Attestazioni del rito del simposio e della phallagoghia agraria a Taranto

di G. Bonivento Pupino, Due kyliches attiche con iscrizioni dalla chora ad Est di Taranto attestazioni del rito del simposio e della phallagoghia agraria, in La vigna di Dioniso: vite, vino e culti in Magna Grecia, Atti del Quarantanovesimo Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 24-28 settembre 2009, Taranto 2011, pp. 257-264.

 

 

Χαῖρε καὶ πίει τήνδε, χαῖρε καὶ πίει τήνδε: Salute e bevi questa, Salute e bevi questa, cioè la coppa piena di vino dove il contenitore sta metonimicamente per il liquido contenuto.

Sono dipinte queste parole su entrambi i lati di una kylix attica a vernice nera lucente, a basso piede, trovata in contrada San Donato, tra Talsano e Leporano (Taranto) (fig. 1); si tratta di un documento secondo me molto interessante per questa assise e di stretta attinenza alla tematica del convegno ed al territorio di Leporano in cui oggi, al Castello Muscettola, ci troviamo[1].

Il vaso da simposio, appartenente ad una collezione privata tarantina, è datato, sulla base delle analisi epigrafiche e stilistiche alla fine del VI secolo a.C. (530-510 a.C.).

 

kylix attica a vernice nera con iscrizione potoria da san donato (taranto). 530-510 a.c. collezione privata
Fig. 1. Kylix attica a vernice nera con iscrizione potoria da San Donato (Taranto). 530-510 a.C. Collezione privata già Guarini, oggi Kikau.

La coppa parlante, attribuita alla maniera di Douris, reca un’iscrizione che mi pare elemento importante di un brindisi di rito; potrebbe – chiedo a Murray – essere un documento di vita simposiale nella chora tarantina nella fine del VI secolo a.C.?

In un’altra kylix della stessa collezione, sul fondo, è dipinto un simbolo fallico trasportato da una figura femminile; proviene da Faggiano, al confine con Leporano, e reca dipinta sul fondo la parola καλός, bello.

Segnalo soprattutto la prima coppa come attestazione di quella gioia catartica di cui parlava stamane la Kerényi, legata alla pratica del consumo del vino, quella felicità dionisiaca cui ha fatto riferimento la relatrice ricordando, tra l’altro, il celebre vaso di Pronomos: uno stato di piacere e gaudio legati proprio al simposio, la charis, uno dei valori fondamentali per la stabilità del gruppo sociale, insieme a koinonìa e philìa, espressi nei simposi del mondo greco-romano[2] da Oriente ad Occidente, fino al primo Cristianesimo: “quell’aspettativa di gioia nell’ambiente dionisiaco che l’uomo moderno è pronto a demitizzare”[3].

In mancanza dei dati del contesto non possiamo dire se la kylix parlante da San Donato[4] sia di provenienza tombale, ma la formula potoria, scandita due volte, ha secondo me un ritmo poetico che richiama ai simposi ed al godere della gioia del vino per cercare una gioia che vada oltre gli affanni terreni.

Le parole χαίρειν e πίνειν ricorrono spesso nella lirica simposiaca greca, in particolare di Alceo, che scrive: Πίνομεν τί τὰ λυχνία μένομεν; δάκτυλος ἁμέρα: Beviamo, perché attendiamo le fiaccole? Misura un dito la vita; è un topos dell’esortazione al vino che continua con l’invito a tirare giù le kylichnai dagli stipi perché il figlio di Semele e di Zeus ha dato il vino agli uomini come oblìo dei mali: οἶνον λαθικάδεα[5]; all’invito al bere si associa qui il pensiero della morte come destino dell’uomo.

Nella drinking formula si fa esplicito riferimento al χαίρειν, parola che ha la stessa radice di χάρις, la gioia auspicata dalla libagione: una gioia terrena o piuttosto ultramondana per un defunto?

Ricordo a tale proposito un’altra kylix attica, databile al 540 a.C., parte di un intero servizio da simposio, deposto sul pavimento di una camera funeraria secondo un rituale funebre, di derivazione orientale, che appare non solo come ostentazione dello status sociale del defunto ma anche adesione nell’Occidente all’ideologia religiosa salvifica alla base del cerimoniale funebre del simposio rappresentato con l’ostentazione dei beni necessari al banchetto ed al bere collettivo; la coppa è dipinta all’interno con la significativa figura di un gallo ed all’esterno reca l’iscrizione potoria “salute e bevi”; l’elegante kylix fu rinvenuta proprio in mano al defunto adulto deposto sulla kline di una tomba[6]; l’esempio documenta l’usanza antica di accompagnare il defunto nella sua sepoltura con una kylix tra le mani, iscritta per di più con le stesse parole Χαῖρε καὶ πίει che troviamo a San Donato di Talsano a Taranto.

A fronte di una documentazione letteraria che attraverso le fonti delinea la città di Taranto antica come amante del vino, ebbra alle feste di Dionysos, capace di allestire più feste dei giorni dell’anno innaffiati dal buon vino, la città non ha dato altrettanti abbondanti documenti di vasi potori iscritti, ad eccezione dei sette skyphoi della metà del IV secolo a.C. con dediche a Dionysos dai pressi del Borgo di Taranto e due da contrada Montedoro. Perciò mi sembra molto rara la kylix da San Donato, cioè dall’antica chora ad Oriente della polis.

Non mancano invece in Occidente, riguardo al simposio, documenti arcaici dal centro Italia, kylikes attiche con drinking formulae: due tazze di metà VI secolo a.C. con iscrizione Χαῖρε καὶ πίει furono segnalate proprio qui a Taranto in un Convegno di Studi Sulla Magna Grecia, tra la ceramica importata dalla Magna Grecia nel Lazio arcaico (Lanuvio), come un elemento di prova documentaria dei rapporti tra Magna Grecia e Roma nel costume simposiaco[7].

Le parole χαίρειν e πίνειν nei vasi legati al simposio greco[8] sono presenti in area magnogreca, etrusca, nel Lazio arcaico; un altro esempio di contatti tra Roma e l’area culturale magnogreca nel VI secolo a.C. è una coppa attica che, nella zona compresa fra le anse, inquadrata da palmette, mostra la medesima formula Χαῖρε καὶ πίει εὖ; l’iscrizione traducibile letteralmente con gioisci e bevi bene, caratteristica espressione augurale simposiaca, proviene dalla ceramica greca dall’Area Sacra di S. Omobono[9].

Si stanno dunque conoscendo e dibattendo sempre meglio le iscrizioni formulari potorie del tipo Χαῖρε καὶ πίει εὖ scritte su entrambi i lati soprattutto nelle coppe attiche dei Piccoli Maestri prodotte tra il 550 e il 530 a.C.; la coppa dal territorio tarantino di San Donato rientra nella lista delle kylikes parlanti da simposio; l’iscrizione augurale si presenta come formula simposiale rituale che invita alla gioia del bere con parole molto probabilmente poetiche, strutturate in verso che si ripete due volte sui lati A-B della kylix, seguendo un ritmo; ciò ci induce, questa è un’interpretazione che si può discutere, ad ipotizzare un passaggio di mano in mano della coppa stessa tra i convitati di un simposio, sotto l’egida di un simposiarca. Si documenta, con la prima coppa parlante da me qui proposta, proveniente dalla chora di Taranto, un bisogno particolare di comunicazione in un contesto da approfondire ed analizzare o discutere nel filone a mio avviso molto probabilmente della libagione simposiaca, rituale, escatologica in una comunità di tradizione laconica che venerava anche l’aspetto funerario del dio del grappolo che a Taranto era venerato come Dionysos Zagreus figlio di Persefone, la dea dell’Oltretomba, fino a giungere, in particolare nel IV secolo a.C., con Archita, a sentire fortemente la sacralità escatologica del vino particolarmente all’interno di gruppi di iniziati che col sostegno di religiosità mistica (orfica) con cui il dionisismo si era innestato proprio qui a Taranto, cercavano una speranza mistica di salvezza attraverso la bevuta condivisa.

Il termine sympòsion deriva da sympìnein, bere insieme e l’iscrizione fa appunto riferimento ad un augurio o invito indirizzato da un emittente, con l’imperativo singolare, ad un ricevente: bevi tu questa coppa; pare proprio l’indicazione di un turno di consumazione della bevanda, concomitante ad un saluto gioioso secondo la modalità del bere nel contesto simposiaco greco, quando al primo brindisi, dedicato alla salute, facendo girare la coppa verso destra, seguiva un brindisi particolare accompagnato dalle parole chaire, chaire kai su: salute, salute anche a te oppure: chaìre, chaìre kaì pìe èu: salute, salute e bevi bene, facendo il giro[10].

Tali “formule di saluto o di esortazione al bere”, chiamate oggi modernamente dagli studiosi drinking formulae, dipinte sui vasi per simposio, furono in uso dall’età arcaica fino alla ellenistica e romana; rimanendo nello stretto ambito semantico dei due verbi, essi segnano chiaramente un momento ben distinto dal deipnon, in virtù dell’esplicito incoraggiamento al pinein che si fa strumento e garanzia di quanto sotteso nel primo invito: il godimento, il piacere, quasi un anticipo di grazia liberatoria dagli affanni del mondo indotta dalla consumazione del vino.

Le relazioni sinora ascoltate ci aiutano a mio avviso a capire ancora più a fondo la natura di questo chaire: se si tratti di una formula meramente conviviale tra vivi phìloi, omòioi, membri di un thiasos, di una cerchia, o se travalichi, sempre all’interno di un gruppo di pari, la sfera mondana; chaire, chairete sono infatti anche formule di saluto, corrispondenti al latino salve, salvete, da intendersi non solo come augurio di salute e benessere ma anche di benvenuto per l’arrivo di un ospite o di buona fortuna e di felicità per una partenza, un addio, come mi sembra più probabile nel caso della coppa con formula potoria tra le mani di un defunto.

In quest’ultimo caso o quando il vaso fosse rinvenuto all’interno di una sepoltura, si tratterebbe di una libagione funeraria, una pratica escatologica attestata nella Magna Grecia ionica dove rituali simposiaci legati al culto dei defunti sono ben documentati[11].

Nella necropoli tarantina della polis è documentato per l’età arcaica il rituale funerario del simposio in riferimento a tombe maschili come mostra, tra gli altri reperti, la sontuosa tomba a camera arcaica di via Crispi, dove i sarcofagi sono accostati alle pareti come fossero delle klinai; l’ambiente funerario è strutturato come un vero e proprio andròn, spazio simposiaco, post mortem, corredato da contenitori da vino: crateri a volute con scene dionisiache di banchetto, sono stati rinvenuti tra i sarcofagi e ridotti in frammenti, sparsi per terra dentro la stanza; oinochoai e ben 27 kylikes, trovate sia dentro che fuori i sarcofagi, dimostrano che i defunti, maschi adulti, componenti di una élite, erano stati deposti nelle tombe come se dovessero “partecipare ad un banchetto”, forse più pubblico che privato, dopo la loro morte, o “condividere un simposio con i vivi”; il simposio appare qui svolgere una doppia funzione: sociale ed escatologica, nell’ideale eroico ed aristocratico dei defunti, atleti eroizzati, per i quali si immaginava una vita beata nell’aldilà[12].

La funzione funeraria escatologica del consumo del vino nel contesto del potos è ben documentata a Taranto come mostrano ad esempio i vasi potori attici per simposio dalla tomba 12 del primo venticinquennio V secolo a.C. dall’area attuale Ospedale SS. Annunziata; anche le età tardoclassica ed ellenistica ci restituiscono, sempre dalla necropoli tarantina, vasi connessi al simposio con vino nei corredi funerari delle tombe a camera e semi-camera di IV secolo a.C. in cui il defunto era deposto su letto funebre a kline con kylikes attiche ed oinochoai apule raffigurate con scene dionisiache; inoltre i riti di libagione presso naiskoi e semata, collocati sopra le tombe ipogee, sono documentati nelle scene raffigurate sulla ceramica apula.

La seconda kylix da me segnalata in questo illustre convegno documenta un rituale di Phalloforiai processioni sacre a Dionysos che prevedevano il trasporto di phalloi scolpiti in legno di fico, pianta sacra al dio; sono ricordati dalle fonti le pompai per Dionysos con inni di accompagnamento ai simboli per eccellenza della generazione e della vita[13] (fig. 2), impazzimento collettivo e grandi bevute.

 

kylix attica a figure rosse da faggiano (taranto) con phallagoghia dionisiaca. secondo venticinquennio v sec. a.c. collezione privata
Fig. 2. Kylix attica a figure rosse da Faggiano (Taranto) con phallagoghia dionisiaca. Secondo venticinquennio V sec. a.C. Collezione privata già Guarini, oggi Kikau.

 

Nelle Phalloforiai, propiziatorie del raccolto la cui origine fu attribuita agli Egizi[14] e che si diffusero successivamente nel mondo agricolo dell’antica Grecia e poi in Italia e nei territori dominati dai Romani, il trasporto del phallos attraverso la città rientrava nel cerimoniale agrario collettivo per la fecondità dei campi[15]. La scena sul fondo della kylix da Faggiano potrebbe far riferimento ad un culto rurale di Dionysos per la fertilità della terra nella chora a Levante di Taranto? Un aspetto specifico delle Dionisie tarantine? Le processioni delle feste Phalloforiai o Phallagoghiai prevedevano oltre al trasporto dell’idolo anche la consumazione di vino.

Le Dionisie Rurali celebrate nel mese di Poseidone (dicembre-gennaio) avevano soprattutto il carattere di feste della fecondità dei campi di antichissima tradizione agraria e proprio la phallagoghia era la parte essenziale della rustica festa che prevedeva komos e canti senza troppi freni inibitori; il corteo era inoltre animato dalle canefore, che recavano festoni di edera (il vegetale che orna il fondo della coppa e sacro a Dionysos) e canestri di fiori o di frumento, focacce di varie forme, grani di sale, frutta, uva ed altri simboli sacri; le phallofore, in buona parte sacerdotesse di Afrodite, recavano devotamente il simulacro insieme alle Baccanti incaricate di cerimonie particolari.

Plutarco ci descrive una di queste processioni in campagna, retaggio di più antichi riti agrari greci: in testa venivano portati un’anfora piena di vino, misto a miele, e un ramo di vite, poi c’era un uomo che trascinava un caprone per il sacrificio, seguito da uno con un cesto di fichi e infine le vergini portavano un fallo per propiziare la fecondità della terra con pioggia di acqua mista a miele e succo d’uva.

In questa coppa da Faggiano decorata nel fondo con ramo di edera, è interessante che sia una fanciulla, Menade Baccante o più probabilmente sacerdotessa di Afrodite, dai capelli racchiusi nella cuffia a sakkos, protagonista del rituale di accompagnamento dell’idolo, divinità generatrice, su cui è dipinta la parola καλός.

È nota dalle fonti la passione per il vino nell’antica Taranto che alle Dionisie si ritrovava “tutta ebbra” intendendo secondo me l’intero popolo tarantino dalla città alla campagna. Una terra feconda, produttrice dell’apprezzato Aulone, ricordato dalle fonti antiche, che attestano quindi la produzione vitivinicola in questo settore della chora ad Est della polis tarantina dove non poteva mancare una organizzazione produttiva dei terreni nel rispetto delle proprietà sacre allo stesso dio del vino, sacri terreni di cui abbiamo eco solo da fonti locali che richiamano un Santuario nella “Contrada Nisio”.

Com’è noto i riti dionisiaci a Taranto furono osteggiati dai Romani fino alla emanazione del Senatus Consultus de Baccanalibus che infierì sui pastori che abitavano nella chora i quali, perseguitati in quanto seguaci di Dionysos, si erano riuniti in bande e rendevano insicuri i publica pasqua, i pascoli pubblici di Roma; ma gli stessi Romani apprezzarono il vino di queste parti!

Purtroppo, come ha detto oggi pomeriggio il Brun, si sono un po’ trascurati gli studi sulla campagna antica e quest’osservazione vale per il territorio rurale magnogreco ad oriente di Taranto che oggi corrisponde a Talsano, Lama, San Vito, San Donato, Faggiano, Leporano, Pulsano. Riguardo a questo settore della chora tarantina orientale il territorio, prevalentemente ancora oggi rurale, offre purtroppo penuria di dati archeologici spesso reperiti sporadicamente da collezioni private come i due esempi da me proposti.

Per di più la ricerca archeologica sull’antica chora tarantina viene ostacolata dalla rapida urbanizzazione della campagna; perciò mi sembra ci sia molto da riflettere su quanto ci ha detto Brun sulla trascuratezza degli studi relativi alle terre rurali del mondo antico, tra cui inserirei anche le terre tarantine.

Chissà che da questo convegno non parta una maggiore volontà di studio e di ricerca focalizzata sulla campagna!

I documenti ceramici che vi ho segnalato, dal territorio di Faggiano e San Donato, mi sembrano importanti anche per richiamare l’attenzione soprattutto sull’agro di Talsano (Taranto) che ha dato già documenti archeologici credo interessanti per questo convegno; basti pensare al rinvenimento nel cosiddetto praedium di Luciniano, su un lieve rialzo collinare dominante l’orlo sudorientale della Salina Grande, di una fattoria dell’epoca di Archita. Il toponimo prediale, uno dei numerosi in anum presenti nel territorio agrario di Taranto, ci riporta ad una fase di latifondismo romano non coeva ai rinvenimenti ma successiva e testimonia la continuità abitativa nell’ambito dell’economia agraria legata alla viticoltura la cui organizzazione potrebbe ricevere nuova luce anche dalle relazioni odierne.

Si tratta di una contrada tarantina ancora a forte impatto agricolo con monocoltura prevalente a vino; secondo me è un territorio questo molto interessante e poco valorizzato in cui esistono ancora, purtroppo malridotte, masserie degne di valorizzazione, insistenti su siti archeologici e quindi da tutelare e valorizzare; nella contrada Luciniano un’omonima masseria rispetto alla quale ad appena 650 metri in direzione nordoccidentale furono rinvenuti, durante l’impianto di un vigneto nel 1982[16], resti archeologici della fattoria e della necropoli vicina tra cui orli di pithoi per conservare le derrate, ceramica a vernice nera, un sarcofago; lo scasso per piantare la vite ha rivoltato e portato in superficie le tegole crollate dell’antica struttura abitativa rurale; la ceramica permette la datazione V-III secolo a.C.

Un altro sito rurale nei pressi del primo, sempre a Luciniano, riporta come il primo alla chora agraria tarantina dal V al III secolo a.C.; il successivo intervento della Soprintendenza, a causa della presenza dei vigneti, non ha però consentito, come leggiamo nelle notizie ufficiali sullo scavo, la lettura complessiva dell’area, mentre l’espianto di un vigneto vecchio che aveva sconvolto tombe e portato in superficie lastroni tombali, ha permesso di trovare numerose sepolture ad inumazione maschili e femminili, tra cui alcune imponenti di V secolo a.C., altre di IV-III a.C., e molte già manomesse dai clandestini[17].

Quello che ci interessa ai fini del presente dibattito in relazione a Brun è la conclusione cui è giunta la Soprintendenza: che già nel V secolo a.C. la chora era frequentata dagli insediamenti con una diffusione delle fattorie ancora più fitta da metà IV secolo a.C. secolo che corrisponde all’economia agraria voluta da Archita. Resti di pithoi segnalabili anche in località Sanarica in un’area insediativa frequentata sin dall’età arcaica.

Ho fatto questi esempi per richiamare nuovamente la vostra attenzione sulla chora tarantina a Est di Taranto continuamente saccheggiata dai tombaroli. Ma dopo la relazione di Brun aumenta lo sconforto per la campagna tarantina che sparisce anche nelle sue più antiche testimonianze al sopravanzare urbano: vediamo oggi palazzi moderni al posto di masserie (di per sé monumenti da tutelare) che sono andate distrutte (Masseria Gagliardo), anche se ricche di storia, in particolare della produzione vinaria nel territorio di Talsano.

Secondo me questa terra necessita di progetti e di programmazione ad hoc per l’emersione o la valorizzazione almeno dei dati archeologici già emersi.

Auspico che in futuro qualcuno colga questo stimolo di ricerca ed un appello per questa terra ancora ricca di vigneti ma sempre più povera di dati archeologici, lasciati a scavi di emergenza: lo merita veramente.

Chiedo alla professoressa Lin Foxall se non ritenga utile applicare alle antiche fattorie magnogreche di Leporano e della chora tarantina quel modello di ricerca ed interpretativo quale il suo qui egregiamente illustrato per le fattorie greche di età classica. Alla prof.ssa Isler-Kerényi mi permetto di aggiungere alla sua ricca documentazione le sculture raffiguranti Dionysos giovane prassitelico del museo di Taranto e, riguardo al cratere di Derveni, le chiedo se la spiegazione erotico iniziatica in senso escatologico, preminente nella ceramica illustrata dalla relatrice, non la possa applicare anche a questo vaso in metallo con scena di matrimonio di Dioniso e Arianna o se altro è il messaggio. Cari amici, chaire kai piei tende.

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Abbreviazioni bibliografiche

Fedele et Alii, Antichità della Collezione Guarini, Galatina 1984.

Bonivento Pupino, Collezione Guarini: opportunità per l’istituzione di un museo civico a Pulsano, in Atti Convegno Marina di Pulsano, Pulsano 1990.

Burkhardt, I riti funerari degli Italici e dei Greci sulla costa ionica tra VIII e VI sec. a.C. Influenze reciproche e sviluppi indipendenti, in AIACNews 1-2 (2008), con bibl. prec.

Castagnoli, in ACT 8, Napoli 1968, pp. 93-99.

Cerri, Iscrizioni metriche in lingua greca su vasi arcaici trovati nel Lazio, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica, Urbino 1974.

Ciacci, Piccola guida al riconoscimento delle forme di alcuni vasi attici ed etruschi, in Introduzione allo studio della ceramica in archeologia, Siena 2007.

Costamagna, Taranto-Talsano: insediamenti rurali, in Taras II, 1-2 (1982), pp. 199-206.

  1. Dell‘Aglio, TARANTO, Lucignano di Talsano, in Taras XVII, 1 (1997), pp. 89-92.
  2. Giangrande, Sympotic literature and epigram, L‘Epigramme Grecque, in Entret. Fond. Hardt, XIV, Genève I967, pp. 93-174.
  3. R. Immerwahr, Attic Script. A Survay, Oxford 1990.
  4. Klinghardt, Gemeinschaftsmahl und Mahlgemeinschaft: Soziologie und Liturgie

frühchristlicher Mahlfeiern, Bodenheim 1996.

Kretschmer, Die griechischen Vaseninschriften, ihrer Sprache nach untersucht, Gütersloh 1894.

Langlotz, La scultura, in ACT 10,Napoli 1971, pp. 217-247.

Lippolis et Alii, Architettura greca. Storia e monumenti del mondo della polis dalle origini al V secolo a.C., Milano 2007.

Lombardo et Alii, Nuovi documenti epigrafici greci dall’area del Golfo di Taranto: Metaponto e Saturo. Vino e pratiche simposiali in un’iscrizione vascolare metapontina, in StAnt X (1997), pp. 313-336.

H. Penney, Indo-European Perspectives, Studies in Honour of Anna Morpurgo Davies, Oxford 2004.

Valanes, Χαῖρε καὶ πίει ἀγγεῖα τοῦ πότου, in Ktēma Chatzēmichale, N. Kephisia 1996.

Valavanis – D. Kourkoumelis, Χαῖρε καὶ πίει, bere navi, Atene 1995.

M. Voigt, Sappho et Alcaeus Fragmenta, Amsterdam 1971.

Wachter, Drinking Inscriptions on Attic Little-Master Cups: A Catalogue (AVI 3), in Kadmos XLII , 1-2, Berlin 2004, pp. 141-89.

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Note:

[1]  Per la formula chaire kai piei eu sulla ceramica attica nell’Orizzonte della Magna Grecia ionica cfr. Lombardo et Alii 1997, pp. 313 ss., n. 33 con rinvio, tra gli altri, a Immerwahr 1990; per le due kylikes da contrada San Donato, tra Leporano e Talsano (Taranto) (con formula potoria) e da Faggiano (con formula acclamatoria) qui da me segnalate cfr. Fedele et Alii 1984, p. 45, tav. XLII, f. 12; p. 48, tav. XLVIII, f. 3 e Bonivento Pupino 1990.

[2] Klinghardt 1996.

[3] Langlotz 1970, p. 242.

[4] Una coppa con simile iscrizione in Kretschmer 1894, p. 195.

[5] Voigt 1971, fr. 346 (edidit).

[6] Tomba 20, necropoli chiusina La Pedata, Museo Civico Archeologico Chianciano.

[7] Castagnoli 1968, p. 97 ripreso da Cerri 1974, pp. 59-61, con annotazione molto interessante sulla struttura metrica della formula potoria nel metro lirico ferecrateo.

[8] Giangrande 1967; Valanes 1966; Valavanis – Kourkoumelis 1995; Wachter 2004; Χαῖρε καὶ πίει εὖ (AVI 2) in Penney 2004, pp. 300-322.

[9] Antiquarium Comunale, inv. 17419 – Scavi Colini 1938.

[10] Ciacci 2007, p. 189: raffigurazione di una coppa attica a figure rosse del pittore Oltos (510 a.C. circa), in cui compare l’iscrizione bevi anche tu.

[11] Considerazioni interessanti si sono fatte sui riti di libagione iterati per il defunto nei diversi cicli annuali nelle aree sepolcrali metapontine (cfr. contrada Ricotta, necropoli con attestazione nel III sec. a.C. della formula chaire incisa su stele come saluto o commiato al defunto o defunta).

[12] Per stanze funerarie arredate come sale maschili per simposi, con sarcofagi lungo le pareti ed utensili per simposio cfr. Lippolis et Alii 2007 e recentemente Burkhardt 2008.

[13] Cfr. Heracl., DK 15.

[14]  Hdt., II 48-49.

[15]  Plut., De cupiditate divitiarum, VIII 527 d.

[16] Costamagna 1982.

[17] Dell’Aglio 1997.

La «religio» a Roma nel I secolo a.C.

di G. SFAMENI GASPARRO, Introduzione alla storia delle religioni, Roma-Bari 2011, pp. 28-45.

 

[…] Quando Lattanzio nelle Divinae institutiones, con esplicita intenzione polemica oppone all’etimologia ciceroniana del termine religio da relegere quella che invece lo fa derivare da religare non si apre certo un dibattito su un problema filologico quanto piuttosto un confronto/scontro su due diverse maniere di porsi dinnanzi a quel livello «altro» dell’uomo che – dati i contesti culturali che utilizzano il termine deus/dii per designare le «potenze» efficaci che popolano il livello in questione – legittimamente definiremo del «divino». Cicerone (106-43 a.C.) infatti, in un famoso passo di quel trattato – De natura deorum, composto nel 45 a.C. – in cui si affrontano e si misurano criticamente alcune fra le più autorevoli espressioni del pensiero filosofico del tempo interessato al tema enunciato, aveva definito i religiosi ex relegendo, essendo costoro qui autem omnia, quae ad cultum deorum pertinerent, diligenter retractarent et tamquam relegerent («coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere», De nat. deor. II 28, 72). In conformità ai numerosi luoghi dell’opera in cui, secondo un uso ampiamente attestato nelle fonti anteriori e contemporanee, religio interviene quale termine alternativo di cultus deorum (cfr. De nat. deor. I 41, 11542, 118; II 2, 5 e II 3, 8: […] religione id est cultu deorum) e, spesso nella forma del plurale ([…] caerimonias religionesque publicas sanctissime tuendas arbitror, «ritengo che si debbano osservare scrupolosamente le cerimonie e il culto pubblico», I 22, 61), designa le varie pratiche rituali che scandivano la vita della comunità cittadina nella Roma repubblicana, Cicerone spiega l’attributo di religiosus in rapporto all’individuo che assuma un atteggiamento di accurato esame di tutto quel complesso di azioni umane che hanno come oggetto quegli esseri sovrumani, dotati di potenza e di capacità di intervento nel mondo, che nel suo ambiente culturale sono gli dèi. La derivazione proposta dal verbo relegere dell’aggettivo religiosus e, indirettamente, dell’etimo religio illumina pertanto l’aspetto preminente e qualificante dell’orizzonte religioso dell’antica Roma, ossia quello delle osservanze rituali che l’articolazione annuale del calendario festivo rende chiaramente manifesto.

scena di attività pubblica, con sacrificio e census. bassorilievo, marmo, ii sec. a.c., dall_ara di domizio enobarbo (campo marzio, roma). musée du louvre
Scena di sacrificio. Particolare del bassorilievo dell’Altare di Domizio Enobabo (detto ‘Fregio del censo’, marmo, II sec. a.C., dal Campo Marzio (Roma). Paris, Musée du Louvre.

Nel passo citato del De natura deorum (II 28, 72) si propone anche l’opposizione tra superstitiosus e religiosus, quindi la contrapposizione tra le nozioni di superstitio e di religio alle quali i due aggettivi rimandano. Esso si situa in un’ampia argomentazione elaborata dallo stoico Balbo a illustrazione e difesa delle posizioni della propria scuola, tra cui fondamentale quella efficacemente sintetizzata nella formula secondo cui «il mondo è dio e tutta la massa del mondo è preservata dalla natura divina» ([…] deum esse mundum omnemque vim mundi natura divina contineri, II 11, 30), ossia la nozione del cosmo come totalità dell’essere, insieme razionale («il principio guida che i Greci chiamano hegemonikón», II 11, 30) e materiale, e dell’universale Provvidenza divina come principio di preservazione dell’ordine cosmico. Se dunque per lo stoico Balbo l’assunto razionalmente fondato è quello che ammette la divinità del mondo, al cui riconoscimento l’uomo perviene attraverso la contemplazione dei moti celesti, egli non manca di giustificare anche le tradizioni religiose del proprio ambiente culturale, ricorrendo a varie teorie interpretative correnti all’epoca, come quella della «divinizzazione» degli elementi naturali in quanto apportatori di benefici benefattori dell’umanità (II 23, 60). Segue quindi l’enumerazione di alcune fra le grandi divinità del pantheon romano, quali Cerere e Libero, come esempi di questo processo di identificazione fra elementi benefici della natura (le messi, il vino) e i personaggi oggetto del culto tradizionale romano. Un’altra categoria di divinità appare poi quella che, secondo i presupposti della teoria elaborata da Evemero di Messina nel III secolo a.C. – definita appunto evemerismo –, sarebbe derivata dalla «divinizzazione» di antichi uomini, autori di invenzioni benefiche per la vita umana (II 24, 62). Se, tuttavia, il personaggio mostra di ritenere giustificate e accettabili queste forme di «creazione» che sono alla base della tradizione religiosa pubblica di Roma, assai duro è il suo giudizio su una terza forma di «invenzione» che, pur fondata su un’interpretazione di carattere fisico, ossia pertinente a fenomeni naturali, è tuttavia caratterizzata da un incontrollato sviluppo mitico, opera delle fabulae dei poeti. «Da un’altra teoria, di carattere fisico, derivò una grande moltitudine di dèi; essi, rivestiti di sembianze e forme umane, fornirono materia alle leggende dei poeti, ma hanno riempito la vita umana di ogni forma di superstizione» (II 24, 63). La superstitio, dunque, si propone come conseguenza di un’errata concezione del divino, in questo caso connessa con una falsa interpretazione della natura e attività di quegli elementi cosmici che pure sono espressione, funzionalmente determinata, della divinità del grande Tutto. «Vedete dunque – conclude Balbo dopo un’ampia esemplificazione del tema – come da fenomeni naturali scoperti felicemente e utilmente si sia pervenuti a dèi immaginari e falsi. E questo ha generato false credenze ed errori, causa di confusione e superstizione degne quasi delle vecchiette (…superstitiones paene aniles)» (II 28, 70).

Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico
Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico.

 

Da questa netta condanna degli dèi commentici e ficti creati dalla fantasia dei poeti, peraltro, non si deduce un rifiuto della tradizionale impalcatura del mondo divino oggetto della pratica religiosa romana. Al contrario, essa è salvaguardata proprio dall’eliminazione dell’apparato mitico e restituita alla sua integrità e al suo corretto significato, con la conseguente riaffermazione dell’obbligo, per il cittadino romano, dell’osservanza corretta di tale pratica, secondo la tradizione fissata dagli antenati: «Una volta disprezzate e rifiutate queste leggende – dichiara Balbo –, si potranno comprendere l’individualità, la natura e il nome tradizionale degli dèi che pervadono ciascun elemento: Cerere la terra, Nettuno il mare, altri dèi altri elementi. Questi sono gli dèi che dobbiamo venerare e onorare». E conclude: «Ma il culto migliore degli dèi e anche il più casto, il più santo, il più devoto, consiste nel venerare sempre gli dèi con mente e con voce pure, integre e incorrotte. Non solo i filosofi ma anche i nostri antenati hanno distinto la superstizione dalla religione. Quelli che tutti i giorni pregavano gli dèi e facevano sacrifici perché i loro figli sopravvivessero a loro stessi, furono chiamati superstiziosi, parola che in seguito assunse un significato più ampio; invece coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere, come elegante deriva da eligere (scegliere), diligente da diligere (prendersi cura di), intelligente da intellegere (comprendere); in tutti questi termini c’è lo stesso senso di legere che è in religiosus. Così superstizioso e religioso diventarono rispettivamente titolo di biasimo e di lode» (II 28, 7172).

Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C., dal Vespasianeum di Pompei.
Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C., dal Vespasianeum di Pompei.

 

I superstiziosi sono definiti tali in quanto caratterizzati dall’atteggiamento tipico di coloro che non fanno altro che immolare vittime agli dèi e sacrificare per aver garantita la sopravvivenza dei propri figli. Il termine superstitiosus è dunque connesso etimologicamente con superstes (plur. superstites) e definirebbe quanti sono continuamente assillati dallo scrupolo religioso, quindi dalla superstitio, e si affannano a pregare gli dèi e a compiere continui sacrifici perché temono per la salvezza dei figli. È sottolineato dunque in primo luogo il timore che è alla base di questo atteggiamento: non il corretto culto degli dèi ispira questi individui ma il timore di ricevere dei danni. Al contrario i religiosi sono detti tali dal verbo relegere, qui inteso nel senso di «riconsiderare», «considerare attentamente», ritornare con cura su quanto già si è osservato (legere): essi sono pertanto coloro che praticano in maniera diligente a accurata tutti gli atti che riguardano il culto degli dèi. Ne risulta che religio è in primo luogo un dato soggettivo, nel senso che esprime un atteggiamento dell’uomo, che da numerose attestazioni risulta essere quello della reverenza, del rispetto nei confronti delle potenze divine, e talora anche dello «scrupolo» ovvero del timore.

Scena di sacrificio. Illustrazione di G. Rava.
Scena di sacrificio. Illustrazione di G. Rava.

Di fatto lo stesso termine religio presenta un’intrinseca ambivalenza, soprattutto nelle fasi più antiche del suo uso, di cui si dimostra consapevole, ad esempio, un autore romano del II secolo d.C., Aulo Gellio (ca. 130-158 d.C.). Nell’opera miscellanea dal titolo Le notti attiche, l’autore registra l’accezione derogatoria del termine religiosus quale sarebbe stato usato in un verso di Nigidio Figulo, esponente dei circoli colti romani del I secolo a.C. e amico di Cicerone. L’autore, definito da Aulo Gellio «fra i più dotti accanto a Marco Varrone», nell’opera Commenti grammaticali aveva citato un verso ex antiquo carmine («da un antico poema»), che recitava: religentem esse oportet, religiosus ne fuas («devi essere accurato osservante, per non essere bigotto»). A commento Nigidio Figulo avrebbe affermato: «Il suffisso –osus in tal genere di vocaboli, come vinosus, mulierosus, religiosus, sta a significare una smodata abbondanza della qualità di cui si tratta. Perciò religiosus veniva detto chi professava una religiosità eccessiva e superstiziosa (qui nimia et superstitiosa religione sese alligauerat), ed era insisto nel vocabolo un concetto di disapprovazione» (IV 9).

Orante con offerte. Bronzetto etrusco, 480 a.C., dalla stipe votiva di Monte Acuto. Museo Civico Archeologico di Bologna.
Orante con offerte. Bronzetto etrusco, 480 a.C., dalla stipe votiva di Monte Acuto. Museo Civico Archeologico di Bologna.

Ne risulta che le due nozioni di superstitio e religio potevano addirittura convergere a definire l’atteggiamento dell’uomo che eccede nella pratica e nel sentimento del rapporto con il divino. Si configura quello che agli occhi dell’osservatore moderno appare come un ossimoro, ovvero la possibilità di una superstitiosa religio. Tuttavia, la «contraddizione in termini» non sussiste nella prospettiva storica in questione, in cui religiosus presenta una complessa e ambivalente accezione. Di fatto Aulo Gellio oppone al discorso di Nigidio «un diverso significato di religiosus: irreprensibile e rispettoso e che regola la propria condotta su leggi e scopi ben definiti». Sottolinea peraltro l’ambivalenza dell’aggettivo, adducendo l’opposto significato che esso assume nella designazione di religiosus dies e religiosa delubra e afferma: «Si dicono infatti dies religiosi i giorni che un triste presagio rende di mala fama o di vietato impiego, nei quali non si possono offrire sacrifici o iniziare nuovi affari». Aggiunge subito che «lo stesso Marco Tullio [Cicerone] nell’orazione Sulla scelta dell’accusatore parla di religiosa delubra (santuari sacri), non intendendo templi tristi per cattivo presagio, ma che ispirano rispetto per la loro maestà e santità». Quindi appella all’autorità di Masurio Sabino, famoso giurista di età augustea, per ribadire la valenza positiva dell’aggettivo: «Religiosus è qualcosa che per suo carattere sacro è lontano e separato da noi, e il vocabolo deriva da relinquo (separare) così come caerimonia (venerazione) da careo, astenersi».

Si conferma come già nell’antico contesto romano si proponevano delle etimologie di religio/religiosus in funzione dell’una o dell’altra accezione del termine che si intendeva spiegare. Lo stesso Aulo Gellio procede in questa direzione concludendo: «Secondo questa interpretazione di Sabino, i templi e i santuari sono chiamati religiosa perché ad essi si accede non come folla indifferente e distratta, ma dopo una purificazione e nella dovuta forma, e devono essere più riveriti e temuti (et reverenda et reformidanda) che non aperti al volgo». Si ripropongono pertanto i due convergenti aspetti del rispetto e del timore peculiari della nozione in discussione, entrambi qui assunti in accezione positiva.

giovane in atteggiamento votivo. bronzetto, 400-350 a.c. london, british museum
Giovane in atteggiamento votivo. Bronzetto, 400-350 a.C. London, British Museum.

 

Anche nel passo ciceroniano in esame essi appaiono valutati nel loro significato positivo, in quanto mantenuti entro i limiti di un equilibrato rapporto fra l’uomo e la divinità. Infatti si pone una stretta connessione tra l’atteggiamento dell’uomo religiosus e l’osservanza di atti rituali che hanno come oggetto gli dèi, figure di un livello «altro», superiore rispetto all’uomo, gravido di potenza. In conformità con la prospettiva romana di tipo politeistico, sono evocati molti dèi, sicché si parla di un cultus deorum, ossia di un’osservanza che si manifesta nella prassi rituale diligentemente osservata, ma senza quell’eccesso di scrupolo timoroso che invece caratterizza il superstizioso e che lo porta a invocare gli dèi e a sacrificare loro quotidianamente, in deroga della tradizione. Infatti a Roma sia le pratiche del culto privato, familiare, sia quelle del culto pubblico non si compiono per iniziativa e scelta dei singoli, ma secondo un preciso ordine calendariale stabilito e sorvegliato dallo Stato.

Per meglio chiarire tale accezione della religio romana, è opportuno illustrare il contesto generale in cui si situa una netta affermazione di Cotta relativa alla sua posizione nel dibattito filosofico in quanto pontefice. Egli infatti era stato chiamato a fare da arbitro tra le opposte teorie, stoica ed epicurea, che sostanzialmente divergevano sul tema della provvidenza divina, tema di rilevanza fondamentale per la pratica religiosa. Se infatti sotto il profilo ideologico le due posizioni erano componibili, in quanto anche gli epicurei ammettevano l’esistenza degli dèi come gli stoici, rimaneva una differenza sostanziale tra i postulati delle due scuole filosofiche, poiché la dottrina epicurea negava che gli dèi si preoccupino delle cose umane e intervengano dunque nella vita del cosmo e dell’umanità. La posizione epicurea, pertanto, rendeva vana la dimensione che per l’uomo romano era fondamentale, ossia la pratica cultuale, intesa a mettere in comunicazione uomini e dèi, rendendo omaggio a questi ultimi nell’attesa dei loro benefici. Per gli stoici, invece, gli dèi sono inseriti in un ordine universale, retto dalla legge della ragione (lógos/ratio) e dalla provvidenza (pronoia/providentia). Sebbene gli dèi delle tradizioni politeistiche comuni risultassero in qualche modo superati nella generale prospettiva provvidenzialistica postulata dagli stoici, e quindi a livello filosofico potessero essere considerati scarsamente rilevanti, nella vita pratica essi mantenevano un ruolo importante. Gli stoici infatti – come si è visto – ammettevano la legittimità, anzi l’opportunità del mantenimento delle pratiche cultuali tradizionali di diversi popoli.

Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).
Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).

L’importanza di questo tema nella visione di Cicerone è chiaramente sottolineata ad apertura dell’opera, risultando anzi la motivazione fondamentale della sua composizione, presentata come fedele riproduzione della «discussione assai accurata e approfondita sugli dèi immortali» (De nat. deor. I 6, 15) che l’autore dichiara svoltasi nella casa di Cotta, appunto tra quest’ultimo, il senatore Caio Velleio e Quinto Lucilio Balbo, discussione cui egli stesso avrebbe assistito in un periodo non precisato, ma che sembra situabile nel 76 a.C. È chiaro comunque che, al di là di un eventuale riferimento a una circostanza storica, Cicerone intende esemplificare, con la messa in scena di tre autorevoli protagonisti della vita politica e culturale di Roma, il dibattito sulla natura del divino in corso nei circoli colti cittadini. Infatti l’autore, preso atto della grande differenza di opinioni dei filosofi sul tema teologico, nota l’importanza decisiva in tale dibattito del riconoscimento o meno della capacità di intervento degli dèi nella vita cosmica e umana. Se è esatta l’opinione di coloro che, come gli epicurei, negano la provvidenza, si chiede Cicerone, «quale devozione può esistere, quale rispetto [per il culto], quale religione?» (Quae potest esse pietas quae sanctitas quae religio?, I 2, 3).

Pietas, sanctitas e religio sono dunque i tre fondamentali atteggiamenti umani che caratterizzano la comunicazione con il livello divino, ritenuta possibile solo quando da parte di quest’ultimo sia dato «rispondere» efficacemente all’interlocutore umano. «Tutti questi sono tributi – dichiara egli infatti – che dobbiamo rendere alla maestà degli dèi in purezza e castità, solo se essi sono avvertiti dagli dèi e se vi è qualcosa che gli dèi hanno accordato al genere umano; se, al contrario, gli dèi non possono né vogliono aiutarci, se non si curano affatto di noi né badano alle nostre azioni e non vi è nulla che possa giungere alla vita umana da loro, per quale ragione dovremmo venerare, onorare, pregare gli dèi immortali?». Il discorso si collega direttamente alla domanda iniziale, definendo natura e significato delle qualità umane sopra evocate: «La pietà, d’altra parte, come le altre virtù, non può esistere sotto l’apparenza di una falsa simulazione; e assieme alla pietà inevitabilmente scompaiono la riverenza e la religione; una volta eliminati questi valori, si verificano uno sconvolgimento della vita e una grande confusione; e sono propenso a credere – conclude – che, una volta eliminata la pietà verso gli dèi, vengano soppressi anche la lealtà e i rapporti sociali del genere umano e la giustizia, la virtù per eccellenza» (I 2, 34).

Pietas, sanctitas e religio, tipiche virtutes che definiscono il rapporto uomini-dèi, risultano essere anche i fondamenti imprescindibili dell’intera vita sociale: la loro eliminazione, infatti, si traduce agli occhi di un Romano nell’eliminazione della fides e della iustitia che sono alla base dell’ordinata convivenza umana. Ciò accade quando, negata la provvidenza divina, si rende inutile praticare quella via di comunicazione con gli dèi che è rappresentata dalla concreta attività cultuale: cultus, honores, preces sono infatti i termini essenziali in cui si realizzano pietas, sanctitas e religio, quali attributi dell’uomo in quanto cittadino, membro di una comunità socialmente organizzata.

Sacerdote di Saturno. Statua, III sec. d.C. ca., da Thugga (Dougga). Tunis, Musée National du Bardo.
Sacerdote di Saturno. Statua, III sec. d.C. ca., da Thugga (Dougga). Tunis, Musée National du Bardo.

Tenuto conto di questa sorta di «manifesto» iniziale delle intenzioni di Cicerone e della sua profonda convinzione del carattere civico del complesso dei comportamenti e delle credenze dell’uomo religiosus, appare perfettamente coerente con tale visione l’argomentazione che il pontefice Cotta premette a quella che sarà l’enunciazione dei suoi convincimenti filosofici. Egli, chiamato a prendere posizione nel dibattito, è invitato da Lucilio Balbo in maniera decisa a tenere in considerazione il fatto di essere «un cittadino autorevole e un pontefice» (II 67, 168). Egli non si sottrae a questo invito e dichiara: «Ma prima di trattare l’argomento, premetterò poche riflessioni su di me. Sono non poco influenzato dalla tua autorevolezza, Balbo, e dal tuo discorso che nella conclusione mi esortava a ricordare che sono Cotta e un pontefice: il che penso volesse dire che io devo difendere le credenze sugli dèi immortali che ci sono state tramandate dagli antenati, i riti, le cerimonie, le pratiche religiose (religiones)» (III 2, 5).

Dunque Cotta entra nel suo ruolo di rappresentante autorevole dello Stato. Se nel dibattito filosofico tra le varie scuole egli è intervenuto manifestando delle notevoli riserve su alcuni aspetti delle credenze tradizionali, ad esempio proprio nei confronti della validità delle pratiche divinatorie, quando si tratta di esprimere la propria opzione in quanto esponente ufficiale del culto di Stato, non può sottrarsi agli obblighi inerenti alla propria funzione. Come pontefice, quindi, egli deve prendere posizione netta nei confronti delle credenze tradizionali (opiniones, quas a maioribus accepimus de dis immortalibus) e soprattutto difendere la pratica del culto (sacra, caerimoniae, religiones).

Appare il plurale (religiones) secondo un uso molto frequente per indicare, all’interno della stessa tradizione romana, il complesso dei sacri riti compiuti secondo le norme stabilite dai maiores. Nel linguaggio romano il plurale religiones non si oppone al singolare religio, nel senso moderno di una molteplicità e diversità di complessi autonomi e autosufficienti, di credenze e di pratiche religiose. Infatti, il termine religio non indicava ciò che comunemente si intende oggi nella tradizione occidentale di matrice cristiana, ossia un complesso autonomo e articolato in cui rientri un elemento di «credenza» e un elemento di «culto», ovvero una dimensione pratico-operativa. Come già constatato, religio è un atteggiamento interiore e un’osservanza religiosa, quindi sostanzialmente attiene alla pratica cultuale. Sebbene religio sia spesso connessa con le nozioni di pietas e di iustitia (cfr. De nat. deor. I 2, 34; I 41, 116), oltre che con una certa opinione o sapienza sugli dèi, non si identifica con nessuna di queste prerogative né le ingloba in sé. La circostanza stessa che nel linguaggio ciceroniano, sia nel De natura deorum sia nel De divinatione e in altre opere, sia stabilito un rapporto, spesso molto stretto, tra religio e pietas, tra religio e iustitia e si parli anche di opiniones, ossia di una certa maniera di considerare gli dèi, ovvero di una saggezza in riferimento alla religio, conferma che tali nozioni, pur connesse, non sono inglobate nella nozione di religio.

Statua di Augusto in veste di Pontifex Maximus (detta 'l'Augusto di Via Labicana'). Marmo greco e italico, 90-100 d.C. Roma, Museo Nazionale di P.zzo Massimo alle Terme.
Statua di Augusto in veste di Pontifex Maximus (detta ‘l’Augusto di Via Labicana’). Marmo greco e italico, 90-100 d.C. Roma, Museo Nazionale di P.zzo Massimo alle Terme.

Anticipando la conclusione del nostro discorso, diremo che religio ha una connessione primaria e qualificata con la pratica religiosa, cioè con il culto, indicando per i Romani sostanzialmente la trama articolata di rapporti fra l’uomo e gli dèi quale si realizza nella pratica rituale. In altri termini, la religio non era una questione di «fede», non implicava da parte dell’uomo l’accettazione di un corpus di dottrine in cui credere. L’individuo poteva avere opinioni anche diverse sul tema della natura degli dèi e delle loro funzioni, ma per essere homo religiosus e civis Romanus a tutti gli effetti doveva compiere certi riti, quelli appunto prescritti dalle usanze tradizionali della città. Ciò che definisce il religiosus è la pratica di quanto attiene al culto degli dèi: egli deve considerare con estrema attenzione, con diligenza, e ovviamente poi praticare, il complesso dei riti comunitari. L’homo religiosus romano, dunque, non è colui che «crede», ma colui che celebra, nelle forme dovute, i riti tradizionali. Su questa nozione si rivelerà netta la differenza con la posizione cristiana, quale risulterà espressa in Lattanzio e in Agostino.

Tornando al testo ciceroniano vediamo come Cotta prosegua la sua argomentazione sulle religiones, ovvero le «pratiche religiose» tradizionali affermando: «Io le difenderò sempre e sempre le ho difese e il discorso di nessuno, sia egli colto o ignorante, mi smuoverà dalle credenze sul culto degli dèi immortali che ho ricevuto dai nostri antenati. Ma quando si tratta di religio io seguo i pontefici massimi Tiberio Coruncanio, Publio Scipione, Publio Scevola, non Zenone o Cleante o Crisippo, ed ho Gaio Lelio, augure e per di più sapiente, da ascoltare quando parla della religione (…dicentem de religione) nel suo famoso discorso piuttosto che qualunque caposcuola dello stoicismo. Tutta la religione del popolo romano (omnis populi Romani religio) è divisa in riti e auspici, a cui è aggiunta una terza suddivisione: le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici, basate sui portenti e sui prodigi: io non ho mai pensato che si dovesse trascurare alcuna di queste pratiche religiose (…harum … religionum) e mi sono persuaso che Romolo con gli auspici, Numa con l’istituzione del rituale abbiano gettato le fondamenta della nostra città, che certamente non avrebbe mai potuto essere così grande se gli dèi immortali non fossero stati sommamente propizi. Ecco, Balbo, l’opinione di Cotta in quanto pontefice. Ora fammi capire la tua; da te che sei un filosofo devo ricevere una giustificazione razionale della religione, mentre devo credere ai nostri antenati anche senza nessuna prova (…a te enim philosopho rationem accipere debeo religionis, maioribus autem nostris etiam nulla ratione reddita credere)» (III 2, 56).

Questo passo ciceroniano chiarisce quanto altri mai l’accezione che la nozione di religio ha nell’ambito della cultura romana. Omnis populi Romani religio è un complesso di pratiche tradizionali, tramandate nei secoli attraverso le successive generazioni, in cui gli elementi fondamentali sono i riti e gli auspici, cioè la prassi sacrificale, consistente soprattutto nel sacrificio cruento, e l’osservazione dei segni attraverso i quali si manifestava la volontà degli dèi affinché, correttamente interpretati da un collegio sacerdotale a ciò preposto – quello degli augures di cui lo stesso Cicerone fece parte dal 53 a.C. –, guidassero il comportamento degli uomini a livello sociale, ovvero regolassero l’azione dello Stato e non del singolo individuo nei confronti dei propri dèi.

Statua di un giovane orante, realizzata da maestranza rodia. Bronzo, 300 a.C. ca. Altes Museum.jpg
Statua di un giovane orante, realizzata da maestranza rodia. Bronzo, 300 a.C. ca. Berlin, Altes Museum.

 

L’autore che in più luoghi, e soprattutto nel De divinatione, si fa portavoce di un atteggiamento di critica e rifiuto nei confronti della divinazione privata, era rappresentante ufficiale della divinazione pubblica e quindi affermava con decisione, per il tramite del pontefice Cotta, la necessità del corretto mantenimento della pratica degli auspicia: solo interpretando correttamente i segni della volontà divina, attraverso i suoi qualificati rappresentanti, la comunità può agire in conformità a tale volontà, da cui dipende la propria sussistenza. Le forme di auspicio pubblico romano, infatti, non implicavano previsione degli eventi futuri bensì la conoscenza della volontà divina già stabilita: l’uomo deve inserirsi in un piano già definito, mentre un’iniziativa autonoma sarebbe disastrosa per il destino della comunità. L’auspicium era pertanto un elemento essenziale della vita cittadina sicché non si intraprendeva alcuna impresa di rilevanza sociale e militare se prima gli auguri non avessero interpretato, attraverso i segni relativi, la volontà divina per sapere se la divinità approvava o meno quella iniziativa. Si trattava in concreto di decidere se in quel particolare momento bisognava compiere una certa impresa perché gli dèi erano favorevoli o meno. La pratica augurale è dunque un elemento essenziale della religio romana in conformità alla tipica accezione pratico-rituale di tale nozione.

Il sacrificio è l’atto di omaggio che l’uomo compie nei confronti della divinità per riconoscerne il potere, per magnificarlo, cioè per rinsaldarlo e renderlo ancora più forte; l’auspicio è la tecnica che permette all’uomo membro di una comunità di inserirsi nel piano divino preordinato, che deve conoscere per mantenere integro quel rapporto armonico tra i due livelli che si definisce pax deorum.

Il terzo elemento evocato nel discorso di Cotta è anch’esso molto importante nell’ambito della tradizione romana, ossia le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici. La scienza dell’aruspicina era la scienza divinatoria tipicamente etrusca assunta dai Romani e i Libri Sibyllini erano quel complesso di scritti, custoditi prima nel Campidoglio e più tardi trasferiti da Augusto nel tempio di Apollo, contenenti gli oracoli divini che solo i magistrati a ciò deputati, i Decemviri (divenuti poi Quindecemviri), potevano interpretare. Si trattava dunque di un corpo di testi attinenti alla pratica rituale pubblica, ufficiale, sulla base dei quali – nei momenti di crisi della vita cittadina – si cercava di comprendere e di interpretare la volontà degli dèi ai fini di una corretta conduzione della vita intera della società.

Cotta chiede al filosofo una spiegazione razionale della religio, ossia una dimostrazione logica dell’esistenza e natura degli dèi, mentre alle tradizioni dei padri non richiede alcuna spiegazione; ad esse egli dà un pieno assenso, espresso nella pratica, conforme a queste tradizioni, di tutto il complesso rituale. È qui illustrata la posizione tipica dell’intellettuale romano nel I secolo a.C., cioè di un individuo che può cercare la verità, la risposta a certe domande essenziali sui principi della realtà, nei vari sistemi filosofici di origine greca ma ormai solidamente impiantati nel suo ambiente culturale, lasciandosi convincere da quello fra tutti che metta in opera gli strumenti razionali più adatti a tale scopo. Per tale via egli sa crearsi una certa immagine dell’universo conforme a specifiche premesse razionali, in base ai postulati filosofici dell’una o dell’altra scuola contemporanea. Dunque sarà lo stoicismo, l’epicureismo o il platonismo la filosofia che potrà dare all’uomo colto del tempo una risposta razionale alle sue esigenze intellettuali, ma il civis Romanus in tanto sarà religiosus in quanto osserverà le norme sopra enunciate. La religio dunque è una realtà che ingloba in sé tutto un patrimonio tradizionale di culti e delle connesse credenze. Esso comunque non parrebbe risultare dalle affermazioni finali del discorso di Cotta. Tra le posizioni dell’homo religiosus e del filosofo sussiste di fatto una certa armonia, una possibilità di conciliazione, almeno nei circoli colti romani del I secolo a.C., quali si riflettono nel trattato ciceroniano, in quanto proprio in questo contesto fu tentata un’interpretazione di tipo filosofico delle tradizioni ancestrali. Una tale interpretazione è proposta in un passo del De divinatione, trattato composto successivamente al De natura deorum, nell’anno 44 a.C., e dedicato al problema della possibilità o meno di conoscere la volontà divina attraverso vari segni, a loro volta interpretati in base alla scienza augurale o ad altre tecniche divinatorie. In questo testo si propone un’opposizione tra una forma inaccettabile di divinatio, identificata con la superstitio, e la religio. A differenza del passo del De natura deorum già esaminato, è stabilita un’opposizione diretta non più tra gli aggettivi che qualificano le contrapposte posizioni dell’uomo, rispettivamente il superstitiosus e il religiosus, ma tra le due realtà della superstitio e della religio. La definizione qui proposta  di religio è estremamente interessante per comprendere sia la mentalità di Cicerone sia quella del suo ambiente. L’autore sta discutendo di varie pratiche divinatorie come espressione di superstitio, ossia di quell’eccessivo timore da parte dell’uomo che lo induce a stabilire dei rapporti non corretti con il livello divino. In questo contesto, infatti, anche la superstitio riguarda il mondo divino, come del resto lo riguardano le pratiche divinatorie.

altare votivo dedicato ai lares augusti, con l_immagine centrale di augusto. rilievo, marmo, i sec. d.c. firenze, galleria degli uffizi.
Altare votivo in onore dei Lares Augusti. Marmo, 7 a.C. ca., da Roma. Frankfurt-am-Main Liebieghaus.

Poiché tali pratiche sono caricate di connotazioni piuttosto negative, l’accezione peggiorativa del termine superstitiosus deriva in primo luogo dal suo riferirsi ad un individuo che ricorre a profeti e a indovini per sollecitare una risposta degli dèi su attività e comportamenti personali. In particolare, una critica serrata è mossa alle varie tecniche di interpretazione dei sogni, ritenuti in tutto l’ambiente contemporaneo, sulla base di una lunga tradizione di cui partecipavano in varia misura tutte le popolazioni di ambito mediterraneo, come una delle più importanti forme di comunicazione con il mondo divino, poiché capace di mettere in diretto rapporto l’uomo con la divinità. Cicerone quindi, in risposta al fratello Quinto che, sulle orme degli stoici, era un convinto assertore della validità di tutte le tecniche divinatorie e quindi anche dell’importanza dei sogni e della loro interpretazione, conclude la propria requisitoria esclamando: «Si cacci via anche la divinazione basata sui sogni, al pari delle altre. Ché, per parlare veracemente, la superstizione, diffusa tra gli uomini, ha oppresso gli animi di quasi tutti e ha tratto profitto dalla debolezza umana» (De div. II 148).

Ne risulta pertanto una connessione dialettica tra credenza e pratica della divinatio somniorum e più ampiamente di tutte le forme di consultazione privata di indovini, oracoli e profeti, e la superstitio configurata come una forma universalmente diffusa di mistificazione, fondata su quell’insopprimibile desiderio umano di rassicurazione e di conoscenza del proprio futuro che più tardi Luciano condannerà altrettanto decisamente nel trattato diretto contro Alessandro, il falso profeta.

L’autore romano rimanda al proprio trattato Sulla natura degli dèi, in cui ha pure affrontato il tema della certezza – sottolinea – «che avrei arrecato grande giovamento a me stesso e ai miei concittadini se avessi distrutto dalle fondamenta la superstizione». E prosegue affermando: «Né, d’altra parte (questo voglio che sia compreso e ben ponderato), con l’eliminare la superstizione si elimina la religione. Innanzitutto è doveroso per chiunque sia saggio difendere le istituzioni dei nostri antenati mantenendo in vigore i riti e le cerimonie; inoltre, la bellezza dell’universo e la regolarità dei fenomeni celesti ci obbliga a riconoscere che vi è una possente ed eterna natura, e che il genere umano deve alzare a essa lo sguardo con venerazione e ammirazione» (II 148).

Il discorso ciceroniano sottolinea dunque con forza che eliminare la superstitio non significa distruggere la religio, poiché è espressione di saggezza custodire le istituzioni degli antenati mantenendo in vita i riti sacri e le cerimonie tradizionali. È poi evocato un altro elemento del quadro: la bellezza del mondo, l’ordine dei corpi celesti costringe quasi a riconoscere (confiteri) che esiste una qualche natura preminente ed eterna, e che questa natura deve essere ricercata e fatta oggetto di rispetto e ammirazione da parte dell’uomo. In queste espressioni si riflette tutta una facies religiosa che nel I secolo a.C. ha già una lunga storia dietro di sé e che caratterizza proprio gli ultimi secoli dell’ellenismo e i primi secoli dell’impero. Si tratta della «religione cosmica», implicante un atteggiamento di religiosa ammirazione della natura, scaturente dalla contemplazione dell’ordine cosmico, atteggiamento già presente in Platone: la regolarità dei movimenti dei corpi celesti induce l’uomo ad ammirare il grande Tutto e a venerare la potenza divina che in esso si manifesta. Tale religiosità impregna di sé tutta la tradizione stoica in cui, a differenza del platonismo che implica la trascendenza del mondo delle idee rispetto al mondo materiale, si afferma la nozione dell’immanenza del Lógos divino del cosmo. Sotto il profilo di quello che è stato chiamato il «misticismo cosmico», peraltro, le due tendenze, quella platonica e quella stoica, convergono. Del resto è ben noto il fenomeno, che ha in Posidonio di Apamea (135-51 a.C. circa) uno dei suoi maggiori rappresentanti, dell’assunzione nello stoicismo di numerosi e importanti elementi platonici. Lo stoicismo dell’epoca di Cicerone è di fatto profondamente imbevuto di platonismo, mentre a sua volta il platonismo ha recepito anche molti elementi stoici. Comunque un tratto significativo della religiosità del periodo ellenistico, sia nei circoli colti sia anche in ampi strati delle masse popolari, è dato dal sentimento profondo della bellezza del cosmo, la cui contemplazione si rivela tramite di conoscenza della divinità. Cicerone afferma appunto che l’ordine che regola gli elementi cosmici induce l’uomo ad ammettere l’esistenza di una natura superiore, potente, nei confronti della quale è preso da ammirazione. Egli deve ricercare questa natura divina che è al di là dello stesso ordine cosmico: si manifesta nel cosmo ma in qualche modo lo trascende. Si percepiscono così nette le radici platoniche del pensiero ciceroniano, nell’ammissione della trascendenza del divino rispetto alla realtà visibile: l’ordine cosmico induce l’uomo a ricercare, e quindi ad ammirare, quella superiore natura che in tale ordine si riflette.

augure. statuetta, bronzo, 500-480 a.c. ca. paris, musée du louvre
Augure. Statuetta, bronzo, 500-480 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

 

L’augure Cicerone, tuttavia, coniuga questa nozione di ascendenza filosofica con la nozione tradizionale di religio, consistente nel custodire accuratamente gli instituta maiorum, nella corretta osservanza dei sacra e delle caerimoniae. Egli pertanto ribadisce che «come bisogna addirittura adoprarsi per diffondere la religione che è connessa con la conoscenza della natura, così bisogna svellere tutte le radici della superstizione» (II 149).

Si constata pertanto nel I secolo a.C. un’articolazione e trasformazione della prospettiva tradizionale romana all’interno dei circoli filosofici, in cui per un verso si mantiene tutta l’autorità della religione tradizionale, affermandosi il prevalente contenuto pratico-rituale della religio; ma in essa cominciano ad emergere altre valenze. La prospettiva si allarga. Il mos maiorum, l’osservanza dei sacra e delle cerimonie rimane in primo piano, anzi è indicata come ciò che distingue la religio dalla superstitio sicché la religio conserva il suo carattere ufficiale, tradizionale. Tuttavia questa nozione, oltre ad accompagnarsi a quelle di pietas e di iustitia, sottolineate in tanti altri contesti ciceroniani, acquista una maggiore pregnanza, collegandosi con la nozione di «credenza» in una o più potenze superiori.

Nel testo esaminato si parla di una praestans aliqua aeterna natura, ma sappiamo bene come per un Romano dell’epoca di Cicerone questa «natura» eterna e preminente si manifesti in una molteplicità di potenze divine. Non c’è infatti qui alcuna tensione di tipo monoteistico; piuttosto si tratta di un linguaggio a carattere filosofico che con la nozione di natura praestans allude al fondamento stesso di tutte le personalità divine, una sorta di qualitas di cui partecipano gli dèi tradizionali, secondo quanto era stato affermato dallo stoico Balbo nel De natura deorum. Solitamente questa concezione si esprime in una visione del mondo di tipo «piramidale», ossia implicante un sommo principio divino e una gerarchia graduata di potenze inferiori, tra cui si situano i molti dèi dei politeismi tradizionali. Questi dèi, oggetto della religio in quanto destinatari del culto che la religio primariamente esprime, sono così inseriti in una prospettiva cosmica che non appella più soltanto ed esclusivamente alla tradizione degli antenati, alla tradizione romana in quanto tale, differenziata dalle tradizioni nazionali degli altri popoli, ma assume un carattere più ampio proprio perché si tratta della natura divina universale che si manifesta nell’ordine del grande Tutto.

In questa prospettiva più vasta, universalistica o meglio cosmosofica, vengono inglobate le numerose divinità dei politeismi tradizionali secondo un processo in cui profonda è stata l’azione esercitata dall’esegesi allegorica dei miti e delle figure divine dei vari popoli proposta dagli stoici. Le divinità dei diversi contesti non vengono negate ma piuttosto recuperate in una visione di ampio respiro universalistico a fondamento cosmico. Anche le diversità tra le tradizioni dei vari popoli sono in qualche modo superate, non nel senso che sono rinnegate ma piuttosto assorbite in questa forma di religiosità cosmica. Ai nostri fini interessa sottolineare come la nozione di religio di Cicerone poteva inglobare anche una componente a carattere «intellettualistico-concettuale», sicché in questo periodo e in questo contesto tale nozione non appare limitata solo all’aspetto rituale, pur essendo questo aspetto preminente e tipico della tradizione romana.

giudice e indovino (dettaglio). affresco etrusco, 540-530 a.c. ca., dalla tomba degli auguri (parete destra, necropoli di monterozzi, tarquinia)
Giudice e indovino (dettaglio). Affresco etrusco, 540-530 a.C. ca., dalla Tomba degli Auguri (parete destra, Necropoli di Monterozzi, Tarquinia).

 

Altri passi dell’opera di Cicerone illustrano ulteriormente la prospettiva, confermando come la nozione di religio nel I secolo a.C. mantenesse quello che è uno dei suoi significati essenziale, cioè il senso di osservanza, culto prestato agli dèi, ma nello stesso tempo si arricchisce di più ampi significati accogliendo in una certa misura anche una concezione cosmica del divino e degli dèi tradizionali. La salda convinzione che la dottrina epicurea di fatto distrugga omnem funditus religionem, come nell’argomentazione elaborata da Cicerone ad apertura del trattato, è da Cotta espressa in una serie di interrogazioni retoriche rivolte allo stesso Epicuro, in cui si ribadisce come la religio presuppone la possibilità di un rapporto tra potenze divine capaci di intervenire nella vita cosmica e umana e l’uomo che, riconoscendo la loro superiore natura e la benevolenza nei propri confronti, presta ad essi riverenza e omaggi cultuali.

Dopo una serie di affermazioni che offrono anche delle precise definizioni di ciò che per un Romano erano due elementi peculiari della sfera pertinente al divino, quali la pietas («giustizia nei confronti degli dèi»: est enim pietas iustitia adversum deos) e la sanctitas («scienza del culto degli dèi»: sanctitas autem est scientia colendorum deorum), Cicerone per bocca di Cotta ritorna sulla contrapposizione fra superstitio e religio, proponendo una definizione significativa delle rispettive nozioni: «È facile liberare dalla superstizione (merito di cui voi vi vantate) – dichiara rivolto agli Epicurei – se si è eliminata la potenza degli dèi. A meno che per caso tu ritenga che Diagora o Teodoro, che negavano del tutto l’esistenza degli dèi, potessero essere superstiziosi; io non affermerei questo neanche di Protagora, che era incerto se gli dèi esistessero o no. La dottrina di tutti costoro elimina non solo la superstizione, che comporta un vano timore degli dèi, ma anche la religione, che consiste in una pia venerazione degli dèi (non modo superstitionem tollunt, in qua inest timor inanis deorum, sed etiam religionem, quae deorum cultu pio continetur)» (De nat. deor. I 41, 11442, 117). Le opinioni degli epicurei, eliminando la nozione dell’intervento divino negli affari umani, aboliscono non soltanto la superstitio, ma anche la religio, consistente proprio nel rapporto rituale ispirato dalla pietas che sancisce la differenza dei piani, umano e divino, ma anche la vitale comunicazione fra di essi.

Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

La nozione della potenza divina che regola e governa la vita cosmica e umana, e quindi richiede all’uomo le regolari manifestazioni di culto, è riaffermata in un altro contesto ciceroniano del De haruspicum responsis, trattato composto nel 56 a.C. per affermare con forza la necessità della corretta osservanza delle prescrizioni degli aruspici, al fine di garantire il benessere dello Stato fondato sul rispetto della volontà degli dèi. Il trattato, composto in un momento di grave crisi politica determinata dai contrasti tra le fazioni che facevano capo a Cesare e a Pompeo, è diretto contro l’avversario di Cicerone, Clodio, accusato di gravi trasgressioni religiose, quali la profanazione dei riti segreti della Bona Dea, riservati alle donne. Ma la colpa più grave del personaggio, agli occhi di Cicerone, è quella di aver trascurato le prescrizioni degli aruspici che, dall’osservazione dei prodigi verificatisi nel corso dell’anno, avevano indicato la necessità di compiere le necessarie «espiazioni», ossia i riti tradizionali intesi a placare l’ira divina e rendersi propizi di dèi, pena la rovina stessa della repubblica.

Cicerone innanzitutto dichiara di essere stato fortemente turbato da «la grandezza del prodigio, la solennità della risposta, la parola una e immutabile degli aruspici». Quindi, in piena coerenza con le parole poste in bocca a Cotta, continua: «E, se pure sembra che io mi sia dedicato più di altri che pure sono occupati come me, allo studio delle lettere, non sono uomo tale da apprezzare o a praticare quelle lettere che allontanano o distolgono i nostri animi dalla religione. Io invero considero innanzitutto i nostri antenati come gli ispiratori e i maestri nell’esercizio del culto» (De har. resp. IX 18). Si afferma pertanto la necessità, da parte del cittadino romano, anche il più esperto di studi letterari e filosofici, di rifiutare quelle posizioni che possano allontanarlo dalla religio tradizionale, nella certezza irremovibile che solo i propri maiores sono auctores ac magistri religionum colendarum, ossia delle osservanze cultuali. Queste sono subito definite in relazione ai quattro pilastri della religio dei Romani, ossia le caerimoniae celebrate dai pontefici, le prescrizioni del comportamento pubblico fornite dagli auguri, le prescrizioni dei Libri Sibyllini e le espiazioni dei prodigi effettuate secondo la Etrusca disciplina, ossia appunto i rituali prescritti dagli aruspici.

Ribadita la propria conoscenza di «numerosi scritti sulla potenza degli dèi immortali» redatti da uomini «istruiti e sapienti», ancora una volta esprime la professione di lealismo civico dichiarando: «E sebbene io veda in queste opere un’ispirazione divina, esse mi sembrano tuttavia tali da fare credere che i nostri antenati sono stati i maestri e non i discepoli di questi autori. Infatti, chi è tanto sprovvisto di ragione, dopo aver contemplato il cielo, da non sentire che esistono degli dèi e da attribuire al caso quanto risulta da un’intelligenza tale che si fa fatica a trovare il modo di seguire l’ordine e la necessità delle cose, ovvero, quando ha compreso che esistono gli dèi, da non comprendere che la loro potenza ha causato la nascita, lo sviluppo e la conservazione di un impero tanto grande come il nostro? Possiamo bene, o padri coscritti, compiacerci a nostro piacere di noi stessi, tuttavia non è per il numero che abbiamo superato gli Spagnoli, né per la forza i Galli, né per l’abilità i Cartaginesi, né per le arti i Greci, né infine per quel buon senso naturale e innato proprio a questa stirpe e a questa terra gli Italici stessi e i Latini; ma è proprio per la pietà e la religione, e anche per questa eccezionale saggezza che ci ha fatto comprendere che la potenza degli dèi regola e governa tutte le cose che abbiamo superato tutti i popoli e tutte le nazioni (… sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnes gentes nationesque superavimus)» (IX 19). Pietas, religio e sapientia sono quindi le prerogative peculiari dei Romani, che fondano la loro superiorità su tutti gli altri popoli e, garantendo loro la speciale protezione degli dèi, costituiscono la motivazione e il fondamento stessi dell’imperium che essi esercitano sulle altre nazioni.

 

q. cecilio metello pio. denario, italia settentrionale, 81 a.c. ar 3, 54 gr. r – brocca e lituo con leggenda imper(atori) iscritti in una corona d_alloro
Q. Cecilio Metello Pio. Denario, Italia settentrionale, 81 a.C. AR 3, 54 gr. Rovescio: Brocca, lituus e leggenda [imper(atori)], iscritti in una corona d’alloro.

Un passo parallelo del De natura deorum conferma questa nozione ciceroniana, quando Balbo dichiara che «se vogliamo confrontare la nostra cultura con quella delle popolazioni straniere, risulterà che siamo uguali o anche inferiori sotto ogni altro aspetto, ma che siamo molto superiori per quello che concerne la religione, cioè il culto degli dèi» (II 3, 8). Se in questo luogo la religio si definisce come cultus deorum secondo la fondamentale accezione del termine nella prospettiva romana, la sua associazione frequente, ribadita nel contesto esaminato del De haruspicum responsis, con pietas e sapientia conferma la ricchezza di valenze che si aggregano alla nozione di osservanza rituale che essa esprime. Ne risulta confermata soprattutto la disponibilità del termine, già manifestata al tempo di Cicerone, ad allargare il proprio campo semantico in direzione di un valore comprensivo dell’ampio ventaglio di nozioni ad essa aggregate, fino a designare l’intero spettro delle credenze e delle pratiche del popolo romano pertinenti al livello divino. Questo «valore comprensivo» emerge in qualche misura dalle parole conclusive dell’autore quando dichiara: Sed haec oratio omnis fuit non auctoritati meae, sed publicae religionis («Ma tutto questo discorso non si fonda sulla mia autorità bensì sulla religione dello Stato», XXVIII 61), una volta che la religio publica si pone come l’ambito conchiuso in cui rientrano, con la pietas e la sapientia che hanno fatto grande l’imperium dei Romani, tutte le pratiche rituali che ne scandiscono la vita quotidiana.

Lupercalia

di G. Dumézil, La religione romana arcaica: Miti, leggende, realtà, a cur. di F. Jesi, Milano 2011, 306-309.

 

Una volta all’anno, per un giorno, si spezzava l’equilibrio fra il mondo regolato, esplorato, suddiviso, e il mondo selvaggio: Fauno occupava tutto. Ciò accadeva il 15 febbraio, nella seconda parte del mese, durante la quale (ai Feralia del 21) si stabiliva anche un vincolo necessario e inquietante fra altri due mondi, quello dei vivi e quello dei morti: fine dell’inverno, approssimarsi della primavera e dell’«anno nuovo» secondo l’antica ripartizione in dieci mesi: quei giorni rimettevano in questione ritualmente gli schemi stessi dell’organizzazione sociale e cosmica. Riti di eliminazione e riti di preparazione vi si intrecciavano, attingendo alla loro fonte comune: ciò che si trova al di là dell’esperienza quotidiana.

Andrea Camassei, Festa dei Lupercali. Olio su tela, 1635. Museo del Prado
Andrea Camassei, Festa dei Lupercali. Olio su tela, 1635. Madrid, Museo del Prado.

 

Al mattino del 15 una confraternita di singolari celebranti prendeva possesso delle falde del Palatino. Erano chiamati Luperci. Questo nome contiene sicuramente il nome del lupo: la sua formazione resta però oscura: forse si tratta di un derivato espressivo del tipo di nou-er-ca (secondo Mommsen, Jordan, Otto)[1], più che di un composto di lupus e di arcere (Preller, Wissowa, Deubner), poiché nulla, nei riti, è rivolto contro i lupi. I Luperci formavano due gruppi, che la leggenda ricollegava a Romolo e a Remo, e che portavano i nomi di due gentes, Luperci Quinctiales e Luperci Fabiani; sembra tuttavia che essi fossero diretti da un unico magister e associati nella loro unica esibizione annuale[2]. Vestiti unicamente di una pelle di capra sulle anche, essi rappresentavano gli spiriti della natura di cui Fauno, dio della festa, era il capofila. Cicerone (Pro Caelio, 26) li definisce come «la sodalità selvaggia, in tutto pastorale e agreste, dei fratelli Luperci, il cui gruppo silvestre fu istituito prima della civiltà umana e delle leggi». Queste parole indubbiamente traducono in termini di storia una struttura concettuale: il giorno dei Lupercalia, l’humanitas e le leges della città svanivano dinanzi al siluestre e all’agreste. Strettamente legata alla collina palatina, la festa certo era nota già ai più antichi Romani.

Un nome ritorna spesso nelle notizie un po’ confuse: quello stesso da cui deriva la denominazione del mese februarius; februum, che Varrone (De lingua Latina, 6, 13) traduce «purgamentum», e il verbo februare «purificare» (Giovanni Lido, De mensibus, 4, 20, in base ai libri pontificali) avevano un uso più vasto dei riti del 15 febbraio, i quali ne costituivano però la maggiore applicazione. Secondo Servio, gli antichi chiamavano in particolare februum la pelle di capro (Eneide, VIII 343), e Varrone (De lingua Latina, 6, 34) spiega Februarius a die februato (cfr. Plutarco, Vita di Romolo, 21, 3; Ovidio, Fasti, II 31-32), «poiché è in quel periodo che il popolo februatur, cioè che l’antico monte Palatino, con grande affluenza di popolo, è purificato, lustratur, dai Luperci nudi».

 

Statua del Fauno Barberini (o Satiro ubriaco). Marmo, II sec. copia romana da originale greco. München, Glyptothek
Statua del Fauno Barberini (o Satiro ubriaco). Marmo, II sec. copia romana da originale greco. München, Glyptothek.

 

Alcuni riti erano purificatori, altri fecondatori, senza che sia sempre possibile distinguere i due scopi. Certi riti restano enigmatici: per esempio il seguente, che solo Plutarco menziona (Vita di Romolo, 21, 4): «Essi (senza dubbio i Luperci) sacrificano delle capre; poi vengono loro condotti due giovani nobili; a questi ultimi, gli uni toccano la fronte con il coltello ancora sanguinante, gli altri asciugano la fronte sporcata di sangue con un bioccolo di lana bagnata nel latte; bisogna inoltre che i due giovani ridano dopo essere stati asciugati». Dal testo non risulta che i due giovani appartengano anch’essi alla sodalità. È inoltre menzionato il sacrificio di un cane (Plutarco, Vita di Romolo, 21, 5; Quaestiones Romanae, 290d), il che si spiega senza difficoltà se i Luperci «sono» dei lupi, ma con più difficoltà se essi sono «coloro che allontanano i lupi». L’essenziale del rito è comunque chiaro, e molti autori l’hanno descritto in termini concordanti. Dopo il sacrificio delle capre (non conosciamo il numero degli animali), i Luperci si cingevano delle pelli strappate dalle vittime (Giustino, Storie Filippiche, XLIII 1, 7); veniva poi consumato un buon pasto, ben innaffiato di vini (Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium, II 2, 9, nella leggenda di fondazione), e successivamente aveva inizio la corsa purificatrice, intorno al Palatino; il Lupercale era il punto di partenza e di arrivo. Correndo, i Luperci brandivano corregge tagliate in pelli di capro e colpivano con esse quanti incontravano, in particolare le donne, alle quali era così assicurata la fecondità (Plutarco, Vita di Romolo, 21 5); Plutarco (Vita di Cesare, 61, 2) e Giovenale (Satire, II 142) attenuano il rigore della flagellazione: le dame romane tendevano solo le mani ai colpi dei sacerdoti; ma, come osserva Frazer (Ovid’s Fasti, II p. 388): «for the purpose of impregnation it can have made very little difference whether the stripes were administered to the hand or to the back»[3].

Per giustificare questa pratica, Ovidio racconta una storia che non sembra di sua invenzione e che ricolloca la pratica stessa nella teologia di Faunus-Inuus (Fasti, II 425-452). Dopo il ratto delle Sabine – egli dice – gli dèi inflissero una sterilità quasi totale alle spose prese con la forza. Romolo si irritò al vedere il suo disegno contrariato: «A che mi è servito questo ratto – grida –, se non mi procura nuove forze bensì la guerra?».

Uomini e donne, allora, si recarono a pregare in un bosco consacrato a Giunone, la quale fece udire la sua voce attraverso gli alberi:

«Italidas matres, inquit, sacer hircus inito!».

«Un sacro caprone penetri le donne d’Italia!». Nuova perplessità dinanzi a quest’ordine mostruoso: come potranno accettare le donne romane di essere «penetrate» (cfr. Inuus) da un capro – posto che la buona lezione sia sacer hircus e non caper hirtus? Un indovino etrusco risolse l’enigma: egli immolò un capro, ricavò dalla pelle delle corregge e ordinò alle giovani di offrire il dorso ai suoi colpi, – nove mesi più tardi Lucina non sapeva più dove sbattere la testa.

Capua. Semiuncia, 216-211 a.C. Æ 6, 48 gr. Recto: Busto diademato di Giunone, voltato a destra.
Capua. Semiuncia, 216-211 a.C. Æ 6, 48 gr. Recto: Busto diademato di Giunone, voltato a destra.

 

Questo è il valore che risulta dai riti. Sembra però che i Luperci, originariamente, intervenissero in modo non meno brutale in un altro ordine di realtà sociali: in codeste settimane, durante le quali tutto deve ricevere conferma, il potere regale era oggetto di riti. Altrimenti non si comprenderebbe perché Cesare, sviluppando il piano che doveva condurlo al regnum, abbia aggiunto ai due gruppi tradizionali un terzo gruppo, composto di uomini a lui devoti, i Luperci Iulii, primo abbozzo di culto imperiale (Svetonio, Vita di Cesare, 76; Cassio Dione, Storia romana, XLIV 6, 2; XLV 30, 2); né perché l’esperimento che egli organizzò con Antonio al fine di sapere come avrebbe reagito il popolo alla sua incoronazione regale, sia stato compiuto proprio in occasione dei Lupercalia, durante la corsa (Plutarco, Vita di Cesare, 61, 23). Cosa significherebbe la strana scena del console-Luperco, interamente nudo, che esce dal gruppo di corridori e balza alla tribuna per incoronare Cesare, se non fosse la ricostruzione di una scena antica, tale da colpire l’immaginazione del popolo ed avere il sopravvento sulla mistica repubblicana? E d’altronde, se non fosse stato così, gli spettatori avrebbero subito compreso l’intenzione politica del gesto? Le nostre informazioni, però, risalgono a un’epoca nella quale non possiamo sperare di trovare un’immagine completa e sistematica di riti che non corrispondevano più all’attualità religiosa e sociale.

 

Lupercale. Altare votivo in onore di Marte e Venere. Bassorilievo, marmo, metà II sec. d.C. da Ostia. Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme
Lupercale. Altare votivo in onore di Marte e Venere. Bassorilievo, marmo, metà II sec. d.C. da Ostia. Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.

 

Il gruppo delle divinità selvagge comprendeva, anticamente, anche un elemento femminile? Fauna è poco più di un nome, il quale prende consistenza solo nelle leggende, in cui essa, moglie, figlia o sorella di Fauno, passò nel romanzo, e nel romanzo ellenizzante. Sotto la denominazione di Bona dea, essa riceve a dicembre il culto di Stato, e tuttavia segreto – rigorosamente limitato alle donne –, vistoso, ma greco: non è altro che una Damia, importata certamente da Taranto, e forse per un controsenso, quando la città fu conquistata nel 272. Quanto a donne Luperche, non sappiamo come intendere la Valeria Luperca di Falerii, di cui il XXXV libro dei Parallela Minora parla «in base ad Aristide, nel XXIX libro della sua Storia d’Italia». La prima parte dell’aneddoto è pura fantasia, ma la fine potrebbe corrispondere a un rito locale. Mentre un’epidemia infieriva nella città, Valeria Luperca, designata dalla sorte per essere sacrificata, poi salvata miracolosamente come talvolta lo sono le fanciulle delle leggende greche, prese un martello altrettanto miracolosamente venuto dal cielo, andò in casa, colpì leggermente con il martello i malati e disse a tutti che erano guariti; l’autore aggiunge che questo «mistero» si celebra ancora al suo tempo. Si tratterebbe dunque di una lustratio, orientata però in modo diverso che a Roma.

 

 

Febbraio. Mosaico, III sec. d.C. da El-Jem. Musée archéologique de Sousse
Mosaico pavimentale dal sito di El Jem (Tunisia). Il mese di febbraio, particolare. III secolo d.C. Musée archéologique de Sousse.

 


[1] E. Benveniste, Origines de la formation des noms en indo-européen, I, 1935, p. 29, suddivide diversamente in *nou-er+ca- (cfr. gr. νεαρός, arm. nor, «giovane»). K. Kerényi, Wolf und Ziege am Fest der Lupercalia, Mél. Marouzeau 1948, pp. 309-317, pensava che i Luperci, ambigui, raffigurassero al tempo stesso i lupi (forma originaria, venuta dal nord) e i capri (influenza del sud).

[2] I testi di Livio (Ab Urbe condita, V 46, 2; 52, 3) non provano affatto che i Fabiani fossero una «confraternita del Quirinale» opposta e congiunta a una «confraternita del Palatino», e ciò è reso molto improbabile dal fatto che i riti sono strettamente legati al solo Palatino, ove si trova anche il luogo detto Lupercale. Si trattava di un sacrificio che i Fabii dovevano compiere tradizionalmente sul Quirinale: si vorrebbe anche «provare» che i Quinctiales fossero una «confraternita del Vaticano», basandosi sui prata Quinctia di tale colle, ove uno dei Quinctii più celebri, Cincinnato, fu creato dittatore mentre guidava l’aratro (Livio, Ab Urbe condita, III 26, 8; Plinio, Naturalis Historia, 18, 20).

[3] Raffigura sicuramente questa scena, ma in forma aggravata anziché attenuata, il soggetto del mese di febbraio in un calendario a mosaico trovato in Tunisia (prima metà del III secolo d.C.); vd. H. Stern, Un calendrier illustré de Thysdrus, Acc. Naz. dei Lincei, 1968, 105, p. 181 e tav. III fig. 2 : «Il rito è qui rappresentato con assoluto realismo: i due aiutanti [del Luperco] hanno preso la giovane sotto le ascelle e per le gambe, per sollevarla; la parte inferiore del corpo è denudata e il Luperco leva la frusta per colpire». L’abbigliamento del Luperco è uguale a quello raffigurato su una stele del Vaticano (epoca di Adriano), pubblicata da P. Veyne, REA 62, 1960.

L’educazione nel tiaso saffico

da J. BALDARO VERDE, V. MANZINI, L’omosessualità femminile come “rito d’iniziazione sessuale”, Rivista di Scienze Sessuologiche 9 (1996).

Associazioni di ragazze e di donne si trovavano in Grecia sin dal VII sec. a.C. e fra queste il circolo di Saffo è indubbiamente il più famoso, noto come θίασος (Merkelbach, 1957). L’opinione oggi più attendibile fra gli studiosi è che Saffo sia stata a capo di una comunità di giovani donne (Calame 1977), in cui alle ragazze si impartivano lezioni di grazia e di eleganza. Le partecipanti vi accedevano prima del matrimonio, compiendovi un periodo di istruzione e di preparazione, che terminava in occasione delle nozze, con la conseguente separazione dal gruppo. La formazione prevedeva l’apprendimento dei lavori femminili, di una buona educazione, della musica e un’iniziazione al sesso. Dallo stato «selvaggio» dell’adolescenza (proprio di Artemide), dea che proteggeva le παρθένοι, le ragazze passavano allo status di donne ispiratrici d’amore, sviluppando la sensualità e la sessualità, secondo il modello di Afrodite (Privitera 1974).

Attis, una delle tre compagne più care a Saffo, prima di entrare nel tiaso, era una ragazza molto giovane e sgraziata (ἄχαρις, in questo contesto, “senza grazia”, è utilizzato per designare una fanciulla non ancora pronta per il matrimonio). La χάρις (nella traduzione dal greco “grazia” – da cui l’italiano: carisma, eucarestia – ma anche “fascino”, “bellezza”) era, infatti, la caratteristica indispensabile per una bella donna, che intendesse sposarsi. Dopo il soggiorno nel tiaso, la bella Attis, che Saffo descrive di ritorno in Lidia, brilla tra le donne del suo paese come la Luna in mezzo alle stelle (F 96 Voigt), grazie all’educazione ricevuta a Lesbo. Dunque, il contenuto dell’educazione dispensata da Saffo, nella sua scuola, tendeva alla preparazione al matrimonio di giovani allieve. Del resto, i rapporti dell’attività della poetessa con l’istituzione del matrimonio, sono confermati dai numerosi frammenti di epitalami.

Saffo, come testimoniano i frammenti, appare sempre al centro di un gruppo di fanciulle che vanno e vengono continuamente. Non dobbiamo credere che il tiaso saffico fosse un caso unico: nel mondo ellenico esistevano altre associazioni di ragazze e donne adulte, e in tutte sono ampiamente documentate delle relazioni omoerotiche tra le partecipanti. La poesia di Saffo scaturisce spontanea dalle passioni amorose vissute all’interno del raffinato sodalizio femminile da lei diretto: la componente erotica dei versi della poetessa si mostra con sincero ardore. Benché una critica moralista lo abbia spesso negato, l’esistenza di passioni omosessuali, tra le componenti del tiaso, è innegabile.

Imerio, autore del IV sec. d.C., leggeva nei carmi di Saffo di un rituale iniziatico officiato all’interno della comunità (Him. Or. 9, 4): dopo gli agoni poetici, Saffo entrava nel talamo, faceva preparare il letto nuziale, faceva entrare le ragazze nel νυμφεῖον, conduceva sul carro le immagini delle Cariti, di Afrodite e degli Amorini e formava con esse una processione per la fiaccola nuziale. Il cerimoniale riportato da Imerio costituiva un preciso momento dell’attività cultuale del tiaso. È assai probabile che nelle comunità femminili di Lesbo si celebrassero delle unioni ufficiali tra le ragazze, una sorta di rapporti matrimoniali, come mostra in Saffo l’impiego del termine γάμος: si tratta di una parola specifica che designava il concreto vincolo tra sposi (letteralmente γάμος indicava colui o colei che si trovava sotto il medesimo «giogo»). È noto che Saffo avesse due rivali, Andromeda e Gorgò: un frammento di commentario su papiro rivela che tra Gorgò e le sue compagne esistevano regole di ordine comunitario analoghe a quelle del tiaso saffico; un frammento informa che Pleistodice insieme con Gongila era «moglie» di Gorgò: ciò significa che la direttrice del tiaso rivale poteva contemporaneamente «far coppia» con due ragazze.

D’altra parte, l’omosessualità femminile non era un costume amoroso esclusivo delle donne di Lesbo. In realtà, definire il legame omoerotico come “lesbico” è frutto di una deformazione semantica. Nell’antichità, infatti, la fama delle donne di Lesbo era legata alla pratica amorosa del fellare, in greco λεσβιάζειν, che i poeti comici (Aristofane in primis, cfr. Aristoph. Eccl. 920) testimoniano essere assai antica e rinomata, ed escogitata appunto dalla ragazze dell’isola. Dunque, Λεσβία aveva nella seconda metà del V secolo a.C., ma anche in precedenza, la connotazione di fellatrix – ben diversa dal significato odierno di “lesbica”. Questa accezione, piuttosto, era espressa dal sostantivo τριβάς, dal verbo τρίβειν (“strofinarsi”), come spiegò l’erudito bizantino Aretas (secoli IX-X).

Pittore Eufronio. Scena simposiale con due etere. Psykter attico a figure rosse, VI sec. a.C. Sankt-Peterburg, Hermitage Museum.
Pittore Eufronio. Scena simposiale con due etere. Psykter attico a figure rosse, VI sec. a.C. Sankt-Peterburg, Hermitage Museum.

Diana e Virbio

di J.G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, a c. di A.M. Di Nola, Roma 2010 (4^ ed.), 20-28.

 

J. M. William Turner, The Golden Bough. Olio su tela, 1834. Cincinnati, Tate Collection, Museum of Art.
J. M. William Turner, The Golden Bough. Olio su tela, 1834. Cincinnati, Tate Collection, Museum of Art.

 

Chi non conosce il famoso quadro di Turner, Il Ramo d’oro? La scena, soffusa da quell’aura, sognante luminosità con cui il genio divino di Turner impregnava, trasfigurandolo, anche il più splendido paesaggio della natura, ci offre una visione onirica del minuscolo lago di Nemi, in mezzo ai boschi – Specchio di Diana, lo chiamavano gli antichi. Chi ha visto quelle acque tranquille, incastonate nella verde conca dei colli Albani, non potrà mai dimenticarle. I due tipici paesini italiani che sonnecchiano sulle sponde, e il palazzo, anch’esso tipicamente italiano, con i suoi giardini degradanti che scendono a picco fino al lago. non disturbano il fascino immoto, addirittura desolato, del panorama. la stessa Diana potrebbe ancora indugiare su quel lido deserto, e vagare ancora per quei boschi selvaggi.

In tempi remoti, questo paesaggio agreste era teatro di una misteriosa e ricorrente tragedia. Sulla sponda settentrionale del lago, proprio sotto i dirupi scoscesi ai quali si aggrappa la Nemi odierna, sorgevano il bosco sacro e il santuario della Diana Nemorensis, la Diana dei Boschi. Sia il lago che il boschetto erano talvolta chiamati lago e boschetto di Aricia. Ma la cittadina di Aricia (la moderna Ariccia) si trovava in realtà a circa tre miglia di distanza, ai piedi del Monte Albano, e uno scosceso pendio la separava dal lago adagiato sul fondo di un piccolo cratere, sul fianco della montagna. In quel sacro bosco cresceva un albero particolare intorno al quale, a tutte le ore del giorno e forse anche a notte inoltrata, era possibile vedere aggirarsi una truce figura. La spada sguainata nella mano destra, si guardava intorno sospettosa, come temendo che un nemico l’aggredisse da un momento all’altro. Quella figura era un sacerdote, e un omicida; destinato a cadere, prima o poi, sotto i colpi del nemico da cui si guardava e che gli sarebbe succeduto nell’autorità sacerdotale. Un candidato al sacerdozio poteva ottenere l’incarico solo uccidendo il suo predecessore e occupandone il posto fino a quando non fosse stato a sua volta ucciso da un altro aspirante, più forte o più astuto di lui.

Jules Joseph Lefebvre, Diana. Olio su tela, 1879. Dahesh Museum of Art
Jules Joseph Lefebvre, Diana. Olio su tela, 1879. Dahesh Museum of Art.

La carica affidatagli comportava il titolo di sovrano; ma certo mai testa coronata dovette, più della sua, sentirsi a disagio o venir visitata dai più funesti sogni. Anno dopo anno, d’estate e d’inverno, col sole o con la pioggia, mai poteva interrompere la sua solitaria vigilanza, e ogniqualvolta rubava un’ora di sonno agitato, lo faceva a rischio della vita. Un minimo allentamento nella sorveglianza, un minimo calo nella vigorìa delle sue membra o nella sua abilità di usar la spada, lo mettevano in pericolo; una chioma ingrigita poteva essere sufficiente a decretarne la morte. Agli occhi dei miti e devoti pellegrini che si recavano al santuario, la sua presenza poteva forse apparire come un’ombra che oscurasse quel limpido paesaggio ridente, come una nuvola che, in una chiara giornata, oscura d’improvviso il sole. L’azzurro evanescente del cielo italico, l’ombra variegata dei boschi in estate, lo scintillio delle acque sotto il sole, certo mal si accordavano con quell’austera e sinistra figura. Immaginiamoci piuttosto la scena quale poteva apparire al viandante sorpreso dalla notte – una di quelle sconsolate notti d’autunno, quando le foglie morte cadono fitte e il vento sembra intonare il lamento funebre per l’anno che muore. Un’immagine cupa, accompagnata da una musica triste – lo sfondo dei boschi neri e frastagliati contro un cielo incombente e tempestoso, il sospiro del vento fra i rami, il fruscio delle foglie appassite sotto i piedi, lo sciabordio dell’acqua gelida sulla riva e, in primo piano, ora illuminata dal crepuscolo ora inghiottita dall’ombra, una figura scura che cammina avanti e indietro, con un luccichio d’acciaio sulle spalle ogni volta che una pallida luna, sbucando da uno squarcio nelle nubi addensate, lo sbircia attraverso l’intrico dei rami.

La strana regola di quel sacerdozio non ha riscontro né spiegazione nell’antichità classica. Si deve risalire ben più lontano. Nessuno vorrà negare che tale costume abbia un sapore di “era barbarica” e che, sopravvissuto in epoca imperiale, esso costituisca un fenomeno isolato e discordante nella raffinata società italica di quel periodo, come una rupe primordiale in un prato ben rasato. […]

Oreste uccide Egisto e Clitemnestra. Bassorilievo, inizi I sec. d.C. c. da Ariccia. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek
Oreste uccide Egisto e Clitemnestra. Bassorilievo, inizi I sec. d.C. c. da Ariccia. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.

Cominciamo con l’esporre fatti e leggende tramandatici sull’argomento. Si narra che il culto di Diana a Nemi fosse stato istituito da Oreste il quale, dopo aver ucciso Toante, re del Chersoneso Taurico (la Crimea), si rifugiò in Italia con sua sorella, portando con sé il simulacro della Diana Taurica nascosto in una fascina di legna. Quando Oreste morì, le sue ossa furono trasportate da Aricia a Roma e sepolte davanti al tempio di Saturno, sul colle Capitolino, accanto al tempio della Concordia. Il cruento rituale che la leggenda attribuiva alla Diana Taurica è ben noto a chiunque legga i classici; si dice che ogni straniero che approdasse a quelle sponde venisse immolato sull’altare della dea. Ma, trasportato in Italia, il rito assunse una forma meno sanguinaria. All’interno del santuario di Nemi cresceva un albero di cui era proibito spezzare i rami. Solo a uno schiavo fuggitivo era concesso di cogliere una delle sue fronde. Se riusciva nell’impresa, acquistava il diritto di battersi con il sacerdote e, se lo uccideva, di regnare in sua vece col titolo di “re del bosco” (Rex Nemorensis).

Stando a quanto dicevano gli antichi, la fronda fatale era quel “Ramo d’Oro” che, per ordine della Sibilla, Enea colse prima di affrontare il periglioso viaggio nel mondo dei morti. La fuga dello schiavo doveva rappresentare la fuga di Oreste; il suo combattimento con il sacerdote adombrava il ricordo dei sacrifici umani offerti alla Diana Taurica. La norma che prescriveva di ottenere la successione con la spada rimase in vigore fino all’età imperiale; fra le altre sue stramberie, infatti, Caligola, ritenendo che il sacerdote di Nemi fosse rimasto troppo a lungo in carica, assoldò uno sgherro gagliardo e risoluto per ucciderlo; e un viaggiatore greco che visitò l’Italia al tempo degli Antonini, riferisce che il sacerdozio veniva ancora come premio al vincitore di un duello.

 

Ifigenia in Aulide. Affresco pompeiano, dalla Casa dei Vettii
Ifigenia in Tauride. Affresco, ante 79 d.C. dal triclinium della Casa dei Vettii, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

E’ ancora possibile ricostruire alcuni degli aspetti principali del culto della Diana Nemorense. Dalle offerte votive ritrovate in loco, è apparso chiaro che la dea era vista essenzialmente come cacciatrice ma anche come divinità che concedeva la prole agli esseri umani e un parto facile alle madri. Sembra anche che il fuoco fosse elemento preponderante del suo rito. Infatti, durante la festa annuale che si celebrava il 13 di agosto, nel periodo più caldo dell’anno, il boschetto era illuminato da una miriade di torce il cui bagliore si rifletteva nelle acque del lago; e in tutto il territorio italico ogni famiglia celebrava quel rito sacro. Statuette bronzee ritrovate nel recinto, raffigurano la dea che regge una torcia nella mano destra alzata; e le donne le cui preghiere erano state esaudite, si recavano inghirlandate, e con una torcia accesa, al santuario per sciogliere il voto. Uno sconosciuto dedicò una lampada perenne in un piccolo santuario di Nemi per la salute dell’imperatore Claudio e della sua famiglia. Le lampade di terracotta scoperte nel boschetto erano forse state offerte allo stesso scopo, per gente più umile. Se così fosse, sarebbe evidente l’analogia con l’usanza cattolica di accendere le candele benedette in chiesa. Inoltre, l’appellativo di “Vesta” conferito alla Diana di Nemi, indica chiaramente l’esistenza di un fuoco perennemente acceso nel santuario. All’angolo nord-orientale del tempio, un ampio basamento circolare appoggiato su tre gradini e recante ancora tracce di un pavimento a mosaico, probabilmente sorreggeva un tempio, anch’esso circolare, dedicato a Diana nella sua accezione di Vesta, del tutto simile al tempio circolare di Vesta nel Foro Romano. Sembra che anche qui il fuoco sacro fosse custodito da vergini vestali; sul luogo, infatti, è stata ritrovata la testa in terracotta di una vestale e pare che, dai tempi più antichi fino ai più recenti, il culto di un fuoco perenne accudito da fanciulle sacre fosse diffuso in tutto il Lazio. Inoltre, durante la festa annuale della dea,i cani da caccia venivano inghirlandati e non si molestavano gli animali selvatici; in suo onore, i giovani celebravano una cerimonia purificatrice; si recava il vino e il banchetto festivo consisteva in carne di capretto, dolciumi bollenti serviti su foglie di vite, e mele ancora attaccate in grappoli al loro ramo.

P. Accoleio Lariscolo. Roma, Denario, 41 a.C. AR. 3,95 gr. Verso - Statua cultuale della 'diva triformis', con cipressi, papavero e giglio
P. Accoleio Lariscolo. Roma, Denario, 41 a.C. AR. 3,95 gr. Verso: Statua cultuale di Diana Nemorensis; la dea è rappresentata da tre entità (perciò, detta diva triformis). Le tre figure sostengono una portantina sulla quale sono collocati dei cipressi; la figura a sinistra regge un papavero, mentre quella a destra regge un giglio.

 

Ma Diana non regnava da sola nel suo boschetto di Nemi. Il santuario era condiviso da altre due divinità minori. Una era Egeria, la ninfa della limpida acqua che, sgorgando spumeggiante dalla roccia basaltica, ricadeva nel lago in graziose cascate, in una località chiamata “Le Mole”, poiché qui vennero situati i mulini della Nemi moderna. Del mormorio del ruscello sui ciottoli parla Ovidio, il quale ci dice di aver bevuto spesso quell’acqua. Le donne incinte usavano sacrificare a Egeria perché si riteneva che, al pari di Diana, potesse concedere un parto facile. Narra la tradizione che la ninfa era stata la sposa, o l’amante, del saggio re Numa e che egli si congiungesse con lei nel segreto del bosco sacro; e che proprio la sua intimità con la dea gli avesse inspirato le leggi che diede a Roma. Plutarco confronta questa leggenda con altri racconti sugli amori di dee con uomini mortali, quali l’amore di Cibele e della Luna per i bellissimi Atti ed Endimione. Secondo alcuni, il luogo di convegno degli amanti non erano i boschi di Nemi, bensì un boschetto fuori dalla stillante Porta Capena, a Roma, dove un’altra fonte sacra a Egeria sgorgava da un’oscura grotta. Ogni giorno, le vergini vestali attingevano acqua a quella fonte per lavare il tempio di Vesta, trasportandola in brocche di terracotta tenute in bilico sul capo. Ai tempi di Giovenale, la roccia naturale era stata rivestita di marmo e il luogo sacro veniva profanato da frotte di poveri Ebrei che si tollerava bivaccassero nel bosco, come zingari. Possiamo supporre che la sorgente le cui acque ricadevano nel lago di Nemi fosse la vera Fons Egeria originale e che, quando i primi coloni scesero dai colli Albani sulle sponde del Tevere, essi portarono con sé la ninfa, trovandole una nuova collocazione in un boschetto fuori dalle mura della città. I ruderi di terme scoperti all’interno del recinto sacro e le numerose terrecotte riproducenti varie parti del corpo umano, suggeriscono che l’aqua Egeria servisse a guarire gli infermi i quali, a testimonianza delle loro speranze o per esprimere la propria gratitudine, dedicassero alla divinità raffigurazioni delle membra malate […].

Ulpiano Checa, La ninfa Egeria detta a Numa le leggi di Roma. Olio su tela, 1886.
Ulpiano Checa, La ninfa Egeria detta a Numa le leggi di Roma. Olio su tela, 1886.

 

L’altra divinità minore di Nemi era Virbio. Narra la leggenda che Virbio era Ippolito, il giovane eroe greco, casto e bello, il quale aveva appreso l’arte venatoria dal centauro Chirone e trascorreva la vita nei boschi a caccia di belve, avendo come unica compagna la vergine cacciatrice Artemide (l’equivalente greco di Diana). Fiero di quella divina compagna, egli disdegnava le donne e questa fu la sua rovina. Afrodite, offesa dalla sua indifferenza, fece innamorare di lui la matrigna Fedra; e quando Ippolito respinse le turpi offerte della donna, lei lo accusò falsamente presso suo padre Teseo, il quale credette alle menzogne di Fedra. Teseo si rivolse allora al proprio padre Poseidone perché vendicasse l’immaginario affronto. Mentre Ippolito guidava il suo carro lungo le rive del golfo Saronico, il dio del mare gli mandò contro un feroce toro scaturito dalle onde. I cavalli, terrorizzati, si impennarono scaraventando Ippolito giù dal carro, e lo trascinarono nel loro galoppo uccidendolo. Ma Diana, che amava Ippolito, convinse il medico Esculapio a riportare in vita con le sue erbe medicamentose il giovane cacciatore. Giove, sdegnato perché un mortale era tornato indietro dal regno dei morti, scaraventò l’incauto medico nell’Ade. Diana nascose però il suo amato in una densa nube sottraendolo all’ira del dio, ne camuffò i lineamenti facendolo apparire più vecchio, poi lo portò lontano, nelle valli di Nemi, affidandolo alla ninfa Egeria perché lì vivesse, sconosciuto e solitario, sotto il nome di Virbio, nel cuore della foresta italica. E colà egli regnò come sovrano e dedicò un sacro recinto a Diana. Ebbe un figlio leggiadro, anche lui chiamato Virbio, il quale, per nulla intimorito dalla sorte paterna, alla guida di un tiro di focosi destrieri combatté a fianco dei Latini nella guerra contro Enea e i Troiani. Virbio era venerato come un dio non solamente a Nemi; si hanno infatti notizie che in Campania esisteva un sacerdote speciale, dedicato al suo servizio. Dal bosco e dal santuario di Nemi vennero banditi i cavalli, poiché dei cavalli avevano ucciso Ippolito. Non era permesso toccare la sua immagine. Alcuni ritengono che egli fosse il Sole. “Ma in realtà – scrive Servio – egli è una divinità associata con Diana, come Atti è associato alla madre degli dèi, Ectonio lo è con Minerva, e Adone con Venere”. Fra poco, vedremo di quale associazione si trattasse. A questo punto, val la pena di sottolineare come, nella sua lunga e movimentata esistenza, questo mitico personaggio dimostrasse una notevole tenacia nel voler sopravvivere. Non vi è dubbio, infatti, che il S. Ippolito del calendario romano, trascinato a morte dai cavalli il 13 agosto, giorno dedicato a Diana, altri non sia che l’eroe greco suo omonimo che, morto due volte come peccatore pagano, fu felicemente resuscitato come santo cristiano.

 

Ippolito. Affresco, I sec. d.C. dalla Villa Arianna (Stabia). Castellamare di Stabia, Antiquarium
Ippolito. Affresco, I sec. d.C. dalla Villa Arianna (Stabia). Castellamare di Stabia, Antiquarium.

 

Non c’è bisogno di complicate prove per convincerci che le storie raccontate per spiegare il culto di Diana a Nemi siano prive di fondamento storico. Esse appartengono evidentemente a quella vasta categoria di miti elaborati per spiegare le origini di un rituale religioso e che altro fondamento non hanno se non le analogie, reali o immaginarie, che si possono trovare fra quel rituale e qualche altro rito straniero. L’incongruità di miti nemorensi è trasparente, dato che l’istituzione del culto è attribuita ora a Oreste ora a Ippolito, a seconda di quale particolare aspetto del rituale si voglia spiegare. Il valore effettivo di questi racconti è che essi servono ad illustrare la natura del culto, fornendo un modello con cui confrontarlo; e che, indirettamente, ci danno testimonianza della sua venerabile antichità, dimostrando che la vera origine si perde nella brumosa notte dei tempi. Sotto questo aspetto, sulle leggende di Nemi, si può forse fare più affidamento che non sulla tradizione, apparentemente storica, sostenuta da Catone il Vecchio, secondo cui il bosco sacro sarebbe stato dedicato a Diana da un certo Egerio Bebio o Levio, di Tuscolo, dittatore latino, per incarico degli abitanti di Tuscolo, Aricia, Lanuvio, Laurento, Corti, Tivoli, Pomezia e Ardea. Questa tradizione indica come il santuario sia antichissimo, poiché ne farebbe risalire la fondazione a una data anteriore al 495 a.C., anno in cui Pomezia fu messa a ferro e fuoco dai Romani e scomparve dalla storia. Ma è impossibile supporre che una norma così barbara come quella del sacerdozio di Aricia sia stata deliberatamente emanata da una lega di comunità civili, come senza dubbio erano le città latine. Doveva sicuramente trattarsi di una regola tramandata di generazione in generazione, da un’epoca anteriore alla memoria umana, quando l’Italia era ancora in uno stato ben più primitivo di qualsiasi altro da noi conosciuto in tempi storici. L’attendibilità di questa tradizione è inficiata, più che confermata, da un’altra storia che attribuisce la costruzione del santuario a un certo Manio Egerio – da qui il detto “Vi sono molti Manii ad Aricia“, che alcuni spiegano affermando che Manio Egerio fu progenitore di una lunga e illustre schiatta; mentre altri ritengono che il detto popolare si riferisse alla presenza in Aricia di molta gente brutta e deforme, facendo derivare il nome Manius da Mania, lo “spauracchio”, il “baubau” che spaventa i bambini. Un autore satirico romano chiama Manio il mendicante che sosta sulle pendici di Aricia in attesa dei pellegrini. Queste varie interpretazioni, che vengono ad aggiungersi alla discrepanza fra il Manio Egerio di Aricia e l’Egerio Levio di Tuscolo, nonché alla somiglianza dei due nomi con quello della mitica Egeria, suscitano sospetto. Comunque, la tradizione, riportata da Catone appare troppo circostanziata, e il suo sostenitore troppo rispettabile perché la si possa accantonare come pura e semplice invenzione. E’ più verosimile supporre che essa si riferisca ad un antico restauro, o a una ricostruzione, del santuario, eseguito dagli stati confederati. Ad ogni modo, essa attesta la credenza che, fin da tempi remoti, il bosco sia stato luogo di culto per molte delle città più antiche del territorio, se non per tutta la confederazione latina.