Il fisco a Roma: dalle origini al II secolo d.C.

I cittadini romani non furono sottoposti a un regolare sistema di tassazione sul patrimonio e sulla rendita personale, ma al pagamento di alcune imposte indirette che gravavano sulle merci in vendita e su quelle che transitavano nel circondario dell’Urbe. A partire dall’età regia, sulle derrate in entrata o in uscita dalla res publica fu stabilita una tassa per il transito (portorium) che variava a seconda del tipo di merce; alcuni prodotti di lusso provenienti dall’Oriente, come i tessuti ricamati in oro e le perle, erano gravati da imposte di gran lunga superiori ad altre merci. L’unico reale tributo che lo Stato romano impose in ogni epoca ai suoi cittadini, sulla base del census personale, fu la tassa per sostenere le spese belliche, «a causa della scarsità delle finanze e della frequenza delle guerre» (propter aerarii tenuitatem assiduitatemque bellorum, Cic. off. II 74). Lo storico Livio (I 42-43) informa che tale imposta sarebbe stata istituita già al tempo di re Servio Tullio, «il fondatore di ogni distinzione di classe fra i cittadini» (conditorem omnis in civitate discriminis ordinumque), quando i Romani furono censiti e suddivisi in cinque classi, «non per testa, come in passato, ma a seconda della condizione finanziaria di ciascuno» (non viritim, ut ante, sed pro habitu pecuniarum), con l’intento di distribuire gli oneri della pace e della guerra tra la popolazione in maniera adeguata all’entità del «reddito» (census) di ognuno. Per esempio, i cittadini appartenenti alla seconda classe dovevano versare una somma di 100.000 assi, mentre quelli della terza 25.000; il censo minimo richiesto era comunque di 11.000 assi. Talvolta, nel caso di un’operazione bellica portata a termine con successo, i Romani potevano recuperare il loro denaro spartendosi fra loro il bottino di guerra e liquidando la propria parte tramite la vendita. Si racconta che tutti i proventi ricavati dalla conquista di Veio (396 a.C.), dopo un lungo e annoso conflitto, finirono nelle mani della popolazione romana accorsa in massa sul campo di battaglia, mentre all’aerarium entrò soltanto il ricavato dalla vendita all’asta dei prigionieri (Liv. IV 59, 11-60, 8). Il tributo bellico continuò a gravare pesantemente sui cittadini romani, divenendo talvolta perfino opprimente (Pol. I 58, 9), e, in seguito, con le costanti guerre di conquista, il conseguente ampliarsi dell’estensione dello Stato, e la necessità di aumentare l’apparato difensivo, in determinate occasioni si fece ricorso all’imposizione di tasse straordinarie.

Tesoretto di Bredon Hill. Radiati, argento, 244-282 d.C. ca. da Bredon Hill (Worcestershire). Worcester City Art Gallery & Museum.

Nel quinto anno della seconda guerra punica (214 a.C.), «poiché mancavano i marinai, i consoli, in seguito a una delibera del Senato, disposero che colui la cui propria sostanza o quella di suo padre fosse dai censori Lucio Emilio e Gaio Flaminio valutata da 50.000 a 100.000 assi, o che in seguito si fosse procurato tale patrimonio fino a 50.000 assi, stipendiasse per sei mesi un marinaio; chi poi avesse un’entrata superiore a 100.000 assi fino a 300.000, ingaggiasse tre marinai con lo stipendio di un anno; chi superava la somma di 300.000 assi fino a 1.000.000, cinque marinai; chi superava il milione, sette marinai; i senatori poi dovevano fornire otto marinai stipendiati per un anno. In virtù di questo decreto furono procurati gli equipaggi armati e riforniti dai loro padroni; essi si imbarcarono con una scorta di vettovaglie per trenta giorni. Allora per la prima volta una flotta fu equipaggiata con marinai pagati e mantenuti con il denaro di privati cittadini» (Liv. XXIV 11, 7-9).

D’altra parte, è pur vero che talvolta si verificarono dei rimborsi sulle imposte esatte, grazie ai ricavati dei bottini di guerra: fu questo il caso di Gneo Manlio Vulsone, che, trionfatore sui Galati nel 187 a.C., riportò dall’Asia ricchezze tali da porre fine all’era dei tributi di guerra (Liv. XXXIX 7, 4-5). D’altra parte, da un accurato esame della documentazione, è stato stimato che la liquidazione dei bottini e le indennità di guerra, dalla guerra annibalica alla terza macedonica, fornirono alla res publica entrate davvero considerevoli, nell’ordine di 250.000.000 di denarii. In particolare, a rendere del tutto superflua l’imposizione del tributum ai cittadini adsidui fu la grandiosità del bottino che Lucio Emilio Paolo conferì al tesoro pubblico a seguito dell’impresa macedonica (Plut. Aem. 38, 1; Plin. NH. XXXIII 56).

Carle Vernet, Trionfo di Emilio Paolo. Olio su tela, 1789. New York, Metropolitan Museum of Art.

Prima delle conquiste di Pompeo Magno in Oriente, le tasse (tributa o vectigalia) corrisposte dalla popolazioni provinciali ammontavano complessivamente a circa 200.000.000 di sesterzi (Plut. Pomp. 45); Cesare stabilì che le tasse per la Gallia fossero pari a 40.000.000 di sesterzi (Suet. Iul. 25, 1). Il documento più importante riguardante l’esazione fiscale nelle province è la terza orazione (de frumento) dell’Actio secunda in Verrem (Cic. Verr. II 3), dove l’avvocato dell’accusa giustifica l’imposizione fiscale come victoriae praemium ac poena belli («prezzo della vittoria e punizione di guerra»). In Sicilia, il compito della riscossione della decuma dei prodotti del suolo, corrisposta dalle città dell’isola, sia foederatae sia immunes, spettava ai cosiddetti decumani. Ogni anno veniva messo all’asta l’appalto delle decumae, dinanzi al pretore, secondo la lex Hieronica, e quindi assegnato agli esattori (Cic. Verr. II 3, 12-15). I decumani, descritti da Cicerone (Cic. Verr. II 3, 76), erano persone modeste, appartenenti al livello più basso dell’ordine dei publicani.

Poiché Roma possedeva solo un ristretto numero di funzionari amministrativi, le varie funzioni pubbliche, come la logistica militare, i grandi progetti edilizi e, infine, la riscossione dei tributi in Asia e in altre province, furono assegnate a singoli cittadini. Nel caso del prelievo fiscale, i publicani, oltre a garantire alla res publica l’ammontare delle imposte determinato da un’asta tenuta davanti ai censori, spesso si permettevano di riscuotere importi supplementari per coprire i propri oneri. Con il tempo, siccome, a causa delle ingenti somme coinvolte, le franchigie non potevano più essere accollate a singoli cittadini, furono create delle societates publicanorum.

A proposito della classificazione tributaria, è noto che, fino all’epoca di Diocleziano (284-305), le imposte dirette (tributa o vectigalia) erano riscosse soltanto nelle province: l’ordinamento fiscale prevedeva l’imposizione di un tributum capitis, un’imposta sugli individui in età lavorativa dai 14 ai 60-65 anni, e la decuma, cioè la corresponsione del 10% delle rendite agricole. Le città che godevano dello ius Italicum o dell’immunitas e i singoli abitanti cui erano stati concessi privilegi personali erano esentati da tali imposte (Dig. 50, 15).

Banco dell’argentarius. Bassorilievo, marmo, c. I-II sec. d.C.

La riscossione delle imposte era motivata dalla dottrina del dominium populi Romani in solo provinciali (cfr. Gai. 2, 7) e si basava sulla dichiarazione del cittadino della propria condizione familiare e dell’ammontare del proprio patrimonio in occasione del censimento, operazione pubblica svoltasi per l’ultima volta sotto Vespasiano (69-79). In seguito, queste mansioni furono demandate ai funzionari imperiali e alle rilevazioni statistiche delle singole province e città. In epoca imperiale, il tributum era abitualmente riscosso dalle comunità locali, che disponevano di mappe catastali (come quella rinvenuta ad Arausio, l’od. Orange) per svolgere tale incombenza. Un’esenzione temporanea dall’imposta poteva essere concessa come aiuto in caso di calamità o come segno di gratitudine per i servizi resi (Tac. Ann. II 47). Quando si prevedeva che il gettito fiscale non fosse sufficiente a colmare le spese pubbliche, le autorità imperiali esigevano delle indictiones, consistenti nell’acquisto obbligatorio da parte dei cittadini di derrate alimentari o altri rifornimenti per gli eserciti e per l’apparato amministrativo: probabilmente questo accadde con una certa frequenza dal II secolo in poi.

Quanto invece alle imposte indirette, le più importanti erano quelle relative alla manomissione (vicesima libertatis, con un’incidenza del 5%), alla vendita dei servi (4%), ai lasciti testamentari (vicesima hereditatum, 5%) e ai ricavati delle aste (centesima rerum venalium, 1%; cfr. Tac. Ann. II 42, 4). Oltre a queste, esistevano anche centinaia di tasse secondarie, alcune di carattere locale, altre a livello provinciale, ma tutte a beneficio della res publica: sul possesso di asini e sulle opere di irrigazione, sulla cera d’api e sull’uso degli archivi, sui servizi di banco e sulle prestazioni delle prostitute. In realtà, le fonti letterarie non ne menzionano quasi nessuna e la maggior parte di esse è attestata solo per l’Egitto (cfr. Suet. Calig. 40). La celebre tassa (centesima venalium), rimproverata da Tito al padre Vespasiano, sull’urina, raccolta nelle latrine pubbliche per essere impiegata dai conciatori e dai tintori (fullones) per i loro processi di lavorazione, è ricordata solo grazie all’aneddoto di Svetonio (Suet. Vesp. 23, 3; cfr. DCass. LXV 14, 5).

Scena di pagamento delle imposte. Rilievo, calcare, fine II sec. d.C. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

Nei primi secoli del periodo repubblicano il tesoro della città di Roma, che era custodito nel tempio di Saturno (aerarium Saturni), era dunque formato dai proventi derivati dalle praedae belliche, dalle imposte versate dai cittadini per le spese di guerra e dagli introiti delle imposte indirette che gravavano sulle derrate in transito. A ciò si aggiungevano anche le rendite derivate dai beni demaniali, che consistevano essenzialmente in terreni agricoli (ager publicus) o da pascolo, concessi in affitto ai privati dietro corresponsione di un canone (vectigal); alla riscossione delle imposte provvedevano direttamente i funzionari cittadini.

Durante il principato di Augusto, all’antico erario repubblicano fu aggiunta una cassa, detta fiscus, a uso esclusivo del princeps, che poteva esercitare una notevole influenza sulla politica attingendo a queste risorse. In questo deposito erano raccolti i proventi della riscossione tributaria in Aegyptus e tutti gli altri redditi che in precedenza spettavano all’erario. L’erede di Cesare se ne servì per sostenere la distribuzione di terre e il vettovagliamento dei suoi soldati (RGDA 16 ss.). Il fiscus ricevette il suo ordinamento definitivo sotto Claudio. L’imperatore amministrava direttamente i fondi depositati nel fiscus e si occupava di registrare su libri contabili le somme incassate e le spese sostenute; qui, tra l’altro, confluivano anche le sostanze di coloro che erano deceduti senza lasciare eredi (bona vacantia), gli averi dei condannati (bona damnatorum) e i proventi delle multe (Tac. Ann. II 48). Spettava, inoltre, al fiscus anche la metà di quei beni che erano stati rinvenuti casualmente e non appartenevano a nessuno (bona caduca). Intorno al 6 d.C., Augusto istituì un fondo speciale, detto aerarium militare, mediante il quale provvide a corrispondere i compensi ai veterani (RGDA 17; Suet. Aug. 49, 2). La dotazione iniziale dell’erario militare fu prelevata dal patrimonio personale del principe e in seguito fu alimentata dalle imposte indirette, come la vicesima e la centesima rerum venalium.

Scena di pagamento delle imposte. Rilievo, calcare, III sec. d.C. Luxembourg, Musée Luxembourgeois.

Proprio quest’ultima imposta colpiva soprattutto il popolo, che ne richiese l’abolizione a Tiberio. Tacito (Tac. Ann. I 78) riferisce che l’imperatore rispose di non essere in grado di soddisfare una simile richiesta, perché l’erario militare era rimpinguato esclusivamente grazie a quell’entrata; il pagamento dell’imposta era quindi necessario per mantenere le forze armate a ferma ventennale.

Fu Caligola, particolarmente vicino alla plebe, ad abrogare nel 38 la centesima rerum venalium almeno in Italia (DCass. LIX 9). Al contrario, la vicesima sulle successioni e sulle donazioni, che colpiva soprattutto le classi più abbienti, fu mantenuta e Plinio il Giovane, nel suo Panegyricus dictus Traiano imperatori, la considerò la tassa più gravosa per i cittadini romani (Plin. Pan. 37-41).

Al periodo flavio risale l’istituzione di una tassa particolare, il fiscus Iudaicus, con cui si volevano colpire gli Ebrei sconfitti da Tito, obbligandoli a corrispondere ogni anno due dracme ciascuno (Jos. BJ VII 6, 6). In seguito, considerata parecchio infamante e vergognosa, l’imperatore Nerva decise di abolirla, come dimostrano alcuni sesterzi coniati nel 96/7 (RIC II 58; 82, fisci Iudaici calumnia sublata), sulla base di un preciso programma volto ad alleggerire la pressione fiscale sugli abitanti dell’Impero.

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La congiura di Catilina e la rivolta degli esclusi dal potere

da R. CRISTOFOLI, Storie e parabole del potere personale al tramonto dell’antica Repubblica romana: anni 107-44 a.C.,in ID., A. GALIMBERTI, F. ROHR VIO (eds.), Dalla Repubblica al Principato. Politica e potere in Roma antica, Roma 2014, 43-49 [con modifiche].

Se per la prima parte dei I secolo a.C. si parla del potere, delle sue basi e di coloro che, raggiungendolo e concependolo in maniera diversa, lo detennero effettivamente, ora con la figura di Catilina si apre invece una luce su quanti si trovarono, a un certo punto della propria carriera politica, a non essere più in grado di aspirarvi, e tentarono una rivolta uscendo prima dalle regole non scritte dell’ortodossia politica, poi dalla legalità. Non si trattò, appunto, di un povero o di un uomo di umili origini, ma di un aristocratico in declino, il quale, animato dal disegno di tornare a competere per il potere, guardò al popolo e agli indigenti non solo dell’Urbe, nonché ad altri aristocratici male in arnese, come a una base di sostegno e a un bacino di reclutamento militare: la sua coniuratio, che minacciava un rovesciamento violento, non fu che un tentativo estremo di imporre una svolta all’interno di un quadro in cui, con l’avvicinamento tra optimates ed equites e lo stemperarsi delle tensioni della guerra civile e degli anni Settanta, la sola preoccupazione per un sistema politico e istituzionale sempre più ristretto alla partecipazione di poche famiglie erano ormai i paventati tentativi autocratici dei signori della guerra.

L. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. Ar. 3,70 gr. Rovescio: Longin(us) IIIV(ir). Un cittadino in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella, riportante l’abbreviazione U(ti rogas), in una cista.

Lucio Catilina, della famiglia ormai in declino dei Sergii, nacque a Roma nel 108/7. Il matrimonio con Gratiana lo portò ad avvicinarsi a Mario (la donna era sua nipote), ma, dopo la militanza con Gneo Pompeo Strabone, nell’88 passò al seguito di Silla nella prima guerra mitridatica (87-85); al ritorno, fu un sostenitore così accanito di Silla da massacrare il cognato Mario Gratidiano. Il cursus honorum di Catilina prese avvio nel 78 con la questura e proseguì nel 71 con l’edilità, mentre più importanti cariche arrivarono all’inizio degli anni Sessanta: è del 68 la pretura, e del 67-66 il governatorato provinciale in Africa. Erano, quelli, gli anni in cui la competizione elettorale si restringeva ai facoltosi: la propaganda dei candidati e la possibilità di ben figurare una volta eletti in alcune cariche (soprattutto l’edilità) dipendevano strettamente dalle risorse economiche dei singoli, e così era frequente che i membri delle famiglie non più al culmine della prosperità si indebitassero in maniera anche molto rilevante. Tale era la situazione di Catilina, anche per una tendenza allo sperpero cominciata fin dagli anni giovanili, e in quell’epoca tipica di molti rampolli della gioventù capitolina di alto rango.

Tornato a Roma dall’Africa e pendendo su di lui un processo de repetundis (come capitava spesso ai governatori indebitati che si trovavano preposti a una provincia ricca), accusato di aver sfruttato indegnamente quel territorio, Lucio Catilina si candidò nel 66 al consolato per l’anno successivo: l’occasione era propizia, perché i consoli già eletti per il 65, Autronio Peto e Publio Cornelio Silla (nipote di Silla Felix), furono accusati de ambitu e deposti, cosicché Catilina, da poco tornato dall’Africa, poté partecipare alla gara elettorale supplementare, anche sperando di sfuggire così al processo (il diritto romano non consentiva di portare alla sbarra chi avesse cominciato una magistratura, fino allo scadere del mandato). Tuttavia, oltre alla causa incombente, proprio i suoi temuti trascorsi – che includevano uno scandalo con le Vestali! – minarono le sue possibilità e frustrarono il suo tentativo: si decise di non ammettere alla candidatura, pretestuosamente, quanti non fossero già stati candidati alle prime elezioni, e furono così eletti consoli Lucio Aurelio Cotta e Lucio Manlio Torquato.

Ritratto virile, detto ‘Cicerone’. Busto, marmo bianco, I sec. d.C. Firenze, Galleria degli Uffizi

A questo punto Sallustio (Cat. 18, 4 ss.; ma cfr., tra l’altro, DCass. XXXVI 44, 3 ss.) di una cosiddetta «prima congiura di Catilina», con Catilina e Autronio Peto che avrebbero coinvolto Gaio Pisone in una trama contro la vita dei nuovi consoli Cotta e Torquato, da attuarsi il 1° gennaio del 65 alla loro entrata in carica; compiuto l’assassinio, Pisone sarebbe poi dovuto andare con un esercito a occupare le due Hispaniae. La congiura fu posticipata al 5 febbraio perché trapelata, e in quell’occasione la strage avrebbe dovuto riguardare anche molti senatori: ma quel giorno lo scarso numero di adesioni e il segnale dato da Catilina troppo presto fecero fallire tutto. Pisone andò in Spagna lo stesso, come governatore e con l’appoggio del neocensore Crasso (Sall. Cat. 19, 1), ma lì venne assassinato. Nessuna indagine acclarò i fatti del 65, e la maggioranza degli studiosi moderni non accorda molta fiducia alla loro realtà; se fu Cicerone nel 64, con l’orazione per la sua candidatura, a dare origine alle illazioni su tale presunta trama, reiterandole in discorsi successivi, va detto che in effetti Sallustio, Livio (ma la Per. 101 non fa il nome di Catilina) e Cassio Dione le considerarono molto seriamente, andando oltre lo stesso oratore per quanto riguarda la costruzione di una vera e propria congiura. È con Svetonio che il quadro si arricchisce di un dato significativo, che la tradizione ostile a Cesare aveva conservato: al cap. 9 della sua biografia leggiamo infatti che Cesare, pochi giorni prima di assumere l’edilità del 65, venne sospettato di aver dato vita a una congiura insieme a Crasso e ai due consoli vincitori delle prime elezioni del 66, Silla e Autronio. La congiura – poi naufragata per pavidità o per un ripensamento di Crasso – sarebbe stata finalizzata all’uccisione degli avversari in Senato, dopodiché Crasso avrebbe dovuto assumere la dittatura con Cesare come magister equitum, e riattribuire il consolato a Silla e Autronio. Notevole però il fatto che, in questo ramo della tradizione confluito in Svetonio, non si facesse menzione di Catilina: di vero può esserci soprattutto l’avvicinamento di Crasso e Cesare, preoccupati dai successi di Pompeo in Oriente.

Catilina venne assolto dall’accusa di concussione (de repetundis) che pendeva su di lui, ma troppo tardi per poter presentare la candidatura al consolato del 64; tornò in lizza per quello del 63, questa volta con possibilità accresciute grazie al sostegno di importanti personaggi, tra i quali probabilmente Crasso e forse Cesare, entrambi annoverati da Asconio Pediano (nel commento all’orazione ciceroniana In toga candida 74, p. 83 Clark) come sostenitori di Catilina, e che è possibile presupporre interessati – in un’ottica di perseguimento del proprio utile, che nell’aristocrazia del tempo si faceva sempre più preponderante rispetto a qualsiasi coerente ideologia – a un programma parzialmente “popolare”, nell’intento di fronteggiare la paventata elezione del candidato pompeiano e conservatore Marco Tullio Cicerone.

M. Tullio Cicerone (?). Statua, marmo, II sec. d.C. Oxford, Ashmolean Museum.

Si può presumere che il programma di Catilina contenesse sì delle aperture riformiste e delle misure volte ad alleviare la crisi finanziaria che colpiva il popolino e la plebe rurale, ma non ancora i disegni di riforme ad alto impatto che avrebbero contraddistinto l’ultima parte della sua attività politica e che in questa fase sarebbero stati ancora prematuri, in quanto lo avrebbero privato dell’appoggio di Crasso, legato al ceto imprenditoriale-finanziario e quindi sordo a qualsiasi misura inerente a condoni di debiti e a trasformazioni sociali radicali: ha senz’altro ragione Syme (1968, 92-93) a rimarcare che Sallustio, in realtà, anticipa nella sua narrazione i piani rivoluzionari del personaggio.

Catilina e i suoi fautori dovettero mobilitarsi per questa competizione elettorale per il consolato del 63 e indulgere alla pratica, del resto diffusa, dell’ambitus («broglio»); ma le cose non andarono come essi si auguravano, e furono eletti Cicerone, appoggiato dalla maggioranza degli optimates (spaventati dalle manovre di Crasso e Cesare) e degli equites, e, tra coloro che facevano capo al sostegno elettorale di Crasso, il solo Gaio Antonio Hybrida, un sillano.

Non ancora disposto a rassegnarsi, Catilina tentò per la terza volta di raggiungere la suprema magistratura e si candidò per le elezioni del 63 per il consolato del 62, senza più l’appoggio di Crasso: Catilina, che almeno alle elezioni precedenti aveva goduto ancora del sostegno di potenti personaggi – i quali intendevano avvalersi di lui come di uno strumento per la loro politica – ed era stato a un passo dal coronamento della carriera dell’alta aristocrazia, da questo momento può invece essere considerato un escluso dal potere, che come tale cerca di ovviare alla propria situazione e alle difficoltà della sopravvenuta indigenza, cavalcando il malcontento di quanti non appartenevano da sempre, e di quanti non appartenevano più, alla ristretta élite dominante.

La sua è una rivolta che comincia fin dal programma: in sé legittimo, pur se questa volta radicale, e imperniato sulla remissione dei debiti pregressi (tabulae novae) come su una bandiera anche ideologica, in qualche modo mirata a far presa trasversalmente, in quanto teoricamente in grado di attrarre nel favore a essa la plebe e i piccoli proprietari terrieri italici, ma anche non pochi patrizi indebitati per lo stile di vita o per l’ambizione politica. La base di consenso di Catilina vantava infatti ancora degli optimates (ma per la maggiore in difficoltà), tra i quali Publio Cornelio Lentulo Sura (cos. 71), espulso dal Senato nel 70, e Lucio Cassio Longino (praet. 66), mentre la sua base sociale era composta in larga parte dalla plebe urbana, da giovanotti ambiziosi e pieni di debiti, da piccoli proprietari soprattutto dell’Etruria e da ex soldati di Silla. Nondimeno, Catilina andò incontro all’ennesima sconfitta elettorale.

Joseph-Marie Vien, La congiura di Catilina. Olio su tela, c. 1809.

La maggioranza dell’aristocrazia ottimate e la pressoché totalità dei cavalieri si erano infatti date molto da fare alla luce di quella che Catilina aveva configurato come la sua azione politica in caso di elezione consolare; l’immagine di Catilina fu dai suoi avversari propagandisticamente deformata e presentata come quella di un dissoluto ispirato da intenti sovversivi, che giungeva al punto di cibarsi delle viscere di bambini immolati a suggello di sacrifici (DCass. XXXVII 30, 3). Catilina, deciso allora a giocarsi il tutto per tutto uscendo dalla legalità, passò alla soluzione estrema (il «piano B»: Waters 1970, 198 ss.) di ordire un complotto a danno di Cicerone e di arruolare un esercito di veterani in Etruria, comprendente, oltre ai sostenitori della prima ora e ai braccianti, anche bande paramilitari e servi: Gaio Manlio agì per conto di Catilina proprio a tal scopo.

La nuova sconfitta nella competizione per il consolato era nata soprattutto dall’abbandono da parte di Crasso, nonché dal differimento – non si sa quanto lungo, forse fino all’autunno – dei comitia attuato da Cicerone, che impedì di votare alla plebe rurale (Plut. Cic. 14, 5); ma va rilevato che anche un’ampia percentuale della plebe urbana indipendente (soprattutto i tabernarii, secondo Yavetz 1969) dovette distaccarsi da lui, in piccola parte già prima e in parte maggiore dopo le elezioni, a mano a mano che Cicerone pronunciava i suoi discorsi contro Catilina, intrisi di rivelazioni circa i suoi progetti eversivi e l’inevitabile sconvolgimento dell’ordine pubblico, cui il temuto reclutamento di servi – mentre era ancor viva la memoria di Spartaco – offriva conferma. La plebs di Roma, non tutta indigente, che non si entusiasmò davanti alla lex agraria proposta da Rullo (appoggiata da Cesare e da Crasso, che volevano togliere a Pompeo il controllo delle assegnazioni di terreno, e per questo osteggiata da Cicerone), in quanto niente affatto sedotta dalla prospettiva di dover abbandonare l’Urbe per andare in colonie di nuova fondazione, dovette togliere il proprio favore a Catilina con buona probabilità per effetto della martellante propaganda, che oltre alle accuse di cui sopra arrivò ad attribuirgli anche quella di voler incendiare la città (Sall. Cat. 43, 2 ss., e altre fonti). Tutto ciò non era controbilanciato dall’attrattiva dell’abolizione dei debiti, che pur se realizzata non avrebbe comunque evitato ai disperati di contrarne di nuovi, in assenza di una reale e adeguata riforma economico-finanziaria (Yavetz 1969). Sallustio (Cat. 48) fa infatti notare come, dopo la scoperta della congiura, la plebe urbana avesse cambiato il suo modo di vedere le cose (mutata mente), maledicendo i progetti di Catilina e portando alle stelle Cicerone (Catilinae consilia exsecrari, Ciceronem ad caelum tollere), timorosa soprattutto della prospettiva che fossero appunto appiccati incendi (per facilitare l’invasione della città da parte dei catilinari), particolarmente temibili per chi possedeva solo utensili e vestiti. Faremmo inoltre rilevare che per una parte non piccola della platea dei poveri esisteva ormai anche la prospettiva dell’arruolamento militare professionale post-mariano, che certo aveva ridotto il numero degli uomini sui quali potesse far presa un progetto rivoluzionario e rischioso, basato su misure che in ultima analisi erano palliative.

Cesare Maccari, Cicerone denuncia la congiura di Catilina in Senato. Affresco, 1882-88. Roma, Palazzo di Villa Madama.

Il 27 ottobre del 63 in Etruria avvenne l’insurrezione, mentre il 6 novembre a Roma i catilinari pianificarono l’assassinio del console Cicerone per la nottata. L’azione contro il magistrato fu però sventata, e la risposta del console non si fece attendere: l’8 e il 9 novembre egli tenne in Senato le prime due orationes in Catilinam, che poco più di una settimana dopo sortirono gli effetti della dichiarazione di Catilina come hostis publicus e dell’emanazione di un Senatus consultum ultimum. Catilina fu costretto a fuggire dall’Urbe e a cercare scampo presso i suoi in Etruria; nella disperata ricerca di nuove alleanze, era entrato in trattative perfino con gli Allobrogi, ma alcuni loro esponenti furono sorpresi a Roma con messaggi per Catilina e confessarono. La terza e la quarta delle Catilinariae, pronunciate rispettivamente il 3 e il 5 dicembre subito dopo la scoperta della corrispondenza segreta, se valsero a Cicerone il titolo di «salvatore della patria», costarono l’accusa di perduellio ai congiurati che erano ancora a Roma, e l’esecuzione in tutta fretta nel carcere Mamertino, senza che fosse loro concessa la provocatio ad populum.

Cesare aveva parlato in Senato contro l’opportunità di una condanna a morte almeno così immediata, e a favore invece della confisca dei beni e della prigionia per gli arrestati in attesa della sconfitta di Catilina e di un processo con tutti i crismi e le garanzie costituzionali; prevalsero però i pareri dell’ottimate emergente Marco Porcio Catone il Giovane e di Cicerone. Catilina, con eroismo eternato da Sallustio nel suo «ritratto paradossale» (La Penna 1976) del personaggio, morì nel gennaio del 62 a Pistoia, combattendo contro l’esercito condotto da Petreio.

Alcide Segoni, Il ritrovamento del corpo di Catilina dopo la battaglia di Pistoia. Olio su tela, 1871. Firenze, Galleria dell’Arte.

Anche fra gli studiosi moderni – una parte dei quali ritiene di ridimensionare l’importanza della vicenda – si trovano quanti danno credito alle fonti antiche e presentano quello di Catilina come il tentativo di destabilizzare lo Stato romano a opera di un dissoluto manovrato da politici potenti, e quanti, invece, hanno guardato a lui come a un leader con un’ambizione politica autonoma, che certamente trovò poi anche l’appoggio di personaggi influenti; ma non sono mancati neanche alcuni che, con buona dose di esagerazione, hanno annoverato il personaggio tra gli autentici riformatori sociali dell’antica Roma.

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Gneo Nevio

Gneo Nevio, al contrario di Livio Andronico, era un cittadino romano, seppur di origine campana: le città campane avevano ricevuto la Romana ciuitas sine suffragio nel 295, a seguito delle guerre sannitiche. Sulla biografia dello scrittore si dispone di scarse notizie, ma quel che si sa di certo è che combatté contro i Cartaginesi durante la prima guerra punica (264-241 a.C.), verosimilmente negli ultimi anni del conflitto. Non era un aristocratico, e anzi sembra che avesse avuto aspri scontri con la nobilitas romana, in particolare con la potente famiglia dei Caecilii Metelli. Della burbanza di questo clan gentilizio è un ottimo esempio il brano conservato da Plinio il Vecchio della laudatio funebris tenuta da Quinto Cecilio Metello (cos. 206) in onore del padre Lucio Cecilio Metello (cos. 251; 221):  

Q. Metellus in ea oratione, quam habuit supremis laudibus patris sui L. Metelli pontificis, bis consulis, dictatoris, magistri equitum, XVuiri agris dandis, qui primus elephantos ex primo Punico bello duxit in triumpho, scriptum reliquit decem maximas res optimasque, in quibus quaerendis sapientes aetatem exigerent, consummasse eum: uoluisse enim primarium bellatorem esse, optimum oratorem, fortissimum imperatorem, auspicio suo maximas res geri, maximo honore uti, summa sapientia esse, summum senatorem haberi, pecuniam magnam bono modo inuenire, multos liberos relinquere et clarissimum in ciuitate esse; haec contigisse ei nec ulli alii post Romam conditam.

«Quinto Metello nel discorso che tenne durante le onoranze funebri di suo padre Lucio Metello, il pontefice – il quale fu due volte console, dittatore, comandante della cavalleria, quindecemviro per l’assegnazione delle terre e, per primo, nella prima guerra punica, portò degli elefanti in trionfo – lasciò scritto che egli aveva riassunto in sé le dieci qualità più grandi e belle, nella ricerca delle quali gli uomini saggi trascorrono la vita: aveva voluto essere un guerriero di prim’ordine, un ottimo oratore, un comandante valorosissimo; sotto il suo comando si erano compiute grandissime imprese; aveva ricoperto le cariche più alte; era stato sommamente saggio, era stato considerato il senatore più prestigioso; aveva messo insieme con mezzi leciti un immenso patrimonio; lasciava molti figli, era il cittadino più illustre. Queste fortune erano toccate a lui e a nessun altro dal tempo della fondazione dell’Urbe».

(Plin. N.H. VII 45, 139-140)

Come si vede, la ripetuta insistenza fa di questo testo non solo un documento di albagia, ma anche di propaganda politica; d’altra parte, in esso il profilo delineato era quello dell’uomo di Stato romano della media età repubblicana, per il quale rappresenta una sorta di decalogo, senza dubbio significativo ma quasi inarrivabile.

Il cosiddetto «Togato Barberini». Statua, marmo, fine I secolo a.C. con testa non pertinente. Roma, Musei Capitolini.

Da una discussa allusione contenuta nel Miles gloriosus (vv. 211-212) di Plauto, sembra di ricavare che Nevio fu perfino incarcerato dai suoi avversari, ob assiduam maladicentiam et probra in principes ciuitatis («per lo sparlare continuo e per le offese a danno dei cittadini più in vista», Gell. N.A. III 3, 15). Secondo la maggior parte degli studiosi, infatti, l’alterco tra Nevio e la famiglia dei Metelli sarebbe avvenuto con ogni probabilità sotto il consolato di Quinto Cecilio Metello e la pretura di suo fratello Marco, nel 206: forse il poeta li attaccò apertamente in una commedia, con un verso apparentemente innocuo, ma che dimostra lo spirito libero e fiero dell’autore: Fato Metelli Romae fiunt consules («Per volere del destino i Metelli sono stati eletti consoli di Roma», F 4 Traglia). È innocuo all’apparenza, perché, com’è noto, il termine fatum è in latino una vox media e poteva essere inteso nel senso di “disgrazia”, generando un arguto doppio senso: «Per la rovina di Roma i Metelli sono stati eletti consoli». In ogni caso, i personaggi diffamati non fecero attendere la propria replica – quando si dice “rispondere per le rime”! – con un monostico carico di minaccia: Malum dabunt Metelli Naeuio poetae («I Metelli la faranno pagare cara al poeta Nevio»).

Ritratto virile. Busto, bronzo, 30 a.C. c.

Per quanto sia dato a intendere, caratteristica della commedia neviana doveva essere la mordacità con cui egli alludeva all’attualità politica in chiave polemica e satirica. Non è certo, ma è molto probabile per alcuni studiosi che gli strali contro i Caecilii Metelli derivi dalle origini stesse di questa schiatta, origini, per la verità, plebee. Il poeta Nevio, dunque, era particolarmente infastidito dalla nouitas e dall’arroganza dei giovani Metelli, al punto che, sembrerebbe dalla commedia Ludus, egli mise in scena un dialogo di questo tenore:

A. Cedo, qui uestram rem publicam tantam amisistis tam cito?

B. Proueniebant oratores noui, stulti adulescentuli.

A. Dimmi: come avete fatto a mandare in rovina il vostro Stato, un tempo così potente?

B. Si facevano avanti nuovi politici, degli stupidi ragazzetti!

(F 51 Traglia)

Il riferimento alla situazione contemporanea, molto probabilmente nel 206, è implicito: gli stulti adulescentuli potevano essere benissimo i fratelli Quinto e Marco, ma anche il loro giovanissimo amico e sodale, Publio Cornelio Scipione (il futuro Africano), anch’egli vittima degli strali del poeta:

etiam qui res magnas manu saepe gessit gloriose,

cuius fata uiua nunc uigent, qui apud gentes solus praestat,

eum suus pater cum pallio unod ab amica abduxit.

«Anche colui che spesso compì grandi gesta con gloria,

le cui azioni ora raggiungono la fama eccelsa e che presso le gentes si distingue lui solo,

suo padre lo portò via dalla casa dell’amante con un unico straccio indosso».

(F 86 Traglia)

Davvero una pessima figura per il futuro grande generale romano, colto in flagrante tra le braccia di una ragazza forse non bene accetta dalla famiglia, portato via con forza dal burbero padre senza nemmeno avere il tempo di rivestirsi: la frecciata dell’arguto poeta è rafforzata dal contrasto tra la solennità dei primi due versi (che riecheggiano i famosi elogia Scipionum!) e il terzo, che descrive una tipica scena comica.

Scena di un incontro galante. Affresco, 19 a.C. ca. Cubiculum D. Casa della Farnesina. Roma, P.zzo Massimo alle Terme.

Ora, queste vicende fecero di Nevio il solo letterato romano che abbia preso parte autonoma alle mene politiche e il solo privo di protettori autorevoli negli ambienti dell’élite. Egli pagò di persona il proprio anticonformismo: morì, forse in esilio, a Utica, in Africa, nel 204 o nel 201.

Il forte impegno di Nevio nella vita sociale e culturale romana traspare dai caratteri originari della sua produzione letteraria, della quale si conservano soltanto frammenti riportati da autori posteriori. In particolare, è interessante il suo poema epico, il Bellum Poenicum, dedicato alla narrazione della prima guerra punica, probabilmente composto in tarda età, verso gli anni 220-210. L’opera, che adotta – come già l’Odusia di Livio Andronico – il saturnio, verso della tradizione religiosa latina, doveva estendersi per quattromila o cinquemila versi: ne resta appena una sessantina. Allo stesso modo, anche la sua produzione teatrale dovette essere cospicua, se si presta fede alle testimonianze degli antichi, che lo celebravano fra i maggiori. Sono suoi, del resto, i primi titoli di fabulae praetextae (tragedie di argomento romano) che siano tramandati, Romulus e Clastidium.

Guerrieri celti (dettaglio). Rilievo, terracotta policroma, II sec. a.C. dal fregio del tempio di Civitalba. Ancona, Museo Nazionale delle Marche.

Quanto al poema, la scelta di un soggetto storico quasi contemporaneo non fu l’unica novità dell’epica di Nevio. L’autore non si limitò infatti a trattare in poesia il primo scontro con Cartagine, ma nella prima parte dell’opera (o forse in un excursus), con un salto cronologico arditissimo, il suo racconto toccava le origini leggendarie di Roma. Dai frammenti superstiti, si apprende che Nevio narrò con una certa ampiezza dell’arrivo nel Lazio di Enea, il mitico progenitore dei Romani, e delle altre vicende preistoriche fino alla fondazione della città. Per esigenze forse scolastiche il grammatico Ottavio Lampadione (vissuto nel II secolo a.C.) suddivise la materia neviana in sette libri. In effetti, la mescolanza di eventi storici e mitologia fece di Nevio un precursore di Virgilio: il Bellum Poenicum, dunque, anticipò molti motivi e situazioni propri dell’Aeneis e, infatti, molti dei passi dell’opera neviana sarebbero stati trasmessi dai commentatori virgiliani. Nonostante il debito nei confronti di Nevio, il grande successo dell’Aeneis in epoca imperiale contribuì a oscurare i meriti del predecessore.

L’eroe protagonista della vicenda virgiliana, nell’ultima notte di Troia, correva a casa del vecchio padre Anchise e, consegnati nelle sue mani i Penates della città, se lo caricava sulle spalle, prendeva per mano il figlioletto Ascanio e, seguito dalla moglie Creusa (che nella concitazione della fuga sarebbe andata perduta per sempre), correva via da Ilio in fiamme, invasa dagli Achei. In Nevio, come mostrano due frammenti tra i più significativi, che descrivono in maniera assai espressiva i momenti della fuga, le cose andarono diversamente. Secondo un’interpretazione minoritaria, Anchise ed Enea, avvertiti per tempo da Venere, avrebbero lasciato Troia destinata alla distruzione subito dopo l’orrenda morte di Laocoonte. Nel F 4 Morel le spose di Anchise e di Enea abbandonavano piangenti la città al suo fato, uscendo furtivamente di notte con il capo velato:

… amborum uxorem

noctu Troiad exibant capitibus opertis,

flentes ambae, abeuntes lacrimis cum multis…

«… le spose di entrambi

uscivano notte tempo da Troia a capo coperto,

entrambe piangendo, mentre se ne andavano con molte lacrime…».

Nel F 5 Morel al seguito degli esuli fuggitivi si poneva una moltitudine, genti d’ogni età (multi mortales), ma anche numerosi guerrieri valorosi (strenui uiri), capaci di opporsi all’avverso destino e pronti a costruire una nuova patria (l’oro che portavano con sé non era, una volta tanto, moralistico sintomo di corruzione o avidità, ma realistica garanzia di rinascita):

eorum sectam sequuntur multi mortals,

multi alii e Troia strenui uiri,

urbi foras cum auro illic exibant.

«Al loro seguito si pose molta gente,

molti altri coraggiosi guerrieri di Troia,

uscivano allora dalla città, portando con sé l’oro».

Il tragico tema dell’esilio è dunque sviluppato da Nevio con i tratti espressionistici tipici dell’epos arcaico. Nel primo frammento il poliptoto (cioè la ripetizione della stessa parola in due casi diversi della flessione) amborum… ambae, allitterante con abeuntes, sottolinea il comune destino delle due donne: la segretezza e il pianto muliebre che accompagnano la fuga sono racchiusi rispettivamente nei due versi finali. Nell’altro frammento, invece, la potente figura etimologica (che lega verbo e complemento tratti dalla medesima radice) sectam sequuntur è collegata dall’allitterazione con strenui uiri, ma all’interno della struttura sintattica la formula patetica multi mortales, enfatizzato dal raddoppiamento di multi, dice il destino doloroso di tutta una stirpe.

La partenza degli Eneadi per l’Esperia. Disegno ricostruttivo, dalla Tabula Iliaca Capitolina (in SCAFOGLIO 2005, 127).

Nel racconto della “preistoria” di Roma, Nevio doveva dare notevole spazio all’intervento divino, ma, a differenza dell’epica omerica, gli dèi assumevano anche una funzione storica e sanzionavano, attraverso grandiosi conflitti, la fondazione dell’Urbe. Se da una parte è giusto insistere sull’ispirazione “nazionale” dell’opera e sull’originalità della struttura, dall’altra non conviene staccare troppo Nevio dalla tradizione letteraria greca, quasi a farne un contraltare del “traduttore” Andronico. Nevio stesso, d’altronde, doveva essere stato un profondo conoscitore di poesia ellenica: anche la sua terra d’origine, la Campania, era regione di lingua e cultura grecanica. Certi aspetti di stile rivelano in lui un’originale mescolanza di cultura poetica greca e ispirazione tradizionale romana.

Il poeta, si è accennato, scrisse molto anche per il teatro: a quanto pare, fu l’inventore di un nuovo genere teatrale, la fabula praetexta, così detta dal nome con cui i Romani indicavano la toga orlata di porpora propria dei magistrati. Di questa produzione, le prime tragedie latine di argomento storico di cui si ha notizia, il Romulus (o Lupus) trattava la drammatica storia della fondazione dell’Urbe; il Clastidium doveva essere una celebrazione della vittoria nell’omonima località (l’od. Casteggio, PV), ottenuta nel 222 a.C. sui Galli Insubri dal console Marco Claudio Marcello: una tragedia su un evento così vicino nel tempo era una grande novità. Fra i drammi di argomento mitologico e greco si segnala, per il suo legame con questioni sociali e politiche di grande attualità, il Lucurgus.

Licurgo. Mosaico, II-III sec. d.C. da St.-Colombe. Vienne, Musée de St. Romain-en-Gal.

Di questa fabula cothurnata si conservano almeno ventiquattro frammenti, grazie ai quali è possibile ricavare una vaga idea della trama: la fabula narrava un episodio relativo all’introduzione del culto dionisiaco in Grecia, e precisamente la terribile punizione inflitta da Dioniso a Licurgo, re di Tracia, il quale aveva malamente cacciato dal regno il dio e tutto il suo seguito di Baccanti. Dioniso si vendicò facendo perire l’empio sovrano tra atroci sofferenze nel rogo del suo stesso palazzo. Per la composizione dell’opera, Nevio si ispirò a un originale greco, forse alla perduta tetralogia eschilea nota come Lykourgheia.

Il tema bacchico era, dunque, particolarmente attuale a Roma tra la fine del III e gli inizi del II secolo: per la verità, il culto di Dioniso, chiamato a Roma Liber o Bacchus, era stato riconosciuto ufficialmente dalle autorità religiose già da molto tempo (almeno dal 496 circa); eppure, negli ultimi decenni del III secolo si erano diffusi dalla Magna Graecia rituali di tipo orgiastico, che preoccupavano enormemente le autorità civili romane a tal punto che, come attesta una tavola di bronzo rinvenuta presso l’od. Tiriolo (CZ), il 7 ottobre 186 il senatus consultum de Bacchanalibus fu promulgato per “depurare” i sacra dionisiaci di tutti quegli elementi che li avevano resi sovversivi, e ricondurli nell’ordinamento cultuale pubblico. La vicenda è raccontata con dovizia di particolari da Tito Livio (XXXIX 8-19). Per comprendere, dunque, l’ostilità che i Romani provavano per quei cerimoniali tanto oltraggiosi e pericolosi basta citare la drammatica e concitata descrizione delle Baccanti che giungono nel regno di Licurgo: Alte iubatos angues inlaesae gerunt («Portano illese serpi dall’alta cresta», F 18 Traglia); oppure le devastazioni compiute dalle invasate: Liberi sunt: quaqua incedunt omnis aruas opterunt («Sono seguaci di Libero: dovunque passino, calpestano tutti i campi», F 19 Traglia).

Di gran lunga più importante, comunque, sembrerebbe la produzione comica di Nevio, consistente in almeno trentadue fabulae, le cui caratteristiche erano tali da indurre il grammatico Volcacio Sedigito a includere il poeta nel canone dei dieci migliori commediografi latini di tutti i tempi. Tra i titoli di questa produzione, il più noto è Tarentilla (“La ragazza di Taranto”): di quest’opera si ha un frammento assai vivace, il ritratto di una ragazza – forse proprio la protagonista – che fa la civetta (F 63 Traglia):

… quasi pila

in choro ludens datatim dat se[se] et communem facit.

alii adnutat, alii adnictat, alium amat, alium tenet.

alibi manus est occupata, alii peruellit pedem;

anulum dat alii [ex]spectandum, a labris alium inuocat,

cum alio cantat, attamen alii <suo> dat digito litteras.

… come una palla

in cerchio passa dall’uno all’altro ed è di tutti.

Fa un cenno a uno, all’altro strizza l’occhio; a uno fa le moine, ne abbraccia un altro.

Mentre la destra è occupata altrove, da un’altra parte fa piedino;

mostra a questo l’anello, chiama quell’altro sussurrando,

con uno canta, a un altro fa segni con le dita.

L’immagine offerta è quella del personaggio stereotipato della ἑταίρα, che grande fortuna ebbe nella Commedia di Mezzo e nella Nea.

Scena di rapimento erotico. Puteale, marmo pentelico, I-II sec. d.C., dalla Campania.

In un altro frammento (F 62 Traglia), appartenente alla stessa opera, il poeta espone il proprio pensiero sulla libertas attraverso l’intervento iniziale del seruus /prologus, che entra in scena burlandosi del pubblico:

quae ego in theatro hic meis probaui plausibus

ea non audere quemquam regem rumpere:

quanto libertatem hanc hic superat seruitus.

«La legge che io ho fatto valere qui con i miei applausi

nessuno osa infrangere, nemmeno se fosse un re:

quanto qui sulla scena la servitù supera questa vostra libertà!».

Splendidi versi davvero teatrali, tutti giocati sui gesti dell’attore: hic, puntando l’indice verso il palcoscenico; hanc con un grande gesto sfottitore all’indirizzo degli spettatori.

Il poeta e Thalia, la Musa della commedia. Rilievo da un sarcofago a colonna, marmo, II sec. d.C., da Roma, Horti Pompeiani. London, British Museum.

Del resto, il teatro comico di Nevio dovette essere più “impegnato” di quello del secolo successivo. La sua opera, come si è visto, non si risparmiava attacchi personali contro avverse figure politiche, e scandiva a più riprese il suo amore per la libertas (intesa come la greca παρρησία, cioè la libertà di espressione). Questo spirito censorio ben si adatta all’immagine del mordace poeta superbo, esaltatore del proprio ingegno; sarà difficilmente un caso, allora, che molti personaggi delle sue commedie rivendicassero la propria libertà personale, di pensiero e d’azione, come dimostra un allitterante monostico: Libera lingua loquemur ludis Liberalibus («Con libera lingua parleremo ai ludi di Bacco», F 5 Traglia). L’aggressione satirica dell’avversario politico aveva un precedente illustre nella commedia ateniese dei tempi di Aristofane (V sec.), ma non trovava altri continuatori nel teatro comico latino.

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Come alla prassi oratoria, anche a quella politica Cicerone accompagna una riflessione teorica, sviluppando in modo personale spunti offerti dalla filosofia greca (la politica, nel mondo antico, non era distinta dalla filosofia ma ne rappresentava uno dei principali campi d’indagine). Le opere filosofico-politiche di Cicerone, pur diverse nella struttura e negli argomenti, sono simili tra loro nell’impostazione di fondo, orientata non alla riflessione astratta, ma alla soluzione di problemi concreti posti con drammatica urgenza dall’attualità. Esse sono infatti accomunate dall’intento dell’autore di usare gli strumenti concettuali offerti dalla filosofia per sostenere e difendere strenuamente le istituzioni della res publica oligarchica dalle spinte, ormai inarrestabili, di quella “rivoluzione romana” che avrebbe portato, di lì a poco, all’instaurazione del regime imperiale.

Domenico Ghirlandaio, Decio, Scipione e Cicerone. Affresco, 1482-1484. Firenze, Palazzo Vecchio

Nel 54 a.C. Cicerone compose il De re publica, un’opera vasta e ambiziosa di filosofia politica in cui discusse i problemi che più gli stavano a cuore: l’organizzazione della res publica, la migliore forma di governo e le istituzioni politiche romane.

Il dialogo, in sei libri, si presenta ispirato fin dal titolo al precedente di Platone, l’opera in dieci libri chiamata correntemente “La repubblica” (in greco Πολιτεία). Cicerone, tuttavia, con il pragmatismo che lo contraddistingue, non si propone di delineare la forma perfetta di uno Stato ideale, bensì di affrontare i problemi politico-istituzionali concretamente e storicamente, ponendosi da un punto di vista specificamente romano. Il testo si è conservato soltanto in parte: restano i primi due libri, con lacune, e frammenti degli altri tre; è inoltre pervenuta per intero la parte finale del libro VI, ossia la chiusa dell’opera, detta Somnium Scipionis, tramandata separatamente per l’interesse che suscitò nella tarda antichità e nel Medioevo.

Protagonista del dialogo è Publio Cornelio Scipione Emiliano, l’uomo politico più ammirato da Cicerone, che proiettò su di lui, in questa e in altre opere, i propri ideali e le proprie aspirazioni. L’introduzione narrata presenta Scipione impegnato nel 129 a.C. (poco prima della morte) in una conversazione con un gruppo di amici, tra cui l’inseparabile Gaio Lelio. Nel libro I Scipione dà la sua definizione di res publica, cioè «cosa del popolo» (res populi), e il popolo viene definito come «l’aggregazione di un gruppo di persone unite da un accordo sui reciproci diritti (iuris consensus) e da interessi comuni (utilitatis communio)». Presenta poi e discute le tre forme di governo – monarchia, aristocrazia, democrazia – e le loro rispettive degenerazioni – tirannide, oligarchia, demagogia – rifacendosi a Polibio (206-124 a.C.), lo storico greco vissuto a lungo a Roma, che aveva inserito all’interno delle sue Storie un’ampia digressione su questo argomento. Dopo aver affermato il primato della monarchia sulle altre forme costituzionali “semplici”, Scipione sostiene che la costituzione migliore di tutte è quella “mista” (come per Polibio): questa assomma i vantaggi ed evita i difetti delle tre forme semplici, assicurando quel perfetto equilibrio di poteri che garantisce la stabilità dello Stato. Esempio eccellente di tale forma mista è la costituzione romana, in cui il potere monarchico è rappresentato dai consoli, quello aristocratico dal Senato, quello democratico dalle assemblee popolari.

Nel libro II sono delineati l’origine e gli sviluppi di Roma, da Romolo ai tempi recenti, con particolare attenzione alle riforme che ridussero progressivamente il potere del Senato, cioè dell’aristocrazia, a favore del popolo. Il libro III (molto lacunoso) trattava della virtù politica per eccellenza, la iustitia. Venivano riportate le argomentazioni del filosofo Carneade contro l’esistenza di un fondamento naturale di essa: non sulla giustizia, che prescrive di dare a ciascuno il suo, ma sulla sopraffazione dei più deboli, i popoli dominatori, e Roma stessa, fondano i loro imperi. Questo aveva affermato il filosofo greco, aggiungendo provocatoriamente che se i Romani avessero voluto essere giusti, avrebbero dovuto restituire a tutti gli altri popoli ciò di cui li avevano privati con la forza, ritornando alle capanne e alla miseria delle loro origini. Lelio assumeva, invece, la difesa della giustizia naturale, sostenendo la legittimità morale del dominio di Roma, in quanto esercitato a vantaggio dei popoli sottoposti.

Quasi interamente perduti sono il libro IV, dedicato alla formazione del buon cittadino, e il V, in cui era delineata la figura del governante perfetto. Del libro VI si conserva soltanto il finale, ossia il Somnium Scipionis. Scipione Emiliano vi racconta un sogno in cui gli era apparso l’avo adottivo, Scipione Africano; questi, dopo avergli predetto le future imprese gloriose e la morte prematura, gli aveva mostrato lo spettacolo grandioso delle sfere celesti e la dimora celeste che i grandi uomini politici, benefattori della patria, raggiungono subito dopo che l’anima si è liberata dalla prigione del corpo. Il testo, conservato indipendentemente dal resto dell’opera, fu molto apprezzato nel Medioevo per lo spirito religioso che lo pervade; ma il sentimento prevalente che lo anima è quello politico: in esso è celebrato infatti il senso di dedizione allo Stato come valore supremo, che ha comunque una sua ricompensa in cielo, se non in Terra.

Una guerra necessaria per evitare il “crac” economico

di G.B. CONTE – E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 1. L’età arcaica e repubblicana, Milano 2010, pp. 238

 

La Pro lege Manilia, successivamente pubblicata con il titolo De imperio Gnaei Pompei, è un’orazione, pronunciata nel 66 a.C., che ha spesso attirato a Cicerone l’accusa di opportunismo: l’oratore avrebbe mirato soltanto a conciliarsi la benevolenza di Pompeo Magno per ottenere il suo appoggio nella propria candidatura al consolato. In realtà, sostenere la proposta del tribuno Manilio significava soprattutto sostenere la necessità di una guerra da molti ritenuta indispensabile per difendere gli interessi dei ceti finanziari e della classe degli equites, che si vedevano minacciati dalle mire espansionistiche di re Mitridate VI Eupatore del Ponto.

Elencando i motivi per cui fosse giusto combattere una guerra contro Mitridate (parr. 17-19), infatti, Cicerone focalizzava l’attenzione degli uditori sugli interessi economici che i Romani avevano in Asia: il Senato doveva preoccuparsi di tutelare le rendite fiscali, che erano come i nervi della Res publica, e insieme i publicani e gli equites che si occupavano della loro riscossione, in modo da evitare un “crac” finanziario generalizzato. Questa netta presa di posizione a favore del ceto equestre fu, dunque, anche un invito alla collaborazione fra le due classi più alte per la gestione della cosa pubblica: si può qui vedere in nuce il progetto ciceroniano della concordia ordinum.

Banco dell’argentarius. Bassorilievo, I-II sec. d.C.

 

[17] Ac ne illud quidem uobis neglegendum est quod mihi ego extremum proposueram, cum essem de belli genere dicturus, quod ad multorum bona ciuium Romanorum pertinet; quorum uobis pro uestra sapientia, Quirites, habenda est ratio diligenter. Nam et publicani, homines honestissimi atque ornatissimi, suas rationes et copias in illam prouinciam contulerunt, quorum ipsorum per se res et fortunae uobis curae esse debent. Etenim, si uectigalia neruos esse rei publicae semper duximus, eum certe ordinem qui exercet illa firmamentum ceterorum ordinum recte esse dicemus. [18] Deinde ex ceteris ordinibus homines gnaui atque industrii partim ipsi in Asia negotiantur, quibus uos absentibus consulere debetis, partim eorum in ea prouincia pecunias magnas conlocatas habent. Est igitur humanitatis uestrae magnum numerum ciuium calamitate prohibere, sapientiae uidere multorum ciuium calamitatem a re publica seiunctam esse non posse. Etenim illud primum parui refert, uos publicanis amissa uectigalia postea uictoria reciperare; neque enim isdem redimendi facultas erit propter calamitatem neque aliis uoluntas propter timorem. [19] Deinde quod nos eadem Asia atque idem iste Mithridates initio belli Asiatici docuit, id quidem certe calamitate docti memoria retinere debemus. Nam tum, cum in Asia magnas permulti res amiserunt, scimus Romae solutione impedita fidem concidisse. Non enim possunt una in ciuitate multi rem ac fortunas amittere ut non pluris secum in eandem trahant calamitatem: a quo periculo prohibete rem publicam. Etenim – mihi credite id quod ipsi uidetis – haec fides atque haec ratio pecuniarum quae Romae, quae in foro uersatur, implicata est cum illis pecuniis Asiaticis et haeret; ruere illa non possunt ut haec non eodem labefacta motu concidant. Qua re uidete num dubitandum uobis sit omni studio ad id bellum incumbere in quo gloria nominis uestri, salus sociorum, uectigalia maxima, fortunae plurimorum ciuium coniunctae cum re publica defendantur.

[17] E c’è pure un’altra questione che non dovete trascurare, una questione che, accingendomi a parlare della particolare natura di questa guerra, che coinvolge gli averi di molti cittadini romani, mi ero proposto di esaminare per ultima: ebbene, Romani, voi, con quella saggezza che vi distingue, dovete tenerne particolarmente conto. Sono anzitutto i pubblicani – tutte persone assai rispettabili e facoltose – che hanno trasferito in quella provincia i loro interessi e i loro capitali, e proprio ai loro affari e ai loro patrimoni dovreste, anche prescindendo dall’interesse pubblico, rivolgere le vostre cure; se infatti abbiamo sempre considerato le entrate tributarie come il fulcro della Res publica, allora diremo senza timore di essere smentiti che quella classe che ne ha la gestione è il sostegno delle altre. [18] Vi sono poi cittadini appartenenti ad altri ceti che, pieni d’attività e di iniziativa, hanno i loro affari in Asia, parte dedicandosi a essi personalmente – e a voi corre l’obbligo di provvedere alla loro sicurezza, benché lontani –, parte investendo in quella provincia grossi capitali. Come dunque il vostro senso di umanità vi impone di impedire la rovina di un così gran numero di concittadini, così il vostro senno politico di capire che la rovina di molti dei nostri concittadini coinvolge inevitabilmente quella della Res publica. Ha infatti scarsissimo peso la considerazione che a noi, se lasciamo andare in rovina i pubblicani, è sempre possibile recuperare, in seguito a una nuova vittoria, il gettito fiscale; ché da una parte gli attuali appaltatori non avranno più i mezzi, a causa del tracollo subito, per assicurarsi l’appalto delle imposte, dall’altra non ci saranno altri a voler concorrere all’aggiudicazione per timore di fare la stessa fine. [19] Dobbiamo, inoltre, tenere ben fissa nella mente, se non altro perché la sventura ci è stata maestra, la lezione venutaci sempre dall’Asia e sempre da Mitridate all’inizio di questo conflitto: quando in Asia moltissimi uomini d’affari perdettero ingenti capitali, a Roma – lo sappiamo bene – la sospensione dei pagamenti alle relative scadenze determinò il crollo del credito, poiché, quando in una città sono in molti a rimetterci beni e liquidità, è inevitabile che si tirino dietro nella stessa sorte parecchi altri. Ecco il pericolo che dovete allontanare dalla Res publica, e credetemi pure – del resto, è una cosa che vedete con i vostri stessi occhi! –: il credito e il movimento di capitali, il cui centro è costituito dall’Urbe, e propriamente dal Foro, sono strettissimamente connessi con i fondi stanziati in Asia; non ci potrebbe essere un crollo senza il contemporaneo crollo, sotto la spinta di quella rovina, delle nostre finanze. Considerate, dunque, se si debba da parte vostra esitare un attimo a dedicare tutto l’impegno in una guerra che costituisce l’unica difesa della gloria del vostro imperium, della salvezza degli alleati, di un elevatissimo reddito fiscale, nonché del patrimonio di moltissimi concittadini, cui sono strettamente connessi gli interessi della nostra Res publica (trad. it. G. Bellardi).