Sulla tomba del fratello (Catull. carm. CI)

da G.B. CONTE, E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 639-642; cfr. F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 1. Dall’età arcaica all’età di Cesare, Bologna 2004, pp. 730-731.

 

Catullo riprende il tema della morte del fratello (già affrontato nei carmina 65 e 68) e ne fa un’elegia sepolcrale, in cui i moduli stilistici attinti alla lunga e consolidata tradizione dell’epigramma funerario si coniugano a una ferale mestizia, a una composta solennità, a un’accorata intensità che nulla hanno di convenzionale, ma che fanno anzi superare a questa lirica tutti i limiti imposti dal genere letterario e dall’inevitabile confronto con i modelli (sopra tutti, il componimento di Meleagro per Eliodora, contenuto nell’Antologia Palatina).

Nel 57 a.C., durante il viaggio in Bitinia al seguito del propretore Gaio Memmio, Catullo visita il sepolcro del fratello, scomparso precocemente qualche anno prima nella Troade: al mesto rituale funebre dell’offerta votiva, al pianto e alla «corrispondenza d’amorosi sensi», che Catullo intreccia con la «cenere muta» del defunto, si accompagna una meditazione sconsolata sul destino umano e sulla morte, dalla quale emerge l’amara consapevolezza dell’inutilità del rito e insieme della sua insopprimibile necessità per chi resta; esso, infatti, se, da una parte, separa gli uomini, dall’altra, non ne lacera i legami affettivi. Da questo contrasto tra la disillusione del celebrante e il tenue conforto che comunque l’atto liturgico concede scaturisce il fascino (e la fortuna letteraria) di questo componimento.

 

Metro: distici elegiaci.

 

Multas per gentes et multa per aequora uectus[1],

aduenio has miseras, frater, ad inferias[2],

ut te postremo donarem munere mortis[3]

et mutam nequiquam alloquerer cinerem[4],

quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum,

heu miser indigne frater adempte mihi[5].

Nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum

tradita sunt tristi munere ad inferias,

accipe fraterno multum manantia fletu,

atque in perpetuum, frater, aue atque uale![6]

 

Sballottato per molte genti e per molti mari,

eccomi giunto, fratello, per portarti queste misere offerte funebri,

perché io ti doni un tardivo omaggio di morte

e parli invano alla muta cenere.

Dal momento che la sorte ti ha portato via da me,

ah, povero fratello, ingiustamente te mi ha strappato.

Ora, tuttavia, nell’attuale situazione, queste offerte che, secondo l’antico

costume degli antenati sono portate con triste tributo per l’offerta,

ricevi abbondantemente grondanti di fraterno pianto,

e addio, fratello, addio per sempre!

 

https://www.rationalist.com.au/wp-content/uploads/2016/10/Catullus-brother-urn.jpg

 

Un rito funebre tardivo (e vano) | Nel primo distico, il viaggio in Oriente si configura come un interminabile peregrinare finalizzato unicamente alla ricerca della tomba del fratello. Alla solenne intonazione del v. 1 si contrappone la semplicità delle offerte (has miseras… ad inferias), che dopo tanta fatica finalmente sono recate al defunto – la loro sostanziale inutilità è uno dei motivi centrali di questo carmen. Il secondo distico specifica i due atti liturgici che costituiscono il rito: il dono dell’offerta funebre (v. 3) e l’appello rivolto al defunto per invitarlo a goderne (v. 4); ma Catullo è ben consapevole dell’illusorietà del rito: l’allocuzione al fratello non è che un monologo con le sue ceneri mute (mutam nequiquam…).

 

Pathos sotto controllo | Il distico centrale (vv. 5-6) apre uno squarcio emotivo, l’espressione patetica del lutto. La ripetizione dell’azione violenta della sorte (abstulit, adempte), che «ha strappato» a Catullo il fratello, sottolinea come la morte abbia reciso ogni possibilità di comunicazione tra loro. Ma proprio quando l’effusione patetica sembra sul punto di spezzare l’iniziale compostezza, Catullo riprende il controllo di se stesso e si richiama alla necessità di compiere il rituale, pur nella sua inanità; segna il passaggio l’accumulo dei tre avverbi che aprono il v. 7 (nunc tamen interea), in funzione fortemente avversativa. L’esecuzione del rito si conclude con la pacata mestizia della formula d’addio (aue atque uale).

La struttura bilanciata del carme, che incornicia al centro (vv. 5-6) il momento di più forte scarto emotivo, tra due blocchi simmetrici di due distici ciascuno, dedicati al mesto rituale (vv. 1-4) e alla sua ripresa (vv. 7-10), contribuisce all’effetto di pathos misurato.

 

L’incipit solenne e il «cenere muto» | Il primo verso è studiatamente solenne (vi contribuisce in misura determinante l’allusione omerica all’incipit dell’Odissea) e suscita un’attesa che contrasta pateticamente con l’inanità del rito funebre.

Nel secondo distico entra in scena il tema delle ceneri fraterne (nel sonetto In morte del fratello Giovanni, Ugo Foscolo avrebbe scelto di rendere il nesso catulliano al maschile, per riprodurre il medesimo scarto del latino, poiché in italiano «cenere» è normalmente femminile).

 

Un omaggio alla tradizione, senza grande convinzione | Al v. 5 inizia la sezione in cui Catullo si rivolge al fratello e, sebbene con la consapevolezza di rivolgersi a una muta cenere, si dispone comunque al rito tradizionale imposto dal mos maiorum (prisco… more parentum, v. 7): emerge, dunque, uno scarto fra l’individualità di Catullo e i valori della collettività, che il poeta rispetta senza però esserne pienamente rassicurato.

 

Come un epigramma sepolcrale | Pur non rientrando a pieno nel genere dell’epigramma sepolcrale, il carme ne riecheggia formule e movenze. L’avverbio indigne («ingiustamente», v. 6) è comune nelle epigrafi funerarie in relazione a casi di morte violenta o prematura. Al lessico dell’epigramma sepolcrale appartengono anche mutam… cinerem (v. 4), more parentum (v. 7), tristi munere (v. 8). Ma è soprattutto nel finale che, dopo il pathos del v. 9 (con l’iperbato allitterante fraterno… fletu ad abbracciare multum manantia, anch’esso allitterante), Catullo cerca la sobrietà della nuda formula di commiato ai defunti, attestata nelle epigrafi funerarie: aue atque uale.

 

Pur atteggiandosi nelle linee esteriori come fosse un epigramma funerario, il carmen 101 di Catulo non è concepito come un’iscrizione sepolcrale. Solo i due distici finali (vv. 7-10) conservano in qualche modo la parvenza esterna dell’epitaffio, là dove si menzionano le offerte tradizionali recate in dono sulla tomba e si usa la formula di saluto rivolta al morto: in perpetuum… aue atque uale (v. 10).

Il poeta ha trasformato una forma tradizionale in un componimento intimo e fortemente personale, che ha il tono del lamento elegiaco, il genere letterario che in Grecia, prima di diventare una forma poetica destinata a cantare le pene d’amore, aveva avuto origine nel compianto riservato al lutto familiare. O almeno, per l’esattezza, era questo il convincimento che gli elegiaci latini (e più tardi i grammatici) si fecero del significato di «elegia», inventando un’etimologia che da εὖ λέγω («dir bene» del defunto) o da ἤ ἤ λέγω («esclamare ohi, ohi», cioè «lamentarsi»), o anche da ἐλεέω («commiserare») – anche se la parola «elegia» originariamente designava soltanto la struttura metrica (distico formato da un esametro seguito da un pentametro) senza alcun riferimento specifico ai contenuti, che potevano essere i più disparati. Comunque, è certo che i Latini, una volta ereditato il distico, finirono per associare all’elegia una nota predominante di canto doloroso (flebiles elegi, «i versi elegiaci pieni di pianto»).

Il compianto di Catullo vuole essere sostanzialmente un omaggio al fratello. La tomba che ora viene visitata dal poeta è lontana da casa: si trova nella Troade, dove pure giacciono i resti mortali degli eroi cantati da Omero. Il primo verso, come si è detto, allude chiaramente all’esordio dell’Odissea; in questo modo, cioè proiettando il modello epico sul proprio testo e associando il ricordo di esso alle sue nuove parole, Catullo fa di se stesso quasi una replica di Odisseo e, di conseguenza, in un certo senso, può includere il fratello nello stesso destino di morte eroica che era toccato ai guerrieri omerici.

Nell’Eneide anche Virgilio non avrebbe, poi, mancato di cogliere l’allusione di Catullo a Omero. Quando, infatti, nel VI libro del poema virgiliano l’anima di Anchise accoglie il figlio Enea, che è sceso nel regno dei defunti per avere indicazioni sul proprio destino, lo accoglie come uno che ha appena concluso un lungo viaggio tormentoso, vale a dire come un secondo Ulisse, navigatore esule. E, per dire questo, Anchise si serve quasi delle stesse parole di Catulo, facendo riemergere in tutta chiarezza il modello epico arcaico: Quas ego te terras et quanta per aequora uectum / accipio… («Trasportato per quali terre e per quali mari, / io t’accolgo…», Aen. VI, vv. 692-693).

Dietro il testo virgiliano sta il ricordo del componimento catulliano: il poeta che si era fatto navigatore per visitare la tomba lontana del fratello; ma dietro il carmen di Catullo si affaccia anche il modello eroico dell’Odissea. Virgilio ha costruito il suo testo nuovo arricchendolo di antiche “citazioni”, che sono riconoscibili sotto la superficie delle parole e che invitano i suoi lettori all’emozione di dotte memorie. La letteratura, da Omero attraverso Catullo fino a Virgilio, diventa come un grande corpo in crescita continua.

 

***

Note:

[1] Multas uectus: nel primo verso si avverte l’eco del celebre incipit dell’Odissea («Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme, che tanto / vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia: / di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri, / molti dolori patì sul mare nell’animo suo, / per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni») e come quello si ha un incedere epico e maestoso, sottolineato dalla posizione a fine verso del participio uectus (dal verbo ueho), dal doppio per e soprattutto dal poliptoto multas… multa, nonché dalla collocazione di questi due aggettivi all’inizio e alla metà esatta del verso. Tra l’altro, il participio uectus («trascinato, sbattuto») suggerisce l’idea di passività del soggetto, «sballottato» fra i disagi di un lungo viaggio.

[2] aduenio inferias: secondo la maggior parte dei commentatori, aduenio ha un valore perfettivo o resultativo («eccomi giunto»), da cui dipenderebbe l’uso dei congiuntivi imperfetti anziché presenti nella doppia finale che segue; ad inferias (sottinteso ferendas) è un’espressione che ha valore, appunto, finale, cioè specifica il motivo del viaggio e fa riferimento alle libagioni rituali (di vino, miele, latte, fiori o sangue sacrificale) che si presentavano alla tomba del defunto come offerta ai suoi Mani; la parola inferiae non è connessa agli dèi inferi, ma al verbo (in)fero (cfr. Festo 99, 26 Lindsay: inferiae sacrificia quae dis Manibus inferebant); miser è un epiteto stereotipato in riferimento alla sfera della morte, ma qui, associato al rito compiuto lontano dalla patria dal solo Catullo, assume anche una connotazione di compassione e di desolato squallore.

[3] Postremomunere mortis: «l’ultimo dono di morte», ovvero dovuto alla morte; munere, allitterante con mortis, è retto da donarem, qui costruito con l’accusativo della persona a cui si dona (te) e l’ablativo della cosa donata. Il munus mortis è il «tributo funebre», definito postremum, cioè «ultimo, estremo», ma anche «tardivo», poiché da tempo il fratello era morto, e nessuno aveva ancora compiuto il rituale richiesto dalla tradizione romana.

[4] Mutamcinerem: cinis, di norma maschile, è qui usato al femminile, esemplato sul corrispondente termine greco κόνις (un preziosismo neoterico tipico di Catullo e di Calvo); l’iperbato che separa cinerem dal suo attributo mutam contribuisce ad accrescere sia la desolazione di questo aggettivo sia il senso vanificante del vicino avverbio nequiquam.

[5] quandoquidemmihi: quandoquidem è una congiunzione arcaica di uso prosastico, conservata nella poesia dattilica per comodità metrica; mihi tete: da notare l’accostamento tra i due pronomi personali (di cui il secondo è raddoppiato e rafforzato), nel quale si può scorgere una visualizzazione dello stretto vincolo affettivo tra il poeta e suo fratello; l’avverbio indigne esprime l’ingiustizia della precocità della scomparsa; non sfuggano il forte pathos e l’alta drammaticità di questo verso, che ripete il concetto già espresso in quello precedente, richiamandosi, al contempo, ai vv. 20 e 92 del carmen 68.

[6] Nuncuale: l’avverbio interea significa «nell’attuale situazione», «stando così le cose», e non, come di solito, «intanto» (che implicherebbe la promessa di tornare in futuro con altre più ricche offerte); con haec è sottinteso munera; tristi munere è ablativo di modo; ad inferias, come al v. 2, ha valore finale; multum manantia: l’uso di multum come accrescitivo di aggettivi o participi è proprio della lingua familiare; questo espediente, unito all’allitterazione e al forte iperbato, accresce l’impressione di pathos; fraterno… fletu: ablativo strumentale retto da manantia, «del pianto del fratello»; aue atque uale: la formula, nonostante la sua ricorrenza nelle iscrizioni sepolcrali, vibra nell’explicit di accorata intensità, anche grazie all’inserimento di in perpetuum e alla ripresa di frater.

La Chioma di Berenice

di Callimaco, Aitia, Giambi e altri frammenti, vol. II, traduzione e note di G.B. D’Alessio, Milano 1996, pp. 522-539.

 

Callim. Aitia IV, fr. 110 Pf. (Coma Berenices)

 

 

Fr. 110

      Πάντα τὸν ἐν γραμμαῖσιν ἰδὼν ὅρον ᾗ τε φέρονται

.       .       .       .       .       .       .

7    †η † με Κόνων ἔβλεψεν ἐν ἠέρι τὸν Βερενίκης

βόστρυχον ὃν κείνη πᾶσιν ἔθηκε θεοῖς

.       .       .       .       .       .       .

14       [σύμβολον ἐννυχίης. . .ἀεθλοσύνης?]

.       .       .       .       .       .       .

26       [μεγάθυμον?]

.       .       .       .       .       .       .

40       σήν τε κάρην ὤμοσα σόν τε βίον

.       .       .       .       .       .       .

43                                                    ].[

ἀμνά]μω[ν Θείας ἀργὸς ὑ]περφέ[ρ]ετ[αι,

45  βουπόρος Ἀρσινόης μητρὸς σέο, καὶ διὰ μέ[σσου

Μηδείων ὀλοαὶ νῆες ἔβησαν Ἄθω.

τί πλόκαμοι ῥέξωμεν, ὅτ’ οὔρεα τοῖα σιδή[ρῳ

εἴκουσιν; Χαλύβων ὡς ἀπόλοιτο γένος,

γειόθεν ἀντέλλοντα, κακὸν φυτόν, οἵ μιν ἔφηναν

50       πρῶτοι καὶ τυπίδων ἔφρασαν ἐργασίην.

ἄρτι [ν]εότμητόν με κόμαι ποθέεσκον ἀδε[λφεαί,

καὶ πρόκατε γνωτὸς Μέμνονος Αἰθίοπος

ἵετο κυκλώσας βαλιὰ πτερὰ θῆλυς ἀήτης,

ἵππο[ς] ἰοζώνου Λοκρίδος Ἀρσινόης,

55  ἤ[λ]ασε δὲ πνοιῇ με, δι’ ἠέρα δ’ ὑγρὸν ἐνείκας

Κύπρ]ιδος εἰς κόλπους      ἔθηκε

αὐτή μιν Ζεφυρῖτις ἐπιπροέ[ηκεν

. . . .Κ]ανωπίτου ναιέτις α[ἰγιαλοῦ.

ὄφρα δὲ] μὴ νύμφης Μινωίδος ο[

60       . . . . .]ος ἀνθρώποις μοῦνον ἐπι.[

φάεσ]ιν ἐν πολέεσσιν ἀρίθμιος ἀλλ[ὰ φαείνω

καὶ Βερ]ενίκειος καλὸς ἐγὼ πλόκαμ[ος,

ὕδασι] λουόμενόν με παρ’ ἀθα[νάτους ἀνάγουσα

Κύπρι]ς ἐν ἀρχαίοις ἄστρον [ἔθηκε νέον.

65                                                                                ]

]

πρόσθε μὲν ἐρχομεν. .μετοπωρινὸν [Ὠκ]εανόνδε

].ο[

ἀ]λλ’ εἰ κα[ι                ]. . . . .ν

70                                                  ]. .[.] ιτη[

Παρθένε, μὴ] κοτέσῃ[ς, Ῥαμνουσιάς· οὔτ]ις ἐρύξει

βοῦς ἔπος        ]η. . .[       ].[    ].βη

].[.]ελε.[         ].θράσος ἀ[στ]έρες ἄλλοι

]νδινειε.[         ]οσοσο[.]τεκ.[.]ω·

75  οὐ τάδε μοι τοσσήνδε φέρει χάριν ὅσ[σο]ν ἐκείνης

ἀ]σχάλλω κορυφῆς οὐκέτι θιξόμεν[ος,

ἧς ἄπο, παρ[θ]ενίη μὲν ὅτ’ ἦν ἔτι, πολλὰ πέπωκα

λιτά, γυναικείων δ’ οὐκ ἀπέλαυσα μύρων.

.       .       .       .       .       .       .

89  ο.[

90       με[

νυ[                  ].[

το.[                ]νθι[

γείτ[ονες          ]ως[

α.[       ]. . Ὑδροχ[όος] καὶ[       Ὠαρίων.

94a χ[αῖρε], φίλη τεκέεσσι.[

94b     .[       ]. . . . .[.].ν.[

 

Berenice II. Alessandria d’Egitto, 246-222 a.C. ca. Pentadramma, AV 21, 23 g. Recto: busto diademato e velato della regina, voltato a destra.

 

La chioma di Berenice[1]

 

Argomento

Dice che Conone pose tra gli astri il ricciolo di Berenice, che quella aveva promesso di dare in voto agli dèi, quando ‹il marito› fosse ritornato dalla guerra in Siria[2].

Fr. 110[3]

      Avendo in disegni l’orizzonte tutto veduto, come si muovan

[gli astri sorgendo e calando] (…)

7    (…) mi osservò Conone[4] nel cielo, di Berenice

ricciolo, che ella votò a tutti gli dèi (…)

[promettendolo in dedica quando il re partì per la guerra immediatamente dopo il matrimonio, ancora mostrando] [13-14 (?)] traccia della notturna lotta[5] (…) [Tu, regina, soffristi moltissimo; eppure, io ricordo come, da fanciulla, ti eri mostrata] [26 (?)] di animo forte[6] (…) [Mi promettesti in voto con sacrifici. Il re, frattanto, aveva sottomesso l’Asia all’Egitto e per questo, io, portata in cielo, assolvo al tuo voto. Contro la mia volontà ho lasciato il tuo capo] [40] sulla tua testa lo giuro, sulla tua vita (…)[7] [Ma non ho potuto resistere al ferro, che è stato in grado di spianare il monte più alto che]

44       [il chiaro rampollo di Theia] sorvola,

45  spiedo (?) della madre tua Arsinoe, e attraverso

l’Athos passarono le navi funeste dei Medi[8].

Cosa faremo noi trecce, se monti sì grandi cedono

al ferro? Possa perire la stirpe dei Càlibi[9],

che, mala pianta, sorgente da terra, lo rivelarono

50       per primi, e mostrarono l’arte dei magli!

Da poco, recisa di fresco, mi rimpiangevan le chiome sorelle,

ed ecco il fratello di Memnone l’Etiope

si slanciava ruotando le ali screziate, vento ferace,

destriero della Locride Arsinoe, cinta di viole[10]:

55  con il soffio mi [spinse][11], e, portandomi per l’umido aere,

mi pose nel grembo di Cipride (…):

Zefiritide stessa a [tal] uopo lo (…) [aveva inviato]

(…) abitatrice della spiaggia Canopia[12].

[Perché] non della fanciulla Minoide (…) [la corona]

60       (…) agli uomini solo (…) [risplendesse],

ma fra molte [luci fossi] annoverata

pure io, la bella treccia di Berenice,

[mentre agli] immort[ali ascendevo, nell’acque] lavandomi,

[Cipride] astro [nuovo] tra gli antichi [mi pose][13].

[Infatti, sopra la Vergine e il Leone, accanto all’Orsa] [67] andando in Oceano in autunno (?) dinanzi [al lento Boote][14]. [69] Ma anche se [per tutta la notte sono nel firmamento e solo la luce del giorno mi restituisce al mare[15]], [71-72] – [non] adirarti [Vergine di Ramnunte[16]]: nessun bue bloccherà la mia parola[17] (…) [73] [neanche se mi faranno a pezzi per la mia] audacia le altre stelle (…) –

75  non mi dà questo gioia pari al dolore

per non più toccare quel capo

da cui, ancor verginale, molti ho bevuto

poveri ungenti, ma non ho goduto dei profumi di sposa[18].

[89] (…) [93] vi[cini (?)] (…) [94] l’Aquario e (…) Orione. [94a] S[alve], cara ai figli[19] (…) [94b] (…)

 

La Coma Berenices e le costellazioni vicine rappresentate da Johannes Hevelius nel suo Firmamentum Sobiescianum sive Uranographia (1687).

 

 

***

Note:

[1] L’argomento di questo componimento è stato aggiunto, alla fine della colonna che concludeva gli Aitia, in una grafia più minuta. Nel codice P. Oxy. 2258 (VI-VII sec.) l’elegia non è seguita dall’Epilogo, ma dal fr. 384. Non si può stabilire con certezza se, come mi sembra di gran lunga più verosimile, la collocazione alla fine degli Aitia risponde alle intenzioni dell’autore, che la pose a bilanciare l’Epinicio di Berenice, che apriva il III libro, o se sia invece dovuta a qualche più tardo (e più o meno occasionale) intervento editoriale.

[2] Alla partenza di Tolemeo III per la Terza guerra siriaca (246-241) la giovane moglie Berenice aveva promesso di dedicare agli dèi una ciocca della sua chioma, secondo un uso che trova paralleli dai poemi omerici (Il. XXIII 144, dove Peleo fa voto di una ciocca del figlio Achille al fiume Spercheio in caso egli ritorni da Troia) al più tardo romanzo, che offre il parallelo più stringente (Xen. Eph. V 11, 6: Anzia dedica al dio le chiome per la salvezza dell’amato Abrocome). La ciocca scomparve e l’astrologo Conone propose di vederla catasterizzata in un gruppo di stelle ancora prive di nome, collocate tra il Leone e la Vergine, Boote e l’Orsa Maggiore.

[3] Inserisco qui quello che si può ricavare dal testo callimacheo in base ai due papiri e alla tradizione indiretta. In corsivo è indicato brevemente il contenuto delle parti perdute.

[4] Nato a Samo e attivo in Sicilia e in Magna Grecia, dove entrò in strette relazioni con Archimede, l’astronomo Conone doveva essere in Alessandria negli anni ’40: incerta la sua data di morte, che precedette in ogni caso di parecchi anni quella di Archimede (212). Sono attestati suoi lavori sulle eclissi solari e sulle episemasie parapegmatiche (sulle fasi annuali delle stelle fisse).

[5] Cfr. dulcia nocturnae portans vestigia rixae in Catullo. Si è creduto di rintracciare un’eco dell’originale callimacheo in questo nesso che in Agazia, A.P. V 293, 18, è usato a indicare il bacio, propriamente «pegno della notturna lotta».

[6] Hygin. Astr. II 24 attesta anche per Callimaco l’uso dell’aggettivo magnanima («coraggiosa») riferito a Berenice, che aiutò il padre in un’azione militare (cfr. fr. 388: anche se è impossibile collegare a questo evento l’occasione del matrimonio con Tolemeo III, come suggerisce il testo di Catullo). Il testo greco è un mero tentativo di retroversione, collocato all’altezza del corrispondente passo in Catullo.

[7] La chioma riprende la formula ufficiale di giuramento per i sovrani. È naturalmente implicazione giocosa il fatto che a giurare per la testa siano i capelli, con meccanismo analogo a quello che fa giurare Apollo per se stesso in Aitia libro incerto, fr. 114, 5.

[8] L’interpretazione dei due distici è tormentatissima: a quanto pare, si riferiscono entrambi all’Athos (per la cui iperbolica altezza cfr. Canti fr. 228, 47 e 53). «Rampollo di Theia» è Borea in Ecale fr. 87 (come gli altri venti, figlio di Eos, l’Aurora, figlia a sua volta della titanessa Theia), e lo stesso senso si adatterebbe bene a questo contesto: l’Athos è il monte più alto sorvolato dal trace vento del Nord (detto qui «chiaro», in quanto dissipatore di nubi), non il monte più alto in assoluto, come implicherebbe invece l’identificazione del «rampollo di Theia» con Helios, il Sole (Bentley). L’istmo che unisce il monte alla Calcidica fu tagliato per lasciar passare la flotta persiana all’epoca dell’invasione di Serse. Del tutto oscuro è il nesso βουπόρος Ἀρσινόης: il primo termine indica propriamente uno «spiedo per buoi» ed è spiegato dagli scolii come «obelisco» (che in greco equivale a «piccolo spiedo»); sembrerebbe quindi incompatibile con l’esegesi antica la possibile equiparazione con βοσπόρος («bosforo»), nel senso generico di «stretto». Un monumentale obelisco fu effettivamente consacrato da Tolemeo II nello Arsinoeion dopo la morte della regina (Plin. Nat. Hist. XXXVI 68), ma non si vede come ciò possa quadrare nel contesto, dove è il monte Athos, che sembra essere equiparato, con estrema audacia, all’obelisco stesso. Relazioni particolari tra Arsinoe II (madre “onorifica” di Berenice: cfr. Aitia III, SH 254, 2) e l’Athos sono forse adombrate nelle Apoteosi (Canti fr. 228), ma non sembra possibile andare oltre questi vaghi accostamenti.

[9] Mitica stirpe di lavoratori del ferro, collocata per lo più in Scizia. La maledizione rivolta al primo iniziatore di qualche sciagurata usanza (per cui cfr. Eur. Hipp. 407 s.) diventerà un topos soprattutto a partire dalla poesia augustea.

[10] Il senso generale è che Zefiro, mandato dalla deificata Arsinoe, rapì la ciocca portandola in cielo. Il vento è definito «fratello (uterino) di Memnone», in quanto entrambi sono figli dell’Aurora (Eos: cfr. Hes. Theog. 378 s., 984 s.). Estremamente contorto il v. 54: l’equiparazione di Zefiro con un cavallo sembra inedita, ma è facilitata dalla frequente assimilazione dei venti a dei cavalieri, e il vento Zefiro poteva essere immaginato come «destriero» della dea, in quanto questa sedeva sulle sue spalle, secondo un’iconografia romana che potrebbe risalire all’età ellenistica (O. Zwierlein, «RhM» 130 [1987], 274-279: cfr. anche il rapimento di Psiche da parte di Zefiro in Apuleio, Met. IV 35). La tradizione del testo greco presenta una alternativa (probabilmente riflessa anche in quella del testo latino) tra Λοκρίδος e Λοκρίκος, da riferirsi rispettivamente ad Arsinoe o a Zefiro. La chiave di lettura è data dal nome della città calabrese di Locri Epizefiri, così detta dalla sua originaria collocazione sul Capo Zefirio. Per una sorta di proprietà riflessiva, se la colonia locrese traesse l’appellativo dallo Zefiro, il vento stesso avrebbe potuto ben dirsi “Locrese”. Un simile equazione è applicabile, tuttavia, anche ad Arsinoe, deificata come Afrodite e venerata come Zefiritide (v. 57) in un tempio su un omonimo Capo Zefirio, tra la costa antistante Faro e Canopo (cfr. epigramma V 1 e n.). Il vento primaverile e fecondatore è associato ad Afrodite già dall’età arcaica (Hymn. hom. VI 3 s.): la descrizione del movimento delle sue ali riecheggia un celebre passo archilocheo (fr. 181, 10 s. W.), dove l’aquila procede «velocemente per l’etere… ruotando le rapide ali» (e βαλιός è spesso glossato appunto come «veloce»). Ingegnosa, ma meno convincente, la proposta di G. Huxley, «GRBS» 21 (1980), 239-244, di spiegare l’epiteto “Locride” (da riferire ad Arsinoe) sulla base del culto locrese di Espero/Stella del Mattino, la cui identificazione con il pianeta Venere (= Arsinoe) era acquisita.

[11] Integrando ἤ[λ]ασε con A.D. Skiadas, «Athena» 68 (1965), 44, e A. Ardizzoni, «GIF» 27 (1975), 198 s. (che alla fine del v. 56 integra θῆκεν ἄφαρ καθαρούς, «mi [pose subito] nel [puro] grembo di Cipride»).

[12] È incerto se il distico 57s. sia da intendere come un inciso, o se, senza interpungere alla fine di 58, introduca la seguente proposizione finale (leggendo all’inizio di 59 ὄφρα κε con Coppola: «a tal uopo lo aveva mandato… affinché anch’io»).

[13] La «fanciulla Minoide» (v. 59) è Arianna: sul catasterismo della sua Corona, cfr. Arato 71-73. Cipride (v. 64: integrato sulla base di Catullo) è con ogni probabilità la stessa Arsinoe Zefiritide. Non perspicuo è il senso della frase «[nell’acque] lavandomi»: l’interpretazione più plausibile, anche se non del tutto convincente, la riferisce al primo sorgere dell’astro dall’orizzonte marino, ma l’integrazione di ὕδασι (Vogliano), senz’altra determinazione, non agevola la comprensione. Una interpretazione del passo in relazione alla coincidenza tra il sorgere della costellazione e quello del pianeta Venere è sostenuta da S. West, «CQ» n.s. 35 (1985), 61-66.

[14] Testo alquanto incerto, ricavato da scolii di difficile lettura: intorno alla metà del III sec. il tramonto serale della Chioma era visibile a partire dal 2 settembre, precedendo di 27 giorni quello di Boote, che seguiva immediatamente all’equinozio autunnale. La perdita del pentametro successivo rende impossibile una ricostruzione precisa del testo. in uno dei versi in lacuna ricorreva il nesso, citato negli scolii, Ἄκμονος ἶνις («figlio di Acmon/figlio dell’Incudine») a indicare Urano, il Cielo (cfr. fr. 498).

[15] Il senso del testo lacunoso sembra ricostruibile in base alla traduzione di Catullo. Nel periodo in cui la costellazione si leva la sera e tramonta la mattina (restituita al mare) è visibile tutta la notte (questo avveniva da gennaio a marzo intorno alla metà del III sec.). Tale onore non la compensa però della separazione dal capo di Berenice.

[16] Nemesi, la dea della Giustizia, venerata a Ramnunte in Attica, era identificata con la costellazione della Vergine (donde l’integrazione Παρθένε [Merkelbach] all’inizio del verso).

[17] «Un bue è sulla mia lingua» era espressione proverbiale per indicare l’impossibilità di dire liberamente quello che si pensa. L’origine della frase è incerta: gli scolii, e altre fonti lessicografiche, identificano il «bue» con il conio di una moneta che dovevano pagare come multa quelli che abusavano della libertà di parola (cfr. anche epigramma XIII 6).

[18] Per la contrapposizione tra i semplici unguenti virginali e i raffinati profumi di Afrodite, cfr. Lavacri di Pallade 15 ss.: un possibile modello è Alcmane, fr. 3, 71 s. PMG, dove, se coglie nel segno la ricostruzione di L. Guerrini, «Prometheus» 17 (1991), 204-212, agli unguenti da sposa si contrappone l’assenza di unguenti delle vergini. Ai vv. 79-89 il testo di Catullo presenta un aition a proposito delle offerte di unguenti che le giovani spose fanno a Berenice. La sezione manca nel papiro di Callimaco P. Oxy. 2258, dove l’elegia, apparentemente estrapolata dal contesto degli Aitia, è seguita dall’elegia per Sosibio (fr. 384). Pfeiffer avanza l’ipotesi che l’elegia, scritta dapprima come componimento autonomo, sia stata in seguito rielaborata da Callimaco con l’inserzione dell’aition degli unguenti e l’espunzione del distico di congedo per inserirla nella raccolta degli Aitia: Catullo avrebbe tradotto questa seconda redazione. Altre alternative possibili, ma meno convincenti, sono l’omissione (casuale o meno) di questi versi nel papiro e l’interpolazione della sezione da parte di Catullo (di sua invenzione, o traendoli da un’altra elegia callimachea, forse la stessa di fr. 387): cfr. H.J. Mette, «Hermes» 83 (1955), 500-502, e A.S. Hollis, «ZPE» 91 (1992), 21-28, ma cfr. n. al fr. 387.

[19] Il distico finale (un’apostrofe ad Arsinoe-Afrodite?) manca in Catullo, e potrebbe essere stato omesso da Callimaco al momento dell’inserzione negli Aitia (cfr. n. precedente), o piuttosto da Catullo nella sua traduzione.

 

Iside-Afrodite. Statuetta, terracotta, periodo tolemaico, dall’Egitto. Paris, Musée du Louvre.

 

***

 

Catull. Carmen LXVI (La chioma di Berenice)

 

Omnia qui magni dispexit lumina mundi,

qui stellarum ortus comperit atque obitus,

flammeus ut rapidi solis nitor obscuretur,

ut cedant certis sidera temporibus,

5    ut Triuiam furtim sub Latmia saxa relegans

dulcis amor gyro deuocet aerio:

idem me ille Conon caelesti in limine uidit

e Bereniceo uertice caesariem

fulgentem clare, quam cunctis illa deorum

10  leuia protendens bracchia pollicitast,

qua rex tempestate nouo auctatus hymenaeo

uastatum fines iuerat Assyrios,

dulcia nocturnae portans uestigia rixae,

quam de uirgineis gesserat exuuiis.

15  estne nouis nuptis odio Venus? an quod auentum

frustrantur falsis gaudia lacrimulis,

ubertim thalami quas iuxta limina fundunt?

non, ita me diui, uera gemunt, iuerint.

id mea me multis docuit regina querellis

20  inuisente nouo proelia torua uiro.

et tu non orbum luxti deserta cubile,

sed fratris cari flebile discidium?

quam penitus maestas exedit cura medullas!

ut tibi tunc toto pectore sollicitae

25  sensibus ereptis mens excidit! at ‹te› ego certe

cognoram a parua uirgine magnanimam.

anne bonum oblita’s facinus, quo regium adepta’s

coniugium, quo non fortius ausit alis?

sed tum maesta uirum mittens quae uerba locuta’s!

30  Iuppiter, ut tristi lumina saepe manu!

quis te mutauit tantus deus? an quod amantes

non longe a caro corpore abesse uolunt?

atque ibi me cunctis pro dulci coniuge diuis

non sine taurino sanguine pollicita’s,

35  si reditum tetulisset. is haud in tempore longo

captam Asiam Aegypti finibus addiderat.

quis ego pro factis caelesti reddita coetu

pristina uota nouo munere dissoluo.

inuita, o regina, tuo de uertice cessi,

40  inuita: adiuro teque tuumque caput,

digna ferat quod siquis inaniter adiurarit:

sed qui se ferro postulet esse parem?

ille quoque euersus mons est, quem maximum in oris

progenies Thiae clara superuehitur,

45  cum Medi peperere nouum mare, cumque iuuentus

per medium classi barbara nauit Athon.

quid facient crines, cum ferro talia cedant?

Iuppiter, ut Chalybon omne genus pereat,

et qui principio sub terra quaerere uenas

50  institit ac ferri stringere duritiem!

abiunctae paulo ante comae mea fata sorores

lugebant, cum se Memnonis Aethiopis

unigena impellens nutantibus aera pinnis

obtulit Arsinoes Locridos ales equus,

55  isque per aetherias me tollens auolat umbras

et Veneris casto collocat in gremio.

ipse suum Zephyritis eo famulum legarat,

grata Canopeis incola litoribus.

†hic dii uen ibi† uario ne solum in lumine caeli

60  ex Ariadneis aurea temporibus

fixa corona foret, sed nos quoque fulgeremus

deuotae flaui uerticis exuuiae,

uuidulam a fluctu cedentem ad templa deum me

sidus in antiquis diua nouum posuit:

65  Virginis et saeui contingens namque Leonis

lumina, Callisto iuncta Lycaoniae,

uertor in occasum, tardum dux ante Booten,

qui uix sero alto mergitur Oceano.

sed quamquam me nocte premunt uestigia diuum,

70  lux autem canae Tethyi restituit

(pace tua fari hic liceat, Rhamnusia uirgo,

namque ego non ullo uera timore tegam,

nec si me infestis discerpent sidera dictis,

condita quin imi pectoris euoluam):

75  non his tam laetor rebus, quam me afore semper,

afore me a dominae uertice discrucior,

quicum ego, dum uirgo quidem erat, muliebribus expers

unguentis, una uilia multa bibi.

nunc uos, optato quas iunxit lumine taeda,

80  non prius unanimis corpora coniugibus

tradite nudantes reiecta ueste papillas,

quam iucunda mihi munera libet onyx,

uester onyx, casto colitis quae iura cubili.

sed quae se impuro dedit adulterio,

85  illius ah mala dona leuis bibat irrita puluis:

namque ego ab indignis praemia nulla peto.

sed magis, o nuptae, semper concordia uestras,

semper amor sedes incolat assiduus.

tu uero, regina, tuens cum sidera diuam

90 placabis festis luminibus Venerem,

unguinis expertem ne siris esse tuam me,

sed potius largis affice muneribus.

sidera corruerint! iterum ut coma regia fiam,

proximus Hydrochoi fulguret Oarion!

 

 

Ambrogio Borghi, La regina Berenice (o Chioma di Berenice) – dettaglio. Statua, marmo, 1878. Monza, Musei Civici.

 

Valerio Catullo, Carmen LXVI

 

 

Colui che del vasto mondo le luci tutte scrutò,

che apprese degli astri il levare e il tramonto,

come il fiammeggiante splendore del Sole rapace si oscuri,

come in tempi fissati scompaian le stelle,

5    come, a trattenerla in segreto sotto le rocce del Latmo[1],

un dolce amore dall’orbita eterea Trivia richiami[2]:

quello stesso Conone nel firmamento mi vide,

chioma del capo di Berenice,

splendente di luce, che quella a molte dee

10  levando le terse braccia promise,

nel tempo in cui il re, strappato al recente imeneo,

andò a devastare le terre d’Assiria,

recando le dolci tracce della lotta notturna,

che per virginee spoglie aveva affrontato.

15  È forse Venere in odio alle giovani spose? Eppure,

dei genitori turbano il gaudio con false lacrimucce,

copiosamente versate sulla soglia del talamo.

No, mi aiutino gli dèi, non piangono sul serio!

Con molti lamenti me lo mostrò la regina,

20  quando lo sposo novello a truci battaglie volse lo sguardo.

E tu, abbandonata, piangesti non solo il letto ormai vuoto,

ma il triste distacco dal caro Fratello[3].

Quanto profondo l’affanno divorò il mesto tuo cuore!

Come allora, turbata in tutto il tuo petto,

25  priva di sensi, ti abbandonò la ragione! Ma te io per certo

ben conoscevo di animo forte, fin da fanciulla piccina.

Non ricordi forse l’impresa gloriosa con cui il regal connubio

ottenesti, che altri non oserebbe, pure più forte? [4]

Ma allora, congedando lo sposo, quali parole, mesta, dicesti!

30  Per Giove, quanto spesso strofinasti con la mano i tuoi occhi!

Quale dio, tanto potente, così ti ha mutata? Ché forse gli amanti

lontano dalla cara persona non voglion restare?

E in tal occasione me agli dèi tutti per il dolce sposo

promettesti, non senza sangue di tori[5],

35  se avesse ottenuto il ritorno. Quegli in tempo non lungo

prese l’Asia e al regno d’Egitto l’aggiunse[6].

E io per ciò ora, resa alla schiera celeste,

con compito nuovo assolvo ai voti di allora.

Non di mia volontà, o regina, il tuo capo lasciai,

40  non di mia volontà: lo giuro per te e per la tua testa[7];

paghi la giusta pena chi faccia per essa vano spergiuro!

Ma chi può pretendere di resistere al ferro?

Fu raso al suolo anche quel monte, che, sulle coste il più alto,

la chiara progenie di Thia[8] sorvola,

45  quando un mare nuovo generarono i Medi, e la giovane schiera

dei barbari attraverso l’Athos navigò con la flotta[9].

Cosa faranno i capelli, se tali cose cedono al ferro?

O Giove, possa perire la stirpe dei Càlibi tutta

e chi per primo a cercar sotto terra le vene

50  iniziò, e a temprar la durezza del ferro!

Le sorelle il mio fato, di me poc’anzi staccata,

lamentavano, quando di Memnone Etiope

il fratello, colpendo l’aere con ali oscillanti,

si presentò, alato destriero di Arsinoe Locride,

55  e sollevandomi vola via per le ombre dell’etere

e mi pone nel casto grembo di Venere[10].

Zefiritide stessa a tal uopo aveva mandato il suo servo,

grata abitante dei lidi Canopii.

(…) perché non solo nel vario lume del cielo

60  l’aurea corona che ornò ad Arianna le tempie[11]

fosse confitta, ma anche noi risplendessimo,

del biondo capo spoglia devota.

Me, che alle aule divine bagnata dal flutto salivo,

la dea collocò, astro nuovo, in mezzo agli antichi:

65  così, sfiorando della Vergine e del feroce Leone

le luci, unita alla Licaonia Callisto[12],

volgo al tramonto guidando il pigro Boote,

che, tardi, s’immerge appena nell’Oceano profondo[13].

Ma, anche se di notte dalle impronte di dèi son premuta,

70  e mi restituisce la luce poi a Tethys canuta[14]

– mi sia permeso, con tua pace, parlare, o Vergine Ramnusia:

per nessun timore nasconderò il vero,

neanche se mi faranno a pezzi le stelle per le empie parole,

con cui rivelo davvero ciò che custodisce il mio petto –

75  non tanto di questo mi allieto, quanto l’essere lontana

mi tormenta, l’essere sempre lontana dalla testa regale

con cui io, quando un tempo era vergine, privata di tutti

gli unguenti di sposa, di molti poveri olii mi imbevvi.

Ora voi, che, con luce agognata, la teda nuziale ha congiunto,

80  agli sposi concordi non ancora il corpo cedete,

denudando le mammelle lasciata cadere la veste,

prima che versi per me l’alabastro[15] offerte gioconde,

il vostro alabastro, di voi, che il patto serbate di un casto giaciglio.

Ma chi si concesse a impuro adulterio,

85  ah, la polvere sottile invano beva i suoi doni!

Perché non voglio offerte da chi non è degno[16].

Ma piuttosto, voi spose, la concordia sempre le vostre

dimore frequenti, e sempre, assiduo, l’amore.

E tu, o regina, quando, guardando alle stelle, la divina

90 Venere placherai nei giorni di festa,

non lasciarmi priva di sangue,

ma piuttosto fa’, con munifiche offerte,

(perché duplicare le stelle?) che io divenga ormai chioma regale!

Prossimo all’Acquario rifulgerebbe Orione[17]!

 

Marco Liberi, Berenice decide di dedicare la sua chioma ad Afrodite. Olio su tela, primo quarto del XVII sec. Muzeum Narodowe w Warszawie.

***

Note:

[1] Monte fra la Caria e la Ionia, dove la Luna (Trivia) aveva furtivi incontri con Endimione, abbandonando la sua orbita celeste.

[2] L’amore di Selene (la Luna) per il giovane Endimione (per cui cfr. già Saffo, fr. 199 V.) è qui utilizzato per spiegare le fasi lunari (in particolare la fase della luna nuova): il mito è qui collocato sul monte Latmo in Caria (cfr. A.R. IV 57, [Teocrito] XX 37-39, Cicerone, Tusculanae I 92, Strab. XIV 1, 8, Paus. V 1, 5).

[3] Nella titolatura ufficiale Berenice era sorella di Tolemeo: di fatto erano cugini.

[4] Berenice a 15 anni era stata promessa dal padre Megas al cugino Tolemeo. Dopo la morte di Megas, la madre Apama offrì invece la mano della figlia a Demetrio il Bello, fratello di Antigono Gonata, re di Macedonia. Giunto in Libia, Demetrio divenne amante di Apama e fu ucciso da un gruppo di congiurati guidato dalla stessa Berenice: all’evento seguirono le nozze con il sovrano egizio (Iustin. XXVI 3, 3-8). Cfr. anche fr. 388.

[5] Il voto si accompagna a un solenne sacrificio di tori.

[6] In un’iscrizione di Adulis (Eritrea), trascritta da Cosma II 59, il re dichiarava di dominare «tutta la regione al di là dell’Eufrate, la Cilicia, la Pamfilia, la Ionia, l’Ellesponto e la Tracia» e di avere attraversato l’Eufrate sottomettendo la Mesopotamia, Babilonia, la Susiana, la Persia, la Media, e tutto il territorio fino alla Battriana: un resoconto della campagna da parte dello stesso sovrano è conservato su papiro (FGrHist. 160). Nel 245, tuttavia, Tolemeo tornò in Egitto abbandonando quasi tutte le conquiste asiatiche, con l’eccezione di parte della Siria.

[7] Celebre la ripresa di questi versi da parte di Virgilio in Aen. VI 458 ss., dove Enea si rivolge, negli Inferi, all’abbandonata Didone. L’imitazione rivela, esplicitandoli, i moduli «patetici» che Callimaco aveva sapientemente distorto applicandoli al paradossale rapporto tra la regina e la sua chioma.

[8] Cioè Helios, il Sole, figlio di Iperione e di Thia.

[9] Serse, re dei Persiani, che nel 480 a.C. «si dice abbia perforato il monte Athos e immesso sulla terra un nuovo mare» (Scolii in Giovenale, 10, 173), tagliando l’istmo che unisce il monte alla penisola Calcidica.

[10] La «Venere celeste» che Platone (Symp. 180d sgg.) oppone alla «Venere popolare» (cfr. anche Teocrito, A.P. VI 340). Il Foscolo, che tradusse il carmen 66, si ricordò di questo verso nei Sepolcri, 179: «rendea nel grembo a Venere celeste».

[11] Altro catasterismo: la corona di Arianna (vd. carmen 64, nn. 10 e 31), trasformata in costellazione da Dioniso.

[12] Vengono indicate le costellazioni che circondano la Chioma. La Licaonia Callisto è la ninfa arcade catasterizzata in forma di Orsa.

[13] La costellazione di Boote è detta «pigra» in quanto la figura sorge in posizione orizzontale e tramonta in posizione verticale, e quindi assai più lentamente (cfr. già Od. V 272). Alcune delle sue stelle peraltro non scendono mai sotto l’orizzonte.

[14] «Tethys canuta» è il mare (cfr. Inno a Delo 17, ad Artemide 44): l’epiteto allude insieme alla veneranda età della dea (Giambo IV 52) e allo spumeggiare del mare.

[15] Di onice e di alabastro erano fatti i vasetti per gli unguenti.

[16] L’enfasi sulla «purezza» è motivo quasi ossessivo in Callimaco, e già questo rende molto improbabile l’attribuzione dei vv. 79-89  interpolazione catulliana. In particolare, per questo verso si cfr. Inno a Delo 98.

[17] Gli ultimi due distici sono particolarmente oscuri. Ha disturbato molti interpreti il sacrificio cruento per Venere, di cui riceve parte la Chioma: donde la fortunata, ma non sicura, congettura di Bentley unguinis («unguento») per sanguinis («sangue»). Disperata è invece la situazione degli ultimi due versi, dove ai numerosi problemi di testo, si aggiunge il fatto che le due costellazioni di Orione e dell’Acquario non possono in alcun modo dirsi contigue. Una soluzione insieme ingegnosa e sconcertante è quella di Lachmann, che legge al v. 93 affice (così alcuni manoscritti più recenti) in luogo di effice, con forte interpunzione alla fine del verso, e, all’inizio di 94, l’inciso sidera corruerint (correzione per cur iterent) utinam!: «ma piuttosto onorami (opp. onorala) con munifiche offerte. / Ah, possano precipitare le stelle! Diventerei la chioma della regina: / a fianco dell’Acquario rifulgerebbe Orione». L’originale catulliano proximus Hydrochoi (cfr. in Callimaco, oltre al nome dell’Acquario al v. 94, a quanto pare al nominativo, forse anche γείτ[ονες all’inizio del v. 93, con l’integrazione di Lobel basata sugli scolii) è riecheggiato probabilmente in Nonno, Dion. XXXVIII 370 γείτονες Ὑδροχόοιο (descrizione del caos provocato nel firmamento dal carro di Fetonte): cfr. A. Hollis in H. Hopkinson (ed.), Studies in the Dionysiaca of Nonnus, Cambridge 1994, 46 e n. 11. L’auspicata catastrofe cosmica sembra un po’ drastica rispetto al contesto, ma il testo tràdito, con l’unica correzione di utinam in ut iam al v. 93 (Baehrens, seguito da Marinone, che dà a proximus valore temporale), che qui, con scarsa convinzione, traduco, lascia aperti non pochi problemi.

 

 

Diana alla luce della luna

di MORISI L., Diana alla luce della luna (Catull. 34. 15 s. e le insidie dell’etimologia), Lexis 19 (2001), pp. 283-287.

 

 

Sis quocumque tibi placet / sancta nomine (Catull. 34. 21 s.): «sii onorata con qualunque nome di piaccia». La stilizzata movenza che avvia alla chiusa del catulliano inno a Diana, ove è il riflesso del canto (e consueto) pragmatismo con cui l’orante intende tutelarsi dal rischio di invocare la divinità con appellativi che non le competono, o peggio di ometterne le specifiche denominazioni cultuali[1], si presta con particolare opportunità a riferirsi a una dea (Hor. Carm. 3, 22, 4: diua triformis) che è, a un tempo, una e trina (34, 13-16):

 

tu Lucina dolentibus

Iuno dicta puerperis,

tu potens Triuia et notho es

dicta lumine Luna.

 

Allorché, infatti, l’antica divinità italica preposta a esercitare un proprio autonomo ruolo nella sfera relativa alla fecondità – in virtù, pare, di un’origine ctonia, che tuttavia le inibì la dotazione di alcune prerogative di carattere uranio[2] – finì per essere accostata, quando non sovrapposta, all’Artemide greca, di quest’ultima ereditò ben presto e senza conflitti, come fu spesso a Roma, le diverse competenze e investiture. Fatta oggetto di una confusa azione sincretistica, per altro ben lungi dal non essere, talora, ignorata, Diana assume così i tratti di Iuno Lucina, la dea che tutela il parto, quelli più sfumati di Ecate, la misteriosa entità demoniaca signora dei crocicchi, degli spiriti notturni e con imprecise implicazioni nel campo della magia, Triuia[3] appunto, nonché il ruolo di dea della luna, quasi un diritto “transitivo” (su scorta stoica) della sorella di Apollo. Gli effetti complessivi di una tale articolazione, caratterizzata da ininterrotte osmosi e contaminazioni[4] (il fatto che delle tre dee una si chiamasse «Trivia», dopotutto, non contribuiva a semplificare le cose) sono visibili nelle congestionate testimonianze di Varrone e Cicerone, non a caso percorse da un duplice denominatore, la luce e il tre. Se l’uno alza appena lo sguardo dalle strade al cielo (ling. Lat. 7, 16):

 

Triuia Diana est, ab eo dicta Triuia, quod in triuio ponitur fere in oppidis Graecis uel quod luna dicitur esse, quae in caelo tribus uiis mouetur, in altitudinem et latitudinem et longitudinem,

 

e troverà l’implicita approvazione di Plutarco (de fac. in orbe lun. 24, 937f), l’altro vede reificate quelle allegorie nella verità di un rapporto etimologico (nat. deor. 2 68, s.):

 

Dianam autem et lunam eandem esse putant, cum […] luna a lucendo nominata sit; eadem est enim Lucina, itaque ut apud Graecos Dianam eamque Luciferam sic apud nostros Iunonem Lucinam in pariendo inuocant. […] (69) Diana dicta quia noctu quasi diem efficeret. Adhibetur autem ad partus, quod i maturescunt aut septem non numquam aut ut plenumque nouem lunae cursibus[5].

Paul-Jacques-Aimé Baudry, Diana Reposing. Olio su tavola di mogano, 1859 c. Baltimora, Walters Art Museum.

 

Non sappiamo per chi e in quale contesto Catullo abbia composto il suo inno; può darsi che l’occasione fosse un omaggio ‘privato’ alla dea, calcato sulle forme di una celebrazione liturgica – come pare provato dal colorito romano dell’attacco (Dianae sumus in fide)  e dalla menzione in explicit, a chiudere anularmente la struttura, della «stirpe di Romolo» – ma verisimilmente escluso dalla pubblicità di una performance rituale: non importa verificarlo, se mai possibile, in questa sede. Più memorabile è il fatto che Catullo aspiri a impreziosire alessandrinamente il suo dettato operando una strategia tutta giocata sulla riduzione e sul rimosso: non solo opta per la versione meno nota della leggendaria nascita della dea (vv. 7 s.), trascurando poi di ricordarne l’immediata prerogativa, quella di essere signora delle fiere e protettrice della caccia, ovvia al lettore educato che si prospetta: tale processo di riduzione, cui risponde sul piano stilistico l’alleggerimento di una (troppo) intensa sequenza allitterante, egli pone in atto anche nella riscrittura allusiva di un modello lucreziano, chiarita da una riconoscibile spia lessicale. La memoria, secondo un modulo riscontrabile altrove in Catullo, non gravita qui sull’innovazione né sullo scarto, ma funziona piuttosto come scelta, comunque connotante, tra opzioni già occupate (a cauzione, per inciso, della possibilità stessa di orientare il rapporto imitativo), omaggio riconosciuto all’autorità di chi detiene le competenze del naturalista e del poeta («la luce della luna può essere “falsa”, lo dice anche Lucrezio») nondimeno congiunta al prestigio di una tradizione antica che affonda le sue radici nel pensiero presocratico[6] (Lucr. 5, 575 s.):

 

lunaque siue notho fertur loca lumine[7] lustrans

siue suam proprio iactat de corpore lucem.

 

Leocare, Diana cacciatrice. Copia romana di un originale greco del IV secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.

 

È interessante notare come anche Lucrezio in un’anticipazione delle teorie prevalenti e approvate da Epicuro (cfr. epist. Pyth. 94) sull’origine della luce lunare (luce propria o riflessa), condensate in un distico risonante, sacrifichi senza difficoltà una terza ipotesi (una luna sempre nuova si rigenera quotidianamente), descritta insieme alle altre, poco più avanti. Pur incardinata su un modello argomentativo a base analogica, caro a Lucrezio[8], e anche trascurandosi quella censura preventiva, si capisce che quest’ultima ha minor peso delle prime due, indebolita dalla stessa movenza sintattica che la introduce (5, 731: denique cur nequeat…): la sua fondatezza, meno scientifica che dialettica, risiede piuttosto nell’impossibilità di dimostrarne il contrario.

A designare la non autoctonia del tenue chiarore lunare, nothus appare vocabolo ben scelto. Prestito originariamente della lingua del diritto, è risorsa di cui i Latini fruiscono, colmando una loro lacuna lessicale, vuoi per denotare una particolare casistica esclusa dalla disciplina giuridica romana[9], vuoi, soprattutto, per profittare di suggestioni più aperte e variamente negoziabili: tant’è vero che l’àmbito di tale riuso latino, come avvisa M. Zicari, è per lo più greco, quand’anche solo per ascendenza letteraria[10]. E un precisa tradizione dossografica (greca), nota ancora mezzo secolo dopo a Filone Alessandrino[11], Catullo avrà forse inteso alludere, ma con un’ulteriore, almeno così parrebbe, motivazione contestuale: convertendo cioè quell’atto imitativo, nel caricare notho[12] di una debole accezione concessiva («sei detta Luna a motivo della luce, che pure è riflessa»), in un invito a mediare su un paradosso etimologico. Paradosso acuito dall’opposizione, contestualmente rilevata da una simmetria chiastica, rispetto a Lucina…dicta, che non è soltanto un modo per sottolineare quanto l’etimo di Lucina sia invece ovvio ed evidente, ma piuttosto per coinvolgere del lettore, dopo la sfera ‘calda’ dell’emotività (evocando una figura cara alla tradizione popolare), quella più ‘fredda’ dell’intelletto. Che luna, infatti, debba il suo nome alla luce, malgrado questa non le sia attributo costante né tantomeno suo proprio, è un dato che può legittimamente incuriosire; più ancora, però, se il merito, involontario, di aver contribuito a svelare l’arcano debba essere riconosciuto non a un latino, ma a un greco.

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[1] Esemplare, al riguardo, l’equilibrio tra completezza e vaghezza dell’invocazione con cui Lucio, esasperato dal perdurare della sua condizione asinina, rivolge una supplica alla Luna (Apul. Met. 11, 2): regina caeli, siue tu Ceres…, seu tu caelestis Venus…, seu Phoebi soror…, seu… horrenda Proserpina triformi facie…, quoquo nomine, quoquo ritu, quaqua facie te fas est inuocare (L. Pasetti, La morfologia della preghiera nelle Metamorfosi di Apuleio, Eikasmos 10, 1999, 247-71; sull’approccio formale e contrattuale nei confronti del divino, da parte dei Romani, oltre alle ormai classiche pagine di E. Norden, Agnostos Theos, Leipzig-Berlin 1913 [= Darmstad 1971], è utile il materiale raccolto da G.B. Pighi, La poesia religiosa romana. Testi e frammenti…, Bologna 1958, così come la messa a punto di C. De Meo, Lingue tecniche del latino, Bologna 19862, 133-66; un contributo recente, senza significative novità, è quello di Ch. Guittard, Invocations et structures théologiques dans la prière à Rome, REL 76, 1998, 71-92).

[2] Una discussione più impegnativa può rinvenirsi in N. Scivoletto, L’inno a Diana di Catullo, in AA.VV., Filologia e forme letterarie. Studi offerti a Francesco della Corte, II, Urbino 1987, 357-74 (a minima integrazione si consideri A.E. Gordon, On the Origin of Diana, TAPhA 63, 1932, 177-91, per quanto rielaborato nel successivo, e citato, The Cult of Aricia, Berkeley 1934); sull’ipotesi che vuole attribuito a Diana un complesso intreccio di caratteri ctoni e urani (nel nome stesso si avverte l’attivazione etimologica di dius / dies, preziosamente comprovata, ad es., dalla scansione virgiliana di Aen. 1, 499: Diana, più problematico è verificarla in Catullo, data la mobilità della base bisillabica del gliconeo), soprattutto le pp. 363 s. Su genere letterario, tematica e destinazione del carme, si veda anche la sintesi di B. Németh, Der Diana-Hymnus (c. 34) von Catull. Analyse und Schlußfolgerungen, ACUSD 12, 1976, 37-45.

[3] Noto ad Ennio (scen. 121 V.2 [= 363 J.]) e a Lucrezio (1. 84), è appellativo (quando si escluda per certo l’inverso) calcato su τριοδίτις, il cui conio parrebbe logico supporre in età più alta, verosimilmente alessandrina, rispetto a quelle di Plutarco (mor. 937e) e di Ateneo (325a).

[4] Di cui sia prova, a titolo di esempio, questo verso euripideo (Hel. 569): ὦ φωσφόρ᾽ Ἑκάτη, πέμπε φάσματ᾽ εὐμενῆ; parimenti con «Trivia» è indicata la luna in Catull. 66, 5, come sarà in Dante (Par. 23, 25 s.): «quale ne’ plenilunii sereni / Trivia ride tra le ninfe etterne…».

[5] Cfr. ancora Varro, ling. Lat. 5, 68: luna quod sola lucet noctu; [69]: quae ideo quoque uidetur ob Latinis Iuno Lucina dicta, quod est et terra, ut physici dicunt, et lucet; Isid. Orig. 3, 71, 2: luna dicta quasi Lucina, oblata media syllaba; […] sumpsit autem nomen per deriuationem a solis luce, eo quod ab eo lumen accipiat, acceptum reddat (R. Maltby, A Lexicon of Latin Etymologies, Leeds 1991, 351).

[6] Cfr. Parmen. fr. B 14 D.-K.7: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς tra i dubia il fr. B 21: ὅθεν ψευδοφανῆ τὸν ἀστέρα [scil. τὴν σελήνην] καλεῖ.

[7] L’argomento, al fine di un’attribuzione di paternità, si capisce, non è probante, però è notevole il fatto che Apuleio, recuperando alla memoria l’eco della iunctura, la riferisca senz’altro a Lucrezio (deo Socr. 1, contaminando i due versi): … ut uerbis utar Lucreti, notham iactat de corpore lucem [scil. Luna]. I contesti e la struttura dei movimenti argomentativi non sono lontani, ma sono opposte le prospettive, ed è chiaro che Apuleio, se non forse provocatoriamente in un’operetta che è solo un brillante esercizio di stile sulla demonologia medioplatonica, non voglia cercare accrediti in Lucrezio, semmai il piacere di una citazione poetica a scopo di ornato (come altrove, in quelle stesse pagine, richiamando Plauto, Ennio, Terenzio, Accio e Virgilio); e Catullo (senz’altro in auge, con i neoteroi, nel II sec. d.C.), tanto più il Catullo “religioso” e impegnato del c. 34, avrebbe ben soddisfatto a tale necessità. Non sarà dunque per scrupolo se subito dopo Apuelio si affretta a precisare che (ibidem 2) utracumque harum uera sententia est [se la luna brilli di luce propria o rifletta i raggi del sole], … tamen neque de luna neque de sole quisquam Graecus aut barbarus facile cunctauerit deos esse.

[8] D’obbligo il rinvio a A. Schiesaro, Simulacrum et imago. Gli argomenti analogici nel ‘De rerum natura’, Pisa 1990.

[9] Cfr. Quint. 3, 6, 96 s.: nothus ante legitimum natus legitimus filius sit… [97] Nothum, qui non sit legitimus, Graeci uocant; Latinum rei nomen, ut Cato quoque in oratione quadam testatus est, non habemus ideoque utimur peregrino.

[10] A partire dal problema dell’ibridazione latina di vocaboli greci, discusso da Varrone (ling. Lat. 10, 69-71), per non dire dei prodigiosi puledri che Circe ottenne da un destriero (rubato) dal cocchio paterno e una comune cavalla (Verg. Aen. 7, 282 s.), sino all’illegittimità della nascita del troiano Antifate, figlio di Sarpedonte e di madre tebana (Verg. Aen. 9, 696 s.) o di Ippolito, la cui madre non fu sposa, bensì preda di guerra di Teseo (Ov. Her. 4, 121 s.): M. Zicari, Nothus in Lucr. 5, 575 e in Catull. 34, 15, in AA.VV., Studia Florentina Alexandro Ronconi sexagenario oblata, Roma 1970, 526 s. [= Studi catulliani, Urbino 1978, 182 s.]. In parte diverso è il discorso su notha mulier di Catull. 63, 27, con cui si delegittima la pretesa sessualità femminile di Attis. Nell’epiteto, da un lato coerente all’atmosfera grecizzante del carme, va piuttosto riconosciuto, quale arricchimento connotativo, una spia del complesso rapporto di integrazione fra le Gallae (che Attis incita chiamandole Maenades) e il loro contraltare cultuale, le Baccanti (Eur. Bacch. 1060): οὐκ ἐξικνοῦμαι μαινάδων ὄσσοις νόθων, dove è evidente che di quelle, non dubitandosi della loro sessualità, si vuole sottolineata l’orrenda trasfigurazione, per effetto dell’invasamento del dio, in esseri furiosi, donne cioè non più donne, in belve assetate di sangue (Gaio Valerio Catullo, Attis [carmen LXIII]), a cura di L. Morisi, Bologna 1999, ad loc.).

[11] Philo Alex. de somn. 1, 23: τι δέ, σελήνη πότερον γνήσιον ή νόθον έπιφέρεται φέγγος ήλιακας έπιλαμπόμενον ακτίσιν; dilemma riproposto più avanti in 1, 53.

[12] Ne percepisce l’ambiguità semantica lo Zicari, Nothus, 184: «ma “falso” può o dire soltanto che l’irraggiamento della luce della luna è apparente, non “genuino”, in quanto l’astro non l’emana proprio de corpore; o descrivere piuttosto l’effetto di questo fenomeno, cioè la qualità della luce che ne risulta. Questa duplice possibilità espressiva a me sembra insita nella parola stessa», pur incline, in definitiva, a privilegiare la seconda opzione (185): «non importa qui la nozione che i raggi solari sono riflessi dall’astro, bensì rievocare alla fantasia il mite fulgore lunare». Németh e Scivoletto (più decisamente quest’ultimo), invece, vedono in notho un ablativo di qualità (artt. citt., rispettivamente pp. 368 e 42). Più facile concordare con D.F.S. Thomson (Catullus. Edited with a Textual and Interpretive Commentary, Toronto-Buffalo-London 1997, ad loc.): «the emphasis is on lumine, not on notho: “you are given the name Luna because of the light (lumen), which is ‹not your own but› reflected (notho)”».

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Bibliografia ulteriore:

L. Fratantuono, Montium Domina: Catullus’ Diana, Rome, and the Moon’s Bastard Light, AC 58 (2015), pp. 27-46.

L. Kronenberg, Catullus 34 and Valerius Cato’s Diana, Paideia 73 (2018), pp. 157-173.

Cortesie (e scortesie) per gli ospiti

di F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, vol. 1 – Dall’età arcaica all’età di Cesare, Bologna 2004, pp. 702 sgg.

 

Catullo invita l’amico Fabullo a cena, avvertendolo però che dovrà portarsela per suo conto, assieme a tutto quanto potrà allietarla (ivi compresa una bella ragazza); il poeta infatti è – o meglio si dichiara – in bolletta. La contropartita che il poeta propone a Fabullo è immateriale ma non per questo inconsistente: è la sua stessa amicizia, unita a un unguento di Lesbia dal profumo irresistibile.

Scena conviviale. Affresco, I secolo, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Si tratta di un carme d’occasione e l’occasione è ghiotta, ma solo se il destinatario sarà disposto a collaborare: Catullo invita a cena Fabullo (un amico nominato anche altrove nel Liber), ma lo avverte che dovrà portarsi il necessario; il poeta infatti ha le tasche vuote e non può offrire altro che la propria amicizia e un profumo di Lesbia, per annusare il quale Fabullo dovrà chiedere agli dèi che lo facciano «tutto naso». Com’è evidente, la confidenza e l’ironia sono le caratteristiche salienti del componimento, in cui almeno due volte si fa ricorso all’effetto a sorpresa, per ribaltare sia le aspettative dell’amico sia quelle del lettore (che anche in questo carme scorge la compresenza di una forma poetica tradizionale e di uno «spirito» – inteso anche come tono spiritoso – nuovo).

 

Cenabis[1] bene, mi Fabulle, apud me

paucis, si tibi di favent, diebus[2],

si tecum attuleris bonam atque magnam

cenam, non sine[3] candida[4] puella

et vino et sale et omnibus cachinnis[5].

haec si, inquam, attuleris, venuste noster[6]

cenabis bene; nam tui Catulli

plenus sacculus est aranearum[7].

sed contra accipies meros amores

seu quid suavius elegantiusve est:

nam unguentum dabo, quod meae puellae

donarunt Veneres Cupidinesque,

quod tu cum olfacies, deos rogabis

totum ut te faciant, Fabulle, nasum.

 

Che cena, Fabullo mio, da me,

tra pochi giorni, se gli dèi vorranno,

e se porti una cena buona e abbondante

non senza una bellissima ragazza

e vino e spirito e risa in quantità.

Con questo contributo, bello mio,

dico: che cena! Sì, perché la borsa

del tuo Catullo è piena di ragnatele!

Ricambierò con sinceri affetti

e con quanto c’è di più elegante e raffinato,

cioè un profumo[8], che alla mia ragazza

hanno donato le Veneri e gli Amorini,

il quale se lo annuserai, pregherai gli dèi

di farti diventare tutto naso[9]!

(tr. it. E. Mandruzzato)

 

L’invitatio ad cenam è elemento topico che si trova nella letteratura latina in più generi letterari. La frequenza di tale elemento, che nasce comunque da situazioni reali, lascia intravvedere quanto era diffusa la pratica conviviale, nella quale era ricercato soprattutto il piacere dello stare assieme.

Scena conviviale. Affresco, I secolo a.C. dalla Casa degli Amanti (IX 12, 6-8), Pompei.

Cicerone, nell’invitare l’amico Peto ad aver cura della propria salute, prendendo a frequentare gli amici e ad accettare quegli inviti a cena fuori, che invece rifiuta, afferma (Ad fam. IX 24, 3):

Nihil est aptius vitae, nihil ad beate vivendum accomodatius. Nec id ad voluptatem refero sed ad communitatem vitae atque victus remissionemque animorum, quae maxime sermone efficitur familiari, qui est in conviviis dulcissimus…

Dunque «la prassi alimentare non è solo la soddisfazione di un bisogno naturale, ma è condizionata da fattori culturali, è un atto socializzato e ritualizzato, basato su un proprio linguaggio, quindi anche simbolico…». E un simbolico valore comunicativo assume il cibo così come l’etichetta: è dunque in questo quadro che si inserisce, con le sue convenzioni sociali, la partecipazione al convito, preceduta da «formale» invito. «Il biglietto di invito, come quello di risposta, doveva menzionare gli elementi costitutivi che sono il tempo, il luogo, l’apparato, le persone che rendono ospitale l’ambiente, il menu, che adombra in sé una scelta di vita» (F. Citti). In Catullo tutti questi elementi sono presenti, ma il suo è uno scanzonato e goliardico invito: sarà invitato a portare con sé quel che serve per la riuscita della serata, limitandosi Catullo ad indicare tempo (paucis diebus) e luogo (apud me). Né mancano gli usuali elementi formali: l’uso del futuro, il vocativo del nome dell’invitato (Fabulle), la presenza del verbo cenare, proprio della formula stereotipa d’invito.

Oltre al celeberrimo invito a cena a Mecenate di Odi I 20, il poeta venusino propone il «biglietto» inviato all’amico Torquato e, come spesso nella sua poesia, «protagonista» del carme è il vino: non mancano tutti gli elementi propri dell’invitatio ad cenam che abbiamo già enucleato e l’invito alla frugalitas proprio della musa oraziana.

Epist. I 5

Se ti contenti di giacere ospite su divani fabbricati da Archia

né sdegni di mangiare erbaggi d’ogni sorta in un modesto piatto,

al tramonto in casa ti aspetterò, o Torquato,

berrai vino versato nei dogli fra Petrino di Sinuessa e Miturna

5   palustre quando Tauro fu per la seconda volta console.

Se ne hai di migliore, fallo pure venire, se no accontentati del mio.

Da un pezzo splende il fuoco e le stoviglie brillano per te,

lascia da parte le futili speranze e la corsa al denaro

il processo di Mosco: domani, compleanno di Cesare, giorno festo,

10 darà riposo e sonno; sarà lecito senza colpa

prolungare la notte estiva chiacchierando.

A che mi serve la Fortuna, se non m’è consentito usufruirne?

Chi risparmia pensoso all’erede ed è troppo severo

somiglia a un pazzo; voglio incominciare a bere

15 e spargere fiori, e lascerò pensare che ho perduto il senno.

Che cosa non sprigiona mai l’ebbrezza? Manda fuori i segreti,

rende evidenti le speranze, spinge in guerra l’imbelle,

scuote il peso dell’angoscia, ispira le arti.

A chi non donano fervida parlantina i calici?

20 Chi non risollevano, ridotto in povertà?

A me, convenientemente e non forzatamente, è richiesto di preoccuparmi

di queste cose: che la coperta sia decente, nitido il tovagliolo

perché non ti venga la nausea, né che il bicchiere e il piatto

non ti rispecchino, né vi sia qualcuno fra i fidi amici

25 che vada in giro a propalare i discorsi, e che ciascuno stia

con un compagno che gli sia pari. Inviterò per te Butra e Septicio

e anche Sabino, a meno che non lo trattenga una compagnia preferibile

alla nostra: una ragazza. C’è posto per parecchi seguaci,

ma se stiamo troppo stretti si sente puzza di becco.

30 Tu scrivimi in quanti sarete e, dimessi gli affari,

pianta in asso i clienti nell’atrio e scappa dalla porta sul retro[10].

Mosaico pavimentale con Bacco, Arianna, Sileno e Satiro a banchetto. II secolo d.C. Tunisi, Musée du Bardo.

«La differenza di tono da Catullo è anche troppo facile a segnarsi: Catullo si abbandona tutto al suo gioco, Orazio è anche qui contenuto e sorvegliato; l’epistola si apre con uno dei motivi più costanti sia dell’Orazio satirico sia dell’Orazio lirico, con un richiamo alla sua metriotes: la cena sarà spoglia di inutile fasto» (A. La Penna). Anche altrove (Sat. 2) Orazio biasima la ricercatezza dei cibi offerti non per la loro gustosità ma perché prescritti dalla moda del momento e contrappone ai banchetti lussuosi quelli più frugali della tradizione romana; è un richiamo ai valori del mos maiorum e, insieme, una scelta di vita: lo spazio del simposio è spazio dell’amicizia.

Ma non per tutti a Roma era così, come lasciano intravvedere i numerosi epigrammi di Marziale che parlano di «inviti a cena» e la Satira 5 di Giovenale che, rivolgendosi al cliens che riceve l’invito, mette in evidenza la stessa realtà.

Un momento che dovrebbe essere dedicato alla celebrazione dell’amicizia rivela, attraverso i cibi offerti, l’arroganza del patronus che a sé riserva cibi raffinati e prelibati ed al cliens concede cibi di poco pregio o addirittura ripugnanti andandosi così ad iscrivere l’offerta di cibo in un simbolico rituale che sottolinea la differenza di classe sociale.

 

Marziale, Epigr. III 60

Siccome m’inviti a cena e ormai non mi dai più denaro come prima,

perché non mi vengono servite le tue stesse pietanze?

Tu t’ingozzi di ostriche ingrassate nello stagno Lucrino,

Io mi succhio un mitilo dopo averne rotto la conchiglia:

5   tu mangi boleti, io funghi porcini;

tu sei impegnato con i rombi, io invece con piccoli spari;

tu ti rimpinzi di grasse cosce di tortora dal color dell’oro,

a me viene presentata una gazza morta in gabbia.

Perché io ceno senza di te, pur cenando con te, o Pontico?

10 Non si dà più la sportula, approfittiamone: mangiamo gli stessi cibi[11].

(trad. it. G. Norcio)

 

Mosaico dalla Casa del Fauno, a Pompei. Un gatto che azzanna un uccello e anatre, uccelli, pesce e conchiglie. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Giovenale, Satire V, passim

[…] Anzitutto, piantati bene in testa che, invitato a cena,

non fai che ricevere il saldo completo dei tuoi passati servizi.

Il pasto è il frutto di un’ininfluente amicizia: il padrone te lo mette in conto,

e anche se avviene raramente, tuttavia te l’addebita […]

E che cena poi! Un vino che non vorrebbe assorbire

la lana greggia […]

Lui stesso beve vino travasato quanto i consoli avevano i capelli

e tiene uva pigiata al tempo delle guerre sociali.

[…] Osserva quella lampreda che vien portata al padrone:

come adorna il bacile col suo lungo corpo e come, circondata attorno

dagli asparagi, pare spregiare i convitati con la coda,

mentre arriva tenuta alta sulle palme di un altissimo schiavo.

Ma a te viene servito, in un piccolo piatto, un gamberetto

circondato da mezzo uovo, vera cena mortuaria.

Quello lì, invece, innaffia il suo pesce con olio di Venafro, ma a te,

poverino, verrà portato un livido cavolo che puzza

di lucerna […]

Del padrone sarà una triglia inviata dalla Corsica

o dalle scogliere di Taormina […]

A Virrone si serve una murena enorme che viene

dai gorghi di Sicilia […]

Per voi è pronta un’anguilla parente dell’affilata biscia

o un pesce del Tevere macchiettato †dal ghiaccio† e

abitatore delle sponde, impinguato dal flusso della cloaca

ed uso risalire la fogna della Suburra fino al centro città.

[…] Agli amici di bassa risma verranno serviti funghi sospetti,

al padrone un boleto, ma di quelli che Claudio mangiò

prima di quello della moglie, dopo il quale non mangiò più nulla!

Virrone, per sé e per gli altri Virroni, farà portare

quelle mele, delle quali soltanto l’odore basterebbe a nutrirti,

di quelle che produceva il perenne autunno dei Feaci:

potresti credere che siano state sottratte alle sorelle africane.

Tu invece mangi una mela imbozzacchita, quale rosicchia

sui bastioni lo scimmione che, coperto di scudo e di elmo,

timoroso della sferza, impara a vibrare la lancia dall’alto d’un’irsuta capretta.

(trad. it. P. Frassinetti)

 

Scena di banchetto. Mosaico, V sec. d.C. da Aquileia. Musée de le Château de Boudry

In modo simile dunque, attraverso una continua antitesi tra ciò che mangia il patronus e ciò che è da lui offerto ai clientes sia Marziale sia Giovenale enfatizzano la differenza fra le portate che, per chi invita, è giusta rimarcatura di diversa posizione sociale, per chi è invitato, è frutto di discriminazione e fonte di umiliazione.

Che questi comportamenti nella società romana, soprattutto in età imperiale, dovessero essere frequenti risulta anche dall’epistolario di Plinio il Giovane.

Riportiamo, ad esempio, Epist. II 6, 1-4:

Lungo sarebbe, e neppur ne vale la pena, risalire molto indietro per dire come sia avvenuto ch’io cenassi in casa di un tale che non era affatto mio intimo: uomo, a sentir lui, magnifico insieme ed economo, ma a parer mio tanto sontuoso quanto gretto. A se stesso e ad alcuni faceva servire vivande squisite, agli altri cibi comuni e scarsi. Anche i vini aveva fatto disporre entro piccole fiale di tre qualità diverse, non per lasciare libertà di scelta ma perché non si potesse opporre rifiuto: una qualità per sé e per noi, un’altra per gli amici minori (ché ha amici di gradi diversi), e l’altra per i suoi e nostri liberti.

Quegli che giaceva al mio fianco notò la cosa e mi domandò se io l’approvassi. Risposi di no. «E tu» fece «come ti regoli?». «Faccio servire a tutti le stesse cose; a una cena io invito, non a un affronto; e tratto in modo eguale quelli che ho fatto miei eguali nella mensa e nel triclinio». «Anche i liberti?». «Anche i liberti; perché in tale occasione li considero commensali, e non liberti». E quello: «Ti deve costar caro». «Oh, niente affatto». «Come mai?». «Come? Perché i miei liberti non bevono il vino che bevo io, ma bevo io quello che bevono anche i liberti»[12].

(trad. it. G. Vitali)

 

È evidente l’atteggiamento di disgusto da parte di Plinio che «esprimendo il suo ideale antitetico di uguaglianza assoluta di tutti i convitati – liberti compresi – resa possibile dalla parsimonia nella scelta delle vivande, prende le distanze e stigmatizza questi eccessi tipici dei nuovi ricchi» (G. Migliori).

 

 ***

 

[1] Formula convenzionale di invito, dove il futuro ha un valore iussivo, ossia di comando, nell’ambito di una proposizione che viene ad essere l’apodosi di un periodo ipotetico la cui protasi compare a sorpresa nel v.3; la cena per i Romani era il pasto principale della giornata ed iniziava intorno alle tre del pomeriggio.

[2] L’indeterminatezza della data da un lato contrasta con la perentorietà dell’invito e con la certezza della sua accettazione, dall’altro sembra alludere ironicamente alle incerte condizioni di ospitalità di cui apprenderemo nei versi successivi; e l’espressione si tibi di favent («se gli dèi ti sono favorevoli»), inciso proprio della lingua d’uso, rinforza il dubbio che non si tratterà di una cena comune.

[3] È litote per cum, rispetto a cui è più efficace.

[4] Indica la luminosità e la grazia della puella (probabilmente un’intrattenitrice musicale.

[5] Ecco l’aprosdóketon, ovvero la cosa inattesa, in questo caso il fatto che la condizione della cena è che Fabullo porti la cena stessa – concetto ben reso dal richiamo tra il cenabis dell’incipit e cenam del v.4, entrambi a inizio di verso –, o meglio i suoi ingredienti (qui enumerati anche con il polisindeto del v.5).

[6] È detto con affetto ma anche con una sfumatura ironica.

[7] Espressione proverbiale, come proverbiale – da Ipponatte alla letteratura ellenistica – è l’idea del poeta pitocco e male in arnese (che qui non va certo presa sul serio).

[8] Si tratta di un profumo oleoso; quella di profumarsi durante i banchetti era un’usanza importata dall’Oriente.

[9] Altro motto di spirito, che da una parte enfatizza il valore del profumo, dall’altra ridimensiona l’intervento divino.

[10]    Si potes Archiacis conviva recumbere lectis/nec modica cenare times holus omne patella,/supremo te sole domi, Torquate, manebo,/vina bibes iterum Tauro diffusa palustris/inter Minturnas Sinuessanumque Petrinum./si melius quid habes, arcesse, vel imperium fer./iamdudum splendet focus et tibi munda supellex,/mitte levis spes et certamina divitiarum/et Moschi causam: cras nato Caesare festus/dat veniam somnumque dies; impune licebit/aestivam sermone benigno tendere noctem./Quo mihi fortunam, si non conceditur uti?/parcus ob heredis curam nimiumque severus/adsidet insano, potare et spargere flores/incipiam, patiarque vel inconsultus haberi./quid non ebrietas dissignat ? operta recludit,/spes iubet esse ratas, ad proelia trudit inertem,/sollicitis animis onus eximit, addocet artes. /fecundi calices quem non fecere disertum?/contracta quem non in paupertate solutum?/Haec ego procurare et idoneus imperor et non/invitus, ne turpe toral, ne sordida mappa/corruget naris, ne non et cantharus et lanx/ostendat tibi te, ne fidos inter amicos/sit qui dicta foras eliminet, ut coeat par/iungaturque pari. Butram tibi Septiciumque,/et nisi cena prior potiorque puella Sabinum/detinet, adsumam. locus est et pluribus umbris:/sed nimis arta premunt olidae convivia caprae,/tu quotus esse velis rescribe et rebus omissis/atria servantem postico falle clientem.

[11]  Cum vocer ad cenam non iam venalis ut ante,/Cur mihi non eadem, quae tibi, cena datur?/Ostrea tu sumis stagno saturata Lucrino,/Sugitur inciso mitulus ore mihi:/Sunt tibi boleti, fungos ego sumo suillos:/Res tibi cum rhombost, at mihi cum sparulo:/Aureus inmodicis turtur te clunibus implet,/Ponitur in cavea mortua pica mihi./Cur sine te ceno, cum tecum, Pontice, cenem?/Sportula quod non est, prosit: edamus idem.

[12] Longum est altius repetere nec refert, quemadmodum acciderit, ut homo minime familiaris cenarem apud quendam, ut sibi videbatur, lautum et diligentem, ut mihi, sordidum simul et sumptuosum. Nam sibi et paucis opima quaedam, ceteris vilia et minuta ponebat. Vinum etiam parvolis lagunculis in tria genera discripserat, non ut potestas eligendi, sed ne ius esset recusandi, aliud sibi et nobis, aliud minoribus amicis – nam gradatim amicos habet –, aliud suis nostrisque libertis. Animadvertit qui mihi proximus recumbebat, et an probarem interrogavit. Negavi. «Tu ergo» inquit «quam consuetudinem sequeris?». «Eadem omnibus pono; ad cenam enim, non ad notam invito cunctisque rebus exaequo, quos mensa et toro aequavi». «Etiamne libertos?». «Etiam; convictores enim tunc, non libertos puto». Et ille: «Magno tibi constat». «Minime». «Qui fieri potest?». «Quia scilicet liberti mei non idem quod ego bibunt, sed idem ego quod liberti».

La lirica di Catullo

di A. TRAINA, Introduzione a Catullo, Carmi, Milano 2002.

Diverso è per noi e per gli antichi il concetto di “lirica”. La definizione di «forma poetica in cui si esprime il sentimento personale dell’autore» vale per noi, eredi di una poetica del soggetto di materia romantica e idealistica (definizione rinverdita da Jackobson, che legga la “lirica”, in quanto orientata verso la prima persona, alla funzione emotiva). Ma non vale per gli antichi. Per il Greco, la definizione era facile: «indicava semplicemente un canto accompagnato dalla lira». Per un Latino, era più difficile. La tripartizione del grammatico Diomede, pone la lirica, assieme all’epica, come sottospecie del «genere misto, in cui parla il poeta in prima persona e sono introdotti personaggi a parlare» (I 482 K.: il genere «in cui parla il poeta stesso senza intervento di personaggi» è quello narrativo, per esempio di Lucrezio); passa poi a definire elegia e giambo senza tornare più sulla lirica. Legarla alla poesia soggettiva non era possibile per l’esistenza sia di una lirica oggettiva come quella corale (liturgica o drammatica), sia di forme poetiche egualmente soggettive come la satira e l’epigramma. Il criterio distintivo era metrico: è lirica quella che si esprime in versi «lirici», gli eolici per esempio. Non per nulla Orazio non riconosce suo predecessore Catullo e Quintiliano, come il citato Diomede (I 485 K.), lo pone tra i giambografi, non tra i lirici (X 1, 96). Del libellus catulliano un antico avrebbe fatto rientrare nella lirica solo, e non tutti, i polimetri.

Lawrence Alma-Tadema, Catullo da Lesbia. Olio su tela, 1865.

A un criterio metrico ubbidisce la tripartizione del libellus in polimetri (in gran parte faleci, ma anche trimetri giambici e saffiche), i cc. 1-60; epigrammi, in distici elegiaci, i cc. 96-116; in mezzo i carmi lunghi, i cosiddetti carmina docta, abbastanza eterogenei, abbracciando gliconei e ferecratei, galliambi, esametri e pentametri. Risale al poeta questa distribuzione, che sovverte ogni ordine cronologico? La questione è controversa, e oggi voci autorevoli dicono di sì.
Differenza di metrica implica, inevitabilmente, una certa differenza di lingua: sia perché ogni metro ha il suo ethos vincolato a tanti echi e cadenze letterarie (si pensi al peso della clausola esametrica nella memoria poetica), sia perché obbliga a una selezione prosodica del lessico. L’esametro, per esempio, non ammette sequenze cretiche ( ˉ ˘ ˉ ): ne sono dunque escluse tante forme di comparativi-oppositivi che danno un’impronta catulliana alle clausole dei faleci (beatiores, seviores, venustiores…), tante forme di verbi popolari in -ā- e i loro derivati nominali (e non sono verbi da poco: basiare/basiatio, irrumare/irrumatio/irrumator, osculari/osculatio, pipiare, saviari e anche esurire/esuritio), tanti termini del lessico neoterico (delicatus, elegans/inelegans, facetiae/infacetus, mollicelus, invenustus); in esametri Catullo non avrebbe potuto sorridere delle araneæ del suo borsellino (c. 13) né prendersela con l’imperator unicus (cc. 29 e 54). D’altra parte, il trimetro giambico, quello almeno di Catullo, rifiuta di norma sequenze dattiliche ( ˉ ˘ ˘ ), tranne in clausola, e anapestiche ( ˘ ˘ ˉ ) e quindi parole-chiave come bene velle, pietas, desiderium e gli astratti del tipo amicitia, laetitia, saevitia. Il falecio è metro meno condizionante; ma, nel breve respiro delle sue undici sillabe, non c’è spazio per più di una sequenza dattilica contro le cinque possibili dell’esametro e le quattro del pentametro: chiudere in un solo falecio patetiche antitesi come quelle di 72,8 e 76,13 sarebbe stato difficile. Un tempo si contrapponeva la spontaneità delle nugae, «suggerite dalla vita stessa», alla letterarietà dei carmina docta, «prodotto della fantasia e del lavoro». Oggi si tende a sottolineare la fondamentale omogeneità espressiva dell’opera catulliana, e caso mai a valorizzare le differenze tra polimetri ed epigrammi. Non basta la presenza sporadica di qualche termine comune, come i labella di Lesbia, di Attis, di Arianna, delle Parche. La dicotomia stilistica c’è, da un doppio punto di vista.

Stefan Bakałowicz, Catullo e i suoi amici. Olio su tela, 1885.

Il tessuto linguistico dei polimetri e degli epigrammi è usuale; quello dei carmi esametrici è incontestabilmente letterario, con i suoi echi enniani e forse anche lucreziani, con i suoi arcaismi, con le attese ricorrenze lessicali in sede fissa, anche a breve distanza, con le sue clausole allitteranti, insomma con i suoi poetismi e metrismi. Non c’è un’altra linea spartiacque fra nugae e carmina docta, quella che passa tra lo stile del discours e lo stile della historie nel senso benvenistiano dei termini: da una parte, l’accentuazione del rapporto dialogico, la presenza e l’importanza degli indicatori di I^ e II^ persona, il continuo riferimento alla situazione di enunciazione veicolato dai deittici (pronomi e avverbi dimostrativi) e dal presente verbale, la presenza e l’importanza delle funzioni dell’enunciazione, cioè i mezzi messi in opere dall’enunciatore per influire sul comportamento del partner (interrogazione e intimazione, e quindi vocativo e imperativo); dall’altra, la prevalenza degli indicatori di III^ persona, degli anaforici, dei tempi del passato, tutti quei modi di enunciazione che «escludono ogni forma linguistica “autobiografica”».
L’unità della poesia catulliana va cercata su un altro piano, quello del pathos e dell’ethos: nell’affettività, altri han detto “affettuosità”, con cui il poeta guarda ai suoi personaggi come a se stesso e ai suoi interlocutori, e, soprattutto, nella misura della sua identificazione con essi: «la propria vita diventa un mito (e Lesbia, rispetto a Clodia è realmente già divenuta un mito) e il mito diventa vita».