamennone ha rifiutato di restituire a Crise, sacerdote di Apollo, la figlia, una giovane che egli aveva scelto come sua parte di bottino in occasione della conquista di Crisea. Ma è lo stesso Apollo a ritenersi oltraggiato nella persona del suo ministro: la tracotanza del re lo riguarda e lo colpisce. Reagisce. Fa irruzione in quel tempo uggioso nel quale ormai nulla più accadeva. È lui, dunque, a inaugurare il tempo della guerra movimentata e narrata. Quanto all’origine prima dell’offesa recata da Agamennone al sacerdote e al suo dio, questa sembra essere l’effetto dell’arroganza tutta umana del re. Ma l’intero svolgimento della guerra si inscrive, non bisogna dimenticarlo, nei disegni di Zeus.

Pittore di Villa Giulia. Scena con coro femminile. Pittura vascolare a figure rosse da un calyx-krater, 460 a.C. c. da Falerii. Roma, Museo Nazionale di Villa Giulia.

Per la sua incursione nel mondo umano, per venire ad appostarsi, simile alla notte, presso le navi greche, Apollo lascia la sua casa, una dimora ben costruita nel feudo montano degli Immortali, il massiccio dell’Olimpo, nella parte nord-orientale della Grecia continentale. Come tutti i suoi simili, quando si mescolano agli uomini, Apollo all’inizio dell’Iliade deve fare un viaggio, vale a dire percorrere molto velocemente la distanza che separa due spazi: quello delle sue azioni puntuali, nel caso specifico la pianura di Troia, e quello della sua esistenza quotidiana. Due spazi, due tempi: l’intrigo cavalleresco, il dramma che occupa il proscenio, si staglia – come abbiamo detto – su un fondale di costumi, abitudini, gesti ripetuti. Questo secondo piano è talora percepibile grazie a notazioni rapide, che si insinuano nel racconto, en passant, con l’aiuto di una pausa, come l’allusione alla grossa nuvola che le Ore spostano, a mo’ di porta, all’ingresso dell’Olimpo, o l’evocazione delle maniere a tavola. Ma gli indizi di una vita divina, quasi un paesaggio appena delineato in prospettiva, compongono di fatto un altro quadro, obbligano a presupporre l’esistenza di un altro teatro per le imprese degli dèi. Quello di una vita loro propria, autonoma e parallela. Lunghe scene vi si svolgono: assemblee e conversazioni, banchetti e alterchi, nel palazzo di Zeus o sulle vette che lo circondano. Viaggi, incontri, liti: gli dèi si muovono in questo altrove in cui i giorni succedono ai giorni, secondo un ritmo assolutamente simile a quello noto ai mortali. Si muovono, agiscono, si spostano, ma anche si riposano: sanno abbandonarsi allo scorrere del tempo, all’ozio, al ritorno delle ore. Il lettore di Omero ha l’illusione perfetta che gli abitanti dell’Olimpo formino una società a parte, completa e indipendente: relativamente animata, essa ha una storia evenemenziale che non sempre si intreccia a quella dei mangiatori di pane. Ha conosciuto passaggi di potere e sedizioni. La sua struttura gerarchica e genealogica è continuamente esposta al rischio del conflitto. Ma questa società possiede anche una profonda stabilità, fondata su un sistema di comportamenti e di rappresentazioni: gli abitanti dell’Olimpo obbediscono a regole, seguono costumi, hanno una coscienza assai precisa della loro identità etnica.

La società degli Immortali invita alla storia e all’etnografia. La grande partizione culturale che divide in due il mondo iliadico non è quella che distingue i Greci dai Troiani: la somiglianza degli uomini tra loro è pressoché totale. Tutti i mortali, quale che sia la loro origine, ellenica o asiatica, parlano la stessa lingua, indossano armature che possono scambiarsi senza alcun problema, mangiano allo stesso modo lo stesso cibo, sacrificano agli stessi dèi. Rispetto a essi nel loro insieme, sono gli Immortali a figurare come nazione eterogenea. Hanno una propria lingua, un cibo specifico, fanno un uso dei metalli che è loro peculiare: il bronzo per le case, l’oro per le suppellettili e i mobili; essi stessi sono colmi di una sostanza vitale che non è sangue. Accanto alle caratteristiche propriamente divine, agli innumerevoli poteri di cui danno prova – spostarsi con una velocità che annulla il tempo, mutare di forma, rendersi invisibili, dare o sottrarre forza – gli abitanti dell’Olimpo mostrano un insieme di tratti culturali in senso proprio. Essi non sono semplicemente dèi, esseri sovrannaturali caratterizzati da un’onnipotenza virtuale e immobile. Sono gli abitanti dell’Olimpo, mangiatori d’ambrosia, amatori di musica apollinea […].

Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., dal Tesoro dei Sifni, Santuario di Apollo Delfico. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.

L’amore […] introduce un intero campo dove la dissomiglianza fra dèi e mortali sembra sfumare definitivamente, dove nulla viene a rammentare che gli uni sarebbero meglio equipaggiati degli altri per condurre la propria esistenza. È, questa, la dimensione degli umori e dei luoghi del corpo – cuore (θυμός e κῆρ), diaframma (φρήν), petto (στῆθος) – corrispondenti alla causa e alla sede dei movimenti affettivi. È il registro delle passioni: collera, pietà, odio, amicizia. La loro dieta alimentare priva forse gli dèi di sangue, ma tutto il loro comportamento sociale riposa su una “biologia delle passioni”, un’iscrizione nel corpo, nella quale i Greci dovevano riconoscere facilmente la propria.

La bile, vale a dire la collera, costituisce uno degli ingredienti più attivi della trama dell’Iliade. Se si percorre il suo campo semantico, si incontrano dèi in preda al rancore (μῆνις), al furore (μένος); abitanti dell’Olimpo corrucciati (χωόμενοι), beati che s’indignano (ὀχθέω) e si irritano (νεμεσσάω). E ciò non può essere ridotto a episodiche manifestazioni del carattere. Si tratta, al contrario, di fattori dinamici del racconto. Ricostruire, giorno dopo giorno, la vita degli dèi Olimpici significa confrontarsi con il fatto evidente che la volontà strategica di Zeus, il quale, si ritiene, determina e dispone gli eventi, è in realtà soltanto l’effetto secondario, la decantazione di un impulso più immediato e meno mediato: la grande irritazione del dio contro Agamennone. Rabbia divina che è il risultato di una catena di reazioni passionali, perché Agamennone ha suscitato la furia e il rancore di Achille, che ha fatto appello alla pietà di Teti, la quale, a sua volta, ha saputo suscitare il corruccio di Zeus. E la collera di Zeus non viene forse a dare il cambio a quella di Apollo, il cui sacerdote ha subito uno scatto d’ira da parte di Agamennone e ha invocato il dio di vendicarlo? L’agire degli dèi si narra di furia in furia. Zeus e Apollo, Hera e Atena, Ares e Poseidone funzionano soprattutto in questo modo; allo stimolo dell’offesa rispondono con un eccesso di bile e, rapidi, si lanciano all’azione efficace. La collera si rivela come motore della loro vita frenetica e, conseguentemente, della storia degli uomini. Essa fa cominciare il racconto e ne decide la fine. Infatti, nell’Iliade tutto si ferma proprio con una tregua di tutte le ire e gli odi, quando gli dèi, cominciando da Apollo e Zeus, rinunciano alla loro violenza reciproca, alle opinioni divergenti e alla discordia che li spinge a battersi e ad affrontarsi. Irritati, per una volta all’unisono, dall’accanimento di Achille contro il cadavere di Ettore, solidali in una nuova e ultima collera rivolta all’eroe […] folli di rabbia, decretano la fine delle ostilità e, con ciò stesso, del racconto che da queste traeva la sua energia e ispirazione.

“Atena Mattei”. Statua, copia romana di I secolo a.C. da un originale bronzeo di IV secolo a.C., opera di Cefisodoto. Paris, Musée du Louvre.

Ma gli dèi manifestano anche l’intera gamma delle facoltà deliberative e intellettuali: volontà (βουλή), cuore (θυμός), intelletto (νοῦς). A loro appartengono gli aspetti più avviti della soggettività; il θυμός, in particolare, sede dei sentimenti come anche degli slanci volontari e delle decisioni che s’impongono all’io umano, funziona anche negli dèi in maniera assolutamente normale. Volere è, per Atena, essere spinta dal suo grande cuore (θυμός); esprimere il suo pensiero è, per Zeus, quel che il cuore gli detta nel petto; fare scelte divergenti equivale, per gli dèi nel loro insieme, ad avere cuori divisi, così come, per uno di loro, vuol dire meditare nel proprio diaframma per giungere alla scelta che gli sembra migliore nel cuore… Insomma, gli dèi dell’Olimpo dipendono dal loro θυμός né più né meno dei mortali.

Iʙʏᴄ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S151 = fr. 1 P., 1-44 (P. Oxy. 1790+2081f) – L’Ode a Policrate

“… e quelli che[1] di Priamo Dardanide[2] la grande cittadella illustrissima opulenta distrussero, scagliandosi da Argo[3], secondo il volere del grande Zeus[4], per l’aspetto di Elena bionda, con lotta da molti cantata[5], nella lacrimevole guerra[6]. Salì la martoriata Pergamo la rovina[7], per via di Cipride dai capelli d’oro.

Ora, io però né Paride traditore degli ospiti desidero cantare e nemmeno Cassandra dalle lunghe caviglie e gli altri figliuoli di Priamo, e di Troia dagli alti portali il dì predace a cui non si dà nome[8], … il valore superbo degli eroi, e coloro che le concave, ben chiodate navi condussero a Troia, sventura, eroi prodi; ne era il signore Agamennone Plistenide al comando, re condottiero d’uomini[9], figlio della famiglia di Atreo prode. Son cose che le Muse istruite saprebbero ben passare in racconto, le figlie di Elicone[10]; ma non può dire un uomo mortale, pur vivo (…) i dettagli, quanto grande fu il numero di navi che da Aulide[11] per il mar Egeo, a partire da Argo, arrivarono a Troia che nutre i cavalli, coi forti figli degli Achei, dal bronzeo scudo; tra loro il migliore di lancia… il piè veloce Achille e il grande Telamonio[12] Aiace ardimentoso…; … il più bello da Argo… Cianippo verso Ilio… intrecciata d’oro Illide[13] generò, al quale, invero, Troilo, come l’oro tre volte bollito all’oricalco, ormai i Troiani e i Danai per forma amabile rassomigliavano. Con loro per sempre anche tu di bellezza, o Policrate, fama immortale avrai, come anche la mia fama, per il canto”.

𝐾𝑜𝑢𝑟𝑜𝑠 di Reggio (o Efebo di Reggio). Statua, marmo pario, VI sec. a.C. Reggio Calabria, Museo Archeologico della Magna Grecia

Un papiro scoperto nel 1922 e redatto nel 130 a.C. (𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 1790 + 2081f) da uno scriba competente – capace di riconoscere i 𝑐𝑜𝑙𝑎 metrici già individuati per i lirici da Aristofane di Bisanzio (III-II secolo a.C.) e le forme doriche, e di precisare l’accentuazione e la prosodia dei termini meno conosciuti – ha restituito i 48 versi finali (lo attesta con certezza un segno posto in margine all’ultimo verso), articolati in tre triadi (strofe, antistrofe ed epodo) e mezza (forse l’intero componimento, privo della strofe iniziale, o al più di una triade e una strofe) e caratterizzati da un ritmo dattilico (per lo più pentametri dattilici, ℎ𝑒𝑚𝑖𝑒𝑝𝑒, enopli), dell’encomio che Ibico dedicò alla straordinaria bellezza di un giovane Policrate: che si trattasse del futuro tiranno (che regnò su Samo fra il 533 e il 522 a.C.), quando ancora apparteneva alla 𝑗𝑒𝑢𝑛𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑑𝑜𝑟𝑒́𝑒 dell’isola, ovvero del suo omonimo figlio, di cui fu poi precettore Anacreonte (cfr. 𝑃𝑀𝐺 491), dipende in definitiva dalla controversa cronologia di Ibico (𝑃𝑀𝐺𝐹 TA 1-2) e non può essere stabilito con sicurezza; certa è invece l’eroizzazione del giovane sottesa all’encomio, che unisce il passo mitico (vv. 1-45) e realtà presente (vv. 46-48) in un unico tempo, signoreggiato da Afrodite (v. 9) e dalla bellezza (v. 46), ed eternato dal potere del canto poetico (vv. 47 s.).

Come anche altrove (per es., 𝑃𝑀𝐺𝐹 289a, dove il giovane Gorgia è paragonato a Ganimede e a Titonoo, rapiti per la loro bellezza da Zeus e da Aurora), Ibico costruisce su illustri 𝑒𝑥𝑒𝑚𝑝𝑙𝑎 mitici le basi del proprio encomio. E come Saffo era ricorsa al tradimento di Elena e alla guerra di Troia per cantare congiuntamente la potenza di Afrodite e la bellezza di Anattoria (fr. 16 V.), così anche Ibico si richiama al più celebre dei miti greci per celebrare la forza irresistibile di Cipride e l’immortale fascino di Policrate. Dopo una probabile invocazione proemiale (contenuta nella strofe o nella triade + strofe perduta), il poeta passava a narrare come gli Achei, «slanciandosi da Argo» (v. 3; cfr. 𝐼𝑙. II 559; il verbo è omerico e l’integrazione di Hunt assai verosimile), distrussero «la grande cittadella illustrissima opulenta» (vv. 1-2; il cumulo di aggettivi a incorniciare il sostantivo è tipico dello stile ibiceo: cfr. vv. 14-15, 16-17, 34, 44-45, 𝑃𝑀𝐺𝐹 286, 5-6, 11, 287, 6) di Priamo, figlio di Dardano (v. 1; anche l’uso di patronimici è frequente in Ibico; cfr. vv. 21, 34; 𝑃𝑀𝐺𝐹 S166, 15): furono la volontà di Zeus (v. 4, con la probabile integrazione di Hunt), secondo il dettato dei 𝐶𝑎𝑛𝑡𝑖 𝐶𝑖𝑝𝑟𝑖 (fr. 1, 7 West), e l’aspetto della bionda Elena (v. 5 ξα]ν̣θᾶς Ἑλένας περὶ εἴδει: Elena è bionda anche in Sᴀᴘᴘʜ. fr. 23, 5 V. e in Sᴛᴇsɪᴄʜ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S103, 5) a causare quella lotta che ispirò tanti canti (v. 6 πολύυμνον: l’aggettivo è in 𝐻. 𝐻𝑜𝑚. 26, 7, detto di Dioniso, e in Pɪɴᴅ. 𝑁. 2, 5, detto del «bosco di Zeus»), quella guerra lacrimevole (v. 7 πό]λ̣εμον̣ κ̣ατὰ δ̣ακρυ̣[ό]εντα: per la clausola, cfr. 𝐼𝑙. XVII 512), quando la «rovina» (v. 8 [ἄ]τ̣α) salì la «martoriata» (ταλαπείριο̣[ν: cfr. 𝑂𝑑. VI 193, XIV 511, XVII 84) Pergamo per colpa di un’altra, ancor più potente «bionda» (l’epiteto χρυσοέθειρ era già in Aʀᴄʜɪʟ. fr. 323 W.²): Cipride (v. 9).

Le lacrime, come le guerre, non si addicono all’εὐφροσύνη del simposio. Per questo Ibico inizia una lunga 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑡𝑒𝑟𝑖𝑡𝑖𝑜 (vv. 10-45), che gli consente di sorvolare (vv. 10-11 νῦ]ν̣ δέ μοι οὔτε … /..] ἐπιθύμιον, «ora, io però né […] desidero»: per la movenza cfr. Aʟᴄ. fr. 308, 1-2 V., in un contesto innodico) – pur protraendo la narrazione per altre due triadi e mezza – sulle nefandezze di Paride «traditore degli ospiti» (v. 10 ξειναπάτ̣α̣ν: cfr. Aʟᴄ. fr. 283, 5 V.), su Cassandra dalle caviglie lunghe e sottili (v. 11 τανί[σ]φ̣υρ[ον: cfr. Hᴇs. 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑔. 364, delle Oceanine, τανύσφυροι Ὠκεανῖναι, e Sᴀᴘᴘʜ. fr. 44, 15 V. παρθενίκα[ν] τ..[..].σφύρων), e ancora sul «dì predace e a cui non si dà nome di Troia dagli alti portali» (la fiorita formula contamina Sᴛᴇsɪᴄʜ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S89, 11, Τρο‹ΐ›ας ἁλώσι̣[μον ἆμαρ «il dì predace di Troia dagli ampi spazi», con l’aggettivo omerico ὑψίπυλος, riferito a Troia in 𝐼𝑙. XVI 698, XXI 544; quanto «a cui non si dà nome», cfr. Pɪɴᴅ. 𝑃. 1, 82), sul «valore superbo» (ὑπ]εράφανον: cfr. 𝐼𝑙. XI 694, Hᴇs. 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑔. 149, Sᴏʟ. fr. 4, 36 W.²) degli eroi e sulle «concave ben chiodate navi» (vv. 17-18 κοίλα̣[ι / νᾶες] πολυγόμφοι̣: ancora un nesso plurideterminato, che contamina 𝐼𝑙. I 20 «presso le concave navi», e Hᴇs. 𝑂𝑝. 660, νηῶν … πολυγόμφων, «di navi ben chiodate») che li condussero come una sventura a Troia (v. 19). E qui, il poeta si concede un erudito 𝑒𝑥𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠 di ben due versi (e di sapore quasi pre-alessandrino) sulla complessa e discussa genealogia del capo di quel manipolo di «eroi prodi» (v. 19): «il signore Agamennone Plistenide, re condottiero d’uomini, figlio della famiglia d’Atreo prode» (vv. 20-22), con la sua sovrabbondanza, tipicamente ibicea, di determinazioni, rappresenta una sorta di sfumato compromesso tra l’albero genealogico omerico (per cui Agamennone e Menelao erano figli di Atreo, a sua volta figlio di Plistene: cfr. 𝐼𝑙. II 576-577, su cui sono chiaramente rifatti i vv. 20-22) e quello dorico-occidentale (per cui Plistene era figlio di Atreo e padre di Agamennone: cfr. per es. Hᴇs. frr. 194-195 M.-W. = 137-138 Most, Sᴛᴇsɪᴄʜ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 219).

L’𝑒𝑥𝑐𝑢𝑟𝑠𝑢𝑠 richiede una nuova giustificazione, che puntualmente arriva ai vv. 23-26, e offre il destro per altri 20 versi di 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑡𝑒𝑟𝑖𝑡𝑖𝑜. Le Muse, «esperte» (v. 23 σεσοφ̣ι̣[σ]μ̣έναι: il participio era già in Hᴇs. 𝑂𝑝. 649), «Eliconidi», saprebbero «ben passare in racconto» (v. 24 εὖ… ἐμβαίεν λόγῳ, ma il testo è incerto metricamente) queste vicende, a differenza di un «uomo mortale» (v. 25 θνατ[ὸ]ς… ἀνὴρ, a incorniciare il verso) che, per quanto «vivo» (v. 26 διερός, il cui senso è quello di «sveglio», «abile», ma il termine riprende ironicamente il precedente «mortale»), non potrebbe registrare ogni dettaglio (v. 26): per esempio – e la narrazione può continuare – quante navi, attraverso il mar Egeo, «da Aulide» (v. 27), anzi «da Argo» (la clausola del v. 28 corregge quella del verso precedente e riprende probabilmente l’𝑖𝑛𝑐𝑖𝑝𝑖𝑡 del v. 3 Ἄργ]ο̣θεν), giunsero a Troia «che nutre i cavalli» (v. 30 ἱπποτρόφο̣[ν: in Hᴇs. 𝑂𝑝. 507 l’epiteto qualifica la Tracia, διὰ Θρῄκης ἱπποτρόφου, in Pɪɴᴅ. 𝑁. 10, 41-42 Corinto), piene di «forti» (φώτ̣ες, qui con l’accento dorico, è sostanzialmente sinonimo di «eroi»), «figli di Achei» (v. 31: 40 volte in clausola nei poemi omerici) «dal bronzeo scudo» (χ]αλκάσπι̣[δες: l’epiteto parrebbe una neoformazione, e piacerà a Pindaro, che lo riuserà almeno tre volte), il migliore dei quali, almeno quanto alla lancia, fu «il piè veloce Achille» (30 volte in clausola nell’𝐼𝑙𝑖𝑎𝑑𝑒), topicamente seguito a ruota dal «grande Telamonio Aiace ardimentoso» (v. 34: nuova ipertrofica contaminazione delle formule omeriche «grande Aiace Telamonio» [per es., 𝐼𝑙. V 610] e «Telamonio Aiace ardimentoso» [cfr. 𝐼𝑙. XII 349 e 362]).

Insomma, l’ode appare come un esempio estremo di una tendenza caratteristica della lirica arcaica, quella a costruire interi componimenti tramite l’espansione di un determinato modulo compositivo: qui si tratta dello schema della 𝑟𝑒𝑐𝑢𝑠𝑎𝑡𝑖𝑜, per cui il rifiuto a cantare un determinato tema viene sfruttato come elemento compositivo (secondo la terminologia inaugurata dall’americano Elroy Bundy, come 𝑓𝑜𝑖𝑙, che è la “foglia” o lamina di metallo posta sotto una pietra preziosa al fine di valorizzarla) per far risaltare ciò che invece sta a cuore al poeta. Egli dichiara che solo le Muse, nella loro venerabile onniscienza, sarebbero in grado di affrontare per intero l’immenso e ponderoso tema delle lodi degli eroi; un mortale non ci riuscirebbe mai in modo adeguato, a causai dei limiti stessi della propria natura. E poiché il poeta è ben consapevole di ciò, preferisce abbreviare la trattazione del tema eroico, per passare subito a ciò che gli è più congeniale e che più vivamente lo ispira: la lode di Policrate.

Così, ai vv. 35-40, assai lacunosi, il racconto mitico tornava circolarmente alla bellezza: stando a un commento marginale sul papiro, era qui nominato il bellissimo giovinetto argivo Cianippo (figlio o nipote di Adrasto), ignoto all’𝐼𝑙𝑖𝑎𝑑𝑒 (dove il più bello dopo Achille è Nireo di Sime: cfr. II 673-674), ma conosciuto a fonti posteriori (cfr., per es., Ps.-Aᴘᴏʟʟᴏᴅ. I 9, 13, Pᴀᴜs. II 18, 4-5; 30, 10), subito seguito (ai vv. 40-41) dal figlio della ninfa Illide, Zeuxippo (cfr., per es., Pᴀᴜs. II 6, 7), che gli eserciti contrapposti dei Troiani e dei Danai (v. 44) paragonavano concordemente a Troilo, il 𝑏𝑒𝑛𝑗𝑎𝑚𝑖𝑛 di Priamo ed Ecuba (cfr. 𝑃𝑀𝐺𝐹 S224, 4, 9, 16, e già 𝐼𝑙. XXIV 257, 𝐶𝑦𝑝𝑟. fr. 25 West), come l’oro «tre volte bollito» (vv. 42-43) all’oricalco (una lega di rame e di zinco, accostata all’oro sin da 𝐻. 𝐻𝑜𝑚. 6, 9, in cui gli orecchini di Afrodite sono detti ἄνθεμ’ ὀρειχάλκου χρυσοῖό τε τιμήεντος, «fiori d’oricalco e d’oro prezioso»).

L’elogio del giovinetto Policrate, che concludeva il carme, si saldava naturalmente alla celebrazione degli affascinanti παῖδες καλοί dell’𝑒́𝑝𝑜𝑠: snodo logico del passaggio dal mito all’attualità, la «bellezza» (v. 46 κάλλος) include di diritto Policrate – verosimilmente presente all’esecuzione materiale del canto, di cui pure si ignorano tutte le modalità, a cominciare dalla dubbia presenza di un amplificante Coro – nella nobile schiera (v. 46 τοῖς μὲν πέδα), e gli conferisce «gloria perenne e immortale» (vv. 46-47 αἰὲν / … κλέος ἄφθιτον: cfr. per es. 𝐼𝑙. IX 413, Hᴇs. fr. 70, 5 M.-W. = 41, 5 Most, ma anche in Sᴀᴘᴘʜ. fr. 44, 4 V., e in 𝐶𝑜𝑟𝑝𝑢𝑠 𝑒𝑝𝑖𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑐𝑢𝑚 𝐺𝑟𝑎𝑒𝑐𝑢𝑚 [Hansen] 344, 2), come immortale (ma il poeta dice soltanto un più pudico «come», al v. 48), proprio in virtù del canto (κατ’ ἀοιδὰν), sarà anche la fama del cantore che dice «io» (ἐμὸν κλέος). Un concetto che, con Sᴀᴘᴘʜ. fr. 55 V., Tʜᴇᴏɢɴ. 237-254, e Bᴀᴄᴄʜ. 3, 90-98, rappresenta una delle più vivide formulazioni del potere che la parola ha di dare «fama sonora» (κλέος appunto) e di eternare l’eccellenza che lo merita: 𝑛𝑜𝑛 𝑜𝑚𝑛𝑖𝑠 𝑚𝑜𝑟𝑖𝑎𝑟… (Hᴏʀ. 𝐶𝑎𝑟𝑚. III 30, 6). Di conseguenza, Policrate potrà essere accomunato ai grandi eroi, e soprattutto agli eroi più belli, della guerra troiana.

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[1] Al principio è andata perduta la prima strofe oppure una triade più una strofe.

[2] Dardano, figlio di Zeus e nativo – a seconda delle varie tradizioni – di Samotracia odell’Arcadia o di Creta, aveva fondato alle falde dell’Ida il primo nucleo della futura Troia.

[3] Qui Argo, in origine nomecomune con il valore di «pianura», designa verosimilmente, come già in 𝑂𝑑. I 344, IV 726, l’intero Peloponneso; dalla città di Argo provenivaspecificamente Diomede, mentre Agamennone era di Micene.

[4] Forse con riferimento, come si raccontava nei𝐶𝑎𝑛𝑡𝑖 𝐶𝑖𝑝𝑟𝑖, al progetto di Zeus di alleggerire la terra dal peso eccessivo degli uomini, ma il nesso Διὸς βουλή è omerico, cfr. 𝐼𝑙. I 5.

[5] Allusione al successo rapsodico della saga troiana.

[6] Calco di 𝐼𝑙. XVII 512 πόλεμον κάτα δακρυόεντα.

[7] Per l’immagine, cfr. Sᴏᴘʜ. 𝑂𝐵 876, dove si dice della ℎ𝑦𝑏𝑟𝑖𝑠 ἀκ ἀκρότατα γεῖσ’ ἀναβᾶσα, «salita al sommo dei cornicioni»

[8] Per l’estensione di senso, cfr. Pɪɴᴅ. 𝑂. I, 82-83 ἀνώνυμον / γῆρας.

[9] Cfr. 𝐼𝑙. XIII, 304 ἀγοὶ ἀνδρῶν.

[10] cfr. Hᴇs. 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑔. 1 Mουσάων Ἑλικωνιάδων ἀρχώμεθ᾽ ἀείδειν, 𝑂𝑝. 658; l’Elicone è il monte della Beozia, dove il culto delle Muse sarebbe stato portato dai Traci che abitavano intorno all’Olimpo.

[11] La località sullo stretto dell’Euripo, fra Beozia ed Eubea, ove, secondo la tradizione, si radunò il contingente greco diretto a Troia.

[12] Nato da Eaco e da Endeide e fratello di Peleo, Telamone si era stabilito a Salamina dopo l’assassinio del fratellastro Foco e aveva partecipato alla spedizione a Troia contro Laomedonte.

[13] Sedotta da Apollo, Illide generò Zeuxippo, ribattezzato in seguito Cianippo per la sua bellezza, che regnava a Sicione al momento della partenza della spedizione achea.