Le fonti sulle guerre sannitiche

di E.T. SALMON, Il Sannio e i Sanniti, trad. it. B. McLEOD, Torino 1995, 5-12.

Di tutte le tribù e i popoli con cui i Romani si trovarono a dover contendere la supremazia sull’Italia nessuno fu più minaccioso dei Sanniti del Sannio. Forti e valenti, essi possedevano un territorio più ampio e un temperamento più risoluto di qualunque altra popolazione della Penisola. Erano abbastanza numerosi e abbastanza coraggiosi da rifiutare di sottomettersi docilmente a Roma, e la resistenza militare e politica che le opposero fu delle più strenue[1]. È un luogo comune dire che essi, ed essi soli, rivaleggiarono in modo veramente temibile con Roma per assicurarsi l’egemonia sull’Italia peninsulare, avvicinandosi considerevolmente al successo. Per mezzo secolo e più, dal 343 al 290, impegnarono i Romani nei tre successivi conflitti noti come “guerre sannitiche”, e riaccesero la lotta contro di essi ogni volta che se ne offrì l’occasione nel corso dei due secoli seguenti: la guerra che prese nome da Pirro, re dell’Epiro, potrebbe altrettanto a buon diritto essere chiamata “quarta guerra sannitica”, come infatti Livio suggerisce e Orosio afferma esplicitamente[2]. Anche Annibale trovò aiuto e appoggio fra le tribù sannitiche e, nel I secolo, in occasione dell’ultima grande insurrezione degli Italici contro il dispotismo romano, i Sanniti presero ancora una volta le armi, mostrando secondo il solito maggiore tenacia e più risoluta volontà di resistenza di tutti gli altri insorti.

L’Italia centrale nei secoli IV-I [Salmon 1995].

Se si considera l’importanza del ruolo svolto da questo popolo, è sorprendente che esso abbia suscitato un così scarso interesse. Nessuna versione della storia romana può fare a meno di dedicare loro abbondante spazio, ma ciò avviene invariabilmente nel quadro delle vicende di Roma e non facendone l’oggetto di una ricerca indipendente, benché essi meritino certamente attenzione di per se stessi. La stessa esiguità del confine fra vittoria e sconfitta è nel loro caso uno stimolante argomento d’indagine. Eppure, raramente è stata prestata loro un’accurata e approfondita attenzione. Nessuna monografia estesa ed esauriente è mai stata dedicata ai Sanniti[3], e ciò è particolarmente notevole poiché essi, per quanto remoti, non furono esseri puramente leggendari, ma uomini vivi, attivi in un’epoca intensamente studiata. È una vicenda densa e compatta, che ha inizio con la loro improvvisa apparizione come alleati di Roma nel 354 e termina con il massacro di Porta Collina nell’82, e per quanto non sia pienamente nella luce della storia, le sue linee principali sono nette e molti dei particolari sicuri[4]. Vi furono scrittori greci del IV secolo bene informati riguardo ai Sanniti e che probabilmente scrissero parecchio su di loro, ma di tali scritti non restano che frammenti sparsi[5]. Le narrazioni della storia dell’Italia del IV secolo pervenuteci, quando non trattano degli stessi Greci italioti, parlano per lo più dei Romani. I popoli sconfitti da Roma sono solo incidentalmente oggetto d’interesse: essi vengono menzionati solo quando li si considera importanti ai fini della storia di Roma. Münzer ha richiamato l’attenzione sulla limitatezza di tali esposizioni: «Le cose vengono viste esclusivamente sotto un determinato aspetto. Sul problema dei rapporti fra Roma e il mondo esterno tutte le prospettive eccetto quella romana vengono soppresse…»[6].

Dionigi di Alicarnasso, è vero, è scrittore dalla visione ampia, ed egli inserisce nella sua narrazione dissertazioni erudite sui vari popoli italici che vennero a contatto con i Romani[7], ma della parte delle Antichità romane a proposito del periodo in cui l’Urbe e i Sanniti ebbero contatti (libri XV-XX) non restano che scarsi frammenti[8].

La storia stessa della Roma arcaica veniva narrata nella forma di una tradizione stabile e inalterata, parte della quale era già nota a scrittori greci del IV secolo o anteriori[9], e la cui struttura fissa fu eretta a canone da Fabio Pittore nel III secolo. Derivava originariamente dalle nude e disadorne cronache dei pontefici romani (tabulae pontificum)[10] che vennero raccolte e ampliate nel II secolo fino a formare la collezione nota con il nome di Annales maximi, e i singoli storici si sentirono in dovere di non distaccarsi da questo percorso già tracciato, quanto piuttosto di dar vita al suo interno a una creazione letteraria[11], senza impegnarsi nel compito di una laboriosa ricerca tesa a confermare o modificare radicalmente la versione accettata[12]. Uno dei risultati di tale atteggiamento è che le apparizioni dei Sanniti sono, nella letteratura antica, casuali e sporadiche. L’unico caso in cui essi vengono fatti oggetto almeno di una parvenza di trattazione sistematica è in occasione delle loro guerre contro Roma, ma anche queste sono descritte esclusivamente del punto di vista dei vincitori. E ciò non è accidentale. Fabio Pittore si pose esplicitamente il compito di giustificare il comportamento dei Romani verso le altre genti, sforzandosi di sostituire a ogni e qualsivoglia visione della storia d’Italia diffusa dagli scrittori greci una versione decisamente favorevole a Roma[13]. Fra questi, Duride di Samo, Geronimo di Cardia, Filisto e Callia di Siracusa, Lico di Reggio e Timeo di Tauromenio avrebbero potuto dire non poco, e non tutto a sfavore, sui Sanniti, al tempo stesso lasciando per lo più in disparte i Romani[14]. Fabio Pittore rimediò fin troppo bene a questo stato di cose.

Sarebbe esagerato dire che ciò abbia significato la completa scomparsa di quanto i Greci scrissero allora sulle montuose zone interne dell’Italia meridionale e sui loro vigorosi abitanti, che in effetti gli Italioti avevano tutti i motivi di conoscere, con poco piacere, fin troppo bene: qualche informazione sui popoli sabellici è filtrata attraverso i pregiudizi e l’indifferenza dei Romani ed è sopravvissuta. Ma ciò è avvenuto attraverso una sorta di “filtro romano”, e la nostra immagine dei Sanniti è essenzialmente determinata dalla prospettiva e dalla selettività di Fabio Pittore e dai suoi successori.

I libri VII-X di Livio sono la fonte principale sulle tre guerre sannitiche ed è opinione comune che la descrizione che contengono riposi su una solida base fattuale. Il fulcro della sua narrazione, certo derivata originariamente da archivi sacerdotali[15], è costituito dagli elenchi dei consoli romani che sembrano ragionevolmente attendibili.

Guerriero sannita. Illustrazione di P. Connolly.

Va detto che gli annalisti anteriori a Livio erano fin troppo inclini a dar credito a quelle descrizioni e documentazioni di carriere di cui, secondo Plinio, erano pieni gli archivi delle grandi casate romane e che, secondo Cicerone, Livio e Plutarco, traboccavano di esagerazioni e distorsioni, quando non addirittura di sfacciate menzogne[16]. I generali che avevano partecipato alle battaglie scrivevano talvolta le loro memorie, e non c’è ragione per credere che nel farlo essi fossero modesti o scrupolosi[17]. Né si dimentichi che statisti e generali romani avevano talvolta i propri poeti e panegiristi personali che cantavano le loro imprese[18]. Ancora più numerosi, eloquenti e convincenti erano poi i discendenti di una gens decisi a vantarne le glorie. I Flavii avevano evidentemente degli archivi propri, i Carvilii avevano uno storico. Se i Postumii ebbero Aulo Postumio Albino che ne esaltò il nome, i Valerii ebbero Valerio Anziate[19]. I Cornelii, da cui provenivano non meno di sei dei ventitré pontefices maximi repubblicani di cui siamo a conoscenza[20], erano nella posizione ideale per alterare i documenti sacerdotali, così come i Papirii, che furono evidentemente fra i primi redattori degli Annales maximi[21].

Ne nacque così un accavallarsi di rivendicazioni contrastanti, mentre le varie gentes si davano a fabbricare imprese totalmente immaginarie e cercavano di attribuirsi il merito di gesta non loro o di sminuire le affermazioni altrui. Ben nota è la rivalità fra Fabii e Cornelii Scipiones: inoltre, i Fabii erano anche invidiosi nei confronti dei Carvilii e i Cornelii Scipiones dei Fulvii[22]. I Claudii e i Postumii erano chiaramente il bersaglio della denigrazione di altre casate aristocratiche e, stando a ciò che sostiene Livio, anche i Volumnii avevano il favore di alcuni annalisti e lo sfavore di altri[23]. Era sempre possibile per uno storico tentare di dar lustro al proprio clan gentilizio semplicemente inventando una promagistratura o qualche altro ufficio speciale in cui si potesse sostenere che un membro della famiglia si era particolarmente distinto[24].

Fortunatamente, sembra fosse molto meno facile inventare dei consolati e, quindi, le liste dei consoli e quelle dei trionfi non sembrano aver subito contraffazioni altrettanto estese[25]. È vero che esse spesso non rivelano quale dei due consoli avesse compiuto una determinata azione ed era quindi facile per un annalista tendenzioso inventare o sfruttare la malattia di un console per attribuire onori all’altro[26]. In tali circostanze, si può capire perché Catone si rifiutasse di menzionare alcun condottiero per nome[27], come pure è comprensibile l’onesta incertezza di Livio su quale comandante dovesse ricevere il merito di una data vittoria[28]. Ciononostante, i Fasti consulares e triumphales sono una fonte relativamente pura e incontaminata e si può attribuire loro ampia credibilità[29].

Un’altra fonte d’informazioni ragionevolmente degna di fede è costituita dalla documentazione riguardante la fondazione di coloniae e la consacrazione di templa da parte dei Romani. In generale, tali documenti appaiono accurati e ciò riveste una certa importanza, poiché viene così fornito un metro per misurare i progressi militari di Roma, in quanto spesso venivano consacrati templi e fondate colonie in conseguenza di vittorie romane.

È quindi evidente che Livio ha tramandato numerosi dati storicamente certi. Al tempo stesso, però, vi ha anche mescolato una certa quantità di invenzioni. A parte la sua inclinazione a ricamare sulla vicenda, trasformando ciò che avrebbe potuto essere un racconto sobrio in una saga eroica[30], egli ha ripetuto molti sfrenati voli di fantasia dei suoi predecessori. Gli storici romani non seppero mai resistere alla tentazione di magnificare le imprese della loro nazione o della loro famiglia, o di entrambe, e ciò vale per i più antichi come per i più tardi, per Fabio Pittore come per Valerio Anziate[31].

L’umiliazione delle Forche Caudine. Illustrazione di S. Ó Brógáin.

C’erano però delle differenze di grado. Più antico era lo scrittore, più è probabile che si mantenesse entro certi limiti e ponesse qualche freno all’immaginazione “patriottica”. Fabio Pittore e altri a lui vicini nel tempo, pur essendo tutt’altro che fedeli ai fatti, sembrano aver descritto episodi definiti ed essersi mossi in un ambito relativamente ristretto, che non lasciava loro molto spazio per invenzioni su vasta scala: erano non exornatores sed tantummodo narratores[32]. È chiaro che il grado di alterazione nei loro testi doveva essere inferiore a quello dei resoconti annuali dei cosiddetti “Vecchi Annalisti”, come Calpurnio Pisone e Cassio Emina, dell’età dei Gracchi[33]. Eppure, anche questi furono modelli di sobrietà in confronto agli scrittori dell’età di Silla, una o due generazioni più tardi, quei famigerati “Nuovi Annalisti”, come Valerio Anziate e Claudio Quadrigario[34]. Alcuni di essi scrissero così copiosamente da avere spazio illimitato per esagerare o inventare quasi a piacimento singoli episodi da attribuire ai loro personaggi favoriti (ma va detto che, al tempo di Cicerone, le eccessive esagerazioni non erano più di moda!). Quanto Livio si sia servito dei “Nuovi Annalisti” e quanto da essi dipendesse sono dati così universalmente noti da non aver bisogno di dimostrazione[35] ed è opportuno esaminare le conseguenze per ciò che riguarda la sua narrazione delle guerre sannitiche.

Gli scrittori dell’età di Silla scrivevano al tempo della guerra sociale e di quella civile, a essa immediatamente successiva, ed erano così vicini a tali cruciali conflitti che le loro posizioni non possono non essere state influenzate. Fu proprio in quegli anni che i Sanniti imposero la pace alle loro condizioni nella guerra sociale e arrivarono a un passo dalla vittoria nella guerra civile, a Porta Collina. Era quindi inevitabile che essi vedessero le guerre sannitiche di più di due secoli prima alla luce di tali importanti eventi e che fossero certi che tanto i Romani quanto i Sanniti si fossero resi conto fin dal momento del loro primo scontro dal fatto che la posta in palio era il dominio sull’Italia e che, dunque, la lotta in cui erano coinvolti fosse di titaniche dimensioni[36]. Viste le circostanze, era inevitabile che i “Nuovi Annalisti” descrivessero le guerre sannitiche come una grande epica romana, per la quale non mancavano certo i modelli, sia greci sia latini: Nec id tamen ex illa erudita Graecorum copia sed ex librariolis Latinis[37]. Se non sentirono la necessità di alterare la struttura tradizionale, poterono però, all’interno di essa, dar libero corso al loro genio inventivo o alla loro inclinazione imitativa riguardo ai singoli dettagli[38]. Inventare o moltiplicare le vittorie dei Romani[39] e sopprimere o attenuare le sconfitte era per loro pratica sistematica, automaticamente applicata. Essi ravvivavano i loro racconti arricchendo la maggior parte degli avvenimenti, veri o inventati, di particolari pittoreschi, prolissi o assurdi. Il fatto che il periodo che descrivevano fosse remoto e il tenace conservativismo della nomenclatura dell’aristocrazia romana aiutavano e incoraggiavano ampiamente tali sconfinamenti nel mondo della fantasia.

I “Nuovi Annalisti” non si limitavano a dar libero corso all’immaginazione riguardo ai loro connazionali: erano anche inclini ad applicare la stessa tecnica, per così dire all’inverso, ai loro fortuiti e superficiali commenti sui popoli che Roma andava ininterrottamente sconfiggendo.

Se l’uso dello stesso nome ripetuto per generazioni in una famiglia romana rendeva possibile far risalire a uno dei suoi antichi membri imprese che più esattamente si sarebbero dovute attribuire a uno dei suoi discendenti, poteva sembrare del tutto giustificato adottare lo stesso procedimento riguardo ai Sanniti. Se le imprese sannitiche nella guerra sociale e in quella civile hanno influenzato l’interpretazione delle prime guerre sannitiche data dai “Nuovi Annalisti”, viene da chiedersi se anche la loro descrizione di particolari di queste ultime non sia stata adornata con episodi e personaggi tratti dalle prime. Per esempio, è stato spesso sottolineato che importanti figure sannitiche del IV secolo e degli inizi del III avevano nomi notevolmente simili a quelli dei condottieri del I secolo e alcuni studiosi sostengono addirittura che il primo gruppo altro non sia che un’anticipazione fantastica del secondo[40]. Simili metodi possono certamente venire spinti all’eccesso: per esempio, negare l’esistenza di Gavio Ponzio nel 321 solo perché un Ponzio Telesino fu al comando delle forze sannitiche nell’82[41] significa spingere lo scetticismo troppo lontano[42]. Il Churchill del XVIII secolo non è meno reale perché un Churchill governò l’Inghilterra nel XX[43].

Romani e Sanniti sanciscono la pace con cerimonia solenne. Illustrazione di R. Hook.

Comunque, è fin troppo probabile che i “Nuovi Annalisti”, quando parlavano sia dei Romani sia dei Sanniti del IV e III secolo, non fossero attendibili e sfortunatamente molto di ciò che essi scrissero è echeggiato nelle pagine di Livio. Benché cosciente della loro inattendibilità, egli attinse abbondantemente dai loro scritti, forse perché convinto, al pari di Plinio il Vecchio, che nessun libro sia così cattivo da non valere nulla[44]. Su alcuni punti, egli stesso apporta le necessarie modifiche, come nel caso della pace caudina del 321-316 o della sconfitta romana a Lautulae nel 315. In effetti, un’accurata lettura di Livio è tutt’altro che infruttuosa: spesso, dalle informazioni che egli fornisce è possibile ricostruire un racconto convincente e coerente.

Oltre a lui, vi sono alcuni scrittori che forniscono informazioni sulle tre guerre sannitiche, ma per servirsene è necessario impiegare la stessa cautela e prudenza da usarsi con Livio. In effetti, alcuni di essi, come Eutropio e Orosio, si limitano a riassumerne l’opera, mentre almeno uno, Floro, ne rappresenta un abbellimento, in quanto la sua narrazione, pur se essenzialmente liviana, si avvale di vari espedienti retorici per raggiungere risultati ancor più sensazionali[45]. I magri frammenti di informazioni sparsi nelle pagine di Dionigi di Alicarnasso, Cassio Dione e Appiano, gli isolati episodi menzionati da Plinio il Vecchio, Frontino e l’autore del De viris illustribus, e il materiale occasionalmente rintracciabile in alcune delle Vite di Plutarco, hanno caratteristiche simili a ciò che si può trovare in Livio ed è fin troppo probabile che abbiano avuto origine dalle opere dei “Nuovi Annalisti”.

E ciò vale probabilmente anche nel caso delle scarne notizie contenute in Diodoro, malgrado la diffusa opinione che esse proverrebbero da una fonte più antica. Diodoro ignora completamente la prima guerra sannitica e i primi otto anni della seconda, ma ciò non prova che egli non sapesse nulla in proposito[46]: nella sua scelta degli argomenti da menzionare egli è sempre piuttosto volubile, anche quando narra la storia della sua terra natale, la Sicilia[47]. Inoltre, la parte relativa alla terza guerra sannitica non ci è pervenuta, quindi possiamo realmente servirci di lui solo per ciò che concerne gli ultimi quattordici anni della seconda guerra sannitica. Riguardo a dodici di essi, egli fornisce succinte notizie sulle operazioni belliche, spesso diverse o complementari rispetto a quelle riportate da Livio, e vario è il grado d’importanza che è stato loro attribuito. L’estrema concisione della cronaca di Diodoro ha spinto molti studiosi a ritenere che egli si sia rifatto a una versione degli Annalisti di epoca graccana o dei saltuari storici di rango senatorio che li precedettero[48]: Niebuhr e Mommsen sostengono addirittura che la sua fonte fu lo stesso Fabio Pittore[49]. Perciò, Diodoro è spesso considerato più attendibile di tutti gli altri scrittori antichi per ciò che riguarda le guerre sannitiche.

Il fondamento di questa opinione non è evidente né convincente. Il fatto che il sistema cronologico di Diodoro fosse diverso da quello di Livio (sistema che, a sua volta, non era lo stesso di Varrone) non dimostra che esso fosse migliore o più antico[50], e il fatto che le sue affermazioni sul conto dei Romani fossero così trite non garantisce che derivassero da una fonte unica o particolarmente antica[51]. In effetti, Diodoro stesso rivela di essersi servito di una varietà di autorità antiche, e latine per giunta[52]. Sembra certo che fra esse ci sia stato almeno uno dei “Vecchi Annalisti” (Calpurnio Pisone)[53], ma è lecito ritenere che vi fossero anche alcuni “Nuovi Annalisti”[54].

Guerrieri sanniti. Affresco, IV secolo a.C. da una tomba a Nola. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Sulle sporadiche apparizioni dei Sanniti dopo le tre guerre sannitiche, possediamo frammenti d’informazioni provenienti da varie fonti. Il ruolo da essi svolto nella guerra contro Pirro può venir ricostruito mettendo insieme le rare notizie che troviamo in varie epitomi di Livio o Dione, o le allusioni disseminate nelle pagine di Plutarco, che costituiscono una fonte preziosa poiché egli ricalca originariamente Timeo, personaggio contemporaneo e interessato a quegli eventi. Qualche accenno al comportamento dei Sanniti durante la seconda guerra punica si può trarre dalle pagine di Polibio e di Livio: ma Polibio, come sempre, non sembra disposto a sprecare simpatia per un popolo non romano e i riferimenti di Livio sono nella migliore delle ipotesi incidentali rispetto al filone principale del suo racconto. Egli è confuso e approssimativo quando accenna al contributo dato dai Sanniti alla sconfitta di Annibale, prevenuto e impreciso quando parla dell’aiuto e sostegno dato da costoro al nemico punico. Silio Italico è, almeno fino a Canne, molto più generoso nei loro confronti, ma sarebbe azzardato considerare le sue invenzioni poetiche come vera storia.

Dopo il 200 le vicende dei Sanniti vengono praticamente ignorate per più di un secolo. Essi riappaiono poi improvvisamente e svolgono un ruolo di primaria importanza nella guerra sociale e in quella civile, all’inizio del I secolo. Sfortunatamente, su queste due fondamentali lotte le fonti antiche sono frammentarie e scarse. La cronaca della guerra marsica, composta in greco da Lucullo, che vi aveva preso parte attivamente, non ci è pervenuta; stessa sorte è toccata all’opera del suo molto apprezzato contemporaneo, Sisenna. Il più esteso resoconto pervenutoci è in Appiano, ma è molto diseguale. Malgrado ciò, è importante e lo sarebbe ancor di più se si potesse provare che esso si basa su di un autore italico. Un recente tentativo in questo senso non ha però incontrato consensi[55], e la maggior parte degli studiosi ammette che neanche da Appiano si possano ricavare informazioni attendibili sui Sanniti, proporzionate all’importanza del ruolo da essi svolto nella seconda decade del I secolo. Probabilmente ciò dipende dal fatto che la tradizione riguardante tale periodo si basa in buona sostanza sulle menzognere memorie di Silla, che non era certo uomo da rendere giustizia ai Sanniti.

Dopo l’82 i Sanniti spariscono totalmente dalla scena della storia e la loro uscita è tanto improvvisa quanto lo era stata la loro apparizione quasi tre secoli prima.


[1] Anche dopo che i Romani ebbero celebrato ventiquattro trionfi su di essi (Floro I 11, 8), i Sanniti erano ancora pronti a rinnovare la loro resistenza ogni volta che ne avessero l’occasione.

[2] Livio XXIII 42, 2; Orosio III 8, 1; III 22, 12.

[3] Le Untersuchungen zur Geschichte der Samniten di B. Kaiser (Pforta 1907) non sono andate oltre il vol. I.

[4] Proprio nel periodo delle guerre sannitiche la storia romana acquista un aspetto di vitale realtà. Certamente Roma deve aver avuto una qualche forma di documentazione fin dal IV secolo: gli scrittori greci del tempo non avrebbero definito «città ellenica» una società illetterata (Eraclide Pontico in Plutarco, Vita di Camillo 22, 2; Demetrio Poliorcete in Strabone V 3, 5, p. 232).

[5] Per esempio, Filisto in Stefano di Bisanzio, s.v. Mystia, Tyrseta; Pseudo-Scilace, Periplo 15.

[6] Römische Adelsfamilien, p. 46; cfr. p. 66; si vedano anche passi come Livio XXXIII 20, 13; XLI 25, 8.

[7] Anche Strabone si sofferma più di una volta sui popoli non romani, ma principalmente come geografo. Si vedano, inoltre, le osservazioni di E. Bickerman sulle origines gentium, in CPh 67 (1952), pp. 65-81.

[8] Egli era verboso e retorico e ci si chiede quanto attendibili sarebbero state le sue informazioni, se ne fossero rimaste in maggior quantità. La cifra da lui menzionata di 15.000 Romani caduti a Eraclea non ispira certo fiducia: egli doveva sapere che, secondo Geronimo di Cardia, vivente al tempo della battaglia, i morti erano stati 7000 (Plutarco, Vita di Pirro 17, 4).

[9] Antioco di Siracusa, contemporaneo di Tucidide, faceva riferimento a Roma (Dionigi di Alicarnasso I 73, 4); Aristotele alludeva al sacco della città da parte dei Celti (Plutarco, Vita di Camillo 22, 3); e Teopompo se non altro menzionava Roma (fr. 317 Jacoby). Cfr. inoltre Dionigi di Alicarnasso I 72 ed E. Wikén, Die Kunde der Hellenen, passim.

[10] Sembra che ogni collegio sacerdotale conservasse i suoi fasti (CIL I 1976-2010). Quelli dei pontefici erano molto antichi (Dionigi di Alicarnasso III 36; cfr. V 1) e alcuni sopravvissero al sacco dei Galli, come si desume da Livio (VI 1, 10, VI 1, 2). Una famosa emendazione del De legibus I 2, 6, vorrebbe che Cicerone definisse «scarne» queste cronache dei pontefici; egli, tuttavia, si riferisce allo stile più che al contenuto. In realtà, le tabulae contenevano una grande quantità di informazioni: menzionavano carestie di grano ed eclissi di sole e di luna, secondo Catone (Aulo Gellio II 28, 6; cfr. Dionigi di Alicarnasso I 74) e probabilmente molto di più, se la lunghezza degli Annales maximi è significativa. Gli Annales erano in 80 libri: in altre parole, più estesi dell’opera di Livio (si veda Cicerone, De oratore II 52; Festo, p. 113 Lindsay; Macrobio III 2, 17; Servio, Ad Aeneidem I 373; cfr. Livio I 31, 32, 60, e, in particolare, Sempronio Asellione, fr. 2 Peter). Presumibilmente, le tabulae pontificum compilate durante le guerre sannitiche (vale a dire, dopo il sacco di Roma da parte dei Galli) si conservarono intatte fino ai tempi in cui si cominciò a scrivere storia e almeno dalla guerra di Pirro in poi furono redatte secondo un preciso ordine cronologico (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186). Il materiale contenuto nelle cronache dei sacerdoti poteva essere integrato con quello fornito da ballate popolari ed elementi di folclore, cui fanno allusione numerosi scrittori antichi (Varrone in Nonio, p. 77; Livio II 61, 9; Orazio, Carmina IV 15, 29-32; Dionigi di Alicarnasso I 79, 10; VIII 62, 3; Valerio Massimo II 1, 10; Plutarco, Vita di Numa 5, 3).

[11] Gli Annales maximi erano tutt’altro che succinti (si veda la nota precedente). Dovevano essere infarciti di abbondante materiale inventato. Dei due particolari che si sa per certo che vi erano riferiti, uno è un’evidente falsificazione (è un verso di poesia presentato come un verso popolare latino, ma, in realtà, semplicemente una traduzione da Esiodo: Aulo Gellio IV 5, 6). L’altro è probabilmente autentico: si tratta di un’eclissi di sole (5 giugno, circa 350 A.U.C.) menzionata da Ennio, che l’aveva trovata nelle cronache dei pontefici (Cicerone, De re publica I 25). Ennio, tuttavia, al pari di Catone (fr. 77 Peter) si servì delle cronache dei pontefici prima che venissero rielaborate, e contaminate, come Annales maximi. Non è facile identificare le aggiunte fittizie degli Annales maximi, ma la saga di Camillo, certamente più tarda di Fabio Pittore, è quasi di sicuro una di esse (M. Sordi, I rapporti romano-ceriti, p. 46).

[12] La versione tradizionale sembra confermata dagli scarsi frammenti di scrittori greci che ci sono pervenuti.

[13] Cfr. in particolare M. Gelzer in Hermes 68 (1933), pp. 129-166.

[14] Non avrebbero certo potuto passare sotto silenzio i Sanniti quando descrivevano le attività dei vari condottieri mercenari di Taranto (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 98; Plutarco, Agesilao 3; Lico, fr. 1, 2, in Müller, FHG II, p. 371). Sappiamo che Teopompo mostrò scarso interesse per i Romani (Plinio il Vecchio, Naturalis historia III 57). Geronimo, invece, non li trascurava (Dionigi di Alicarnasso I 6, 1).

[15] È per lo più impossibile, tuttavia, stabilire quali elementi risalgano alle tabulae pontificum e quali siano raccolti da archivi familiari o da altre fonti. Tiberio Corucanio, console nel 280, era certamente uno degli eroi che comparivano nelle cronache sacerdotali (Cicerone, Brutus 14, 55). Non abbiamo notizie precise sui Libri magistratuum di Gaio Tuditano (Macrobio I 13, 21) né sui Libri lintei a cui attinse Licinio Macro (Livio IV 1, 2; IV 20, 8; IV 23, 2; cfr. Dionigi di Alicarnasso XI 62, 3; R.M. Ogilvie in JRS 48 [1958], pp. 40-56).

[16] Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 7; Cicerone, Brutus 16, 62; Livio VIII 40; Plutarco, Vita di Numa 1 (dove cita un certo Clodio). Viene da chiedersi se le grandi famiglie plebee, una volta ottenuta l’uguaglianza politica, non si siano date a fabbricare archivi per gareggiare con i loro rivali patrizi.

[17] Appio Claudio Cieco, il famoso censore del 312, era, secondo Cicerone (Tusculanae disputationes IV 1, 4), un uomo di lettere ed evidentemente narrò i suoi successi nella guerra sannitica: in quella circostanza egli dedicò un tempio a Bellona (Livio X 19, 17), che sappiamo era adornato da scudi che esaltavano le imprese dei Claudii (Plinio il Vecchio, Naturalis historia XXXV 12; deve riferirsi all’anno 312 e non al 495). Generali di epoche successive che descrissero le proprie operazioni (in lettere, dobbiamo riconoscere) furono Scipione Africano (a Nova Carthago: Polibio X 9, 3) e Scipione Nasica (a Pydna: Plutarco, Vita di Emilio Paolo 15, 3).

[18] Viene subito in mente il caso di Fulvio Nobiliore e di Ennio.

[19] Livio VIII 22, 2; VIII 37, 8; Valerio Massimo VIII 1, 7; Plutarco, Quaestiones Romanae 54, 59; Polibio XXXIX 1, 4; Plinio il Vecchio, Naturalis historia XI 186; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, Books I-V, Oxford 1965, pp. 12-16.

[20] Cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951, per gli anni 431, 332, 304, 221, 150, 141.

[21] Cfr. Dionigi di Alicarnasso III 36, 4; A. Schwegler, Römische Geschichte, I, pp. 24 s.; F. Münzer, RE XVIII (1949), s.v. Papirius, nn. 1-5, coll. 1005-1006.

[22] Livio X 17, 11-12 (= 296); X 22, 1-2 (= 295); XXIII 22, 8 (= 216); XXVIII 45, 2 (= 205). Tre Fabii furono consecutivamente pontifices maximi, coprendo un arco di tempo pari quasi all’intero periodo delle guerre sannitiche: essi furono quindi in una posizione ideale per falsificare la documentazione.

[23] Cfr., per esempio, Livio IX 42, 3; X 15, 2; X 18, 7; X 19, 2-3; X 23, 4; X 30, 7; e cfr. CIL I², Elogia X, p. 192. Il fatto che i Postumii fossero sfortunatamente coinvolti più tardi, durante l’età repubblicana, in alcune disfatte romane, per esempio nella silva Litana (Polibio III 118, 6; Livio XXIII 24, 6; Frontino I 6, 4), nella guerra giugurtina (Sallustio, De bello Iugurthino 38) e nella guerra sociale (Livio, Periochae 72, 75), rafforzò l’immagine negativa creata dal disastro delle Forche Caudine.

[24] Per il periodo della prima e della seconda guerra sannitica, nei Fasti triumphali sono registrate solo tre dittature, mentre Livio ne menziona quasi trenta (F. Cornelius, Untersuchungen, p. 36).

[25] Nel periodo delle guerre sannitiche, per esempio, i consolati ripetuti di solito sono divisi da un intervallo di tempo ragionevole, e sembrano plausibili (prima del 343 si succedevano spesso a intervalli molto brevi: il che, però, era forse inevitabile, quando i consoli provenivano soltanto dalle poche famiglie patrizie).

[26] Fra i consoli che si ammalarono, citiamo Lucio Furio Camillo nel 325 (Livio VIII 29, 8), Publio Decio Mure nel 312 (Livio IX 29, 3), Tito Manlio Torquato nel 299 (egli morì: Livio X 11, 1) e Lucio Postumio Megello nel 294 (Livio X 32, 3).

[27] Plinio il Vecchio, Naturalis historia VIII 11. Viene però da chiedersi se Catone non sia stato il principale autore di molte delle leggende che si andarono creando attorno a grandi eroi plebei, quali Manio Curio Dentato e Gaio Fabrizio Luscino, che egli ammirava molto (Cicerone, Cato maior 15, 15; De re publica III 28, 40; Plutarco, Vita di Catone il Vecchio 2).

[28] Talvolta il dilemma di Livio riflette probabilmente, più che le rivalità fra famiglie, la lotta fra gli ordini: secondo le preferenze dell’annalista, la stessa vittoria veniva attribuita al console patrizio o a quello plebeo.

[29] I “Nuovi Annalisti” non conoscevano i Fasti nella loro forma attuale, che sembra in buona parte il frutto delle ricerche di Varrone. La loro narrazione sarebbe stata probabilmente più sobria, se fossero stati a conoscenza della sua ricostruzione.

[30] L’atteggiamento di Livio si può dedurre dalle sue stesse parole (X 31, 15): Quinam sit ille quem pigeat longinquitatis bellorum scribendo legendoque quae gerentes non fatigaverint? Per alleviare la noia si poteva ricorrere all’aggiunta di particolari pittoreschi, tanto più che quello delle guerre sannitiche fu comunque il vero periodo di grandezza della storia romana: Illa aetate quae nulla virtutum feracior fuit (IX 16, 19).

[31] Si vedano le osservazioni di A. Alföldi, Early Rome and the Latins, pp. 123-175.

[32] Si veda Cicerone, De oratore II 54. Livio menziona Fabio Pittore (VIII 30, 9; X 37, 14), ma ciò non prova che egli se ne sia servito direttamente.

[33] Fabio Pittore non viene di solito incluso fra i “Vecchi Annalisti”, benché non sia certo che egli non abbia impiegato il metodo annalistico. Livio non fa menzione di Cassio Emina, ma cita Calpurnio Pisone (IX 44, 3; X 9, 12). Di quest’ultimo si servì anche Diodoro, a giudicare dal fatto che egli non registra nessun evento per l’anno 307 della cronologia varroniana (tale anno fu omesso da Pisone: Livio IX 44, 3). Almeno uno dei “Vecchi Annalisti”, Gneo Gellio, sembra aver scritto in modo trascurato e prolisso (Dionigi di Alicarnasso VI 11, 2; VII 1, 4).

[34] Gli Annales di Calpurnio Pisone erano «scritti in stile arido» (exiliter scriptos): Cicerone, Brutus 27, 106.

[35] Non che egli li nomini di frequente nella sua narrazione delle guerre sannitiche: Elio Tuberone (X 9, 10), Claudio Quadrigario (VIII 19, 3; IX 5, 2; X 37, 13), Licinio Macro (VII 9, 4; IX 38, 16; IX 46, 4; X 9, 10); ma cita spesso quidam auctores, espressione con cui si ritiene venga indicato di solito Valerio Anziate. E, inoltre, sembra che anche Tuberone si sia servito di quest’ultimo. Cfr. A. Klotz, Livius und seine Vorgänger, pp. 201-297; R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, p. 5.

[36] Le guerre sannitiche sono viste in questa luce da Cicerone (De officiis I 38), Livio (VIII 23, 9; X 16, 7), Diodoro (XIX 101, 7; XX 80, 3), Dionigi di Alicarnasso (XVII-XVIII 3) e Appiano (Storia sannitica IV 1, 5).

[37] Cicerone, De legibus I 2, 7 (a proposito di Licinio Macro).

[38] Concessum est rhetoribus ementiri in historiciis ut aliquid dicere possint argutius (Cicerone, Brutus 11, 42, forse, però, detto ironicamente). Gli storici ellenistici potevano fornire il materiale con cui gli scrittori romani del tardo I secolo abbellirono le loro narrazioni delle guerre sannitiche: per esempio, il paragone tra Fabrizio e Aristide (Cicerone, De officiis III 87), la morte di Aulio Cerretano (Livio IX 22, 7-10; cfr. Diodoro XVII 20, 21, 34), la dissertazione sui Romani che potevano rivaleggiare con Alessandro Magno (Livio IX 17-18).

[39] Si noti l’allusione a falsi triumphi in Cicerone, Brutus 16, 62.

[40] Il Papio Brutulo del 323 (VIII 39, 12) deve senz’altro essere stato inventato sul modello del Papio Mutilo, famoso durante la guerra sociale.

[41] Ponzio Telesino, generale della guerra civile nell’82, si vantava di discendere dall’eroe della seconda guerra sannitica, Gavio Ponzio (Scholia Bernensia a Lucano II 137, p. 59). I Pontii vivevano certamente a Telesia (ILS 6510) e alcuni scrittori antichi attribuiscono effettivamente a Gavio Ponzio il cognomen Telesino (Eutropio X 17, 2; Ampelio 20, 10; 28, 2; De viris illustribus 30, 1).

[42] La disfatta romana alle Forche Caudine non era un’invenzione. A parte il fatto che è molto improbabile che gli storici romani inventassero una tale storia (o la diffondessero), la rovina politica che travolse le famiglie dei consoli implicati basta a garantire l’autenticità dell’evento (dopo il 321 i plebei Veturi Calvini non ricompaiono più nei Fasti consulares, mentre bisogna arrivare al 242 per vedervi riapparire un Postumio Albino). Naturalmente questo non prova che Ponzio fosse il generale sannita vittorioso, ma è significativo che egli fosse un Sannita delle cui personalità i Romani avevano un concetto molto chiaro (cfr., per esempio, Cicerone, De officiis II 75).

[43] Sulle genealogie familiari, cfr. Cicerone, Orator 34, 120; Cornelio Nepote, Vita di Attico 19, 1-2.

[44] Plinio il Giovane, Epistulae III 5, 10.

[45] Cfr. P. Zancan, Floro e Livio, passim.

[46] Egli doveva ovviamente essere a conoscenza degli eventi occorsi nei primi otto anni della seconda guerra sannitica, che includevano il non certo trascurabile episodio delle Forche Caudine (XIX 10, 1).

[47] Presumibilmente egli scelse degli avvenimenti che riteneva potessero interessare di più i lettori greci.

[48] Cfr., per esempio, A. Schwegler, Römische Geschichte, II, pp. 22-23.

[49] B.G. Niebuhr, Römische Geschichte, II, p. 192; T. Mommsen, Römische Chronologie, Berlin 1859², pp. 125-126, e Römische Forschungen, II, pp. 221-296; la fonte di Diodoro avrebbe compreso i cosiddetti “anni dittatoriali”: A. Klotz in RhM 86 (1937), p. 207.

[50] Cfr. G. Costa in A&R 12 (1909), pp. 185-189, e, più recente e più sobrio, G. Perl, Diodors römische Jahrzählung, p. 161.

[51] Può darsi, ovviamente, che egli si sia servito di materiale tratto dai primi storici romani, ma, del resto, Livio fece altrettanto.

[52] Diodoro I 4, 4; cfr. anche XI 53, 6. È senz’altro possibile che la sua abitudine di chiamare l’Italia sudorientale Apulia (XIX 65, 7) oltre che Iapygia (XIV 117, 1; XX 35, 2; XX 80, 1) derivi dal fatto che egli si serviva di più di una fonte. Il nome che egli utilizza per i Sanniti, Σαμνίτες (XVI 45, 8; XIX 10, 1; XIX 65, 7, ecc.), rimanda anch’esso a una fonte latina.

[53] Calpurnio Pisone tralasciava l’anno 307 della cronologia varroniana (Livio IX 44, 3); Diodoro (XX 45, 1) non registra nessun evento della storia romana per quell’anno.

[54] La sua errata descrizione del comportamento di Fregellae durante la seconda guerra sannitica (XIX 101, 15) si spiega con gli eventi verificatisi in quella città nel 125.

[55] E. Gabba, Appiano e la Storia delle guerre civili, Firenze 1956. Ma non c’è dubbio che la fonte di Appiano si interessasse della questione italica e fosse ben informata in proposito.

Il paesaggio funerario a Roma tra il III e il I secolo a.C.

di C. VALERI, in I giorni di Roma. L’età della conquista, a cura di E. LA ROCCA, C. PARISI PRESICCE, A. LO MONACO, Milano 2010, pp. 137-147.

Rigorose disposizioni di legge vietavano a Roma di seppellire i morti in città; le necropoli si sviluppavano perciò all’esterno dei limiti cittadini, e cioè, in pratica, oltre le mura urbiche. In queste pagine esamineremo rapidamente il paesaggio attorno alle mura della città di Roma nei secoli compresi tra il III e il I secolo a.C., con qualche citazione di altri centri che hanno restituito testimonianze importanti; una disamina dunque delle tipologie monumentali utilizzate in questo periodo, una panoramica delle architetture funerarie e delle loro decorazioni che, inevitabilmente, prende in esame le costumanze di un limitato ceto sociale. In realtà, ci occuperemo delle modalità di sepoltura di coloro che erano in grado di impiegare cospicue sostanze per perpetuare la propria memoria, e quella della gens di appartenenza, attraverso la costruzione di edifici funerari più o meno scenografici e comunque duraturi. È stato giustamente rilevato come la parola monumenta, abitualmente utilizzata dagli scrittori latini per indicare gli edifici sepolcrali, abbia attinenza con il verbo greco mnēmoneúō, a suggerire quanto la loro natura sia correlata con la volontà, da parte del defunto, non solo di tramandare ai posteri il ricordo di sé, ma anche di esaltare attraverso la monumentalità dei sepolcri, la grandezza e la continuità della famiglia, celebrandone le virtù e soprattutto il ruolo sociale ed economico rivestito in seno alla società del tempo.

Mausoleo dei Cornelii Scipiones, III-II secolo a.C. sulla via Appia.

Ma i più potevano permettersi solo modeste inumazioni in fosse terragne o una deposizione dei resti incinerati in cassette di legno, in ceste di vimini, con, al massimo, il lusso di una stele di pietra che, sorgendo dal suolo, ne segnalasse la sepoltura. Testimonianze queste assai poco durevoli che, in gran parte, non possiamo più cogliere ed è provato anche da studi recenti che la percentuale di tali sepolture costituiva la quasi totalità nelle necropoli romane, con un rapporto che, nelle città più ricche, possiamo calcolare nella percentuale di uno a sette.

A Roma, così come in gran parte del mondo antico, i monumenti funerari erano raggruppati al di fuori delle porte urbiche, a comporre agglomerati allineati per lo più lungo le principali vie di accesso alla città, in posizioni di visibilità massima. Si ritiene generalmente che, fino al III secolo a.C., le tombe «si distribuivano irregolarmente sul territorio, forse sulle proprietà dei loro committenti, e prevalevano le sepolture ipogee o le camere sotterranee senza grandi monumenti in alzato» (von Hesberg); l’autorappresentazione familiare, che a Roma, fin dai tempi più remoti, si estrinsecava nella celebrazione del funerale, come impressivamente tramandatoci da Polibio (VI 53), non sembra aver assunto, almeno fino agli inizi del III secolo a.C., una vera e propria espressione monumentale. Nel corso del IV secolo a.C. sembra attenuarsi l’osservanza delle rigide leggi suntuarie che, codificate nelle XII Tavole, avevano influenzato il carattere delle sepolture nel secolo precedente. Una testimonianza in questo senso può essere riconosciuta nei resti dei corredi pertinenti a tombe ritrovate sul Celio, in via Santo Stefano Rotondo. Si tratta di piccole camere scavate nel banco tufaceo, dalla forma rettangolare, entro cui sono stati ritrovati, in condizioni più o meno frammentarie, sarcofagi in peperino privi di decorazioni, tra i quali uno di dimensioni decisamente monumentali; sulle casse dovevano essere dipinti tituli almeno con in nomi dei defunti. Il rango aristocratico degli ignoti proprietari del sepolcro è testimoniato dal corredo ritrovato all’interno del sarcofago più grande e da alcune raffinate terrecotte con evidenti tracce di policromia, sfuggite fortunosamente al saccheggio, con ogni probabilità appliques decorative di un qualche oggetto ligneo: databili negli anni finali del IV secolo a.C., raffigurano geni alati caratterizzati da un’impostazione monumentale della figura, un busto femminile emergente da una foglia di acanto e, in un chiaro simbolismo di salvazione ultraterrena, quadrighe che, condotte da nikai, solcano le acque marine fantasticamente simboleggiate da un tritone con doppia coda anguiforme.

Ricostruzione assiometrica del Mausoleo degli Scipioni (in F. COARELLI, Rom – Ein archäologischer Führer. Neubearbeitung von Ada Gabucci. Zabern, Mainz 2000)

A Roma le prime testimonianze archeologiche certe di sepolcri gentilizi risalgono al IV secolo a.C.: si tratta di tombe a camera scavate per lo più nella roccia e formate da uno o più ambienti collegati da gallerie, come nel caso del sepolcro dei Cornelii, intercettato negli anni cinquanta del secolo scorso durante la costruzione di un cavalcavia su via Marco Polo. Non è più ben percepibile l’aspetto originario della tomba, ricavata nel pendio tufaceo che scende verso la valle del fiume Almone, a una certa distanza dalle mura serviane, nei pressi di un importante asse viario: costruita forse già nella prima metà del IV secolo a.C., ebbe un periodo di utilizzo che non è possibile determinare, ma che comunque copre tutto il secolo, mentre è invece certo che nel I secolo d.C. il monumento non era più in funzione. L’ingresso alla tomba non è stato rintracciato, ma piuttosto che un semplice accesso nel banco di roccia si può ipotizzare una facciata con un paramento di blocchi di pietra squadrati, come nel sepolcro dei Furii a Tusculum, databile al IV secolo, quando la città ricevette la cittadinanza romana. Tra i materiali ritrovati durante  gli scavi della tomba dei Cornelii spiccano il coperchio di un sarcofago appartenuto a un Cornelio Cn(aei) f(ilius) e la cassa del sarcofago del pontefice massimo P. Cornelius Scapola, entrambi conservati nei Musei Capitolini (ora Centrale Montemartini). Il coperchio in peperino è conformato a tetto displuviato con tegole e coppi e, su ciascun lato, compaiono sei antefisse decorate da motivo vegetale; sul geison corre un fregio costituito da palmette, boccioli e fiori di loto, mentre le testate sono veri e propri frontoncini con un acroterio a disco sovrastante due ippocampi, affrontati ai lati di un grande fiore a campanula. I confronti di tali elementi decorativi con materiali provenienti dall’Etruria e dalle città laziali, in modo particolare Palestrina, hanno indirizzato verso una datazione intorno alla metà del IV secolo a.C. Il sarcofago di Scapola era realizzato in una pietra bianca travertinoide e, in antico, doveva essere interrato per circa venticinque centimetri, l’unica decorazione è rappresentata da due paraste rastremate verso l’alto che, sormontate da capitelli ionici, incorniciano lateralmente la fronte della cassa entro cui compare inciso il nome del defunto, forse da identificare con Publio Cornelio Scapola, console nel 328 a.C.

È stato più volte sottolineato come la costruzione della via Appia nel 312 a.C. abbia determinato l’ubicazione dei monumenti funerari di alcune delle più eminenti famiglie aristocratiche di Roma, prima fra tutte quella dei Cornelii Scipiones, fautrici di una politica di espansione verso il Mezzogiorno ellenizzato, con cui probabilmente intrattenevano interessi di varia natura (Zevi); non sarà casuale, pertanto, che altre importanti gentes dell’epoca (Metelli, Servilii, Atilii) avessero eretto i loro monumenti sepolcrali nella medesima zona (Cicerone, Tuscolanae, I 7, 13). Come informano alcune fonti letterarie, in particolare Cicerone e Livio, il sepolcro dei Corneli Scipiones sorgeva fuori la Porta Capena e, fin dal 1614, ne furono individuati i resti in una vigna sulla sinistra delle via Appia, lungo un diverticolo che la collegava con la via Latina. Nel 1780 i fratelli Sassi, proprietari della vigna, “riscoprirono” il monumento e condussero scavi purtroppo devastanti: in pochi mesi l’area venne indagata, recuperando il corredo epigrafico che ancora si conservava, ma in molti casi distruggendo sarcofagi intatti, disperdendo i resti ossei e altri oggetti mobili, nonché alterando fortemente anche l’aspetto delle cripte. Nel 1880 il monumento divenne proprietà dello Stato e durante gli anni venti del Novecento fu interessato da un profondo intervento di scavo e restauro guidato da A.M. Colini; in seguito a tali indagini Italo Gismondi approntò una documentazione grafica che, a tutt’oggi, rimane lo strumento di studio più attendibile.

Per una descrizione del sepolcro possiamo ricorrere alle parole di Antonio Nibby: «Ivi [lungo la via Appia, n.d.r.] forse era un predio avito della famiglia la quale profittando della rupe tufacea del colle aprì una specie di latomia, e dopo aver estratto le pietre formò in questa il sepolcro […]. Questa latomia aveva una certa regolarità, poiché riducevasi a un quadrato la cui volta naturale era retta da quattro enormi piloni: più larga era la via in mezzo, come quella per la quale introducevansi i sarcofagi…» (Roma nell’anno 1838, pp. 563 sgg.). In effetti la planimetria del monumento appare di forma quasi quadrata, pari all’incirca a 14,50 metri di larghezza per 13,50 metri di lunghezza, articolata all’interno in diversi settori individuati dai quattro pilastri risparmiati nella roccia e che hanno la funzione di sostenere la volta; risultano così quattro gallerie perimetrali ai lati e due che si incrociano ortogonalmente al centro. Successiva appare invece la costruzione di un’ulteriore galleria, così riteneva anche Nibby, sulla quale torneremo più avanti.

L. Cornelio Silla. Busto, marmo, I sec. d.C. München, Glyptothek.

Dalla camera ipogea provengono i materiali più antichi e le iscrizioni di età repubblicana conservateci corrispondono a nove deposizioni, di certo un’esigua parte rispetto a quella originariamente lì contenuta: è stato calcolato infatti che tra frammenti ancora in situ e tracce delle nicchie destinate a contenerne altri, dovevano trovarvi posto non meno di trentadue o trentatré sarcofagi (Coarelli). Il sarcofago qualitativamente più nobile, quello di L. Cornelius Scipio Barbatus, console nel 298 a.C., vincitore dei Sanniti e morto con ogni probabilità negli anni settanta del III secolo a.C., fu ritrovato nel 1780 ancora collocato nella sua nicchia al centro della parete di fondo, perfettamente in asse con l’ingresso antico. L’imponente arca in peperino ha la foggia di un grande altare; il coperchio è decorato lateralmente da pulvini desinenti in foglie acantiformi, mentre la cassa presenta in alto un coronamento di tipo architettonico con una cornice a dentelli e un fregio dorico con triglifi e metope decorate da rosette. Rispetto ai sarcofagi del sepolcro dei Cornelii, di poco anteriori, pienamente rispondenti alla tradizione etrusco-laziale del sarcofago a forma di casa, quello del Barbato allude nella foggia e nelle decorazioni agli altari greci, in particolare sicelioti. Il titulus in versi saturni del fondatore del sepolcro, inciso sulla fronte della cassa, recita: «Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Gneo, uomo forte e sapiente, il cui aspetto fu in tutto pari al valore, fu console, censore, edile presso di voi. Prese Taurasia e Cisauna nel Sannio, assoggettò tutta la Lucania e ne portò via ostaggi». L’elogio attribuito al capostipite della gens, al quale spetta di diritto il rango eroico, rivela un’allusione a un modello greco per cui la bellezza fisica eguaglia il valore (quoius forma virtutei parisuma fuit); tuttavia la grafia non sembra compatibile con la data della morte del Barbato ed è stato dunque ipotizzato che l’iscrizione sulla cassa, con versi forse in parte ripresi dalla laudatio funebris del personaggio, sia stata incisa solo verso la fine del III secolo. Le sepolture più antiche, quelle di Scipione Barbato e del figlio, sono caratterizzate da sarcofagi monolitici in peperino, le altre più recenti, che appaiono per lo più formate da spesse lastre di tufo dell’Aniene, erano state disposte intorno alla nicchia che ospitava la monumentale disposizione, praticando anche ulteriori cavità nel banco di cappellaccio. Da questa camera ipogea proviene anche il cosiddetto Ennio, una testa in tufo dell’Aniene conservata anch’essa nei Musei Vaticani: probabilmente appartenente a una statua databile verso la metà del II secolo a.C., serba l’effige di un membro della gens, forse un vir triumphalis, per la presenza di una corona di alloro, o, più semplicemente, un giovane Scipione eroizzato post mortem. Per la testa è stata anche proposta la pertinenza a un coperchio di sarcofago con figura giacente, sul modello di quelli etruschi, ma non vi sono altri confronti nel panorama romano contemporaneo e sembra difficile poter ipotizzare la presenza di sarcofagi di questo tipo accanto al monumentale sarcofago-ara di Barbato, che invece, nella tipologia e negli elementi decorativi, esprime chiari accenti greci assunti per il tramite delle colonie d’Italia.

Sarcofago di L. Cornelio Scipione Barbato con iscrizione (ILLRP, 309 Degrassi = ILS, I, 1 Dessau). Nefro, III sec. a.C. Mausoleo degli Scipioni sulla Via Appia.

Intorno alla metà del II secolo a.C. la più antica camera ipogea appariva ormai satura e per questo dovette essere approntata una nuova galleria sul lato verso la via Appia. Sembra possibile ascrivere l’ampliamento del monumento al tempo di Scipione Emiliano che avrebbe provveduto anche alla realizzazione di una facciata architettonica: è in questo momento forse che il sepolcro, sorta di sacrario delle memorie di famiglia, diventa accessibile al pubblico; lo era di certo all’epoca di Cicerone che lo visitò. Nell’alto podio in blocchi di tufo di Grotta Oscura si aprivano gli ingressi al sepolcro, i cui archi erano realizzati in tufo dell’Aniene; al di sopra sorgeva un prospetto in peperino scandito da semicolonne scanalate, ioniche o corinzie, su basi di tipo attico che determinavano una ripartizione della facciata, forse inquadrando nicchie entro le quali alcuni hanno immaginato di poter collocare le statue citate da Livio (XXXVIII 56, 1-4) e raffiguranti Scipione Africano, Scipione Asiatico e il poeta Ennio; quest’ultima era certamente ex marmore (Cicerone, Pro Archia, 22) e dunque si immaginano in marmo, a maggior ragione, anche le altre due. L’identificazione dei ritratti citati dalle fonti è stata oggetto di molteplici dibattiti anche recenti e la proposta di riconoscere, nel cosiddetto Mario e nel cosiddetto Silla (entrambi nella Gliptoteca di Monaco), i due Scipiones ha da ultimo sollevato forti dubbi. Qualche discussione è sorta anche in merito alla loro attinenza al sepolcro. L’assai probabile relazione tra il Tempio delle Tempeste, eretto dal figlio di Scipione Barbato, e la tomba gentilizia fuori Porta Capena, ha indotto a supporre che le statue dei membri più rappresentativi della famiglia potessero essere collocate in sacelli o heroa non coincidenti con il sepolcro (La Rocca) nel quadro di un rapporto tra aedes e tomba familiare, altrimenti attestato nello stesso periodo sia per la gens dei Claudii (tempio di Bellona), sia dei Marcelli (tempio di Honos et Virtus). Va detto comunque che, nel caso degli Scipiones, le fonti (Cicerone utilizza la formula in sepulcro Scipionum e Livio in Scipionum monumento) sembrerebbero riferirsi proprio al monumento funerario. Comunque, poco dopo la metà del II secolo a.C., il sepolcro degli Scipiones veniva dotato di una sorta di scaenae frons che, con la sua monumentalizzazione architettonica di matrice greca (sono gli anni in cui artisti e architetti provenienti dal Mediterraneo orientale operano già da tempo nella città, e tra questi basti ricordare Ermodoro da Salamina attivo a Roma dal 146 almeno fino al 102 a.C.), si sovrappose alla decorazione pittorica del podio la quale, ancora in parte apprezzabile nel suo carattere di autentico “palinsesto”, rispondeva alla tradizione tipicamente romana della pittura storico-trionfale.

Ennio. Testa, tufo dell’Aniene, metà del II secolo a.C. ca. dal Mausoleo dei Cornelii Scipiones. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Una siffatta «trasposizione in linguaggio figurativo dei commentarii che descrivevano le campagne militari» (La Rocca), all’esterno della più antica facciata del sepolcro gentilizio, era funzionale all’affermazione pubblica dello status sociale dei defunti ivi deposti. I resti pittorici occupano una striscia lunga oltre otto metri e alta all’incirca due, si riconoscono almeno cinque strati di intonaco sui quali è possibile intravedere lacerti di raffigurazioni che riconducono a scene di trionfo e di sottomissione di vinti. La conservazione fortemente compromessa degli affreschi non permette di ricostruire pienamente i cicli narrativi, caratterizzati comunque nel complesso da una certa qualità pittorica con punte d’eccellenza in alcuni dettagli superstiti che, databili forse ancora nel III secolo a.C., raffigurano uno scudo e una corazza anatomica resa con raffinate lumeggiature. Certo è che l’antica facciata del sepolcro doveva ricevere continui aggiornamenti decorativi ogni qualvolta veniva lì sepolto un importante personaggio della famiglia, in particolare i viri triumphales, ossia coloro che avevano ricevuto l’onore del trionfo, il più grande concesso a un magistrato romano. La necessità di onorare la memoria dell’illustre defunto imponeva un rinnovamento  delle pitture destinate a evocarne le gesta, esaltando nel contempo, per riflesso, anche i membri viventi della gens, secondo un’ideologia che presiedeva anche alla pompa funebris, episodio centrale nella vita della città, utilizzato dalle famiglie della nobilitas repubblicana per ribadire, al cospetto della collettività, status sociale e ambizioni politiche. Ma se il funerale, pur nella sua impressiva e ideologicamente pregnante scenografia, era episodio destinato a venir dimenticato e a sparire dalla memoria collettiva, perduravano invece i sepolcri, con le loro decorazioni, ben visibili da quanti percorrevano le maggiori strade di accesso alla città.

L’uso di decorare le sepolture con pitture dai soggetti storico-trionfali è altresì attestato a Roma nella necropoli esquilina, e offre l’occasione per introdurre altre tipologie di tomba a camera. Com’è noto, l’area era occupata da un vasto e antichissimo sepolcreto che rimase in funzione fino al I secolo a.C. quando, per iniziativa di Mecenate, tutta la zona fu risanata e convertita ad uso residenziale con l’apprestamento dei celebri horti Maecenatiani. Il ritrovamento dei monumenti funerari medio-repubblicani che qui si vogliono citare avvenne tra il 1874 e il 1876, nei pressi delle chiese di Sant’Eusebio e di San Vito, e costituisce «uno degli episodi più oscuri dell’archeologia romana», inserito com’è nell’ambito dei frenetici e poderosi sbancamenti che, spianando colli e colmando valli – «come se l’estetica di una città moderna dipendesse dalla sua orizzontalità» (Lanciani) – procedevano di parti passo con le speculazioni edilizie postunitarie. Oltre agli ipogei a camera, scavati nel tufo con banconi ricavati nelle pareti e destinati a interi nuclei familiari, si evidenziano infatti alcuni “sepolcri singolari”, tombe a camera di pianta rettangolare di dimensioni ridotte, emergenti quasi totalmente dal terreno e destinate probabilmente a deposizioni individuali. L’eccezionalità di queste sepolture è comprovata dalla presenza, almeno in due casi, di decorazioni pittoriche nonché dalla loro ubicazione nella zona di massima visibilità della necropoli, subito fuori la Porta Esquilina, a nord della via Labicana, ossia nel campus Esquilinus. Questo luogo, riservato alle sepolture pubbliche, ospitava anche il lucus Libitinae, un santuario suburbano dedicato a (Venere) Libitina, divinità tutelare delle cerimonie funebri, nel cui tempio era custodito l’apparato necessario ai funerali solenni.

Planimetria dei ritrovamenti della Necropoli dell’Esquilino (di G. Pinza, 1907).

Risulta piuttosto complesso ricostruire il reale aspetto di questi monumenti, uno dei quali, rintracciato tra le odierne via Carlo Alberto e via Rattazzi, ha restituito un frammento di intonaco dipinto, vero e proprio incunabolo delle pittura romana. Due personaggi, indicati nel dipinto con i nomi di M. Fannius e di Q. Fabius, compaiono in scene organizzate su più registri sovrapposti: i due s’incontrano davanti alle mura di una città e al cospetto dell’esercito, nell’ultimo registro appaiono in combattimento, l’uno in toga e l’altro in armi. Molteplici sono state le ipotesi proposte: potrebbe trattarsi degli episodi conclusivi di una delle guerre sannitiche con la resa di Marco Fannio al generale Quinto Fabio Rulliano, console per cinque volte tra il 322 e il 295 a.C., o al di lui omonimo figlio Quinto Fabio Gurges, console nel 292 e nel 276 a.C. (Coarelli), interpretazione che non solo attribuirebbe le titolarità del sepolcro a uno dei due personaggi citati, ma che suggerirebbe un’attribuzione al celebre Fabio Pittore, perché nel 303 a.C. aveva affrescato la cella del tempio votato a Salus, da C. Iunius Bubulcus qualche anno prima, nel corso della seconda guerra sannitica. Altri ha invece pensato di riconoscere la consegna di una hasta pura, sempre nel quadro delle guerre sannitiche, da parte di Q. Fabius a M. Fannius, valoroso soldato che, appartenente a una gens plebea ufficialmente nota solo a partire dagli anni ottanta del II secolo a.C., si sarebbe distinto durante le campagne militari, meritando prima l’onore della massima onorificenza militare e poi quello della sepoltura pubblica (La Rocca). Al di là delle varie interpretazioni, l’affresco, pur nella sua immediatezza espressiva, mostra dipendenze da modelli ellenistici nella tecnica pittorica “a macchia” e nella ricchezza dei dettagli, resi tramite efficaci lumeggiature a pennello. Più dubbia è l’esatta collocazione della pittura nel sepolcro: le notizie purtroppo esigue accennerebbero a un ritrovamento all’esterno, ma nella storia degli studi il dato non sembra aver riscosso troppo credito.

Fregio storico. Affresco, 300-280 a.C., dalla Tomba dei Fabii (Necropoli dell’Esquilino). Roma, Centrale Montemartini.

Apparteneva di certo a un trionfatore il vicino sepolcro “Arieti” (dal nome del suo scopritore) che con quello dei Fabii condivide le vicende della scoperta; in questo caso soccorrono però una documentazione di scavo più circostanziata e un acquerello che, eseguito prima del distacco delle pitture, risulta fondamentale per ricostruire la sequenza. Rinvenuto all’angolo tra le odierne via Napoleone III e via Rattazzi, il sepolcro si presentava come una camera di pianta rettangolare costruita in blocchetti di peperino e dalle dimensioni molto simili a quelle della tomba dei Fabii (5,50 x 3 metri, contro i 5 x 3,50 metri, anche se ricostruzioni recenti darebbero misure maggiori); il pavimento era costituito da lastre di peperino, le pareti poggiavano su uno zoccolo modanato e, superiormente, presentavano un coronamento di lastre di peperino un poco aggettanti (circa sei centimetri). Secondo l’acquerello ottocentesco si riconosce una scena di combattimento con guerrieri a piedi e a cavallo, posta «sul muro esterno accanto alla porta d’ingresso della tomba» (Talamo), mentre all’interno si dovrebbe invece immaginare il frammento pittorico, forse situabile al lato della porta, con una figura maschile dalle braccia alzate realizzata con vivido espressionismo e di assai discussa interpretazione, una sorta di telamone (La Rocca) piuttosto che un condannato al supplizio negli inferi (Lanciani), o una crocifissione (Coarelli). Anche la più complessa scena del trionfo, purtroppo oggi in parte dispersa, viene immaginata all’interno e probabilmente si sviluppava su due pareti ad angolo, per una lunghezza di almeno 3,80 metri. La quadriga trionfale era preceduta da sei littori (se ne conservano oggi solo quattro per una lunghezza di 1,55 metri) con il fascio delle verghe, vestiti del sagum rosso: il numero dei littori ha fatto giustamente supporre che il titolare della tomba fosse un pretore. Lo stile pittorico è caratterizzato da un tratto rapido, piuttosto corsivo e con accenti quasi caricaturali, espressione di un pittore “popolare” della metà del II secolo a.C., erede di quel Teodoto ridicolizzato qualche decennio prima dal poeta Nevio perché sugli altari compitali dipingeva come con una coda di bue figure di Lari danzanti. Studi recenti suggeriscono la collocazione all’esterno almeno di parte delle pitture della tomba “Arieti”, elemento che contribuirebbe a conferire a queste tombe individuali il carattere di veri e propri heroa destinati a personaggi cui erano stati conferiti onori del tutto eccezionali.

L’attenzione per la decorazione esterna dei monumenti funerari conosce uno sviluppo tutto particolare nel corso del II secolo a.C. il rifacimento del sepolcro degli Scipiones non costituisce l’unico caso; basti pensare al sepolcro dei Claudii Marcelli, eretto per il conquistatore di Siracusa lungo la via Appia in prossimità del tempio di Virtus da lui stesso voluto, che, intorno alla metà del II secolo a.C., venne ornato con tre statue raffiguranti il console M. Claudius Marcellus, morto nel 148 a.C., suo padre, console nel 196 a.C., e il celebre nonno, fondatore del sepolcro, console per ben cinque volte. Tale intervento suggerisce effettivamente una tripartizione della facciata con una sistemazione simile a quella del sepolcro degli Scipiones, in accordo con il nuovo gusto architettonico di influenza greco-ellenistica.

Nel corso del II secolo tali ascendenze determinarono l’avvio di un nuovo sviluppo delle tipologie architettoniche dei monumenta funerari direttamente proporzionale alla decisa volontà di un’affermazione individuale e non più gentilizia da parte degli esponenti della classe dirigente romana. Il fenomeno va letto in relazione con lo sviluppo delle statue onorarie e non possiamo non pensare, al riguardo, alla notizia di Plinio (Naturalis Historia, XXXIV 31-32) circa l’affollamento di statue nel Foro, tale da provocare l’intervento dei censori Publio Cornelio Scipione e Gaio Popilio (158 a.C.) che ne ordinarono la rimozione, risparmiando solo quelle che erano state erette per decreto del popolo o del Senato. La causa ovviamente va ricercata nel rapido mutamento di valori che interessò la società repubblicana a seguito delle vittorie su Cartagine e via via sui regni ellenistici, che fecero affluire a Roma un’enorme quantità di ricchezze, oltre ad assicurarle il dominio sul Mediterraneo tutto con le ben note conseguenze politiche, sociali e culturali.

Nel 183 a.C. Scipione Africano veniva sepolto a Liternum in un sepolcro all’interno della sua proprietà; Livio (XXXVIII 56, 3-4), che vede il monumento già in rovina, descrive un podio massiccio sul quale un tempo doveva trovarsi la statua stante del vincitore di Zama, forse riparata da una nicchia prostila. Lontano da Roma, Scipione poteva aspirare a un monumento funebre simile a un heroon microasiatico, rompendo decisamente con la tradizione delle tombe gentilizie ancora pienamente attuale nel panorama dell’Urbe, quasi uguagliando un dinasta orientale in questo rapporto tra il sepolcro e la villa-palazzo dove l’Africano risiedeva, anche se Seneca, qualche secolo più tardi, lo avrebbe additato come esemplare modello di morigeratezza.

Ritratto virile con testa calva, noto come “Scipione” (secondo alcuni studiosi rappresenterebbe molto probabilmente un sacerdote isiaco). Busto, bronzo, inizi I sec. d.C. dalla Villa dei Papirii, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Ma gli esempi archeologicamente attestati di veri e propri sepolcri individuali, con i primi timidi inserimenti di probabili elementi statuari, non sono anteriori alla fine del II secolo a.C. e sembrano stagliarsi ancora piuttosto isolati nel paesaggio delle necropoli al di fuori delle porte urbiche. Nei pressi della via Ostiense se ne rintraccia una delle più antiche testimonianze: si tratta del sepolcro di Servius Sulpicius Galba, da attribuire preferibilmente al console del 108 a.C. piuttosto che al di lui padre, console nel 144 a.C., situato accanto agli horrea Galbana nei pressi del porto fluviale. La tomba ha ora l’aspetto di un dado di 2,60 metri per lato: su uno zoccolo a due filari corre una modanatura a cyma reversa e ancora sopra quattro filari di tufo, l’iscrizione compare al centro su un blocco di travertino inquadrata da cinque fasces per lato, simbolo della dignità curule. La notizia del ritrovamento di un frammento di una statua togata seduta di dimensioni al vero, recentemente rintracciato (Ferrea), ha fatto ipotizzare che la tomba fosse provvista originariamente di un’edicola: si tratterebbe di uno dei primissimi esempi di questo tipo di monumento funerario di chiara ascendenza orientale, che avrebbe conosciuto un notevole successo nel corso del I secolo a.C.

Sempre nella zona del Testaccio, ma a una certa distanza a sud del sepolcro di Galba, è testimoniata una delle più antiche tombe in forma di altare, tipologia tra le prime ad essere adottata per monumenti funerari individuali, sia a Roma che nelle colonie. La tomba, ora non più visibile e purtroppo nota solo da una xilografia del XVIII secolo, fu scoperta tra il 1697 e il 1699 e venne subito attribuita alla gens dei Rusticelii grazie all’iscrizione presente su una delle pareti (CIL, VI, 11534). Il monumento, databile negli anni finali del II secolo a.C., è costruito in blocchi di tufo con un basamento modanato e una cornice superiore sormontata da un corto attico piatto; la lontananza da una via sepolcrale e il ritrovamento di altre iscrizioni che menzionano membri della gens hanno fatto supporre che il sepolcro sorgesse all’interno di un predio della famiglia. Questo doveva essere il caso anche del sepolcro di Galba, così vicino agli horrea da lui costruiti da farli ritenere, l’uno e gli altri, compresi entro una stessa proprietà confinante con la via Ostiense, con un affaccio verso il Tevere che ne esaltava la visibilità.

Torre funeraria della famiglia dei Cornelii Scipiones, a Tarragona.

Nel corso del I secolo a.C., le tombe ad altare di tipo greco sembrano divenire a Roma appannaggio della classe media. Ancora entro il primo quarto del secolo possono essere datate la cosiddetta tomba “dorica” e la vicina tomba “dei festoni” (o “a ghirlande”) al quarto miglio della via Appia, il cui aspetto attuale si deve alle ricostruzioni realizzate alla metà dell’Ottocento da Luigi Canina. Il nome della seconda di esse proviene dall’inserimento di un fregio non pertinente, con eroti alati che sostengono festoni, nella struttura a dado in blocchi di tufo, sormontata da una mensa d’altare con pulvini decorati da motivi fitomorfi e da teste di Medusa. Tombe ad altare decorate da fregi dorici si diffondono rapidamente nei centri italici più titolati, a partire dagli anni immediatamente successivi alla Guerra Sociale, divenendo quasi un segno distintivo dell’orgoglio municipale; non è casuale che a Pompei tale tipologia fu scelta per il sepolcro in blocchi di tufo di M. Porcio, duoviro della colonia e probabile triumviro della deductio sillana. Da tempo è stata infatti sottolineata la grande diffusione di tale tipologia e del motivo decorativo del fregio con triglifi e metope, entro cui, oltre ai motivi più consueti di rosette, bucrani e protomi taurine, possono comparire soggetti figurati più vari (armi, navi, delfini, ecc.) forse allusivi alla vita e alla carriera del defunto.

Una categoria importante, per le tipologie dei monumenti funerari individuali, è rappresentata da quelli a edicola di chiara derivazione ellenistica, la cui prima attestazione letteraria è forse costituita dal già citato sepolcro di Scipione a Liternum, e che, ancora nella prima metà del I secolo a.C., sembrano diffusi soprattutto in ambito extraurbano, sovente apprestati dai notabili della tarda repubblica in praedia di loro proprietà. Gli elementi dell’alto zoccolo e dell’edicola soprastante sono sempre presenti, ma, tra la tarda età repubblicana e il I secolo d.C., la tipologia funeraria conoscerà un’evoluzione e una sperimentazione tali da produrre innumerevoli e impressive varianti, in una moltiplicazione di piani e di nicchie dai disegni architettonici sempre più articolati e arricchiti da una molteplice varietà di elementi scultorei.

Uno degli esempi certi più antichi a Roma è riconosciuto nella tomba edificata dal Senato verso il 70 a.C. all’edile Gaio Poblicio Bibulo honoris virtutisque caussa, lungo la via che usciva per la porta Fontinalis ai piedi del Campidoglio. Su un alto basamento è costruita una cella rettangolare, della quale rimane ora solo la facciata con un’apertura inquadrata da quattro lesene tuscaniche; sulla trabeazione correva un fregio con ghirlande, bucrani e rosette. È probabile che la statua di Bibulo fosse al centro della facciata, ma la decorazione architettonica è ancora preponderante su quella statuaria e il messaggio celebrativo è affidato all’iscrizione che campeggia a grandi lettere sul prospetto e sui lati del basamento e che denuncia l’eccezionalità dei meriti del defunto al quale fu concesso un sepolcro pubblico. Gradualmente, l’architettura di coronamento – dapprima assolutamente scenografica di per sé, si pensi alla pompeiana tomba delle Ghirlande, che già presenta alcuni elementi architettonici realizzati eccezionalmente in marmo – viene animata dalla decorazione statuaria, che assume un ruolo via via preponderante. Il proliferare dei piani con nicchie ed edicole, il cui più antico modello va ricercato negli heroa ellenistici d’Asia Minore che sintetizzano i sepolcri-torre e i monumenti a naiskos della Licia, diverrà con il tempo assolutamente funzionale alla possibilità di esporre le statue ritratto dei defunti. Uno degli esempi più antichi e, allo stesso tempo, monumentali, è riconosciuto nel cosiddetto monumento di Pompeo sulla via Appia, nei pressi di Albano; ne rimane solo il nucleo cementizio, ma originariamente il sepolcro era suddiviso in quattro piani che dovevano raggiungere l’altezza di quasi trenta metri. Per avere un’idea, seppur più contenuta, dell’aspetto di questi monumenti bisogna scendere verso l’età augustea e il I secolo d.C. e spostarci nei municipi italici (Sarsina, Pompei, Aquileia) e provinciali che ne conservano quasi intatti alcuni straordinari esempi (sepolcro degli Iulii a Saint-Rémy, tomba di Poblicius a Colonia).

Iscrizione funeraria. Sepolcro di C. Poblicio Bibulo. 70 a.C. ca., presso il Campidoglio, Roma (CIL VI 1319).

Nella regione gravitante attorno alla via Aemilia, che offre importanti testimonianze di monumenti funerari già dai primi anni del I secolo a.C. (ante 90 a.C.) con i sepolcri a dado coronati da fregio dorico appartenuti agli Ovii e ai Maecii della colonia di Ariminium, si mantengono a Sarsina sepolcri a edicola in ottimo stato di conservazione. In particolare è da ricordare il sepolcro di Aefonius Rufus, ora integralmente ricostruito nel locale museo, che raggiunge i tredici metri di altezza. Esso è composto da tre distinti corpi: un dado per basamento, incorniciato da un fregio dorico e da un meandro entro i quali corre l’iscrizione; al centro compare una struttura a forma di tempietto tetrastilo corinzio, con un fregio a racemi di acanto che corre sulla trabeazione e una serie di statue previste a decorare gli intercolumni: uomini in toga, orgogliosi di mostrare la cittadinanza acquisita e l’elevato rango sociale ed economico raggiunto, e donne che, nella postura dei più frequenti tipi iconografici, come quello detto della Pudicitia, sfoggiano le pettinature dell’epoca. La copertura è costituita da un’alta cuspide affiancata da sfingi, a guardia del sepolcro, sormontata da un capitello corinzio che sorreggeva un finto vaso cinerario.

Nella tarda età repubblicana si diffondono a Roma le tombe a tumulo costituite da un poderoso basamento circolare, all’interno del quale era ricavata la camera funeraria, e da un cono di terra che su questo sorgeva e che aveva la funzione di un vero e proprio segno territoriale. La rinnovata diffusione di questo genere di sepoltura, che ha ben noti precedenti sul suolo italico, si deve probabilmente a Silla che, sappiamo, fu sepolto in un tumulo nel Campo Marzio (Lucano, Farsalia, II 222), area in quell’epoca riservata ai monumenta dei cittadini romani più illustri e degni. La struttura non aveva forse un carattere di particolare monumentalità e l’eccezionalità della sepoltura dovette essere sottolineata dal rito della cremazione (inusitata nella gens Cornelia che usava inumare i propri defunti) e che, a detta di Plutarco (Vita di Silla, 38) raggiunse livelli di estremo sfarzo.

Mausoleo detto ‘Torrione Prenestino’, fine I sec. a.C. – inizi I sec. d.C., sulla via Praenestina.

La più antica delle grandi tombe a tamburo, archeologicamente attestata, può essere riconosciuta nel Torrione “Micara” sulla via Tuscolana nei pressi di Frascati. Il suo diametro raggiunge quasi i trenta metri, pari all’incirca a quello dei più tardi mausolei di Cecilia Metella e di Casal Rotondo, attribuito a L. Aurelio Cotta, e di circa dieci metri inferiore al gigantesco “Torrione” di età augustea sulla via Prenestina. La struttura, costituita da blocchi di peperino (ma nelle camere funerarie all’interno i muri sono rivestiti in mattoni), sembra databile ancora entro la metà del I secolo a.C.; l’eccezionalità delle sue dimensioni, unita alla notizia – confermata da ritrovamenti epigrafici – di una vasta proprietà dei Licinii Luculli nella zona, ha permesso l’identificazione dell’edificio con il sepolcro di Lucullo, morto nel 57 a.C. Tra la fine della repubblica e l’età augustea questo tipo di monumentum ebbe grande diffusione; esso fu probabilmente utilizzato per la tomba di Giulia, figlia di Cesare sposa di Pompeo, morta nel 54 a.C. (Plutarco, Vita di Cesare, 23, 7; Vita di Pompeo, 53, 6), come per il sepolcro sulla via Praenestina di L. Cornelius, architetto di Q. Lutazio Catulo. In età augustea, oltre ai già citati esempi, si ricordano la tomba del praefectus fabrum Lucilio Peto e sua sorella Polla, sulla via Salaria, databile agli ultimi anni del I secolo a.C. e il sepolcro del generale cesariano C. Munatius Plancus, esaltato nella sua visibilità dalla collocazione in cima al panoramico monte Orlando a Gaeta. Nel corso del I secolo a.C. si moltiplicarono dunque soluzioni sempre più scenografiche e caratterizzate da dimensioni gigantesche, tra queste anche i sepolcri con alzato a forma di meta, che appaiono circoscritti alla seconda metà del I secolo a.C., meritano una breve menzione, se non altro per l’appartenenza alla categoria di uno dei monumenti che maggiormente tuttora distinguono il paesaggio della città di Roma. La piramide Cestia sulla via Ostiense, tomba di C. Cestio, pretore nel 44 a.C., si appoggia su una fondazione in opus caementicium e in blocchi di travertino ed è completamente rivestita in marmo di Carrara. La base misura cento piedi romani e si sviluppa per un’altezza di 36,81 metri, all’incirca centoventicinque piedi romani; il suo apparato decorativo prevedeva colonne ai quattro angoli e statue sulla facciata.

Mausoleo di Cecilia Metella, via Appia (foto d’epoca di G. Sommer).

Come abbiamo visto, molteplici sono le soluzioni adottate dai rappresentanti della vecchia e nuova aristocrazia per sepolture individuali, che dobbiamo immaginare sorgere ancora piuttosto isolate lungo le principali vie di accesso alla città, in casi particolari nell’area del Campo Marzio o entro i limiti di praedia privati, in zone comunque ben visibili e accessibili. Fin dai primi decenni del I secolo a.C. il paesaggio delle necropoli romane comincia ad arricchirsi anche dei sepolcri destinati alle famiglie di origine liberta che, con l’adozione di tipologie ben precise, interverranno a mutare non poco il paesaggio suburbano. Celebri quelli di via Statilia, nei pressi dell’antico asse viario del Celio, che costeggiano in una sequenza di facciate la via sepolcrale. Il più antico appartiene a un P. Quinctius, liberto di un Titus: al centro del prospetto si apre una porta ai lati della quale si riconoscono scudi oplitici, subito sotto il suo coronamento appaiono blocchi di travertino scolpiti a busto, che sembrano quasi rammentare gli abitanti di una casa affacciati alla finestra. Questi rilievi con mezzi busti di togati e di matrone velate, a volte ritratti nella dextrarum iunctio, invaderanno di lì a poco le necropoli dell’Urbe e dell’Italia tutta, caratterizzando i sepolcri della “middle class” romana tra la tarda repubblica e l’età giulio-claudia. L’ideologia della celebrazione familiare è decisamente lontana per questa classe di particolari “cittadini”, che compone il cuore pulsante della società economica dell’epoca con i loro mestieri di imprenditori, commercianti, artigiani, ecc. I liberti non hanno un passato da celebrare, la loro fortuna è tutta giocata nel presente, la loro esistenza dipende dal sospirato raggiungimento della dignità civica, che orgogliosamente enunciano mostrandosi in toga, l’abito dei cittadini romani. Tra i più impressivi monumenti funerari collettivi va annoverata la cosiddetta tomba dei Flavi di Porta Nocera a Pompei. Nella facciata in opera incerta, che giustamente è stato detto sembrare una fedele riproduzione degli appartamenti d’affitto (cenacula), si apre al centro un passaggio a fornice; al di sopra, un poco arretrato, compare una sorta di attico entro il quale si dispongono otto nicchie che ospitavano in antico altrettanti busti ritratto, realizzati in tufo e recanti i nomi dei defunti. Il tipo di sepolcro non ha alcun precedente in Campania ed è certamente un portato dei liberti dei coloni romani; in particolare quello dei Flavi costituisce uno degli esempi più antichi, databile verso il 70 a.C.

Mausoleo di Lucilio Peto, fine I secolo a.C., sulla via Salaria.

Questo rapido excursus si arresta ai limiti del principato augusteo, l’ascesa di Ottaviano avrebbe infatti decisamente stravolto l’assetto dello Stato repubblicano. Il clima delle ambiziose lotte politiche che, nel corso degli ultimi decenni della repubblica, aveva prodotto significativi risvolti sul piano delle autocelebrazioni, anche in contesti funerari, era decisamente tramontato. La drastica riduzione della possibilità di accedere a ruoli politici effettivi e un generale livellamento delle personalità,  che non fossero quella del princeps e dei membri della sua famiglia e di un ristretto entourage, sembrano condurre verso una graduale,  ma inarrestabile, normalizzazione e cristallizzazione dei monumenti funerari. Questi si arricchiscono certo grazie all’impiego quasi generalizzato del marmo e all’uso più diffuso della decorazione statuaria, con i noti rilievi “a cassetta” e i busti funerari nelle nicchie delle facciate dei colombari, ma il graduale processo di affastellamento dei sepolcri, registrato nelle necropoli suburbane di età augustea, va di pari passo con una certa omologazione del paesaggio funerario. Del resto non era pensabile rivaleggiare con la smisurata mole sepolcrale che Ottaviano, fin dagli esordi della sua ascesa al potere, cominciò a progettare e a costruire nel Campo Marzio, nell’ambito di un articolato e complesso sistema di rimandi monumentali e simbolici che, di fatto, rendevano il princeps l’unico protagonista di questa area, un tempo destinata anche ai publica sepulcra. Il gigantesco Tumulus Iuliorum, incastonato fra la via Flaminia e il Tevere, sulle cui acque doveva specchiarsi e allo stesso tempo incombere, inaugurava un clima di apoteosi dinastica che avrebbe annullato qualsiasi tipo di competizione.

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