ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Se è difficile diventare compiutamente «valenti» dal momento che la realtà esterna può costringere un individuo ad agire contro il suo volere, un criterio di giudizio a “misura d’uomo” potrà pur sempre far riferimento ai realistici margini d’azione dell’individuo, e il poeta – come si dice nell’encomio a Scopas (F 542 PMG) – cesserà di farsi cantore della virtù assoluta (perfetta valentia dell’uomo «quadrato», cioè simmetricamente costruito come i κοῦροι delle statue coeve) e loderà invece chi non commetta volontariamente azioni riprovevoli. Questo componimento è riportato da Platone nel Protagora (339a-347a), in un passo in cui si consuma una disputa fra l’omonimo filosofo che dà il nome al dialogo e Socrate a proposito della virtù. I due interlocutori, nella finzione letteraria, sottopongono il carme simonideo a un lungo e lucido esame. La testimonianza platonica è importante e interessante per due ragioni: innanzitutto, perché illumina del livello raggiunto dall’esegesi letteraria nell’ambito dell’Accademia; in seconda analisi, per il fatto che rappresenti, proprio dal punto di vista critico, l’archetipo delle animose dispute fra gli studiosi cui è stato esposto il brano fino a oggi.
Policleto, Diadumenos. Statua, Copia in marmo di età romana dall’originale in bronzo del V secolo a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale
ἄνδρ’ ἀγαθὸν μὲν ἀλαθέως γενέσθαι
χαλεπὸν χερσίν τε καὶ ποσὶ καὶ νόωι
τετράγωνον ἄνευ ψόγου τετυγμένον·
[
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[
οὐδέ μοι ἐμμελέως τὸ Πιττάκειον
νέμεται, καίτοι σοφοῦ παρὰ φωτὸς εἰ-
ρημένον· χαλεπὸν φάτ’ ἐσθλὸν ἔμμεναι.
θεὸς ἂν μόνος τοῦτ’ ἔχοι γέρας, ἄνδρα δ’ οὐκ
ἔστι μὴ οὐ κακὸν ἔμμεναι,
ὃν ἀμήχανος συμφορὰ καθέληι·
πράξας γὰρ εὖ πᾶς ἀνὴρ ἀγαθός,
κακὸς δ’ εἰ κακῶς [
[ἐπὶ πλεῖστον δὲ καὶ ἄριστοί εἰσιν
[οὓς ἂν οἱ θεοὶ φιλῶσιν.]
τοὔνεκεν οὔ ποτ’ ἐγὼ τὸ μὴ γενέσθαι
δυνατὸν διζήμενος κενεὰν ἐς ἄ-
πρακτον ἐλπίδα μοῖραν αἰῶνος βαλέω,
πανάμωμον ἄνθρωπον, εὐρυεδέος ὅσοι
καρπὸν αἰνύμεθα χθονός·
ἐπὶ δ᾽ὑμὶν εὑρὼν ἀπαγγελέω.
πάντας δ’ ἐπαίνημι καὶ φιλέω,
ἑκὼν ὅστις ἔρδηι
μηδὲν αἰσχρόν· ἀνάγκαι
δ’ οὐδὲ θεοὶ μάχονται.
[
[
[οὐκ εἰμὶ φιλόψογος, ἐπεὶ ἔμοιγε ἐξαρκεῖ
ὃς ἂν μὴ κακὸς ἦι] μηδ’ ἄγαν ἀπάλαμνος εἰ-
δώς γ’ ὀνησίπολιν δίκαν,
ὑγιὴς ἀνήρ· οὐ μὴν† ἐγὼ
μωμήσομαι· τῶν γὰρ ἠλιθίων
ἀπείρων γενέθλα.
πάντα τοι καλά, τοῖσίν τ’ αἰσχρὰ μὴ μέμεικται.
È veramente difficile diventare un uomo
valente nelle mani, nei piedi e nella mente,
quadrato, plasmato senza macchia.
[
[
[
[
[
[
[
E nemmeno, a mio avviso, risulta intonato quel
detto di Pittaco, benché si stato pronunciato da
uomo saggio: “È difficile – diceva – essere valente!”.
Soltanto un dio potrebbe avere questo privilegio,
non è possibile che non sia ignobile un uomo
che disgrazie irreparabili abbiano colto:
se ha successo, infatti, ogni uomo è buono,
ma se è inetto, le cose gli vanno male [
[del resto, i migliori per lungo tempo sono
[coloro che gli dèi prediligono].
E dunque, proprio io non butterò via una parte
della mia esistenza a cercare ciò che è impossibile
in una vuota e inconcludente speranza,
cioè, un uomo senza difetti, fra quanti
ci nutriamo del frutto dell’ampia terra;
ma se lo scoverò, ve lo farò sapere!
Io elogio e ammiro tutti coloro che,
di propria volontà, non commettono
alcunché di turpe: contro la necessità
nemmeno gli dèi combattono.
[
[
[Io non sono uno incline alla polemica, dacché mi
basta che uno non sia] malvagio né troppo inetto e
che conosca la giustizia che giova alla città,
un uomo moralmente sano; io non lo
biasimerò: infatti, è infinita
la generazione degli stolti.
Bello è tutto ciò a cui il male non si mescola.
Policleto, Doriforo. Statua, Copia in marmo di età romana dall’originale in bronzo del V secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
L’argomento su cui è imperniato l’intero componimento consiste nella difficoltà (o forse meglio, nell’impossibilità!) per un essere umano di essere o diventare ἀγαθός («valente»). Vi sottende una problematica che è forse meglio evidente grazie a un confronto con il F 16 Voigt di Saffo, il cui tema centrale risponde alla domanda: «Che cos’è la cosa più bella?» (τί τὸ καλόν;); domanda per la quale, in età arcaica, esisteva un interesse particolare verso una sorta di gerarchia di valori. Quanto a Simonide, nello specifico, si è tentato di dire che su questo punto egli sia andato oltre Saffo: con il poeta di Ceo, infatti, si giunge alla critica di quei valori, uscendo da una considerazione personale (quale quella della poetessa di Lesbo) nella quale si indica un valore che supera tutti gli altri, per arrivare alla negazione di qualsiasi soluzione rigidamente gerarchica e definitiva. Simonide fu poeta portato a considerare la relatività dei valori. All’etica dell’assoluto (nobiltà, salute, ricchezza, ecc.), egli contrapponeva una “relatività” di principi, forse meno eroici ma più umani, che da un punto di vista estetico-agonale discendevano a quello più vasto dell’impegno civico e sociale dell’individuo nella πόλις.
Il carme è introdotto da tre versi retti dall’espressione γενέσθαι / χαλεπὸν (sott. ἔστι); γενέσθαι, aor. inf. di γίγνομαι, vuol dire letteralmente “entrare in un nuovo stato dell’essere”, quindi “divenire”. In τετράγωνος qualcuno ha ravvisato tracce della dottrina pitagorica, secondo la quale il numero 4 e il quadrato rappresenterebbero la perfezione, la massima compiutezza. Non si esclude, tuttavia, che Simonide alluda piuttosto al canone delle quattro virtù – che ha numerose attestazioni – la più celebre delle quali si ha in Platone: saggezza, temperanza, coraggio e giustizia (cfr. Pind. N II); τετυγμένον, part. perf. di τεύχω, “creare, plasmare”. Quanto a Pittaco di Mitilene, com’è noto, egli era annoverato fra i Sette Sapienti: la citazione di una sua massima da parte del poeta rivela, per la prima volta nella letteratura greca, la volontà di precisare la paternità del materiale utilizzato da un autore. Il tiranno di Lesbo è definito σοφοῦ… φωτὸς (v. 12): l’aggettivo, qui attestato per la prima volta nei riguardi del personaggio, lo include decisamente nel canone dei grandi saggi; il sostantivo, invece, è un omerismo per dire “uomo” (anche se nell’accezione epica andrebbe inteso come “uomo dalle qualità eccezionali”).
Il poeta muove una polemica personale al motto del tiranno, uomo arcaico: contrappone infatti al suo ἔμμεναι (inf. eol. di εἰμί, “essere”) il proprio γενέσθαι (“divenire”); “essere” al presente infinito indica una condizione costante, statica e continua, propria di una persona o di una cosa. Nella concezione arcaica, dunque, un individuo nasceva già “valente” e sarebbe rimasto tale in tutto l’arco della sua esistenza. Diversamente, “diventare” presuppone una realtà completamente opposta, nella quale la persona, come ogni altra cosa, è soggetta al divenire, al mutevole, all’influsso variabile delle circostanze contingenti.
Scultore anonimo. Auriga di Delfi. Statua, bronzo, c. 475 a.C. dal Santuario di Apollo Pizio. Delfi, Museo Archeologico.
Simonide, insomma, della società del suo tempo sottolinea la difficoltà a raggiungere lo stato di eccellenza e di perfezione proprio degli uomini di una volta, cui quelli di oggi devono comunque aspirare e protendersi, malgrado le difficoltà e i condizionamenti della vita. Solo alla divinità, infatti, è concesso il privilegio di “essere”: gli dèi, una volta venuti alla luce, sono immutabili, eternamente giovani ed eternamente belli. Quest’idea è rimarcata anche da Pindaro (Pyth. X 21-22), che afferma: «Non un uomo, ma un dio sarebbe chi avesse il cuore scevro d’affanni». Ma mentre per Pindaro è possibile che una persona, oltre a mille difficoltà e tribolazioni, raggiunga una stabile felicità (anche in virtù dello status sociale e del favore divino di cui possa godere), per Simonide, invece, la vicenda umana è sempre e costantemente soggetta al mutare delle cose: perciò, la valentia di ciascuno è determinata dalla condizione in cui egli si trova. Di conseguenza, le contingenze diventano per Simonide gli unici criteri che consentano di giudicare la condizione mortale.
A ben vedere, inoltre, questa idea del divenire e del continuo mutare troverà un ulteriore sviluppo nella seconda metà del V secolo, realizzandosi pienamente con il fiorire della tragedia. A tal proposito, basti ricordare che nell’Edipo re di Sofocle si dice: «Non dire felice un uomo mortale prima che abbia varcato il termine della vita senza aver patito dolore». Si tratta di un concetto altresì presente in Erodoto (III 40, 3): «Nessun uomo io conosco che, felice in ogni cosa, non sia poi finito male, sconvolto dalle radici».
La novità del componimento simonideo sta soprattutto nel fatto che il brano non si limita alla polemica fine a sé stessa, ma propone una nuova visione delle cose: siccome non è possibile trovare un uomo perfetto, il poeta dichiara di non aver alcuna intenzione di sprecare il proprio tempo a cercarlo. La nuova società del V secolo rifiuta ormai l’ideale tradizionale dell’ἀρετή, che basava la condizione sociale del singolo in base alla sua stirpe (γένος); il poeta constata che la natura (φύσις) dell’uomo è fragile, momentanea e istantanea. Simonide, dunque, offre un nuovo modello valoriale, relativo all’individuo che dev’essere eticamente “sano” e “integro”, esercitando ed esprimendo la propria volontà senza commettere turpitudini. Questi, del resto, saranno i temi chiave dell’ideologia democratica.
[320c] «Non mi rifiuterò, Socrate», disse; «ma preferite che lo dimostri narrando un mito, come un vecchio che si rivolge ai giovani, o con un ragionamento?».
Molti di coloro che sedevano vicino gli risposero di dimostrarlo come preferisse. «Mi sembra più piacevole narrarvi un mito», decise allora lui.
Piero di Cosimo, Il mito di Prometeo. Olio su pannello, 1515. Alte Pinakothek, München.
«Vi era un tempo in cui esistevano gli dèi ma [320d] non le stirpi mortali. Poiché però anche per queste giunse il tempo predestinato alla nascita, gli dèi, nel cuore della terra, le plasmarono di terra e fuoco mescolando anche quegli elementi che con la terra e il fuoco si combinano. Al momento di farle uscire alla luce, ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di assegnare e distribuire le capacità in modo conveniente a ciascuna specie. Epimeteo però chiese a Prometeo di poter fare la distribuzione lui solo: “Quando avrò terminato – disse – tu controllerai”. E, dopo averlo così persuaso, procedette. Nel fare la distribuzione, ad alcune specie assegnava la forza senza la velocità, [320e] di cui dotava invece le più deboli; alcune le armava, ma escogitava qualche altra facoltà per la salvezza delle specie cui aveva dato una natura inerme. Così forniva di ali per fuggire o di un rifugio sotterraneo la specie che faceva minuscole, quelle invece che esaltava in imponenza le salvava proprio grazie a questa; [321a] e in tal modo, cercando un equilibrio, distribuiva anche le altre capacità. Egli progettava queste cose preoccupandosi che nessuna delle specie si estinguesse e, dopo averle equipaggiate contro la reciproca distruzione, predispose anche una difesa contro le stagioni mandate da Zeus, rivestendole di folte pellicce e di pelli spesse capaci di proteggerle dal freddo, difenderle dal caldo e fungere da coltri naturali adatte a ciascuna durante il riposo; [321b] poi ne calzò di zoccoli alcune altre invece [di pelli e] di pelle dura e priva di sangue. Quindi destinò loro cibi diversi, alle une i pascoli della terra, ad altre i frutti degli alberi, le radici ed altre ancora; ve ne furono poi alcune cui concesse di nutrirsi di altri animali, e a esse accordò una prole esigua, mentre alle loro prede consentì una discendenza numerosa per assicurare così la sopravvivenza della specie. Senonché, non essendo un gran sapiente, a un certo punto Epimeteo [321c] si accorse di aver esaurito le capacità a favore degli esseri privi di parola, per cui la specie umana rimaneva ancora sprovvista ed egli non sapeva come rimediare. Mentre si dibatteva nell’incertezza, si presenta Prometeo per esaminare la distribuzione e nota che gli altri animali sono equipaggiati in modo conveniente, mentre invece l’uomo è nudo, scalzo, scoperto, inerme, benché già si avvicinasse il giorno stabilito in cui anche lui da sottoterra avrebbe dovuto venire alla luce. Perciò, non sapendo quale via di sopravvivenza trovare per lui, [321d] Prometeo ruba a Efesto e ad Atena il sapere tecnico e con esso il fuoco – infatti senza fuoco era impossibile acquistare e usare tale sapere – e lo porta all’uomo. In tal modo quest’ultimo ottenne il sapere necessario alla vita quotidiana, ma non ancora il sapere politico, che si trovava presso Zeus. Prometeo però non poteva più penetrare nell’acropoli, dimora del dio – dove oltretutto si trovavano le sue temibili guardie – , ed entra dunque furtivamente nell’officina [321e] dove Atena ed Efesto erano impegnati insieme al lavoro e, rubata l’arte del fuoco di Efesto e l’altra di Atena, le diede all’uomo; da allora l’uomo ha una risorsa per la vita, [322a] mentre si narra che in seguito al furto di Prometeo, per colpa di Epimeteo, fu punito con una condanna.
Constantin Hansen, Prometeo modella l’uomo dall’argilla. Olio su tela, 1845.
Poiché inoltre l’uomo fu fatto partecipe di sorte divina, unico tra gli esseri viventi credette per prima cosa negli dèi e iniziò a innalzare statue e altari in loro onore. Ben presto poi articolò abilmente la voce e le parole, e si procurò abitazioni, vesti, calzature, giacigli e sostentamento dalla terra. Pur così provvisti, tuttavia, agli inizi gli uomini abitavano divisi [322b] – non esistevano città – perciò, essendo molto più deboli degli animali feroci, morivano a causa di questi ultimi: le tecniche produttive che possedevano, infatti, li soccorrevano adeguatamente nel procurarsi il cibo, ma non nel combattere le fiere, perché essi non possedevano l’arte politica della quale fa parte il combattere. Allora cercarono di unirsi e di trovare salvezza fondando città. Ma anche quando si radunavano, continuavano a commettere ingiustizie l’uno contro l’altro, sempre perché non conoscevano l’arte politica, e così, disperdendosi nuovamente, perivano. A quel punto Zeus, [322c] temendo che la nostra stirpe scomparisse del tutto, mandò Ermes a portare agli uomini il senso del rispetto e del giusto, perché fossero posti a fondamento delle città e favorissero i vincoli di amicizia. Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse dare agli uomini il senso del giusto e del rispetto: “Li distribuisco anch’essi come sono state distribuite le tecniche? Cioè in modo che uno solo che possieda l’arte medica basti ai molti che non la possiedono, e così anche gli altri che prestano la loro opera al prossimo? Distribuisco tra gli uomini in questo stesso modo anche il senso del giusto e del rispetto [322d] o li concedo a tutti?”. “A tutti – rispose Zeus –, “in modo che tutti ne partecipino, perché non potrebbero sorgere città se il senso del rispetto e quello del giusto, come le altre arti, fossero posseduti da pochi; e quale legge voluta da me poi che sia ucciso, in quanto rovina della città, chi non sappia avere rispetto e giustizia”. Quindi, Socrate, anche per queste ragioni, quando si tratta di cognizioni di architettura o di qualche altra arte produttiva, come gli altri pure gli Ateniesi ritengono che pochi abbiano il diritto di partecipare a una deliberazione, [322e] e, se qualcuno all’infuori di questi pochi suggerisce un parere, non lo tollerano, come tu dici; giustamente, aggiungo io. Ma quando si consultano su questioni di virtù politica e si deve quindi procedere del tutto secondo giustizia e saggezza, [323a] giustamente essi ascoltano chiunque di buon grado, convinti che tutti partecipino di queste virtù, perché altrimenti non vi sarebbero città. Questa, Socrate, ne è la ragione.
Tempio di Athena Parthenos (Partenone). Acropoli di Atene.
Ma perché tu non creda che io ti inganni nel dire che in verità tutti sono convinti che ogni uomo partecipi della giustizia e del resto della virtù politica, senti anche questo ragionamento. Nelle altre virtù, come tu dici, se qualcuno afferma di essere un buon flautista, o bravo in un’altra arte, e invece non lo è, o viene deriso [323b] o è fatto oggetto di sdegno e i familiari corrono a riprenderlo come se fosse un matto; ma in materia di giustizia e di virtù politica in generale, se anche tutti vedono che uno è ingiusto ed egli, contro il suo interesse, dichiara la verità davanti a molti, quel che nel caso precedente tutti ritenevano segno di saggezza – dire la verità – qui sembra follia, per cui affermano che tutti devono dire di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non cerca di apparire [giusto] – [323c] perché, necessariamente, o ciascuno partecipa in qualche misura di tale virtù, o non può stare tra gli uomini.
Così ti ho detto come accade che chiunque viene giustamente accettato quale consigliere in materia di questa virtù, perché si pensa che ognuno ne abbia parte; ora tenterò di dimostrarti che si crede che essa non si possieda per natura e che non venga da sé, ma che si possa insegnare e si ottenga cono l’applicazione. Nessuno infatti si sdegna per quei difetti di cui ognuno incolpa la natura o la sorte altrui, [323d] né rimprovera, riprende o punisce chi ne è afflitto affinché non sia più così, ma lo compatisce. Chi, per esempio, sarebbe così sciocco da comportarsi in questo modo con chi è brutto, piccolo o debole? Perché tutti sanno, penso, che gli uomini ricevono queste cose dalla natura o dalla sorte, le virtù come i difetti. Invece, per le qualità che si ritiene gli uomini acquisiscano con l’applicazione, l’esercizio e lo studio, chi non le possiede, ma abbia al contrario i difetti opposti, attira su di sé le ire, le punizioni e i rimproveri. [323e] Uno di questi difetti è proprio l’ingiustizia, l’empietà e tutto quanto è contrario alla virtù politica; [324a] allora tutti si sdegnano e rimproverano tutti, certamente perché pensano che essa si possa ottenere con l’applicazione e lo studio. Se infatti volessi considerare che cosa significhi punire chi commette ingiustizia, Socrate, scopriresti che gli uomini sono convinti che la virtù si possa acquisire, poiché nessuno punisce chi commette ingiustizia pensando a questo e a causa di questo, che ha commesso ingiustizia – [324b] certo, chiunque non si vendichi irrazionalmente come una belva ma intenda punire con buona ragione, non per vendicarsi del delitto commesso, tanto non potrebbe cancellare ciò che è avvenuto, ma in vista del futuro, affinché né quello stesso uomo né chi vede che questi viene punito commettano un’altra ingiustizia. Chi pensa in questo modo crede che la virtù sia frutto di educazione e perciò punisce per prevenire. Così la pensano tutti coloro che comminano pene, nelle questioni private come in quelle pubbliche e, non meno degli altri uomini, [324c] gli Ateniesi tuoi concittadini castigano e puniscono quanti considerano ingiusti mostrando che, in base a questo ragionamento, anch’essi sono tra coloro che credono che la virtù si possa acquisire e insegnare. Perciò mi sembra di averti dimostrato a sufficienza, Socrate, che con ragione i tuoi concittadini accettano che anche un fabbro e un calzolaio si pronuncino nelle questioni politiche, ritenendo che la virtù si possa sia acquisire sia insegnare.
Scuola di Fidia. Scena di processione sacrificale. Marmo pentelico, 438-432 a.C. dal fregio meridionale del Partenone. London, British Museum.
[324d] Resta ancora la difficoltà su cui sei in dubbio riguardo agli uomini capaci: perché mai essi insegnino ai figli le altre cose, quelle che spettano ai maestri, e in queste li rendano sapienti, mentre in quella virtù in cui essi sono grandi non li rendono affatto migliori. Su questo, Socrate, non ti narrerò un mito, ma farò un ragionamento. Infatti considera questo: esiste o non esiste qualcosa di cui è necessario che tutti i cittadini abbiano parte perché vi sia una città? [324e] Perché è qui, e solo qui, che si risolve la difficoltà su cui sei in dubbio. Se infatti quest’unica cosa esiste e non è né l’arte del costruttore né quella del fabbro o del vasaio, ma è giustizia, saggezza e santità, in breve quell’unica cosa che io chiamo virtù dell’uomo; [325a] se questa è la cosa di cui tutti devono partecipare e secondo la quale ognuno deve agire se vuole apprendere o fare alcunché, altrimenti non riesce; se si deve istruire o correggere chi non ne partecipi, sia fanciullo, uomo o donna, affinché, punito, diventi migliore, e chi non ascolti, nonostante i rimproveri e le punizioni, debba essere cacciato dalla città o ucciso come irrecuperabile; [325b] se è così, se è di questa natura la virtù, se gli uomini capaci insegnano ai figli le altre cose ma non questa, pensa come sono strani questi uomini. Che infatti ritengano che essa si possa insegnare, sia nelle faccende pubbliche sia in quelle private, l’abbiamo dimostrato; ma che, pur ritenendo che sia insegnabile e coltivabile, essi trasmettano ai figli le altre cose dalla cui ignoranza non deriva la pena di morte, e quella cosa invece da cui possono venire ai figli la pena di morte e l’esilio, [325c] se non sono educati e coltivati a virtù e, oltre alla morte, la confisca dei beni e in breve la rovina della famiglia, bene, che proprio questa cosa non la insegnino né se ne preoccupino con la massima sollecitudine è da non credere, Socrate! Cominciano fin da quando i figli sono piccoli e, finché vivono, li istruiscono e li ammoniscono. Appena il ragazzo capisce ciò che viene detto, [325d] sia la nutrice sia la madre, il precettore e il padre stesso si adoperano perché egli diventi quanto migliore ‹è› possibile in tutto ciò che fa o dice, insegnandogli e mostrandogli che questo è giusto e quest’altro ingiusto, che questo è bello e l’altro brutto, questo santo e questo empio, questo si fa e questo no. E se obbedisce di buon grado, bene; se no, come un legno storto e ricurvo, lo raddrizzano a suon di minacce e percosse. Dopodiché lo mandano a scuola e incaricano i maestri di preoccuparsi molto più della buona condotta degli allievi che della grammatica e della musica; [325e] i maestri si prendono cura di loro e, quando hanno imparato la grammatica e cominciano a capire i testi come prima le parole, gli mettono da leggere sui banchi le opere di grandi poeti, [326a] nelle quali vi sono molti ammonimenti, lodi ed encomii di uomini capaci dei tempi antichi, e li costringono a impararle a memoria affinché il ragazzo cerchi con ardore di eguagliarli e aspiri a diventare come loro. I maestri di musica a loro volta fanno lo stesso, si preoccupano che siano moderati e non commettano alcunché di male, dopo di che, quando hanno imparato a suonare la cetra, insegnano loro le opere di altri grandi poeti lirici, composte per essere suonate, [326b] e fanno in modo che i ritmi e le armonie conquistino le anime dei ragazzi affinché si addolciscano e, una volta diventati più misurati e temperati, possano rendersi utili con le parole e con i fatti – del resto in ogni momento della vita l’uomo ha bisogno di misura e di armonia. Poi li mandano anche dal maestro di ginnastica, perché con i corpi nelle migliori condizioni possano servire la mente già resa forte [326c] e non siano costretti a provare la paura a causa del cattivo stato dei corpi, né in guerra né in altre imprese. Tutto questo lo fanno coloro che hanno maggiori possibilità ‹di fare più cose›, cioè i più ricchi, i cui figli cominciano ad andare a scuola prima degli altri e la lasciano più tardi. E quando infine si separano dai maestri, la città a sua volta li costringe a imparare le leggi e a conformarsi al loro modello affinché non agiscano secondo il proprio capriccio. [326d] Ma proprio come i maestri danno ai ragazzi che non sanno scrivere linee già tracciate con lo stilo sulla tavoletta incerata e li costringono a scrivere secondo queste guide, così anche la città, prescrivendo le leggi scoperte da grandi e antichi legislatori, costringe a governare e a essere governati secondo di esse e punisce chi se ne allontani. Questa punizione viene chiamata raddrizzare, [326e] da voi come in molti altri luoghi, perché la giustizia raddrizza. Se tale dunque è la cura per la virtù, privata e pubblica, ti meravigli, Socrate, e dubiti che essa si possa insegnare? Dovresti ben più meravigliarti se non si potesse insegnare.
Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.
Perché allora da padri capaci nascono tanti figli sciocchi? Sappi anche questo: non vi è nulla di strano in questo, se è vero ciò che dicevo prima, che di questa cosa, della virtù, [327a] nessuno deve essere privo perché la città possa esistere. Se infatti le cose stanno come dico – e così è senza alcun dubbio – pensa a un qualunque altro studio o disciplina e rifletti. Se la città non potesse esistere a meno che tutti sapessimo suonare il flauto, ciascuno come può, e se questo tutti lo insegnassero a tutti, sia privatamente sia pubblicamente, e si punisse chi non suona bene senza negare questo insegnamento a nessuno così come ora nessuno nega l’insegnamento del giusto e delle leggi né lo tiene nascosto come si fa con le altre arti – [327b] infatti credo che la giustizia e la virtù siano cose utili l’un l’altro, e perciò tutti dicono e insegnano a tutti con entusiasmo ciò che è giusto e ciò che è conforme alle leggi; se così dunque ponessimo lo stesso entusiasmo e la stessa generosità anche nell’insegnarci a vicenda l’arte di suonare, credi tu, Socrate, che i figli dei buoni flautisti diventerebbero più bravi dei figli dei flautisti mediocri? Io credo di no, e penso invece che, di chiunque fosse figlio, diventerebbe famoso chi sia nato con più talento, mentre chi non ne sia dotato rimarrebbe oscuro; [327c] e a volte da un buon flautista nascerebbe un musicista mediocre, altre invece da un musicista mediocre uno bravo, ma tutti suonerebbero abbastanza bene in confronto ai profani e a chi non capisce nulla di flauto. È così anche nel nostro caso: chiunque, tra quanti sono stati educati secondo le leggi degli uomini, ti sembrasse estremamente ingiusto, lo considereresti giusto e un maestro di giustizia se dovessi giudicarlo in confronto a uomini che [327d] non hanno educazione né tribunali né leggi né qualcosa che li costringa a preoccuparsi della virtù e fossero come quei selvaggi che il poeta Ferecrate rappresentò l’anno scorso al Leneo; sicuramente, se ti trovassi tra uomini così, come i misantropi in quel coro saresti felice di ritrovarti con Euribate e Frinonda e ti lamenteresti rimpiangendo la malvagità degli uomini di qui. [327e] Mentre ora fai lo sdegnoso, Socrate, perché tutti sono maestri di virtù, ciascuno come può, e nessuno ti sembra tale; e ugualmente, se anche cercassi chi è maestro della lingua greca, non lo troveresti, né credo, [328a] se cercassi chi abbia insegnato ai figli dei nostri artigiani quell’arte imparata dai padri in misura delle capacità loro e dei colleghi che esercitavano la stessa arte, e chi abbia insegnato a questi, non credo sarebbe facile trovarne il maestro, Socrate, mentre facilissimo sarebbe trovare il maestri di chi è completamente ignorante, nella virtù come in tutte le altre cose. Invece, se vi è qualcuno che ci è superiore, anche se di poco, nel condurre alla virtù, dobbiamo rallegrarcene. [328b] Di fatto io credo di essere uno di questi, e di poter più degli altri aiutare chiunque a diventare un uomo degno e di successo in misura corrispondente al compenso che richiedo, e persino in misura maggiore, come sembra anche ai miei discepoli. Per questi motivi ho stabilito di essere remunerato nel modo seguente: quando uno ha imparato da me, se vuole, mi paga quanto denaro richiedo; altrimenti va in un tempio, [328c] dichiara sotto giuramento quanto gli sembra che valgano i miei insegnamenti e altrettanto offre.
Ecco, Socrate, ti ho esposto con un mito e con un ragionamento che la virtù si può insegnare, che gli Ateniesi la pensano così e che non vi è nulla di strano che da uomini capaci nascano figli da poco e figli capaci da uomini che non valgono nulla, poiché anche i figli di Policleto, che hanno la stessa età di Paralo e Santippo, non valgono nulla in confronto al padre, e così altri figli di altri artigiani. Ma non è il momento di metterli sotto accusa, poiché sono giovani, [328d] e vi sono ancora speranze per loro».
di G. Cambiano, in Id., Platone e le tecniche, Torino 1971, pp. 13-25.
J.-S. Berthélemy e J.-B. Mauzaisse, Prometeo dà vita all’uomo. Affresco, 1802. Paris, Musée du Louvre.
Le tesi del mito
Nei primi dialoghi platonici il quadro più omogeneo e diffuso del problema delle tecniche è esposto, sotto forma di narrazione mitica, dal sofista Protagora di Abdera, nel dialogo che porta il suo nome. In esso si racconta che, dopo un periodo in cui gli unici esseri esistenti erano gli dèi, venne il momento fatale della produzione delle specie mortali. Gli dèi provvidero a tale scopo, valendosi di terra e di fuoco, e incaricarono Prometeo ed Epimeteo di dare un ordine (κοσμῆσαι) alle specie prodotte e di distribuire a ognuna le possibilità (δυνάμεις) convenienti in grado di garantire la loro sopravvivenza. Epimeteo ottenne da Prometeo il privilegio di essere l’unico distributore e spartì equamente tra le specie forza, velocità, resistenza alle intemperie, prolificità e così via. Ma non si avvide di aver consumato le δυνάμεις con gli animali privi di ragione (τὰ ἄλογα). Il genere umano rimaneva senza ordine (ἀκόσμητον) ed egli non sapeva uscire da questa difficoltà. Prometeo, allora, per risolvere la situazione, rubò ad Efesto e ad Atena la sapienza tecnica (τὴν ἔντεχνον σοφίαν) con il fuoco e ne fece dono agli uomini. Ciò istituì una vera e propria parentela degli uomini con gli dèi e rese possibile, da una parte, la formazione della religione e dei culti e, dall’altra, l’articolazione di un linguaggio. Ma il risultato più diretto fu costituito dal fatto che gli uomini, valendosi della tecnica ottenuta in dono, poterono procurarsi abitazioni, calzature, vestiti e cibo. Tuttavia vivevano ancora isolati ed erano, quindi, esposti e indifesi agli assalti delle fiere. Per uscire da tale situazione si raccolsero in città, ma, sprovvisti di ogni tecnica politica, cominciarono a commettere ingiustizie reciproche, autodistruggendosi. Zeus, temendo l’estinzione totale del genere umano, mandò Ermes a distribuire agli uomini rispetto e giustizia (αἰδῶ τε καὶ δίκην), in modo da instaurare un ordine e legami di solidarietà fra essi. Ermes chiese se la distribuzione di rispetto e giustizia, che insieme costituiscono la tecnica politica, doveva essere fatta come quella delle altre tecniche – per cui, ad esempio, un medico esercita la propria tecnica anche per coloro che ne sono sprovvisti – oppure doveva concernere tutti. La decisione di Zeus fu che tutti ne fossero partecipi, poiché non sarebbe stato possibile il sorgere di città, se soltanto pochi avessero posseduto la tecnica politica. Da Zeus provenne, dunque, la legge che chi è privo di rispetto e giustizia sia ucciso come peste della città[1].
In questo racconto condizione naturale, tecniche artigianale e tecnica politica sono presentate come tre fasi, cronologicamente successive, della storia dell’umanità; ad ognuna di queste fasi corrisponde l’intervento benefico di un essere sovrumano, Epimeteo, Prometeo, Zeus. Ma la disposizione cronologica non è il fine principale del racconto di Protagora: ciò che egli vuole indicare sotto tale disposizione è il peso dei tre fattori, corrispondenti alle tre fasi, nel quadro della società umana[2]. In primo luogo è sottolineata l’insufficienza delle doti naturali umane ai fini della sopravvivenza. Mentre l’ordine del mondo animale si realizza sulla base di un’equa e armonica distribuzione di doti fisico-organiche, la sopravvivenza del mondo umano non è garantita dal possesso delle doti naturali. Le possibilità animali, di numero finito[3], sono diverse da specie a specie, ma nel loro insieme si compensano e si integrano reciprocamente, garantendo, secondo le loro proprietà specifiche, la sopravvivenza di ogni specie. A livello umano – cioè di esseri forniti di λόγος – questo risultato non è ottenuto dalle doti naturali umane, che Protagora considera inesistenti e, in ogni caso, inferiori e destinate al completo insuccesso nei confronti delle doti degli animali; non solo, ma non è neppure ottenuto dalle tecniche artigianali, che in prima approssimazione potrebbero sembrare l’equivalente delle doti naturali animali. Le tecniche artigianali sono distribuite analogamente alle possibilità animali, nel senso che soltanto alcuni individui dispongono dell’una o dell’altra, così come soltanto alcune specie animali hanno la forza o la velocità. L’analogia nella distribuzione si istituisce, secondo Protagora, fra specie animali e individui umani, non fra specie animali e specie umana: cioè come una specie ha una dote e un’altra un’altra dote, così un uomo ha una tecnica e un altro un’altra tecnica. Ma l’analogia non può estendersi oltre: mentre i rapporti fra le doti naturali sono tali che il conflitto tra le specie corrispondenti a tali doti non implica mai l’eliminazione di una specie, i rapporti fra le tecniche artigianali non garantiscono la sopravvivenza degli individui nei conflitti sia con l’ambiente esterno – finché rimangono isolati – sia degli individui tra loro – quando si riuniscono in gruppi. Mentre le doti animali regolano i conflitti tra specie, le tecniche artigianali nella migliore delle ipotesi regolano i conflitti tra il gruppo umano e le specie animali. Ciò presuppone che gli individui umani costituiscano un gruppo: l’efficacia parziale delle tecniche artigianali dipende dall’esistenza di una comunità umana. Le tecniche artigianali acquistano in efficacia non quando sono esercitate globalmente da un solo individuo, ma quando obbediscono al principio della divisione del lavoro all’interno di un gruppo. L’esercizio di una tecnica artigianale vale per altri individui che non sanno o non possono esercitarla. In altre parole, la sopravvivenza umana richiede costitutivamente l’organizzazione in gruppi da parte di individui in possesso di tecniche complementari. Da ciò dipende probabilmente la connessione istituita da Protagora fra la costituzione delle tecniche artigianali e l’origine del linguaggio. La possibilità e la maggiore efficacia di un uso sociale di tali tecniche conduce all’instaurazione di rapporti tra individui: il punto di incontro è una struttura comunicativa, un linguaggio, che non è però ancora il corrispettivo della formazione di un gruppo sociale. In conclusione la differenza fondamentale esistente fra le doti animali e le tecniche artigianali consiste nel fatto che, mentre tali doti non sono suscettibili di un uso nei confronti di specie sprovviste di esse ed hanno, quindi, una funzione puramente autarchica, le tecniche artigianali contengono in sé strutturalmente la possibilità di un tale uso nei confronti di altri individui.
Se il rapporto che lega gli animali alle proprie possibilità è di natura fisico-organica, il rapporto che lega l’uomo alle sue tecniche non è più tale. Mentre il primo rapporto, data la sua struttura, garantisce l’instaurazione di un ordine a livello animale, perché anche i conflitti più forti non sono in grado di annientare le possibilità costitutive di ogni specie, il secondo rapporto non è di per sé garante della sopravvivenza umana. Le tecniche artigianali non sono l’equivalente globale delle doti animali. Una tecnica artigianale da sola non salva l’uomo: occorre una pluralità di tali tecniche, in grado di scambiarsi servizi reciproci. Ma in tal modo emerge una realtà nuova, la riunione in gruppi, che non è però ancora l’instaurazione di un ordine umano. Le prestazioni reciproche, che sole sono in grado di affrontare positivamente l’assalto degli animali e dell’ambiente, non si sistemano naturalmente. Il fatto stesso che una tecnica possa essere usata in funzione di altri individui può portare alla nascita di conflitti interumani. L’esistenza, che la comunità garantisce nei confronti dei pericoli della natura, è minacciata sotto un altro piano. Tali conflitti, come non possono essere risolti dalle tecniche artigianali, che sono parte in causa, così non possono esserlo neppure mediante la religione e il linguaggio, che sono costitutivamente legati nella loro nascita all’affermarsi delle tecniche artigianali[4]. Soltanto una tecnica, diversa da quelle artigianali, può garantire la convivenza ordinata, che rende possibile lo stesso uso sociale delle tecniche con i vantaggi connessi, e la soluzione di eventuali conflitti. Essa è la tecnica politica: questa è la tesi centrale del mito raccontato da Protagora[5]. Ciò che differenzia la tecnica politica dalle altre tecniche è la distribuzione agli appartenenti di ogni gruppo umano. Diversamente dalle altre tecniche, la tecnica politica non è delegabile ad altri, a una minoranza di individui capaci di impiegarla per l’utilità di tutti gli altri, ma deve essere posseduta ed esercitata da tutti.
È evidente la matrice democratica di quest’ultima tesi protagorea: con essa Protagora sottolineava non solo la legittimità, ma l’obbligatorietà – pena la scomparsa di ogni gruppo sociale – della partecipazione di tutti i cittadini alla vita politica. Con questa tesi era giustificata la validità della democrazia ateniese. Il riconoscimento in ogni cittadino del possesso non delegabile della tecnica politica comportava la giustificazione dell’assemblea ateniese, come istituzione tipica di una democrazia diretta esercitata da tutti i cittadini. I valori tradizionali di αἰδώς e δίκη[6], interpretati come proprietà di ogni cittadino, potevano essere completamente recuperati alla cultura democratica. Ma d’altra parte il riconoscimento dell’estensione della tecnica politica a tutti i cittadini poteva anche comportare un’attenuazione del posto privilegiato che, all’interno della democrazia ateniese, potevano detenere e di fatto sovente detenevano gruppi o classi, non esclusa quella degli artigiani[7]. La tesi dell’insufficienza delle tecniche artigianali a garantire l’esistenza di una comunità politica poteva contribuire ad accentuare tale aspetto.
Atene. Acropoli, ricostruzione grafica degli edifici principali (disegno di F. Corni).
L’autenticità del mito e il discorso di Protagora
Sull’autenticità di questo mito narrato da Protagora i filologi e gli storici hanno sostenuto le tesi più disparate[8]. Occorre osservare intanto che Protagora, con molta probabilità, si occupò di problemi di storia della civiltà in un’opera intitolata Περὶ τῆς ἐν ἀρχῇ καταστάσεως, che Platone, nella stesura del mito, quasi sicuramente dovette utilizzare[9]. Ma il problema dell’autenticità presenta due aspetti distinti, perché si tratta di determinare, da una parte, se la forma mitica con il suo correlato religioso possa già risalire a Protagora e, dall’altra, se tutto il contenuto concettuale appartenga al Protagora storico o contenga interpolazioni platoniche. Sul primo punto è necessario riconoscere l’impossibilità di decidere se l’assunzione di uno strumento come il mito, da parte di un uomo che aveva affermato che non è possibile una conoscenza autentica degli dèi[10], fosse contraddittoria o no. D’altra parte l’impianto mitico-narrativo nell’esposizione di problemi di storia della cultura aveva origini lontane e poteva essere assunto soltanto per rendere più agevole il discorso, mediante riferimenti familiari[11]. Ma è anche possibile che la trascrizione mitica di tale problematica implicasse scelte più sostanziali. In ogni caso più rilevante è il secondo aspetto del problema, perché consente di collocare Protagora e Platone all’interno di un quadro di alternative concernenti il problema delle tecniche e il ruolo dei tecnici nella società. La soluzione della questione dell’autenticità del mito è coinvolta e coinvolge insieme una ricostruzione storiografica della posizione di Platone sulle tecniche. Ma prima di passare a ciò, occorre prendere in considerazione il discorso che Platone, sempre nel Protagora, fa pronunciare al sofista, immediatamente dopo l’esposizione del mito.
Nel discorso, come nel mito, Protagora intende, in primo luogo, giustificare la netta distinzione fra tecniche artigianali e tecnica politica. Se tale distinzione esiste, diventa del tutto comprensibile e giustificabile il fatto che nell’assemblea ateniese le questioni di competenza delle tecniche artigianali siano demandate a un numero limitato di esperti operanti per l’intera comunità, mentre nelle decisioni, nelle quali entra in gioco l’ἀρετή politica, tutti si sentano in diritto di fornire pareri. Questo atteggiamento dipende da una valutazione più generale, che permette di differenziare i due tipi di tecniche. Nell’ambito delle tecniche artigianali la professione di verità è indispensabile: chi professa di saper fare ciò che non è capace di fare, è valutato negativamente dal gruppo, per la sua inutilità e la sua mistificazione. Nell’ambito etico-politico, invece, la professione di verità, ben lungi dall’essere indispensabile, è in determinati casi vietata: chi dichiara la verità, per esempio di essere ingiusto, è considerato pazzo, perché contravviene a uno dei postulati fondamentali della società, nel senso che chi si dichiara ingiusto si pone per ciò stesso fuori dal gruppo sociale. La professione di giustizia – anche se di fatto corrisponde a una falsità – è condizione imprescindibile per l’appartenenza a un gruppo[12]. Ma ciò significa che i due tipi di tecniche divergono radicalmente. Chi fa parte di un gruppo sociale dispone della tecnica politica, che è appunto la tecnica che qualifica l’appartenenza a un gruppo.
I due tipi di tecniche, dunque, si differenziano, ma entrambe, d’altra parte, sono insegnabili. L’esistenza in ogni gruppo sociale di una legislazione penale implica, secondo Protagora, il riconoscimento dell’insegnabilità della tecnica etico-politica. In ogni gruppo l’atteggiamento assunto nei confronti di difetti fisici non è di rimprovero o di insegnamento, ma di compassione: ciò è segno che tali difetti sono considerati naturali o casuali e, quindi, non correggibili. Ira e punizione sono atteggiamenti comprensibili soltanto di fronte a difetti considerati frutto di mancanza di insegnamento ed esercizio[13]. L’interpretazione della pena come prevenzione dipende anch’essa dalla tesi dell’insegnabilità della virtù. La colpa non è la giustificazione della pena inflitta, che non può ripristinare la situazione dei fatti nelle modalità antecedenti all’infrazione[14]. La punizione è, invece, uno strumento di difesa e di istruzione sociale per prevenire infrazioni analoghe. Ma questa interpretazione della pena presuppone la possibilità che la pena stessa funzioni da argine e da esempio e possegga, quindi, una capacità educativa di trasformazione; e ciò, ovviamente, dipende dalla convinzione dell’insegnabilità della virtù. La tecnica politica, dunque, come tutte le altre tecniche, non è una dote naturale. Ma qui nasce immediatamente un nuovo problema: la tecnica politica è in possesso di tutti, secondo Protagora, mentre le tecniche artigianali sono prerogativa di pochi individui, che possono trasmetterle ai loro apprendisti. Com’è possibile, allora, la trasmissione a tutti della tecnica politica? La risposta a questa domanda è forse il punto più importante della soluzione di Protagora. Ad Atene esiste un apparato educativo: ogni bambino, fin dalla nascita, è ammaestrato in varie operazioni, apprende un linguaggio e riceve un sistema di valori attraverso prescrizioni e proibizioni. La scuola continua la formazione iniziata in casa, mediante la lettura di poeti che elogiano uomini antichi per le loro virtù, in modo da sollecitare nei giovani processi di identificazione e, attraverso questi, l’acquisizione di valori socialmente positivi. Allo stesso scopo mirano la musica e la ginnastica. Interviene infine nell’opera educativa lo stesso corpo sociale, che obbliga ad apprendere le leggi e le consuetudini sociali – i νόμοι – e a seguirle come modello (παράδειγμα), comminando pene in caso di trasgressione[15]. Protagora considera l’intera società come un immenso apparato educativo[16]. Tutta la vita del cittadino è segnata dalla preoccupazione dell’ambiente sociale circostante affinché egli sia formato nella tecnica politica. di fatto la tecnica politica, attraverso le pressioni e i controlli della società, è insegnata a tutti e di fatto, dunque, tutti la posseggono. In altre parole per Protagora non si può concepire l’uomo in possesso della tecnica politica fuori o prima della società: dire uomo significa dire uomo in società e dire uomo in società significa dire uomo in possesso della tecnica politica. Senza tale tecnica l’uomo non appartiene a un gruppo sociale. Ciò implica che il veicolo di trasmissione di tale tecnica è la società stessa nella sua totalità.
Ma per Protagora le società si differenziano tra loro secondo i valori specifici che perseguono. Tutti gli uomini in società posseggono la virtù, ma il grado di possesso deve essere misurato in riferimento al tipo di civiltà e di cultura alle quali ognuno appartiene. Nell’ipotesi che una città non potesse esistere se tutti i suoi membri non fossero suonatori di flauto, l’apparato educativo di tale città si metterebbe immediatamente in moto per insegnare tale tecnica, che in tal modo diventerebbe patrimonio comune e non privilegio professionale di pochi individui. Così avviene per la giustizia e la legalità, nel cui ambito non regnano la concorrenza e il segreto che caratterizzano le altre tecniche, perché soltanto una certa uniformità nella conoscenza e nell’esercizio della giustizia può garantire una convivenza ordinata. Protagora ammette che le doti naturali costituiscono un condizionamento per l’acquisizione di una tecnica, ma afferma che in un ambiente in cui l’interesse per una determinata tecnica sia al centro, tutti ne diventano almeno discreti possessori[17]. La valutazione delle abilità tecniche e del grado di realizzazione dei valori sociali deve avvenire sempre in stretta connessione con il livello culturale proprio di una determinata società. Un uomo che passa per ingiusto in mezzo a persone cresciute nella piena legalità, è giusto, anzi è addirittura un artefice (δημιουργός) della giustizia in un contesto di uomini allo stato di natura, privi di educazione, di tribunali e di leggi[18]. I valori di un individuo sono, dunque, direttamente proporzionali ai valori che la società, alla quale appartiene, considera vitali e indispensabili[19].
Il confronto fra civiltà diverse, per Protagora, è indubbiamente favorevole alla società ateniese, nella quale tutti, secondo le proprie possibilità, sono insieme maestri, tecnici e allievi di ἀρετή[20]. Tutti, anche se con gradi differenti, posseggono la virtù: questo risultato, raggiunto nel mito, è mantenuto fermo anche nel discorso. Ma come poteva, allora, Protagora dichiarare di essere maestro di virtù e di saper insegnare l’accortezza (εὐβουλία) negli affari pubblici e privati?[21] Se tutti posseggono la tecnica politica, evidentemente il sofista non avrà il compito di trasmettere tale tecnica. Il suo compito sarà piuttosto quello di perfezionarla e di far progredire gli altri nella conoscenza e nell’esercizio della tecnica politica[22]. Ciò rende possibile a Protagora, da una parte, la giustificazione della struttura democratica ateniese e, dall’altra, quella del proprio compito di sofista[23]. Si parla allora di gradi di possesso e di esercizio della tecnica politica, gradi che il sofista deve e può accrescere. Il presupposto di tutta la teoria di Protagora è una considerazione ottimistica della struttura di ogni società in generale e di Atene in particolare. D’altra parte il confronto di Atene con culture meno evolute non poteva non incrementare tale valutazione positiva della democrazia ateniese[24]. Ma considerare la società come un apparato educativo complessivo era possibile soltanto in base alla convinzione che tale società non fosse anomica e turbata da conflitti[25]. Per Protagora Atene era avviata nella direzione giusta e l’insegnamento di un sofista come lui non faceva che perfezionarla nella via dell’ἀρετή che già stava percorrendo.
La lettura dell’opera di Protagora, offerta da Platone nel mito e nel discorso, ha dunque un carattere unitario. In entrambi è affermata la funzione direttiva della tecnica politica sulle altre tecniche e la presenza di questa stessa tecnica, secondo gradi diversi, in tutti gli individui di un gruppo. L’elemento nuovo del discorso è costituito dall’introduzione di una tecnica sofistica capace di operare positivamente sulla tecnica politica già esistente di fatto. In tal modo Protagora appare inserito in un dibattito sul problema delle tecniche, nel quale la cultura greca era impegnata già da tempo. Ricostruendo il contesto problematico nel quale si inseriscono le tesi protagoree esposte da Platone, e commisurandole a testimonianze di diversa provenienza, sarà possibile chiarire meglio la portata di tali tesi. In tal modo uscirà precisato anche l’atteggiamento di Platone nei confronti del mito di Protagora.
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Note:
[1] Plat. Prot. 320c-322d. Analisi di questo mito si trovano in W. Uxkull-Gyllenband, Griechische Kultur-Entstehungslehren, Berlin 1924, pp. 15-21; W. Nestle, Vom Mythos zum Logos. Die Selbstentfaltung des griechischen Denkens von Homer bis auf die Sophistik und Sokrates, Stuttgart 19422, pp. 282-289; M. Untersteiner, I sofisti, Torino 1949, pp. 75-85; P. Joos, TYXH, ΦYΣIΣ, TEXNH. Studien zur Thematik frühgriechischer Lebensbetrachtung, Winterthur 1955, pp. 54-77; W.K.C. Guthrie, In the Beginning. Some Greek Views on the Origins of Life and the Early State of Man, London 1957, pp. 84-94. Altre indicazioni bibliografiche saranno date nelle note successive.
[2] Questa è anche opinione di W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco (trad. it.), Firenze 19532, I, p. 515.
[4] Questo punto fu sottolineato ancor più chiaramente da Prodico di Ceo, secondo il quale si sarebbero avute due fasi nello sviluppo della religione: 1) cose utili e nutrienti furono credute e onorate come dèi; 2) gli scopritori di tali oggetti utili e delle tecniche furono considerati dèi (per esempio, Demetra, Dioniso, ecc.) (Philod. de piet. c. 9, 7, p. 75 G. e Sext. Emp. adv. math. IX 18 = DK 84 B 5). Feticismo e antropomorfismo sarebbero, dunque, secondo Prodico, all’origine della religione (cfr. W. Uxkull-Gyllenband, op. cit., p. 21). In generale per le teorie presocratiche sull’origine della religione cfr. W. Jeager, La teologia dei primi pensatori greci (trad. it.), Firenze 1961, pp. 271-299.
[5] Cfr. J. Moreau, La construction de l’idéalisme platonicien, Paris 1939, p. 37, e E.A. Havelock, The Liberal Temper in Greek Politics, New Haven 1957, pp. 91-92.
[6] Sui valori di αἰδώς e δίκη come «base della società aristocratica» cfr. M. Untersteiner, Le origini sociali della Sofistica, in Studi di filosofia greca, a cura di V.E. Alfieri e M. Untersteiner, in onore di R. Mondolfo, Bari 1950, p. 132. In particolare su αἰδώς cfr. B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo (trad. it.), Torino 1963, pp. 242-243. Su Protagora fautore della democrazia periclea cfr. I. Lana, Protagora, «Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino», vol. II, fasc. 4 (1950), pp. 18, 21.
[7] Che anche una democrazia potesse essere ‘aristocratica’, come elezione di uomini più adatti alle cariche, è sostenuto, ad esempio, da A.W. Gomme, A Historical Commentary on Thucydides, II, Oxford 1956, p- 109. D’altra parte J. Ferguson, Moral Values in the Ancient World, London 1958, p. 21, ha sottolineato il fatto che anche in regime oligarchico nessun ὅμοιος prevale sugli altri, per cui la democrazia non sarebbe che l’estensione dello stesso principio all’ambito più vasto dei cittadini: «La democrazia greca è di fatto soltanto un’oligarchia allargata e i privilegi che i democratici richiedevano per una cittadinanza più ampia, non si sarebbe mai sognata di estenderli a schiavi o stranieri». Comunque sull’impossibilità di attribuire a Protagora una posizione politica chiara nettamente delineata sulle scelte istituzionali cfr. T.A. Sinclair, Il pensiero politico classico (trad. it.), Bari 1961, pp. 79-80. In particolare non mi pare possibile scorgere nell’esposizione di Protagora una difesa di una craftsmandemocracy, come vorrebbe E.A Havelock, op. cit., p. 187.
[8] Per una rassegna di tali interpretazioni cfr. M. Untersteiner, I sofisti, cit., p. 76, nota 24, il quale da parte sua è favorevole a ritenerlo autenticamente protagoreo, e E.A. Havelock, op. cit., pp. 407-409, il quale ritiene che Platone nel mito voglia distruggere gli effetti della teoria originale protagorea.
[9] Così pensano, ad esempio, W. Jaeger, Paideia, cit., I, p. 488, nota 29, e Lateologia, cit., p. 276; W. Nestle, op. cit., pp. 282-289; M. Untersteiner, op. cit., pp. 21-22; I. Lana, op. cit., pp. 6 e 76; P. Joos, op. cit., p. 61. Recentemente una tesi radicale sul mito è stata avanzata da A. Capizzi, Protagora, Firenze 1955, secondo il quale dal Protagora platonico non sarebbe possibile ricavare alcuna testimonianza sulle dottrine del sofista di Abdera. Ma questa tesi è fondata sul presupposto che Protagora sia impegnato a discutere sempre e soltanto di logica e non di politica, morale o religione (cfr., per esempio, pp. 65, 238, 259) e cade perciò nella misura in cui cade tale interpretazione. Utilizza, invece, a fondo il mito per ricostruire il pensiero di Protagora S. Zeppi, Protagora e lafilosofia del suo tempo, Firenze 1961.
[10] DK 80 B 4. L’impossibilità di conciliare questo frammento di Protagora sugli dèi con l’impostazione mitico-religiosa del mito è stata finora l’argomentazione più forte condotta contro l’autenticità del mito di Protagora (cfr. P. Friedländer, Platon, I. Seinswahrheit und Lebenswirklichkeit, Berlin 19542, p. 346, note 7 e 10; E.A. Havelock, op. cit., pp. 93-94; A. Levi, Storia della Sofistica, a cura di D. Pesce, Napoli 1966, p. 87, nota 10). Ma occorre ricordare che la parentela con gli dèi, connessa al dono delle tecniche, e la religione che ne nasce non sono elementi sufficienti alla conservazione di un gruppo sociale: il primato degli dèi nella storia della civiltà umana non impedisce di riconoscere la posizione subordinata della religione. Già questo permette di intravvedere la funzione puramente strumentale della veste mitica.
[11] Una ricca documentazione su questo punto, oltre al riferimento al Prometeodi Eschilo, ovvio per un pubblico ateniese, si può trovare in A. Kleingünther, Πρῶτος εὑρετής. Untersuchungen zur Geschichte einer Fragestellung, «Philologus», Supplbd. XXVI, H. I, Leipzig 1933. Sulla popolarità della forma mitica di racconto cfr. anche P. Joos, op. cit., pp. 54 ss. Giustamente poi P.-M. Schuhl, Essai sur la formation de la pensée grecque. Introduction historique à une étude de la pensée platonicienne, Pari 19492, pp. 165 ss., fa notare come il mito del Protagora contenga un capovolgimento esatto della teoria di Esiodo, secondo la quale i primi uomini erano felici e poi furono abbandonati da αἰδώς e δίκη. E anche Esiodo era un riferimento ovvio per il pubblico ateniese.
[16] Su ciò cfr. anche A.E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera (trad. it.), Firenze 1968, p. 381. Di pressione del gruppo sociale come produttrice di cultura parla E.A. Havelock, op. cit., p. 173; di controllo sociale parla E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale (trad. it.), Firenze 1959, p. 220.
[18]Ibid. 327c-d. Protagora fa un riferimento alla commedia I selvaggi del poeta comico Ferecrate. Ma era un tema ampiamente diffuso nella produzione dei commediografi e, quindi, altamente popolare (cfr. W. Nestle, op. cit., p. 456).
[19] Al discorso di Protagora J. Moreau, op. cit., pp. 37-38, avvicina la teoria di Durkheim della società come coscienza collettiva e tradizionale che forma l’individuo alla moralità, attraverso un’educazione sociale anonima. Il discorso del Protagora si accorda perfettamente con la tesi protagorea esposta nel Teeteto (167c), secondo la quale una città impone i valori che considera migliori per essa.
[22]Ibid. 328a-c. I superlativi ἄριστα e δυνατώτατος che compaiono in ibid. 318e-319a, chiariscono il carattere di perfezionamento, non di trasmissione integrale di valori, che caratterizza l’insegnamento di Protagora. S. Zeppi, op. cit., dopo aver giustamente riconosciuto nella teoria sociale di Protagora «un pedagogismo assoluto» (p. 17), sostiene che tale teoria non sarebbe né liberale né democratica, ma una teoria aristocratica, un «sofistocratismo» (pp. 18 ss.). Ma in Protagora non c’è il problema politico del potere né tende egli a rintracciare nei sofisti o nel sofista il o i legittimi detentori del potere: in realtà il sofista è un educatore e, poiché l’educazione è una funzione eminentemente sociale, per tale via, non attraverso gli strumenti del potere, egli esplica una funzione politico-sociale.
[23] Cfr. P.-M. Schuhl, op. cit., p. 350. Non bisogna confondere la teoria di Protagora con una teoria generale della democrazia. Il suo scopo è soprattutto quello di riconoscere che l’istituzione nella quale il sofista può esercitare meglio la propria professione è la democrazia. Cfr. anche I. Lana, op. cit., p. 27.
[25] Questo aspetto è giustamente sottolineato da J. Moreau, op. cit., p. 40. Sull’ottimismo dell’attività educativa dei sofisti in generale cfr. W. Jaeger, op. cit., I, pp. 527-528. Alla base di questa impostazione ottimistica c’era in Protagora la tendenza a identificare con l’ἀρετή i valori tradizionali propri di una data società, cioè il νόμος (cfr. A.E. Taylor, op. cit., pp. 383-384).
Il V secolo a.C. è caratterizzato, come è noto, da due grandi eventi, strettamente connessi tra di loro, che segnano e mutano profondamente la città di Atene, la più importante della Grecia sul piano della potenza militare e su quello politico, economico, sociale e culturale: la definitiva affermazione della democrazia e il tramonto del mondo aristocratico, non solo come specifico fenomeno politico, ma anche sociale ed etico.
La storia della sofistica copre un ampio arco temporale, compreso tra la seconda metà del V secolo a.C. e i primi decenni del IV, in cui la storia politica ateniese subisce le variazioni più notevoli. Qualunque sia l’atteggiamento dei singoli Sofisti nei confronti del regime democratico, non si deve mai dimenticare che la sofistica nel suo insieme è figlia della democrazia ed è, anzi, impossibile comprenderla appieno, se non si considera il pensiero dei singoli Sofisti come un tentativo di porre in evidenza, formulandoli razionalmente, i problemi emersi nell’ambito della situazione storica generale.
La democrazia estende indiscriminatamente a tutti i liberi cittadini il diritto alla partecipazione al potere e alle cariche pubbliche, in nome della capacità di ciascun individuo di fornire un contributo validi alla vita politica, rivalutando il πολίτης in quanto tale, al di là di qualsiasi appartenenza a una parte o a un settore della compagine cittadina. Il Sofista diviene allora una figura necessaria alla vita della città: non c’è più la necessità di ammaestrare i discendenti della stirpe nobiliare all’aristocratica virtù eroica, bensì di educare tutti gli uomini, membri del nuovo stato democratico, alla ἀρετή politica, intesa non tanto, o non solo, come osservanza delle leggi, quanto come conoscenza dei mezzi con i quali l’individuo può acquistare successo negli affari e potenza fra il popolo, indirizzandolo alla scelta del giusto, non più ordinando, ma persuadendo e spiegando.
Cresila, Busto di Pericle. Marmo, copia romana da un originale greco del 430 a.C. ca. Roma, Musei Vaticani.
Al di là della molteplicità di interessi e di problemi formulati dalla sofistica, è importante rilevare, nel pensiero dei singoli Sofisti, la presenza di un comune atteggiamento speculativo, del tutto caratteristico, che muove e guida le loro ricerche: la necessità di accettare il relativismo nei valori e in ogni altro campo, senza ridurre tutto al soggettivismo, e la convinzione che nessun aspetto della vita dell’uomo o del mondo nel suo insieme dovrebbe essere escluso dalla conoscenza ottenuta attraverso ragionata discussione[1].
Sebbene non si possa considerare la sofistica come una scuola filosofica, si può senz’altro constatare l’esistenza di un vero e proprio “movimento sofistico”, dotato di una sua sensibile unità, ma che non esclude esiti anche molto diversi tra loro nel pensiero e nelle opere dei suoi singoli rappresentanti. Andando oltre lo stretto ambito del pensiero filosofico, infatti, la sofistica influenza personaggi e autori, i quali, anche se da angolazioni e, in alcuni casi, con intenti diversi, pongono in risalto le medesime problematiche. Senza dubbio, è possibile rintracciare echi del pensiero sofistico non solo nelle figure di alcuni importanti personaggi politici od oratori, e nei pubblici dibattiti e nelle assemblee, di cui abbiamo testimonianze attendibili, ma anche, solo per citare qualche esempio, nell’opera storica di Tucidide, nelle tragedie di Euripide e nelle commedie di Aristofane. “Movimento sofistico” indica, dunque, non solo il gruppo più o meno ristretto di filosofi, i quali si sono dati o a cui è stato dato il nome di sofisti, ma un concetto sufficientemente ampio da poter includere, in realtà, un movimento di idee più vasto.
Filosofo. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Museo Archeologico di Delfi.
Tra i problemi formulati e discussi dalla sofistica, e dagli intellettuali e dagli artisti attivi nell’Atene periclea e post-periclea, quelli relativi alle questioni politiche occupano un posto certamente non secondario. Non solo i Sofisti, in qualità di maestri e di educatori, promettono di insegnare a qualsiasi cittadino il modo migliore di condurre una discussione pubblica (nell’ambito di un’assemblea, di un tribunale, ecc.), consentendo a chiunque di poter partecipare attivamente alla vita politica della πόλις, ma gli esponenti del movimento sofistico sono i primi a compiere una consapevole riflessione sulla politica in generale. Tipicamente sofistica, ad esempio, è la controversia tra i sostenitori del diritto positivo (νόμος) e quelli del diritto naturale (φύσις), certamente generato dalla nascita e dalla progressiva affermazione della democrazia. Sempre i Sofisti sono i primi filosofi a mostrare interesse per lo studio dei νόμοι e delle πολιτείαι, fornendo un contributo essenziale alle ricerche sulla storia delle costituzioni antiche[2]. Non mancano, infine, le prime riflessioni teoriche sulla democrazia in generale e, più specificamente, sul regime democratico ateniese, così come si era venuto a delineare dall’età di Pericle in poi. Ampiamente testimoniate risultano le posizioni di quei Sofisti, e di quegli autori influenzati dalla sofistica, che, per ragioni diverse, avversavano la democrazia e, in particolare, il regime democratico ateniese, come, ad esempio, la celebre Costituzione degli Ateniesi (Ἀθηναίων πολιτεία) dello Pseudo-Senofonte[3]. Meno numerose, al contrario, sono le testimonianze provenienti da autori e scritti democratici.
Una delle più importanti “teorie democratiche della democrazia” si può rintracciare nel celebre Epitafio di Pericle, il discorso tenuto dallo statista ateniese per celebrare i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso (431-430), riportato nell’opera di Tucidide[4], da sempre oggetto di dibattito e di studio. L’Epitafio, così come gli altri discorsi presenti nell’opera, è frutto di una rielaborazione tucididea, molto posteriore agli avvenimenti narrati. Illustrando il suo metodo di lavoro, lo storico afferma:
a seconda di quanto ciascuno a mio parere avrebbe potuto dire nel modo più adatto nelle diverse situazioni successive, così si parlerà nella mia opera, ché io mi terrò il più possibile vicino al pensiero generale dei discorsi effettivamente pronunciati[5].
I discorsi che compaiono nell’opera sono, quindi, una ricostruzione dello storico ateniese, come rivela anche un’analisi formale dei testi, che evidenzia, in tutti, lo stile tipico di Tucidide, influenzato dalle regole compositive della retorica e della sofistica. È importante, però, secondo quanto egli stesso afferma, che nell’opera sia stato riprodotto fedelmente il pensiero generale dei vari discorsi pronunciati e che, in questo senso, essi si possano ritenere autentici. Anche l’Epitafio di Pericle, per le stesse ragioni, si può considerare veritiero. Poiché l’Epitafio, più che un discorso commemorativo, è in realtà uno straordinario elogio della democrazia, si può affermare che già Pericle avesse formulato una teoria democratica della democrazia e che proprio l’Epitafio pericleo rappresenti ampiamente, con una storicità che non va sottovalutata, la teoria democratica. L’attività politica di Pericle, quindi, non fu dettata dal caso, né da una semplice e demagogica volontà di mantenere il potere, conquistando il favore del popolo con riforme a esso favorevoli. La politica di Pericle, al contrario, fu sostenuta e guidata da una solida teoria democratica, che è il punto di riferimento di tutta l’azione riformatrice e di governo dello statista ateniese. Le sue riforme, apportate alla costituzione di Clistene del 508-507 a.C., per lungo tempo sostanzialmente immutata, sono indirizzate a rendere finalmente compiuta la democrazia ateniese, allargandone progressivamente i diritti a tutto il popolo. La prima grande riforma è quella attuata da Efialte, capo del partito democratico, e Pericle. Nel 462 essi fecero votare una legge che riduceva le competenze dell’Areopago alla sola giurisdizione sui reati di sangue, trasferendone gli altri poteri alla Bulé e al tribunale degli Eliasti. Dopo la morte di Efialte, Pericle proseguì la riforma della costituzione, introducendo l’ἡλιαστικόν, un’indennità ai giudici popolari di due oboli al giorno, compenso non certo eccessivo e, anzi, inferiore alla media del salario giornaliero d’un operaio comune, ma che consentiva a qualsiasi cittadino di dedicare diversi giorni dell’anno alla funzione di giudice, che aveva costituzionalmente diritto di esercitare fin dai tempi della costituzione di Clistene. Dopo aver consegnato i tribunali nelle mani del popolo, Pericle introdusse il principio della μισθοφορία, la remunerazione dei pubblici uffici, un’indennità di quattro oboli al giorno per gli arconti, di cinque ai buleuti, di una dracma ai pritani, la quale aprì la via alla riforma più importante e decisiva, quella che nel 457-456 ammise gli zeugiti all’arcontato e, successivamente, i teti a tutte le magistrature sorteggiate. A questo punto, il potere passò direttamente nelle mani della Bulé e dell’Ecclesía, cioè nelle mani del popolo ateniese e, soprattutto, in quelle delle poche magistrature rimaste elettive per la competenza tecnica che esse esigevano in chi le ricopriva. Prima fra tutte, quella degli strateghi, il cui Collegio, guidando da allora in poi tutti gli altri magistrati ed esercitando la massima autorità nell’Ecclesía e nella stessa Bulé, rappresentò il fulcro del potere esecutivo. Pericle, eletto per una trentina d’anni quasi consecutivi (dal 460 circa in poi) alla carica di stratego, e quasi sempre col rango di Presidente di quel Collegio, fu per trenta anni costituzionalmente a capo della democrazia ateniese. La politica attuata da Pericle è riconducibile, dunque, a due principi essenziali: 1) il potere deve essere del popolo nella sua totalità e non di una piccola parte di cittadini; 2) le alte cariche, che comportano il diritto di deliberare ed agire per il popolo, devono essere affidate a quanti siano più adatti e più abili a svolgere tali funzioni. Pericle diede grande importanza all’educazione e alla cultura del popolo ateniese. Il potere acquisito dopo le sue riforme richiedeva che tutta la cittadinanza, trovatasi a essere per la prima volta artefice del proprio destino, fosse pienamente consapevole delle problematiche e delle questioni, su cui era chiamata a dibattere. Anche per questo motivo quindi, e non solo perché spinto da un personale interesse per il sapere e l’arte, Pericle fece di Atene il centro culturale della Grecia, ospitando gli intellettuali più importanti dell’epoca in ogni ambito della conoscenza.
Atene. Acropoli, ricostruzione grafica del complesso cultuale (disegno di J. Kürschner).
Sebbene, per ovvie ragioni, solo una piccola parte della popolazione potesse avere accesso o essere interessata alle discussioni dei personaggi del circolo di Pericle, e solo le classi più abbienti potessero permettersi, ad esempio, di istruirsi a pagamento presso i Sofisti, il generale clima culturale voluto dallo statista ateniese influenzò, in ogni caso, tutta la cittadinanza. I grandiosi lavori pubblici sull’Acropoli, con la costruzione e la decorazione del Partenone affidati, tra il 447 e il 432, alla direzione di Fidia e, soprattutto, l’allestimento dei cori lirici, tragici e comici in occasione delle varie feste annuali della città, finanziato dai cittadini più abbienti, in cui tutti potevano ammirare gratuitamente le opere di Sofocle e Euripide, ne sono gli esempi più evidenti.
Maschera. Terracotta, IV-III sec. a.C. dalla Stoa di Attalo, Atene.
All’epoca di Pericle e sotto il suo comando, la repubblica ateniese non solo era un regime compiutamente democratico, ma la democratizzazione si era estesa alle esigenze sociali della popolazione a tal punto che lo Stato si era assunto la responsabilità di garantire i mezzi di sussistenza a tutti i cittadini, anche a coloro che per motivi di età o di salute, o per condizioni di famiglia non potessero procurarseli col proprio lavoro, grazie a un avanzato sistema di provvidenze. Con frequenti distribuzioni di cereali, con pensioni di un obolo al giorno agli inabili al lavoro, col mantenimento a spese dello Stato degli orfani dei morti in guerra, si provvedeva alla sorte di coloro che non avrebbero potuto mantenersi in altro modo. Questo grande apparato, cui si deve aggiungere il mantenimento dell’esercito, della flotta e delle milizie mercenarie (che, in linea di massima, gravava però sui tributi degli alleati della Lega delio-attica), si reggeva su tre cespiti di entrate: 1) i redditi dei beni demaniali, tra cui il più importante era l’appalto delle miniere d’argento del Laurio; 2) i tributi indiretti, come i vari dazi (l’ἐλλιμένιον per l’uso dei porti, la δεκάτη per le merci in entrata e in uscita dal Mar Nero attraverso il Bosforo, ecc.), le speciali tasse d’esercizio per le professioni che richiedevano la vigilanza della polizia, il rimborso delle spese processuali da parte di coloro che ricorrevano ai tribunali, o i proventi risultanti dai beni confiscati ai debitori dello Stato e ai condannati per cause politiche; 3) le contribuzioni personali dei singoli cittadini, le λειτουργείαι, alle quali erano tenuti i cittadini più ricchi di Ateniesi. Queste si distinguevano in ordinarie (la coregia, l’allestimento dei cori lirici, tragici e comici in occasione delle varie feste annuali della città; la ginnasiarchia, l’allestimento delle gare ginniche) e straordinarie (la più gravosa era la trierarchia, consistente nell’allestimento, la riparazione e il comando di una trireme, durante il periodo in cui essa partecipava ad azioni militari). A tutto ciò, naturalmente, si devono aggiungere gli ampi investimenti profusi dallo Stato per i grandiosi lavori pubblici (ad esempio, quelli effettuati all’epoca di Pericle sull’Acropoli) e per il periodico invio di numerose cleruchie, quasi sempre decise con fine esclusivamente sociale, con cui si dava modo alle classi lavoratrici di esplicare la propria attività.
Statua della cosiddetta «Atena Farnese». Copia romana dall’originale di Pirro, della scuola fidiaca, V secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Stando ai frammenti che gli sono attribuiti, alle testimonianze relative alla sua filosofia e alle notizie biografiche che lo riguardano, Protagora è unanimemente considerato come il Sofista più vicino alla democrazia periclea[6]. Innanzitutto, egli stabilisce con lo statista ateniese un rapporto personale, di vera e propria amicizia, testimoniato da alcuni aneddoti riportati dalle fonti antiche (il più famoso è quello che li vede discutere un’intera giornata su chi o che cosa sia da ritenersi responsabile per la morte accidentale di un giovane, avvenuta durante una festa celebrata con i giochi: se il giavellotto, l’atleta che lo ha lanciato, o gli organizzatori dei giochi stessi)[7]. In secondo luogo, fin dal suo primo viaggio ad Atene (che si tende in genere a collocare tra il 450 e il 444 a.C.), Protagora entra a far parte del circolo di Pericle[8], divenendo col tempo uno stretto collaboratore dello statista, il quale nel 444 lo nomina legislatore della nuova colonia panellenica di Turii, per la quale il Sofista redasse con ogni probabilità una costituzione democratica, forse sul modello di quella ateniese[9]. Un’altra notizia, controversa e ancora oggi dibattuta, è quella relativa al processo per empietà intentato contro il Sofista da Pitodoro, all’epoca del suo secondo soggiorno ad Atene, verso il 423- 422[10]. È senz’altro vero che l’accusa di empietà mossa nei confronti del Sofista non fosse priva di un qualche fondamento. Protagora, infatti, è noto per la sua posizione agnostica in ambito teologico («riguardo agli dei, non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita umana»)[11]; nega, inoltre, che l’anima possa esistere separata dal corpo, tesi che è possibile desumere dal fatto che al Sofista di Abdera sia attribuito uno scritto, intitolato Intorno alla sorte nell’Ade (περὶ τῶν ἐν Ἅιδου)[12], in cui dovevano certamente riflettersi le sue affermazioni sugli dei e sull’anima («l’anima non è nient’altro che le sensazioni, come attesta anche Platone nel Teeteto»)[13], riportate da Diogene Laerzio. Se Protagora toglie alle tradizionali rappresentazioni degli dei l’influsso sul pensiero e l’azione umana, è probabile anche che avesse trattato allo stesso modo le rappresentazioni dell’oltretomba. Con l’aldilà egli nega anche l’esistenza separata dell’anima, che gli pare superflua accanto ai sensi. Non si deve, però, dimenticare che Pitodoro era un partigiano dell’oligarchia, futuro membro del governo dei Quattrocento. Se la notizia riportata da Diogene Laerzio fosse vera, si potrebbe ipotizzare che il processo a Protagora sia stato intentato, in realtà, per ragioni politiche[14], e sarebbe un’ulteriore prova che il Sofista era un convinto democratico. Oltre a queste poche notizie biografiche, la testimonianza che meglio rivela le convinzioni democratiche di Protagora è certamente quella del cosiddetto mitodi Prometeo, contenuto nell’omonimo dialogo di Platone, e del successivo discorso esplicativo del Sofista[15].
Salvator Rosa, Democrito e Protagora. Olio su tela, 1663-64.
A quanto sembra, Protagora fu autore di uno scritto, intitolato Intorno alla condizione originaria dell’uomo[16], che è da considerarsi la fonte probabile delle idee, che, più o meno liberamente riportate da Platone, sono poste in bocca al Sofista nel dialogo platonico che porta il suo nome[17]. In sintesi, Protagora sostiene che poiché la natura degli uomini non consente loro di vivere isolatamente, essi si sono riuniti cedendo a un bisogno istintivo, hanno trovato i mezzi per vivere e hanno potuto creare tutti gli strumenti atti a rendere la vita più comoda. La convivenza, però, è impossibile senza le leggi, che consentono di regolare i rapporti tra gli uomini, e l’assenza di leggi è un danno ancora più grande della vita isolata. È necessario, allora, che la legge e la giustizia regnino tra gli esseri umani e non siano mai rimosse da loro, poiché sono saldamente legate a essi per natura. L’importanza del mito di Protagora sta, soprattutto, nell’aver fornito l’elaborazione più completa di questioni ampiamente discusse tra gli intellettuali di Atene in quel periodo. In particolare, il Sofista sostiene: 1) una teoria del progresso, secondo la quale l’uomo procedette da un’originaria condizione naturale verso uno stato di progressiva civilizzazione[18]; 2) l’impossibilità che le qualità innate, sufficienti a garantire il necessario per vivere, possano bastare a consentire la vita associata, evitando che gli uomini commettano ingiustizie l’uno ai danni dell’altro: il νόμος deve subentrare, dunque, alla φύσις[19]; 3) una giustificazione teorica della democrazia ateniese, così come si era venuta delineando nell’età di Pericle. Uno degli intenti di Protagora è quello, infatti, di dimostrare che tutti gli uomini, seppure in misura diversa, sono in possesso delle due virtù morali, αἰδώς (il “rispetto reciproco”) e δίκη (la “giustizia”), e che tutti, di conseguenza, possono fornire il loro contributo nelle discussioni morali e politiche. Nell’ambito, però, di un’assemblea riunita per prendere importanti decisioni, che riguardano tutta la comunità, diviene un problema riuscire a stabilire quale sia, tra tutte quelle pronunciate, l’opinione da seguire. Il relativismo di Protagora, espresso in uno dei suoi più celebri frammenti («di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono»)[20], affermando che l’opinione sostenuta da ogni singolo uomo è sempre vera e, dunque, che non esistono opinioni più vere di altre, investe, ovviamente, anche la sfera politica. La via d’uscita è offerta nella cosiddetta Apologia, contenuta nel Teeteto di Platone[21]. Sebbene, infatti, sostiene il Sofista per bocca di Socrate, tutte le opinioni siano ugualmente vere, esistono, però, in ogni ambito della vita umana delle opinioni migliori di altre, più forti e più utili, e sono proprio queste che devono prevalere sulle altre. Il κρείττων λόγος, il discorso più forte, che si impone sull’ἥττων λόγος, quello più debole[22], è proprio dell’uomo che, dopo un lungo processo educativo, è entrato in possesso della πολιτικὴ ἀρετή. Quest’ultima designa la capacità di esprimere nelle faccende private e nella vita politica l’opinione che vince sulle altre, perché migliore per il singolo e per la città. Proprio la πολιτικὴ ἀρετή è l’unico oggetto dell’insegnamento di Protagora, come lo stesso Sofista dichiara nell’omonimo dialogo di Platone[23], il cui intento è quello di rendere gli uomini buoni cittadini. L’acquisizione della πολιτικὴ ἀρετή, per gli stessi motivi indicati nel mito narrato dal Sofista, è ugualmente possibile per tutti gli uomini. È necessario, però, che alle doti naturali, presenti in misura diversa in ogni singolo uomo, si affianchi un lungo periodo di studio, il quale, per altro, non deve essere limitato agli anni della giovinezza, ma deve proseguire per tutta la vita: essa è, infatti, un continuo processo di educazione etico-sociale[24]. La democrazia, dunque, per Protagora, è un regime pienamente giustificato, poiché consente a tutti i cittadini di fornire il proprio contributo, ognuno secondo le proprie possibilità, a tutte le decisioni che riguardano lo Stato, quindi la collettività. Nello stesso tempo, però, è necessario non dimenticare il principio meritocratico, che premia chi è in grado di imporre sulle altre l’opinione migliore, propria di chi è in possesso della πολιτικὴ ἀρετή. In questo modo, «Protagora offre a Pericle, in una parola, la giustificazione razionale della sua funzione nella città»[25].
[2] Non è pensabile, naturalmente, un confronto tra questi primi tentativi e la ormai matura riflessione costituzionale greca del IV secolo a.C. e poi dell’età ellenistica. Con la sofistica, ci si trova agli albori di questi studi e perfino il linguaggio, per così dire, «tecnico» si va ancora formando e stabilendo lentamente. In questo senso, un esempio calzante è rappresentato dall’assenza, per gran parte del V secolo, del termine δημοκρατία. La democrazia, come è noto, nasce in Grecia, e specificamente ad Atene, nel 508-507 a.C., frutto dell’opera riformatrice di Clistene. Per definire l’innovazione politica clistenica, la tradizione storiografica utilizza sia il termine δημοκρατία, sia alcuni suoi parziali sinonimi, come ἰσονομία e ἰσηγορία. Poiché questa tradizione è successiva a Clistene, si è portati a credere che il termine δημοκρατία ancora non esistesse all’epoca delle riforme clisteniche. Tale tendenza sembra confermata dal fatto che la prima attestazione della parola δημοκρατία, sebbene in forma di perifrasi, compare nelle Supplici di Eschilo (cfr. Aesch. Suppl. 604: δήμου κρατοῦσα χείρ, «la mano dominante del popolo»), opera rappresentata nel 463. Il termine vero e proprio è attestato a partire da Erodoto, che però lo utilizza solo in due occasioni (cfr. Herod. VI 43, 14; VI 131, 4), al contrario, ad esempio, di ἰσονομία e di perifrasi, come πλῆθος δὲ ἄρχον, «il governo del popolo», con cui lo storico di Alicarnasso è solito designare il regime democratico (ad esempio, nel celebre λόγος τριπολιτικός, in Herod. III 80-82), che compaiono invece con una certa frequenza. Il termine δημοκρατία si afferma, dunque, piuttosto lentamente e, in generale, si può affermare che esso soppianti definitivamente tutti gli altri, a partire dal IV secolo a.C.
[3] Sulla Costituzione degli Ateniesi dello Pseudo-Senofonte o del Vecchio Oligarca, scritto risalente alla fine del V secolo a.C. e importante documento, che testimonia lo stretto legame esistente tra le idee di alcuni Sofisti della cosiddetta seconda generazione e gli ambienti oligarchici, cfr. Gigante 1953; Isnardi Parente 1953; Vegetti 1977; Serra 1979; Lapini 1987-1988; Lapini 1997.
[6] Si veda, in proposito, la ricostruzione del pensiero politico di Protagora nella recente traduzione dei frammenti dei Sofisti curata da Bonazzi 2007, pp. 45-52, a cui si rimanda anche per ulteriori e aggiornate indicazioni bibliografiche
[8] Nel trentennio che va dal 460 al 430 a.C., il fulcro dell’intensa attività speculativa e artistica, che anima l’Atene periclea, è il cosiddetto circolo di Pericle, del quale fanno parte personaggi come Anassagora di Clazomene, Empedocle di Agrigento, Zenone di Elea, Ippocrate di Cos, Ippodamo di Mileto, Erodoto di Alicarnasso, Protagora di Abdera, gli ateniesi Damone, Fidia e Tucidide.
[9] Non vi sono notizie certe circa il tipo di costituzione redatta da Protagora per la colonia di Turii; alcuni studiosi, tra cui Untersteiner 1996, pp. 6-7, ritengono una prova sufficiente che la legislazione protagorea non fosse democratica, il fatto stesso che, almeno nelle intenzioni iniziali di Pericle, la nuova città dovesse essere una colonia panellenica. Diodoro di Sicilia, però, ci informa che, quando Sibari fu distrutta dai Crotoniati e i Sibariti sopravvissuti invocarono l’aiuto di Sparta e Atene per rifondare la città, gli Spartani rifiutarono di partecipare alla ricostruzione, mentre gli Ateniesi accettarono, invitando volontari da ogni parte della Grecia (cfr. Diod. XII 10). Come sostiene Bayonas 1967, p. 46, le città che cooperarono nell’impresa dovevano, dunque, essere quasi tutte alleate di Atene, e, in queste condizioni, quella della nuova colonia non poteva che essere una costituzione democratica.
[10] Cfr. Diog. Laërt. IX 54 (= 80 A 1 D.-K.). Su tutte le questioni, cfr. Brancacci 2002.
[11] Cfr. Diog. Laërt. IX 51 (= 80 B 4 D.-K.): περὶ μὲν θεῶν οὐκ ἔχω εἰδέναι οὔθ’ ὡς εἰσίν, οὔθ’ ὡς οὐκ εἰσίν· πολλὰ γὰρ τὰ κωλύοντα εἰδέναι, ἥ τ’ ἀδηλότης καὶ βραχὺς ὢν ὁ βίος τοῦ ἀνθρώπου (trad. it. M. Timpanaro Cardini). Per l’interpretazione del frammento, cfr. Untersteiner 1996, pp. 43-45; Guthrie 1971, pp. 234-235; Kerferd 1988, pp. 163-172; Schiappa 2003, pp. 141-154.
[12] Si veda il catalogo delle opere attribuite a Protagora redatto da Diogene Laerzio (cfr. Diog. Laërt. IX 50-56 = 80 A 1 D.-K.).
[13] Cfr. Diog. Laërt. IX 51 (= 80 A 1 D.-K.): Ἔλεγέ τε μηδὲν εἶναι ψυχὴν παρὰ τὰς αἰσθήσεις, καθὰ καὶ Πλάτων φησὶν ἐν Θεαιτήτῳ (trad. it. M. Timpanaro Cardini).
[14] Stessa sorte, del resto, subita da altri importanti esponenti della cerchia periclea, come Anassagora, Aspasia, Fidia (cfr. Bonazzi 2007, p. 46).
[15] Cfr. Plat. Prot. 320 C–328 B (= 80 C 1 D.-K.).
[16] Cfr. Diog. Laërt. IX 55 (= 80 A 1 D.-K.). Secondo Untersteiner, il mito contenuto nel Protagora platonico corrisponde alla trama generale del Περὶ τῆς ἐν ἀρχῇ καταστάσεως attribuito al sofista, scritto che, nella ricostruzione fornita dallo studioso italiano, occupava la terza sezione delle Antilogie, dedicata «alle leggi e a tutti i problemi che riguardano il mondo della polis» (cfr. Untersteiner 1996, pp. 18-23).
[17] Per la genuinità del contenuto del mito, riportato nel Protagora platonico, propendono, tra gli altri, Untersteiner 1996, pp. 85-92, 106 n. 24, Guthrie 1971 pp. 63-64, Isnardi Parente 1982, pp. 167-168, Kerferd 1988, pp. 160-161, Schiappa 2003, pp. 157-189; Adorno 1996, pp. XVIII; Bonazzi 2007, pp. 35-36.
[18] La teoria del progresso umano era assai popolare ad Atene: compare, infatti, già in quella che è ritenuta l’ultima opera di Eschilo, morto nel 456, Prometeo incatenato (cfr. Aesch. Prom. 442-468, 478-506); l’argomento è, poi, affrontato intorno al 440 da Sofocle nell’Antigone (cfr. Sophocl. Antig. 332-371); intorno al 421 da Euripide nelle Supplici (cfr. Eurip. Suppl. 201-213); da Crizia, morto nel 403, nel Sisifo (cfr. Aët. I 6, 7 [Dox. 294] = 88 B 25 D.-K.).
[19] Nel corso del V secolo, il problema originato dal contrasto esistente tra νόμος e φύσις era impostato in modo più semplice. Nei Persiani di Eschilo (tragedia rappresentata nel 472), la monarchia assoluta di Serse corrisponde alla natura barbarica di quel popolo: la legge tipica di questo regime si identifica ed è, dunque, l’espressione dell’ἦθος, della φύσις dei Persiani. Erodoto nelle sue Storie è convinto che la diversità delle leggi e le molteplici costituzioni esistenti, siano dovute alla diversa natura dei popoli. Protagora è, a quanto sembra, il primo a impostare la questione in modo nuovo, influenzando i successivi dibattiti del movimento sofistico: per l’Abderita, infatti, non è la φύσις a variare (tutti gli uomini sono in possesso di doti naturali, che pur essendo soggettive, contribuiscono a soddisfare i bisogni più elementari), ma il νόμος, che ogni popolo sceglie in base a ciò che pensa sia migliore per sé in un determinato momento.
[20] Cfr. Sext. Emp., Adv. Math. VII 60 (= 80 B 1 D.-K.): πάντων χρημάτων μέτρον ἐστὶν ἄνθρωπος, τῶν μὲν ὄντων ὡς ἔστιν, τῶν δὲ οὐκ ὄντων ὡς οὐκ ἔστιν (trad. it. M. Timpanaro Cardini). Per l’interpretazione del frammento, cfr. Untersteiner 1996, pp. 65-78, pp. 115-137; Decleva Caizzi 1978, pp. 11-35; Kerferd 1988, pp. 83-110; Schiappa 2003, pp. 117-125.
[21] Cfr. Plat., Theaet. 166 a–168 c (= 80 A 21a D.-K.). Per l’interpretazione del passo platonico, cfr. Cole 1966, pp. 101-118; Burnyeat 1976.
[22] Cfr. Aristot., Rhet., II 24, 1402 a 23 (= 80 B 6b D.-K.): τὸν ἥττω λόγον κρείττω ποιεῖν. Si ricordi che Protagora prometteva di insegnare ai suoi allievi la capacità di «rendere più forte l’argomento più debole», nel senso, posto in luce dalla traduzione che del passo aristotelico ha dato Untersteiner, di «ridurre la minore possibilità di conoscenza a una maggiore possibilità di conoscenza». Sul significato generale e sulla valenza «eminentemente gnoseologica» di κρείττων λόγος e ἥττων λόγος nella filosofia protagorea, cfr. Untersteiner 1996, pp. 79-114; Isnardi Parente 1982, pp. 167-169; Brancacci 2008, pp. 19-44
[23] Cfr. Plat., Prot. 318 a–319 aA (= 80 A 5 D.-K.).
Adorno 1996: F. Adorno, (ed.), Platone. Protagora, Roma-Bari, 1996.
Bayonas 1967: A. Bayonas, L’art politique d’après Protagoras, Revue philosophique 157 (1967), p. 43-58.
Bonazzi 2007: M. Bonazzi (ed.), I sofisti, Milano 2007.
Brancacci 2002: A. Brancacci, Protagora e la techne sophistike. Plat. Prot. 316 d-317 c, Elenchos 23 (2002), pp. 26-30.
— 2008: A. Brancacci, I sofisti di Mario Untersteiner, in Id., Studi di storiografia filosofica antica, Firenze 2008, pp. 19-44.
Burnyeat 1976: M.F. Burnyeat, Protagoras and self-refutation in Plato’s Theaetetus, Philosophical Review 85 (1976), pp. 172-195.
Cole 1966: A.T. Cole, The Apology of Protagoras, Yale classical studies», 19 (1966), pp. 101-118
Decleva Caizzi 1978: F. Decleva Caizzi, Il frammento 1 D.-K. Di Protagora. Nota critica, Acme 31 (1978), pp. 11-35.
Firpo 1982: L. Firpo (ed.), Storia delle idee politiche, economiche e sociali, vol. 1, Torino 1982.
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