Pacuvio e la nascita del ‘pathos’ tragico

Marco Pacuvio, di famiglia osca, nacque a Brundisium intorno al 220. Secondo Plinio il Vecchio (Plin. Nat. hist. XXXV 7, 19), era figlio di una sorella di Quinto Ennio (Enni sorore genitus) e probabilmente già in giovane età raggiunse lo zio a Roma, dove condusse un’esistenza agevolata dall’illustre parentela: si occupò della sua formazione Ennio stesso, da cui Pacuvio ereditò gli interessi filosofici e le tendenze razionalistiche; introdotto grazie allo zio negli ambienti ellenizzanti dell’Urbe, in particolare nel «circolo» scipionico, Pacuvio intraprese l’attività di pittore – ancora ai tempi di Plinio il Vecchio si ammirava un suo quadro nel tempio di Ercole, nel Foro Boario (Plin. ibid.) – e quella di poeta. Evidentemente, il rango rispettabile, che, per il mos maiorum, non ammetteva una vita dedicata alle arti, non gli impedì di impegnarsi in vari campi artistici, che anzi contribuì con ogni probabilità a nobilitare agli occhi dell’aristocrazia romana. Stando a Cicerone (Cic. Lael. 24), Pacuvio strinse amicizia con Gaio Lelio, ma è probabile che si tratti di una finzione letteraria dello stesso Arpinate. Rispettato e stimato da molti, negli ultimi anni della sua lunga vita Pacuvio si ritirò a Tarentum, dove morì, quasi novantenne, intorno al 130.

Pacuvio forse, ispirato all’attività letteraria dello zio, scrisse anche delle Saturae, ma è più verosimile che l’ambito nel quale si specializzò fosse quello del teatro tragico. Di lui restano, infatti, dodici titoli e circa quattrocento frammenti di tragedie cothurnatae, ovvero drammi incentrati sulla mitologia greca: Antiopa, Armorum iudicium, Atalanta, Chryses, Dulorestes, Hermion, Iliona, Medus, Niptra, Pentheus, Periboea, Teucer. Si conosce anche il titolo di una praetexta, ovvero una tragedia di argomento romano: il Paulus, che probabilmente narrava le gesta di Lucio Emilio Paolo e della sua vittoria su Perseo di Macedonia a Pidna (168), rappresentata durante il trionfo del condottiero o durante i ludi funebres dello stesso nel 160.

Mentre Ennio si era ispirato soprattutto al tragediografo Euripide come fonte per le proprie cothurnatae, Pacuvio sembra aver attinto ugualmente a tutt’e tre i grandi tragici ateniesi e forse ad altri drammaturghi perduti.

Dai frammenti superstiti e dai titoli delle tragedie emerge comunque una predilezione per vicende e varianti mitiche per molti versi marginali, spesso con personaggi secondari assurti a protagonisti, ma che presentavano ampie potenzialità per costruire intrecci complicati, ricchi di scene strazianti e sorprendenti. L’Antiopa trattava di Antiope, vittima delle angherie degli zii Lico e Dirce e salvata da Anfione e Zeto, i figli che aveva avuto da Zeus, abbandonati in tenera età e creduti morti da tutti; l’Armorum iudicium era incentrato sullo scontro tra Aiace e Odisseo per ottenere, dopo la sua morte, le armi di Achille; il Dulorestes vedeva Oreste vestire i panni di uno schiavo per punire gli uccisori del padre, Clitemnestra ed Egisto; il protagonista del Medus era l’omonimo figlio di Medea, fondatore del regno di Media, mentre nei Niptra («I lavacri») il protagonista era Odisseo tornato a Itaca. In questo dramma lo spunto tratto dall’Odissea (il riconoscimento dell’eroe, durante il bagno che dava il titolo alla tragedia, grazie a una cicatrice sulla gamba) era combinato con un episodio estraneo alla saga omerica, ovvero l’arrivo di Telegono, il figlio che il Laerziade aveva avuto da Circe e dal quale viene ucciso per errore.

Maschera tragica. Mosaico, I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Alcune scene delle tragedie di Pacuvio rimasero famose per la loro carica di altissimo e virtuosistico patetismo. Cicerone (Cic. Tusc. I 106, 1) ricorda in particolare l’incipit dell’Iliona, in cui alla protagonista appariva, per mezzo di una macchina scenica, in sogno il fantasma del figlio Deipilo, ucciso dal padre e rimasto insepolto (vv. 197-201 Ribbeck = vv. 227-231 D’Anna):

Mater, te appello; tu quae curam somno suspensam levas

neque te mei miseret, surge et sepeli natum ‹tuum› prius

quam ferae volucresque…

neu reliquias sic meas sireis denudatis ossibus

per terram sanie delibutas foede divexarier.

Madre, te io chiamo; tu che con il sonno dai requie e sollievo

alla pena e non hai pietà di me; alzati e da’ sepoltura a tuo figlio, prima

che fiere e uccelli…

non lasciare che le mie spoglie semidivorate, con le ossa messe a nudo,

siano sconciamente lacerate e disperse per terra, grondanti putredine.

Allegoria della Fortuna (memento mori). Mosaico, I sec. a.C. ca., da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Nell’Iliade Polidoro, il più giovane dei figli di Priamo, re di Troia, confidando nella propria rapidità nella corsa, partecipa ai combattimenti contro il volere del padre e cade per mano di Achille. Ma fin dalla tragedia attica si diffuse un’altra versione della leggenda: affidato dal padre al re di Tracia Polimestore insieme a molti tesori, garanzia di un futuro degno del suo rango, Polidoro è ucciso a tradimento dal suo ospite, gettato in mare e ritrovato sulla costa della Troade dalla madre Ecuba durante i preparativi per il funerale di Polissena, la figlia sacrificata sulla tomba di Achille. È Ecuba a vendicarsi su Polimestore, attirato al campo acheo con una scusa e accecato in modo orrendo.

Virgilio avrebbe variato la versione euripidea, immaginando che il corpo del principe troiano non fosse stato gettato in mare, ma lasciato sulla spiaggia dov’era caduto, trafitto da un nugolo di dardi, poi trasformati in un boschetto di mirto: approdato in Tracia, Enea scoprì l’orrenda fine di Polidoro, svellendo un arboscello dalla pianta che dal suo corpo traeva la linfa vitale.

In Pacuvio, dunque, la storia conobbe ancora un’altra variante: Polidoro era stato affidato neonato a Iliona, figlia maggiore di Priamo e sposa del crudele e sanguinario re trace; la donna per proteggere il fratellino lo aveva sostituito al figlio appena nato, facendo passare quest’ultimo come il proprio fratello. Dopo la caduta di Troia, d’accordo con gli Achei, Polimestore acconsente a sopprimere l’ultimogenito di Priamo, ma per l’inganno di Iliona uccide suo figlio Deifilo. Quando, consultato l’oracolo di Delfi, Polidoro scopre la verità sulle proprie origini, trama vendetta contro Polimestore, che muore accecato da Iliona.

Cicerone, che conserva il frammento pacuviano, attesta che le parole del piccolo Deifilo, declamate con l’accompagnamento di una musica atta a suscitare il pianto, provocavano nel pubblico forte emozione e commozione. Come in altri testi dello stesso poeta, anche qui si rintracciano caratteristiche simili a quelle del teatro tragico enniano – che si possono considerare tipiche della tragedia romana, fino a Seneca: nell’adattamento dei modelli greci, infatti, si tende ad accrescere e a “caricare” il pathos e la sublimità, in una direzione che certa critica moderna ha definito “espressionistica”. L’apostrofe di Deifilo alla madre esibisce proprio questi tratti, ovvero l’accentuazione patetica e l’espressionismo orrido: la preghiera è enfatizzata dall’anafora (variata dal poliptoto) del pronome di seconda persona te… tu… te, efficacemente accostato al nesso allitterante mei miseret e chiuso dal possessivo tuum…, e dalla studiata allitterazione in sibilante che contrappone somno suspensam (l’oblio della colpa nel sonno) alla coppia paratattica di imperativi surge et sepeli. L’insistenza sui dettagli orridi del corpo in decomposizione è sottolineata ancora dalla catena fonica che lega gli elementi verbali successivi denudatis… delibutas… divexarier.

Il supplizio di Dirce: Anfione e Zeto vendicano la madre Antiope. Affresco pompeiano, ante 79 d.C. dalla Casa dei Vettii. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

È noto che Pacuvio eccelleva, in particolare, nelle scene a effetto, dotate di una forte carica drammatica, come, per esempio, nel Teucer, l’invettiva di Telamone contro il figlio Teucro, maledetto e ripudiato perché era tornato dalla guerra di Troia senza il fratello Aiace e senza averne impedito o vendicato la morte; o come nei Niptra, l’agonia di Ulisse, ferito a morte da Telegono, in mezzo ad atroci sofferenze.

L’accentuazione del pathos e la ricerca del patetismo si manifestava talora con l’insistenza su particolari orridi e raccapriccianti, destinati a commuovere e a impressionare gli spettatori. Per esempio, nell’Antiopa, la protagonista, ridotta in miseria e nello squallore, era descritta con un cumulus di aggettivi (vv. 20-21 Ribbeck = vv. 17-18 D’Anna):

inluvie corporis

et coma prolixa, impexa, conglomerata atque horrida.

Con il corpo sudicio

e i capelli lunghi, scarmigliati, arruffati e irti.

E, ancora, nel Chryses fece sensazione la scena in cui gli inseparabili amici, Oreste e Pilade, fatti prigionieri da re Toante intenzionato a uccidere Oreste, sostenevano entrambi di esserlo, per salvarsi reciprocamente: Ego sum Orestes! – Immo enimvero ego sum, inquam, Orestes! (v. 365 Ribbeck, «Io sono Oreste!» «Niente affatto! Sono io, lo ripeto, Oreste!»).

Pilade, Oreste ed Ifigenia (da sx a dx). Affresco, ante 79 d.C., dal triclinium del procurator, Casa del Centenario (IX 8, 3-6), Pompei.

Anche l’alta frequenza di protagoniste femminili, che sembra emergere dai titoli delle tragedie, appare collegata a questa ricerca del patetismo, all’esasperazione dell’emotività, alla carica espressionistica.

Il teatro di Pacuvio, comunque, non si esauriva soltanto nella ricerca di trame a effetto, nelle atmosfere tragicamente cupe (simili, per certi versi, a quelle del moderno horror), nei soggetti angosciosi e nelle visioni orripilanti (apparizioni spettrali, cadaveri insepolti, tempeste sconvolgenti, ecc.), negli «effetti speciali»; il poeta sapeva anche ricorrere alla suspence ottenuta attraverso la dilazione dello scioglimento finale, l’inserzione di elementi a sorpresa, le scene di agnizione. Talvolta le rheseis («discorsi») dei personaggi contenevano dei brillanti excursus narrativi, come la celebre descrizione della tempesta del Teucer, conservata da Cicerone (Cic. Div. 1, 24 = vv. 409-416 Ribbeck):

profectione laeti piscium lasciviam          

intuentur, nec tuendi satietas capier potest.

interea prope iam occidente sole inhorrescit mare,               

tenebrae conduplicantur, noctisque et nimbum obcaecat nigror,   

flamma inter nubes coruscat, caelum tonitru contremit,   

grando mixta imbri largifico subita praecipitans cadit,    

undique omnes venti erumpunt, saevi existunt turbines,

fervit aestu pelagus.

Lieti per la partenza, osserviamo i giochi dei delfini

e non possiamo saziarci di guardarli.

Ma ecco che, verso il tramonto del Sole, il mare s’increspa,

le tenebre si fanno più fitte e il nero della notte e dei nembi ci acceca,

i fulmini balenano fra le nubi, il cielo trema per i tuoni,

grandine mista a pioggia dirotta si rovescia d’improvviso,

da ogni lato i venti irrompono, s’abbattono raffiche crudeli,

il mare ribolle di flutti.

Nave. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Boscoreale, Antiquarium.

Il poeta mostra di conoscere già tutti gli ingredienti topici della tempesta letteraria: la natura improvvisa, imprevedibile del fenomeno, annunciato dall’incresparsi del mare, il raddoppiarsi dell’oscurità che cancella la distinzione tra cielo e mare, il balenare dei lampi seguito dal fragore dei tuoni, la grandine che scroscia a dirotto, la violenza dei venti in lotta, che soffiano in tutte le direzioni, il ribollire del mare. Ogni tratto descrittivo sembra sviluppato da Pacuvio attingendo da tutte le risorse dell’espressionismo: ne risulta uno stile ridondante, ripetitivo ed enfatico. Enfatici sono appunto verbi come conduplicantur e contremit, mentre la ricerca di suoni duri (t, c, r, s) e nasali (n, m) intende evocare le sonorità orride del mare in burrasca.

La ricercatezza di Pacuvio, evidente nella scelta degli argomenti e nell’attenzione alle problematiche etiche, emergeva anche nella sua cura attentissima per la forma. Gli antichi parlavano della sua ubertas («magniloquenza») e, come si vede, i suoi frammenti sono appunto contraddistinti dalla fitta presenza di coppie sinonimiche e dall’insistenza delle figure di suono – tutti tratti che fecero dire a Cicerone summum… Pacuvium tragicum (Cic. Opt. gen. 2). Emblematico, a tal riguardo, risulta un altro verso dal Teucer: periere Danai, plera pars pessum datast (v. 320 Ribbeck, «Sono periti i Danai, e per la massima parte sono andati in rovina»), passo nel quale tutte le parole sono legate da allitterazione e omeoarco (accostamento di parole di significato diverso che iniziano con la stessa sillaba).

Certi frammenti costituiscono, per esempio, vere e proprie massime morali, che rispecchiano gli ideali romani dell’autocontrollo e della gravitas, ovvero compostezza e dignità, come, per esempio, la seguente, tratta dai Niptra (vv. 268-269 Ribbeck = vv. 317-318 D’Anna, apud Gell. N.A. II 26, 13):

conqueri fortunam advorsam, non lamentari decet;

id viri est officium, fletus muliebri ingenio additust.

È ammissibile lamentarsi della sorte avversa, non piangere;

questo è il comportamento di un uomo, mentre le lacrime sono proprie dell’indole femminile.

In altre tragedie comparivano dibattiti etici, in cui si discuteva se la virtus fosse da intendere come valore militare o come superiorità intellettuale e spirituale (qualità incarnate rispettivamente da Aiace e da Ulisse nell’Armorum iudicium); in altri casi al centro del dibattito compariva il confronto tra vita attiva e vita contemplativa (rappresentate da Zeto e Anfione nell’Antiopa). A questo si aggiungeva l’interesse dell’autore per la scienza e la filosofia naturale, che contribuì a circondarlo della fama di poeta doctus. Come tale, oltre ad applicare per primo la tecnica della contaminatio alla tragedia (per esempio, fondendo nel Chryses elementi dell’omonimo dramma di Sofocle con dettagli dell’Ifigenia in Tauride di Euripide), la cothurnata di Pacuvio riecheggia i temi del razionalismo greco di stampo euripideo. Sempre nel Chryses, infatti, ora presenta il cielo come il principio spirituale che anima l’universo, ora disquisisce sul concetto di fortuna, ora polemizza contro gli indovini, gente che merita soltanto di essere udita, non ascoltata (magis audiendum quam auscultandum censeo).

Cupido che cavalca una coppia di delfini. Mosaico, c. 120-80 a.C. Delos, Casa dei Delfini.

Oltre a considerarlo il massimo autore scenico romano, Cicerone lodava lo stile accurato di Pacuvio (Cic. de orat. 36), giudicandolo più elegante di quello di Ennio: la ricerca della sublimità si spingeva sino ad ardite sperimentazioni. Famoso, anzi famigerato, perché deriso già dal poeta satirico Lucilio (v. 212 Marx, apud Gell. N.A. XVIII 8, 2) e poi criticato da Quintiliano (Quint. Inst. I 5, 67), fu il tentativo di Pacuvio di coniare composti ricalcati sull’uso epico-tragico greco. È il caso dei delfini, che Livio Andronico nell’Aegisthus aveva definito Nerei simum pecus («il camuso gregge di Nereo», F 2, 1 Ribbeck) e che Pacuvio con un’iperbolica perifrasi chiamò Nerei repandirostrum incurvicervicum pecus («il gregge di Nereo dal muso rivolto in alto e dal collo incurvato», v. 408 Ribbeck = v. 366 D’Anna). I neologismi dalla struttura linguistica troppo audace sia per l’eccessiva lunghezza, sia per il tipo di composizione (aggettivo più sostantivo) assai più congeniale alla lingua greca che a quella latina, non ebbero alcun seguito nella tradizione romana e simili forzate innovazioni sarebbero state criticate anche da grammatici e da puristi.

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Nella memoria dei Romani Quinto Ennio rimase impresso come uno dei poeti arcaici più degni di venerazione. La sua opera restò infatti nei secoli successivi il simbolo di un’epoca – quella dello scontro politico e militare tra Roma e il mondo ellenico – e l’emblema di un approccio orgogliosamente romano, di confronto ma non di subalternità nei riguardi della cultura greca. Ennio fu un poeta estremamente influente, dunque: molte sue innovazioni marcarono la storia successiva di alcuni tra i più importanti generi letterari coltivati a Roma; senza di lui e senza l’opera riconosciuta come il suo capolavoro poetico, gli Annales, non si potrebbe più capire la storia dell’epica celebrativa romana, che sarebbe culminata con Virgilio; e se non si avesse conoscenza delle tragedie di Ennio, mancherebbe un tassello importante per comprendere alcuni sviluppi tipicamente romani del genere teatrale.

Ennio. Testa, tufo dell’Aniene, metà del II secolo a.C. ca. dal Mausoleo dei Cornelii Scipiones. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Una vita per la poesia

Ennio nacque nel 239 a.C. a Rudiae, una cittadina della regione chiamata dai Romani Calabria (cioè l’area più meridionale dell’odierna Puglia). Dunque, come molti altri poeti e letterati dell’età arcaica, anche Ennio non era latino ma proveniva da una zona di cultura italica fortemente grecizzata. Sembra inoltre molto probabile che egli abbia trascorso gli anni fondamentali della sua formazione nella città italiota di Taranto. Ennio giunse a Roma in età già matura, nel 204, quasi settant’anni dopo la venuta di Livio Andronico. A portarcelo sarebbe stato, secondo la tradizione, Catone, all’epoca quaestor in Sicilia e in Africa, che lo avrebbe incontrato in Sardinia, dove il futuro poeta militava come soldato di guarnigione. A Roma Ennio svolse l’attività di insegnante, ma presto (entro il 190) si affermò come autore di opere teatrali, in particolare di tragedie.

Nel 189-187 egli accompagnò il generale romano Marco Fulvio Nobiliore in Grecia, con l’incarico di celebrarne nei suoi versi la campagna militare contro la coalizione dei popoli e delle città raccolti nella Lega Etolica, che culminò nella battaglia di Ambracia. A questa vittoria romana il poeta dedicò, infatti, un’opera intitolata Ambracia, molto probabilmente una tragedia praetexta. Nel seguito della sua vita Ennio fu protetto e favorito dalla nobile famiglia di Nobiliore nonché dalla casata degli Scipiones, entrando a far parte del loro “circolo”. Risale all’ultima fase della sua vita la fatica, senz’altro vastissima, degli Annales, il poema epico che gli avrebbe dato fama perpetua. Ennio morì a Roma nel 169. Già in vita gli furono tributati grandi onori e, per questo, l’orgoglio per la propria fama e il presentimento dell’immortalità si incontrano spesso nella sua opera.

Q. Pomponio Musa. Denarius, Roma 56 a.C. Ar. Dritto: Hercules | Musarum. Ercole Musagetes (‘conduttore delle Muse’), stante verso destra, vestito di leontea e suonante la lyra.

La produzione letteraria

Gli inizi poetici di Ennio, come si è visto, si posero nel segno del teatro. In questo campo egli fu poeta fecondo, con una produzione che non rimase confinata agli anni giovanili, ma si estese lungo l’arco di tutta la sua vita (la tragedia Thyestes, infatti, è databile al 169, l’anno della sua scomparsa). Restano, tuttavia, i titoli di circa venti tragedie coturnatae e un numero insolitamente ricco di brevi citazioni tratte dai drammi, per un totale di circa quattrocento versi. I temi delle tragedie enniane sono soprattutto quelli del ciclo troiano: Alexander, Andromacha aechmalotis, Hecuba, Iphigenia, Medea exul, ecc. Gli studiosi antichi conoscevano, di Ennio, anche due commedie, la Caupuncula [L’ostessa] e il Pancratiastes [Il lottatore], ma per questa parte della sua produzione il poeta era ritenuto un minore; in effetti, fu l’ultimo autore latino a praticare insieme tragedia e commedia.

L’opera che gli diede immensa celebrità nel mondo romano, e grazie alla quale ancora oggi egli resta un autore molto importante, furono gli Annales, il primo poema latino in esametri. In essi Ennio narrava la storia di Roma dalle origini fino ai suoi tempi. Dei diciotto libri originari restano attualmente quattrocento trentasette frammenti, per un totale di circa seicento versi. Se si escludono i testi comici, il poema enniano è dunque l’unica opera latina di età medio-repubblicana della quale è possibile farsi un’idea di una qualche ampiezza.

Di Ennio sono attestate anche alcune opere minori, delle quali si può leggere poco, ma che meritano comunque menzione perché molte di esse hanno avuto un seguito nella letteratura latina. Gli Hedyphagètica [Il mangiar bene] erano un’opera didascalica sulla gastronomia, ispirata a un poemetto del greco Archestrato di Gela, vissuto nel IV secolo a.C. Se essi, come tutto fa pensare, furono composti prima degli Annales, si tratterebbe della prima opera latina in esametri attestata. Era probabilmente un testo di carattere sperimentale e parodico: lo dimostra già il verso scelto, che era quello di Omero e, in generale, della poesia narrativa in stile elevato. Se è così, gli Hedyphagètica avevano probabilmente affinità con un’altra opera di Ennio, le Saturae, primo esempio di un genere che avrebbe avuto larga fortuna nella poesia latina, fino a Orazio e oltre. Ennio probabilmente raccontava episodi autobiografici, ma il contenuto di questa raccolta, in vari libri e in metri diversi, è largamente congetturale.

Altri testi di minore rilevanza si possono raggruppare per il loro sfondo filosofeggiante: l’Euhèmerus, scritto forse in prosa, era una narrazione che divulgava il pensiero di Evemero da Messina; l’Epicharmus, in settenari trocaici, si richiamava alle riflessioni del grande poeta comico greco Epicarmo, vissuto nel V secolo.

Talia, musa del teatro (dettaglio). Rilievo, marmo, II sec. d.C. ca. da un sarcofago romano con le Muse. Paris, Musée du Louvre.

Le tragedie: il gusto per il patetico e il grandioso

Benché Ennio abbia acquistato l’immortalità poetica attraverso gli Annales, che sono la sua opera fondamentale, furono le tragedie a garantirgli nell’immediato la maggiore affermazione letteraria. Il motivo di questo successo va senza dubbio ricercato nella capacità del poeta di sviluppare una forma tragica sempre più in grado di collocarsi con dignità a fianco dei classici greci. Per quanto è possibile osservare dai frammenti superstiti, il carattere innovativo delle tragedie di Ennio rispetto alla tragedia greca va individuato nella netta accentuazione dell’elemento patetico e spettacolare: si tratta di visioni, apparizioni, orride descrizioni, in cui il poeta dà prova di una fantasia visionaria che sembra anticipare certi esiti del teatro moderno. Questa predilezione per le rappresentazioni a effetto sembra essere stata una cifra stilistica comune della tragedia latina arcaica: a differenza di quanto sarebbe accaduto in età imperiale, quando i drammi sarebbero stati concepiti espressamente per la recitazione nelle sale da lettura, le tragedie di Ennio (come pure quelle di Accio e Pacuvio) erano scritte per essere rappresentate sulla scena, ed è certo che la spettacolarità dell’allestimento doveva essere una sicura garanzia di successo e popolarità. Un frammento, tratto dall’Alcmeo (Scaenica, vv. 27-30 Vahlen, apud Cɪᴄ. de orat. III 217), porta in scena l’incubo del matricida Alcmeone, da cui l’opera trae il titolo, tormentato dalle Furie materne. Si tratta di un bell’esempio della predilezione di Ennio per i momenti di maggiore pathos e per la rappresentazione degli sconvolgimenti dell’animo e della mente.

unde haec flamma oritur?        

†incede incede† adsunt; me expetunt.

fer mi auxilium, pestem abige a me, flammiferam hanc uim quae me excruciat.

caeruleae incinctae igni incedunt, circumstant cum ardentibus taedis.

Donde si leva questa fiamma?

Corri, corri! Avanzano, s’avventano.

Aiuto! Scaccia da me questo malanno, quest’assalto avvampante che mi strazia!

Cinte di cerulee serpi irrompono, mi serrano con faci ardenti!

(trad. di C. Marchesi – G. Campagna)

Alcmeone uccide la madre Erifile. Affresco, ante 79 d.C. dalla casa di Sirico, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Secondo il mito greco, Alcmeone era figlio di Anfiarao, re di Argo, e di Erifile. Quando la donna costrinse lo sposo a partecipare alla guerra contro la città di Tebe (un riflesso della quale si ha nella tragedia eschilea I sette contro Tebe), Anfiarao, sapendo che vi avrebbe trovato la morte, comandò al figlio Alcmeone di vendicarlo: egli avrebbe dunque dovuto uccidere la madre e compiere una seconda spedizione contro Tebe. Il che, puntualmente, accadde. Tuttavia – come emerge anche da questo frammento enniano – Alcmeone dovette subire la persecuzione delle Furie (divinità vendicatrici dei delitti di sangue, corrispondenti alle greche Erinni, che si ritrovano nella saga dell’Orestea di Eschilo) e si recò esule in vari luoghi della Grecia per purificarsi del matricidio. Ma, nonostante i ripetuti tentativi in tal senso, venne infine ucciso dai figli di Fegeo, re di Psofi.

Un altro frammento enniano, tratto dall’Alexander (Scaenica, vv. 63-71 Vahlen, apud Cɪᴄ. Div. 1, 66), si sofferma sulla profezia di Cassandra, l’inascoltata profetessa, figlia di Priamo. La visione profetica, relativa alla caduta di Troia, è di raffinata struttura e di vivo effetto, stravolta com’è nel suo ordine logico e cronologico: prima l’immagine dell’incendio e del sangue simboleggiata e suscitata dalla fiaccola, poi l’invasione dell’armata nemica e, infine, la causa prima della rovina, il giudizio di Paride e la conseguente venuta a Troia di Elena (Lacedaemonia mulier), premio offerto da Venere al giudice che le aveva dato vittoria sulle dee rivali.

adest, adest fax obuoluta sanguine atque incendio,     

multos annos latuit, ciues, ferte opem et restinguite.  

iamque mari magno classis cita            

texitur, exitium examen rapit:

adueniet, fera ueliuolantibus

nauibus complebit manus litora.          

eheu uidete:     

iudicauit inclitum iudicium inter deas tris aliquis:      

quo iudicio Lacedaemonia mulier, Furiarum una adueniet.

Ecco, ecco la fiaccola avvolta di sangue e di fuoco!

Per molti anni rimase nascosta: portate aiuto, cittadini, spegnetela!

E già sul mare una veloce flotta

si allestisce e con sé porta uno sciame di sventure.

Giungerà qui un’armata di guerra

e navi con le vele al vento riempiranno i lidi!

Ahimè, guardate:

un uomo ha giudicato le tre dee col celebre giudizio:

per quel giudizio giungerà qui una donna spartana, una delle Furie!

Cassandra (al centro) predice la caduta di Troia. Priamo stringe tra le braccia Paride (sinistra). Ettore assiste alla scena (destra). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La profezia di Cassandra inverte completamente la consueta successione degli eventi che portano alla guerra e alla caduta della città. All’inizio del frammento (vv. 63-64) l’abitato è già presentato come dato alle fiamme per mano dei Greci. Quindi, secondo un cammino a ritroso, vengono richiamati i momenti dell’allestimento della flotta greca e, implicitamente, dell’approdo sui lidi della Troade (vv. 65-68). Solo alla fine (vv. 69-71) la profetessa evoca gli antefatti della guerra, connessi con il giudizio di Paride, che tra Giunone, Minerva e Venere scelse di attribuire la palma della bellezza a quest’ultima, in cambio dell’amore di Elena.

Ora, questo frammento e quello precedente costituiscono un bell’esempio delle rappresentazioni a tinte forti tipiche della tragedia latina arcaica. Al tono profetico si mescolano infatti parole dense di significato, che orientano nettamente la descrizione in senso macabro. Soprattutto in questo, al v. 63 la fiaccola che prefigura la fine di Troia è descritta come avvolta da sangue e fuoco (fax obuoluta sanguine atque incendio). Ai vv. 67-68 l’armata achea è definita fera… manus, che letteralmente vale «feroce manipolo (di uomini)». Al v. 71 Elena, causa della guerra, è equiparata a una delle Furie, terribili e vendicative entità rappresentate come donne alate dai capelli intrecciati di serpi e con in mano una torcia o una frusta. Al v. 67 Ennio definisce le navi ueliuolantes. Si tratta dell’unico esempio, in tutta la letteratura latina, dell’aggettivo composto ueliuolans, letteralmente «che vola con le vele», che è dunque, per usare una locuzione tecnico-retorica, un hàpax legòmenon. A quanto si sa, Ennio, che prediligeva la coniazione di aggettivi composti, sentiti come caratteristici dello stile poetico elevato, introdusse nella poesia latina anche ueliuolus (due esempi, sempre in riferimento alle navi), poi ripreso da Lucrezio, Virgilio e Ovidio.

Il gusto di Ennio per la sperimentazione linguistica, che caratterizza il suo stile, è riconoscibile, tra l’altro, nell’invenzione di aggettivi composti (quelli che diventeranno un marchio stilistico della lingua poetica latina). Ennio li modellò sugli “aggettivi doppi”, cari alla lingua elevata della poesia greca. Già Aristotele, infatti, aveva fatto notare che una delle caratteristiche principali della lingua della poesia greca solenne era l’uso di composti; intendeva riferirsi a quelle formazioni linguistiche prodotte dall’unione di due parole che prese di per sé hanno ciascuna un significato autonomo, quasi centauri formati da due corpi diversi. È appunto questa immagine con cui li definisce Quintiliano (Inst. I 5, 65), e duobos quasi corporibus coalescunt («risultano formati come se consistessero di due corpi insieme»).

In quanto espressioni in cui due concetti sono riuniti in una sola parola, i composti risultano particolarmente appropriati nei linguaggi che hanno bisogno di mezzi fortemente espressivi, vale a dire soprattutto nella lingua viva del popolo e nella lingua intensa dei poeti, due forme di linguaggio che spesso paradossalmente si incontrano. Per quanto riguarda il parlato, si possono citare molte forme popolari frequenti nelle commedie arcaiche, soprattutto quelle di Plauto, che ama inventare espressioni ingiuriose vivaci: per esempio, multiloqua et multibiba… anus (Cist. v. 149: «una vecchia chiacchierona e ubriacona»). Quanto al linguaggio della poesia elevata, i composti più conformi allo spirito della lingua latina sembrano essere stati quelli che hanno un elemento verbale nel secondo membro (del tipo omnipotens, horrisonus), e soprattutto quelli in -fer-, -ger- e -cola, antichi temi verbali (fero, gero, colo), che per il loro uso frequente erano di fatto ridotti quasi a suffissi (come frugifer, «fruttifero, ferace, fertile»; armiger, «armato»; coelicola, «abitatore del cielo, divinità»). Di Ennio si può citare come buon esempio un verso degli Annales (v. 198 Skutsch = 181 Vahlen): bellipotentes sunt magis quam sapientipotentes («forti-in-guerra sono più che forti-in-senno»), dove di grande efficacia espressiva è anche la “rima” (o meglio l’omeoteleuto, cioè una uguale fine di parola). In Annales, v. 593 Skutsch oratores doctiloqui («gli ambasciatori abili a parlare»), il composto doctiloquus è invenzione enniana, anche se già Plauto aveva prodotto forme analoghe, come blandiloquus, «che parla in modo carezzevole», falsiloquus, stultiloquus. Molti sono i composti che appaiono come calchi di aggettivi doppi greci consacrati dalla grande poesia: così Annales, v. 554 Skutsch contremuit templum magnum Iouis altitonantis, «tremò il grande recinto (= il cielo) di Giove che tuona dall’alto», dove l’aggettivo altitonans riproduce il corrispondente greco βαρυβρεμέτης; così ancora Annales, v. 76 Skutsch genus altiuolantum, «la stirpe degli uccelli», dove altiuolans ricalca il greco ὑψιπετήεις. Questa innovazione introdotta da Ennio fu assai rilevante per la lingua poetica romana: l’uso dei composti diventò uno dei principali elementi capaci di differenziare la lingua poetica da quella della prosa letteraria. I composti, infatti, adatti per la loro forma a riempire lunghi versi e a offrire ampie possibilità di effetti fonici, furono un importante mezzo di espressività e insieme un vero e proprio marchio dello stile elevato.

Dunque, il gusto per l’effetto grandioso, l’insistenza sui sentimenti più oscuri dell’animo umano, quali il terrore e la paura, la grande commozione, sono tutti elementi tipici di questo linguaggio teatrale che si avviò, sul modello tracciato da Ennio, a diventare tipico della poesia tragica latina. Su questa scia, infatti, si sarebbero posti in seguito i più importanti tragediografi: Pacuvio e Accio prima, e poi Seneca.

A questo proposito, vale la pena di citare un brano come il “cantico di Andromaca”, tratto dall’omonima Andromacha aechmalotis, che rappresenta un caso esemplare degli effetti di commozione propri della tragedia arcaica; ancora ai tempi di Cicerone, esso costituiva un pezzo di bravura per i più celebri attori, che sapevano sfruttare i toni altamente patetici caratteristici della situazione tragica del monologo, quali il disperato ricordo della patria lontana e distrutta e il dolore per la nuova condizione di servitù (Scaenica vv. 86-99):

quid petam praesidi aut exequar? quoue nunc             

auxilio exili aut fugae freta sim?           

arce et urbe orba sum: quo accedam? quo applicem? 

cui nec arae patriae domi stant, fractae et disiectae iacent,     

fana flamma deflagrata, tosti †alii† stant parietes,      

deformati atque abiete crispa.

o pater, o patria, o Priami domus,        

saeptum altisono cardine templum.    

uidi ego te adstante ope barbarica,      

tectis caelatis laqueatis,            

auro ebore instructam regifice.             

haec omnia uidi inflammari,    

Priamo ui uitam euitari,            

Iouis aram sanguine turpari.

Dove chiedere protezione o dove cercarla? Adesso, in quale

esilio trovare aiuto, in quale la fuga?

Sono stata privata della città e della rocca: dove mi aggrapperò? Dove piegherò le ginocchia? Per me non ci sono più altari dei padri in patria, esse giacciono infrante e disperse,

i templi incendiati dalle fiamme, bruciacchiate si levano alte le pareti

deformate e con le travi contorte.

O padre, o patria, o casa di Priamo,

sacra dimora chiusa da altisonanti cardini!

Io ti vidi ergerti nello sfarzo orientale,

coi soffitti a cassettoni tutti intarsiati,

regalmente adorna d’oro e d’avorio.

Tutto questo io vidi preda delle fiamme,

e la vita violentemente tolta a Priamo,

e l’altare di Giove insozzato di sangue!

Georges-Antoine Rochegrosse, Andromaca. Olio su tela, 1883.

Gli Annales: finalità e composizione dell’opera

Gli Annales garantirono al poeta grande fama in virtù dell’argomento affrontato: la celebrazione della storia di Roma. Gli intenti laudativi dovevano, del resto, essere fondamentali in tutta la sua produzione: il poeta in precedenza aveva composto un poema dal titolo Scipio in lode di Scipione Africano e la tragedia Ambracia per ricordare la vittoria di Nobiliore. In particolare, il caso dell’Ambracia è sintomatico e, in qualche modo, fece epoca. L’età ellenistica aveva visto un formidabile sviluppo della poesia “di corte”: presso le regge dei dinasti greci orientali (ad Alessandria, Pella, Antiochia, Pergamo, ecc.) risiedevano artisti che celebravano – spesso in narrazioni epiche – le gesta dei loro sovrani. Poesia ed encomio erano strettamente saldati. Così, Ennio, partecipando alla campagna di Nobiliore come poeta “al seguito” e poi componendo una tragedia per celebrarne l’impresa, non fece che ripetere quel modello. Difatti, Catone protestò vivacemente contro quell’iniziativa, che ai suoi occhi costituiva un atto di propaganda personale. Ennio, invece, doveva vedere la propria poesia come celebrazione di gesta eroiche: si rifaceva così da un lato a Omero, dall’altro alla recente tradizione epica ellenistica, di argomento storico e contenuto celebrativo. Nella parte più tarda della sua carriera Ennio dovette concepire il grandioso progetto di una laudatio che si allargasse a tutta la storia di Roma, raccontata in un unico poema epico: gli Annales, appunto. L’opera risultò, per ampiezza e concezione, assai più vasta di quei poemi ellenistici scritti in lode dei sovrani. Per ricchezza di struttura, il precedente più prossimo era certamente il Bellum Poenicum di Nevio, che però non disponeva gli avvenimenti in una sequenza continuativa dalla caduta di Troia ai suoi giorni. Ennio, invece, decise di narrare la sua materia senza stacchi e in ordine cronologico. Rispetto a Nevio, un’importante novità fu la divisione in libri del poema, sulla scorta di quello che i dotti alessandrini avevano fatto per i poemi omerici, originariamente un continuum indiviso di versi.

Il titolo Annales voleva richiamarsi alle raccolte degli annales maximi, le pubbliche registrazioni di eventi che i pontifices maximi, membri del più autorevole collegio sacerdotale dell’Urbe, erano soliti redigere anno per anno. Anche l’opera enniana era condotta secondo una scansione cronologica progressiva, “dalle origini ai giorni nostri”; ma non bisogna pensare che il poeta trattasse tutti i periodi con lo stesso ritmo e la stessa concentrazione. Se, da un lato, lasciava un certo spazio alle antiche leggende sulle origini di Roma, dall’altro, mostrandosi assai più selettivo di uno storico, Ennio prediligeva quasi esclusivamente gli eventi bellici, mentre si occupava pochissimo di politica interna: per lui era ovviamente la guerra l’interesse di un poeta epico ed era la guerra l’attività in cui si mostrava la virtus romana.

Secondo le ricostruzioni degli studiosi, alle origini leggendarie della città erano dedicati i primi libri dell’opera. Al contrario di Nevio, che aveva narrato probabilmente in un excursus il solo viaggio di Enea da Troia all’Italia, come una sorta di “premessa” al racconto della guerra punica, in Ennio le leggende sulla fondazione dovevano essere esposte in una forma narrativa continua e più sistematica. Nel poema enniano trovava così per la prima volta una sistemazione coerente tutto quel patrimonio mitico propriamente quiritario, che voleva dare lustro e dignità anche alle origini storiche dell’Urbe, ammantandole di un velo leggendario e riconducendole all’opera degli dèi e degli eroi del mito. Questa rivendicazione della nobiltà del passato della città era ideologicamente molto importante, nel momento in cui la potenza di Roma si avviava a dominare su tutto il Mediterraneo e la cultura romana tentava di affiancarsi a quella greco-ellenistica, con il suo vastissimo patrimonio mitologico.

Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).

L’investitura poetica

Riguardo agli Annales sembra che Ennio avesse progettato inizialmente un poema in quindici libri, che si sarebbe concluso con il trionfo di Fulvio Nobiliore, il suo protettore, e forse con la consacrazione da parte di Nobiliore stesso di un tempio alle Muse. Per motivi non del tutto chiari, però, Ennio aggiunse poi tre libri al piano originario, probabilmente per aggiornare l’opera con la celebrazione di altre, più recenti, imprese romane. Il suo poema rimase comunque contrassegnato da due grandi proemi, al libro I e al libro VII, punti in cui il poeta prendeva direttamente la parola per rivelare le ragioni del suo far poesia. Il primo proemio era probabilmente aperto dalla tradizionale invocazione alle Muse (v. 1 Skutsch = Vahlen): Musae quae pedibus magnum pulsatis Olympum («O Muse, che col vostro passo l’alto Olimpo calcate»). Dopodiché, con un’invenzione molto più audace, Ennio raccontava di un sogno, in cui gli era apparsa l’ombra di nientemeno che Omero, il capofila di tutti i poeti epici, il quale gli rivelava di essersi reincarnato proprio in lui, nel poeta romano Quinto Ennio (vv. 2-3 Skutsch = 5-6 Vahlen): … somno leni placidoque reuinctus / … uisus Homerus adesse poeta («… preso da un dolce e calmo sonno /… apparve di fronte a me Omero, il poeta»). In questo modo, Ennio si presentava come il “sostituto” vivente di colui che, a giudizio degli antichi, era stato il più grande poeta di tutti i tempi.

Nel proemio al VII libro l’autore dava più spazio alle divinità della poesia (vv. 206-210 Skutsch = 213-217 Vahlen): … scripsere alii rem / uersibus quos olim Fauni uatesque canebant, / cum neque Musarum scopulos… / … nec dicti studiosus quisquam erat ante hunc. nos ausi reserare… («… altri scrissero di storia / con i versi che un tempo cantavano i Fauni e i vati, / quando né le rocce delle Muse… / e quando, prima di me, non c’era neppure qualcuno che professasse il culto della parola. / Noi osammo aprire…»).

Ora, il poeta sottolineava che queste erano proprio le Muse dei grandi poeti greci, non più le Camenae dell’arcaico e ormai superato Livio Andronico; e certamente polemizzava anche con Nevio, che aveva poetato in saturni, il verso – così lo definisce Ennio – cantato da «Fauni e vati», il verso dal passato, adatto alle divinità campestri e agli ancestrali profeti. Lui, Ennio, era il primo poeta dicti studiosus, cioè “filologo”, “cultore della parola”. In altri termini, il primo che poteva pretendere di stare alla pari con i contemporanei poeti greci, gli alessandrini, che praticavano un’arte per pochi, raffinata ed erudita, curatissima nella forma. Sicuramente Ennio, nell’affermare orgogliosamente la propria priorità tra i Romani, poteva riferirsi all’importanza di essere stato il primo ad adottare l’esametro dattilico, il verso della grande poesia epica.

Un generale tiene una contio davanti alle sue truppe. Illustrazione di Seán Ó’Brógáin.

Uno stile all’insegna della sperimentazione

Dato il carattere di estrema frammentarietà in cui è giunta l’opera di Ennio, del suo stile si rischia di farsi un’idea distorta. Ciò dipende in gran parte – come avviene regolarmente per i poeti romani arcaici – dalla tipologia delle fonti che lo riportano. A citare Ennio, infatti, sono per lo più grammatici e filologi tardo-antichi, studiosi spesso – anche se non sempre – più interessati a raccogliere dalla letteratura dei secoli passati esempi di stranezze e particolarità linguistiche che non casi di normalità. Così, l’immagine che si ha di Ennio epico è quella di un autore che adotta uno stile quasi sperimentale, arditamente innovatore. Egli accolse nel testo epico parole greche traslitterate e adottò persino, della lingua ellenica, caratteristiche forme sintattiche estranee all’uso latino-italico, addirittura alcune desinenze. Scrisse sovente esametri tutti in dattili e tutti in spondei (per esempio, Āfrĭcă tērrĭbĭlī trĕmĭt hōrrĭdă tērră tŭmūltu e ōllī rēspōndīt rēx Ālbāī Lōngāī; in entrambi i casi appare evidente una motivazione stilistica per la scelta del ritmo); e insieme, il suo stile è ricco di figure di suono (com’era tipico della tradizione indigena dei carmina), che a volte sottolineano il pathos della situazione con esiti veramente felici.

In alcuni casi, il procedimento raggiunge l’esasperazione, come nel famigerato verso (104 Skutsch = 109 Vahlen) o Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti («o Tito Tazio, tiranno, tu ti attirasti disgrazie tanto grandi!»), dalla fortissima insistenza onomatopeica, sottolineata dall’ininterrotta serie dattilica; o ancora in quest’altro verso, in cui Ennio escogita una parola come taratantara per riprodurre il suono di una tromba militare (v. 451 Skutsch = 140 Vahlen): at tuba terribili sonitu taratantara dixit («con terribile suono la tromba fece udire il suo taratatà»).

Molte innovazioni introdotte da Ennio ebbero un grande futuro nella letteratura latina successiva: la ripresa dell’esametro dattilico greco fece storia, ma non fu l’unica conquista. Egli lavorò per adattare la lingua latina all’esametro e l’esametro alla lingua latina. Sicuramente elaborò regole precise per la collocazione delle parole nel verso e per l’uso delle cesure. Se i suoi esametri possono comunicare una certa impressione di durezza per il lettore moderno, è perché è possibile confrontarli con quelli, più fluidi, di Virgilio o Ovidio. Ma non bisogna dimenticare che Ennio è stato il primo ad adattare la lingua latina a questa forma metrica, senza avere alcun modello davanti a sé: è lui il creatore di una tradizione letteraria.

T. Vettio Sabino. Denario, Roma 70 a.C. Ar. 4,05 gr. Dritto: Sabinus, testa nuda barbata di Tito Tazio verso destra con di fronte l’espressione S(enatus) C(onsulto).

I destini dell’epica a Roma: Ennio e i suoi successori

Ennio restò per molti secoli il “poeta nazionale” romano, esercitando con i suoi Annales un’enorme influenza su tutta la produzione epica successiva. Il discorso epico, dopo di lui, fu interpretato come discorso panegirico, celebrativo; solo Virgilio, recuperando Omero, darà al genere un’interpretazione e un’impronta nettamente diverse, scrivendo un poema che non rinuncia a essere celebrazione (del nuovo ordine augusteo), ma che è soprattutto una complessa riflessione, fatta attraverso il mito, sull’uomo, sul destino, sulla guerra.

Ennio fu il cantore della virtus individuale, eroica: a differenza di quanto accadeva nelle opere di Nevio e di Catone, gli Annales erano affollati di condottieri (imperatores, duces), ricordati con il loro nome, con la presunzione che la voce del poeta avrebbe saputo renderli immortali, si badi bene, non solo per le loro abilità guerresche, ma anche per quelle di pace. Questo filone avrebbe avuto un enorme seguito ed esiti non necessariamente disprezzabili. Un elegante poeta come il neoterico Varrone Atacino scrisse il Bellum Sequanicum, poema sulle campagne condotte da Cesare in Gallia; e compose un’opera epica a contenuto storico anche Cicerone, il De consulatu suo. Il genere, così concepito, avrebbe continuato a vivere a lungo, sopravvivendo anche all’Eneide, che pure avrebbe battuto una strada del tutto diversa. Molti Romani pensavano che la poesia non fosse altro che questo: celebrazione di azioni eroiche in versi; e molti illustri protettori avranno incoraggiato questi esercizi, che erano adatti ad amplificare, in una cornice epica e trasfigurante, le più recenti imprese di generali che erano anche capi politici. Fino a tutta l’età imperiale, insomma, la poesia epico-storica continuò a essere il miglior legame tra letteratura e propaganda, tra letteratura e potere.

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Scipione Nasica e il poeta Ennio: una battuta stravagante (Cic. de orat. II 68, 276)

di M. Tullio Cicerone, Dell’oratore, a cura di E. NARDUCCI, Milano 1994, pp. 506-507.

Corego e attori comici. Mosaico, ante 79 d.C. dalla Casa del poeta tragico, Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

ut illud Nasicae, qui cum ad poetam Ennium venisset eique ab ostio quaerenti Ennium ancilla dixisset domi non esse, Nasica sensit illam domini iussu dixisse et illum intus esse; paucis post diebus cum ad Nasicam venisset Ennius et eum ad ianuam quaereret, exclamat Nasica domi non esse, tum Ennius “quid? ego non cognosco vocem” inquit “tuam?” Hic Nasica “homo es impudens: ego cum te quaererem ancillae tuae credidi te domi non esse, tu mihi non credis ipsi?”

[…] Come la battuta di Scipione Nasica, che si era recato a casa del poeta Ennio e aveva chiesto di lui stando alla porta; ma la serva gli aveva detto che Ennio non era in casa. Nasica però aveva capito che la serva aveva eseguito un ordine del padrone e che questi si trovava in casa. Pochi giorni dopo, Ennio si recò da Nasica, e sulla soglia lo chiamò; Nasica gridò di non essere in casa. «Ma come? – esclamò Ennio – vuoi che non riconosca la tua voce?». Al che Nasica: «Sei proprio uno sfacciato! Quando ho chiesto di te, ho creduto alla tua serva che affermava che tu non eri in casa; e tu non credi a me in persona?».

La carriera smagliante di M. Porcio Catone (Nep. 24, 1-2)

Cfr. commento di E. GIAZZI, G. BOCCHI (eds.), Dentro e fuori i confini di Roma. I vires illustres di Cornelio Nepote, Milano 2007, 15-17; cfr. traduzione da Cornelio Nepote, Vite dei massimi condottieri, a cura di E. NARDUCCI, C. VITALI, Milano 2010, 326-329

Cornelio Nepote, nato nella Gallia Cisalpina intorno al 100 a.C., si stabilì probabilmente fin dall’adolescenza a Roma, dove si dedicò agli studi, intrattenendo rapporti di amicizia con Tito Pomponio Attico, Marco Tullio Cicerone e il conterraneo Gaio Valerio Catullo, che gli dedicò il suo Liber di poesie; morì probabilmente poco dopo il 27 a.C. Fu autore di un’opera di cronografia in tre libri, i Chronica, e di una raccolta di Exempla in cinque libri; ma la sua opera principale fu il De viris illustribus, noto anche come Vitae, una raccolta di biografie di personaggi famosi dell’antichità. Il testo doveva comprendere almeno sedici libri, dei quali rimangono un libro sui comandanti militari stranieri (De excellentibus ducibus exterarum gentium) e le vite di Attico e di Catone, tratte dal Liber de Latinis historicis.

Con il De viris illustribus Nepote si iscrisse nel filone biografico. Quanto resta di quest’opera è solo una piccola parte di quella che dovette essere l’impresa più vasta e ambiziosa: una grande raccolta di biografie costruita con l’intento di fare di questo genere letterario il veicolo di un confronto sistematico fra la civiltà greca e quella romana. L’idea di Cornelio Nepote era quella di raggruppare le notizie dei suoi personaggi in categorie “professionali” (re, condottieri, filosofi, storici, poeti, oratori, ecc.); ogni categoria occupava due libri, in cui venivano rispettivamente trattati i suoi esponenti stranieri (soprattutto greci, ma non solo) e romani. Anche se la consuetudine di radunare i personaggi secondo categorie era ben attestata nella biografia ellenistica, il raffronto sistematico fra “eroi” romani e stranieri sembra costituire il non trascurabile apporto originale di Nepote, che farà da modello in età imperiale al capolavoro di questo genere, le Vite parallele di Plutarco di Cheronea (I-II secolo d.C.).

Si è pensato che l’intento fondamentale di Nepote fosse quello di suggerire la superiorità dei Romani in ogni settore. Ma quanto rimane non sembra viziato da pregiudizi “nazionalistici”: fra gli scrittori latini egli è, per esempio, quello che rappresenta nella luce migliore la figura di Annibale, il nemico più terribile che Roma si fosse mai trovata ad affrontare. Il progetto dell’autore è semmai sintomatico di un’epoca in cui i Romani cominciarono a interrogarsi sui caratteri originali della propria civiltà, e a farsi più disponibili ad apprezzare i valori e le usanze di quelle straniere. Addirittura di una forma moderata di “relativismo culturale” si può parlare a proposito della breve praefatio che Cornelio Nepote premette al libro sui condottieri stranieri. I concetti di «moralmente onorevole» e «moralmente turpe», egli precisa, non sono gli stessi presso i Greci e i Romani: la distinzione dipende dai maiorum instituta di ciascun popolo; così alla biografia di Epaminonda viene premesso l’avvertimento di non giudicare i costumi di altre nazioni sulla misura dei propri: la musica e la danza, disdicevoli per un cittadino romano, non lo sono altrettanto per un personaggio eminente di una città greca, dove anzi procurano favore e reputazione.

Ritratto virile. Busto, bronzo, 30 a.C. c.
Ritratto virile. Busto, bronzo, 30 a.C. c.

Nella breve Vita Catonis, Cornelio Nepote delinea alcuni tratti della personalità del protagonista, precisando anche con chiarezza i motivi della sua diffidenza nei confronti delle mode grecizzanti del suo tempo. Fin dal primo capitolo Nepote dice che Catone sarà in contrasto per tutta la vita con Scipione Africano: in effetti, con una serie di processi (187-184) egli riesce persino a farlo condannare all’esilio. Sempre in tribunale, inoltre, Catone cerca di reprimere il lusso, imperante soprattutto tra le donne romane, opponendosi all’abrogazione della lex Oppia che, approvata durante la seconda guerra punica, vietava loro ornamenti e stili di vita troppo sfarzosi; mentre, sul piano letterario, può essere considerato il vero fondatore della prosa latina diversamente dagli annalisti che, come Fabio Pittore e Cincio Alimento, scrivevano in greco. Catone, infatti, compone in latino un’opera storica, le Origines, tacendo il nome dei protagonisti delle varie imprese della storia romana per raccontarla come un fatto collettivo, non legato al prestigio personale di alcuno: in questo modo, egli non cede al culto della personalità di stampo ellenistico, che tendeva a presentare i grandi personaggi come veri e propri “miti”. A ciò si possono aggiungere altri elementi dell’azione anti-greca di Catone, non direttamente affrontati da Nepote. Quando viene eletto censore, nel 184, Roma è ancora agitata dallo scandalo dei Baccanali: è difficile pensare che Catone non abbia contribuito alla battaglia contro i riti dionisiaci, che si svolgevano in modo del tutto sfrenato ed eccessivo. Inoltre, nel 155, sempre Catone fa allontanare da Roma tre filosofi greci (l’accademico Carneade, il peripatetico Critolao e lo stoico Diogene di Babilonia), giunti in qualità di ambasciatori di Atene, in quanto ritenuti responsabili di un’azione corruttrice dei giovani, dovuta al diffondersi delle loro dottrine “razionalistiche”.

Nella biografia del personaggio, Nepote non mette in rilievo soltanto i motivi che lo portarono a opporsi al filellenismo del suo tempo, ma lo presenta anche come un vero campione di virtù, elevandolo a exemplum e facendone il prototipo dell’onesto cittadino romano. Emergono, infatti, diversi aspetti di questa personalità e dell’opera che inequivocabilmente lo pongono nell’alveo del più puro spirito italico tradizionale.

Come in tante altre sue biografie, anche all’inizio di quella di Catone, l’autore traccia un breve profilo del personaggio, presentandone il luogo di nascita, i primi passi nella vita pubblica e poi la smagliante carriera. Dopo una giovinezza passata nel podere paterno in Sabina, Catone, com’era consuetudine per i Romani che si avviavano a ricoprire cariche pubbliche, cominciò a frequentare il foro, dove riscosse fin da subito grande popolarità. Egli svolse poi il servizio militare nel corso della Seconda guerra punica, partecipando nel 207 a.C. alla sanguinosa battaglia del Metauro, in cui trovò la morte Asdrubale, fratello di Annibale. Intraprese, quindi, la carriera politica vera e propria, della quale bruciò le tappe: seguendo la successione delle magistrature stabilite dal cursus honorum, Catone fu questore nel 204 a.C., edile plebeo nel 199, pretore nel 198 e, infine, console nel 195.

Angus McBride, Catone il Censore.
Personaggio togato. Illustrazione di A. McBride.

M. Cato, ortus[1] municipio Tusculo[2], adulescentulus, priusquam honoribus operam daret[3], uersatus est[4] in Sabinis[5], quod[6] ibi heredium a patre relictum habebat. inde hortatu L. Valerii Flacci[7], quem in consulatu censuraque habuit collegam[8], ut[9] M. Perpenna[10] censorius narrare solitus est, Romam demigrauit in foroque esse coepit. primum stipendium meruit annorum decem septemque[11]. Q. Fabio M. Claudio consulibus tribunus militum in Sicilia fuit[12]. inde ut[13] rediit, castra secutus est C. Claudii Neronis, magnique opera eius existimata est in proelio apud Senam[14], quo cecidit Hasdrubal, frater Hannibalis. quaestor obtigit P. Africano consuli[15], cum quo non pro sortis necessitudine uixit: namque ab eo perpetua dissensit uita[16]. aedilis plebi factus est[17] cum C. Heluio[18]. praetor prouinciam obtinuit Sardiniam[19], ex qua quaestor superiore tempore ex Africa decedens Q. Ennium poetam deduxerat[20], quod non minoris aestimamus quam quemlibet amplissimum Sardiniensem triumphum[21].

Marco Catone, nato nella cittadina di Tusculum, durante la giovinezza, prima di darsi alla vita pubblica, visse tra i Sabini, perché vi aveva un piccolo fondo lasciatogli in eredità dal padre. Di là – come soleva narrare Marco Perpenna, l’ex censore – si trasferì a Roma e, su esortazione di Lucio Valerio Flacco, che gli fu poi collega nel consolato e nella censura, cominciò a frequentare il Foro. A diciassette anni guadagnò la prima paga da soldato [: iniziò il servizio militare]. Sotto il consolato di Quinto Fabio Verrucoso e di Marco Claudio Marcello fu tribuno militare in Sicilia. Ebbene, quando ne ritornò, militò agli ordini di Gaio Claudio Nerone, e la sua partecipazione alla battaglia di Sena in cui cadde il fratello di Annibale, Asdrubale, fu considerata di gran peso. La sorte lo designò come questore del console Publio Cornelio Scipione Africano, con il quale, però, non ebbe la dimestichezza che quel sorteggio avrebbe voluto; anzi, fu in contrasto con lui per tutta la vita. Fu creato edile della plebe insieme a Gaio Elvio; in qualità di pretore, ottenne la provincia di Sardinia, dalla quale, in precedenza, e cioè tornando dalla questura dell’Africa, aveva condotto a Roma il poeta Quinto Ennio: cosa che non considero meno di qualsivoglia magnifico trionfo sui Sardi.

Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli)
Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).

Eletto console nel 195 a.C., all’età di trentanove anni, con l’amico e patrono Lucio Valerio Flacco, Catone ottiene per sorteggio di amministrare la provincia appena costituita (197 a.C.) dell’Hispania Citerior (s’intende la Spagna al di qua del fiume Ebro). Dopo un breve accenno all’ottenimento del trionfo proprio per questo incarico, Nepote non si sofferma sulla descrizione del periodo iberico, preferendo affrontare il delicato problema dell’opposizione di Scipione Africano all’operato del console. Nella vita nepotiana Catone, e con lui il Senato, esce vincitore da questo confronto con il potentissimo rivale quale incrollabile difensore della legalità: nonostante Africano goda di un immenso prestigio e aspiri al potere personale, non è in grado di convincere i senatori a rimuovere Catone dal suo mandato, perché la res publica a quel tempo, a differenza dell’epoca in cui Nepote scrive, è ancora retta iure (“dal diritto”). Si legge in queste parole un’amara nota polemica dell’autore nei confronti del secolo in cui vive. La parte finale del capitolo si riferisce alla censura, carica alla quale Catone viene eletto nel 184 insieme con Flacco: è questo il periodo della lotta serrata al lusso dilagante e alla corruzione dei costumi, una lotta che procurerà a Catone numerose inimicizie, ma della quale mai si stancherà, rimanendo sempre fermo nella sua posizione di campione del mos maiorum.

Consulatum gessit[22] cum L. Valerio Flacco, sorte prouinciam nactus[23] Hispaniam citeriorem, exque ea triumphum deportauit[24]. ibi cum diutius moraretur[25], P. Scipio Africanus consul iterum[26], cuius in priori consulatu quaestor fuerat[27], uoluit eum de prouincia depellere et ipse ei succedere, neque hoc per senatum[28] efficere potuit, cum quidem Scipio principatum in ciuitate obtineret[29], quod tum non potentia, sed iure res publica administrabatur[30]. qua ex re[31] iratus senatui ‹consulatu› peracto[32] priuatus[33] in urbe mansit. at Cato, censor cum eodem Flacco factus[34], seuere praefuit ei potestati[35]. nam et in complures nobiles animaduertit[36] et multas res nouas in edictum[37] addidit, qua re luxuria reprimeretur, quae iam tum incipiebat pullulare[38]. circiter annos octoginta[39], usque ad extremam aetatem ab adulescentia[40], rei publicae causa[41] suscipere inimicitias non destitit. a multis tentatus non modo nullum detrimentum existimationis fecit, sed, quoad uixit[42], uirtutum laude creuit[43].

Esercitò il consolato insieme a Lucio Valerio Flacco, gli toccò in sorte la provincia della Hispania citerior, e da questa riportò un trionfo. Siccome, però, vi si trattenne alquanto a lungo, Publio Scipione Africano, nel suo secondo consolato – nel primo Catone era stato suo questore –, volle farlo espellere dalla provincia per prenderne il posto, ma non riuscì ad ottenerlo dal Senato, benché fosse il cittadino più influente; allora, infatti, lo Stato si reggeva non tanto con il credito individuale quanto con l’esercizio del diritto. Ciò lo offese a tal punto che, scaduto il periodo del consolato, si ritirò a vita privata. Quanto a Catone, creato censore insieme allo stesso Flacco, esercitò il suo incarico con assoluto rigore: colpì con note di biasimo parecchi cittadini in vista e aggiunse alle leggi suntuarie molte nuove prescrizioni per porre freno al lusso che allora cominciava a dilagare. Per circa ottant’anni, e cioè dall’adolescenza fino agli ultimi giorni, Catone non rinunciò mai a tirarsi addosso odio e inimicizie per il bene dello Stato. Citato spesso in giudizio, non solo non subì alcuna diminuzione di stima, ma, anzi, finché visse, andò sempre crescendo nella fama della sua virtù.

***

Note:

[1] ortus: è participio perfetto di orior, -eris, ortus sum, -iri, verbo di coniugazione mista.

[2] Cittadina del Lazio, sui colli albani, corrispondente all’odierna Frascati. Il municipium (da munus capio “assumo i [miei] doveri”, s’intende di cittadino romano) era una città che, una volta conquistata, entrava a far parte della cittadinanza romana; i municipia potevano scegliere se adottare il diritto romano o mantenere le proprie leggi; i loro abitanti, tuttavia, avevano i diritti e i doveri della Romana civitas.

[3] priusquam honoribus operam daret: costruito con il congiuntivo imperfetto, introduce una proposizione temporale che indica un’azione posteriore a quella della reggente (versatus est), cioè l’anteriorità della reggente rispetto alla temporale. L’espressione operam dare seguita dal dativo corrisponde all’italiano “impegnarsi”, “dedicarsi a qualche cosa”.

[4] versatus est: perfetto da versor.

[5] I Sabini erano un’antica popolazione laziale di lingua osca imparentata con i Sanniti.

[6] quod: introduce una proposizione causale oggettiva con l’indicativo habebat.

[7] Lucio Valerio Flacco fu console con Catone nel 195 a.C. e con lui ottenne la censura nel 184 a.C., condividendone la lotta contro la corruzione dilagante per la salvaguardia del mos maiorum.

[8] collegam: predicativo dell’oggetto riferito a quem.

[9] ut: costruito qui con l’indicativo solitus est, introduce una proposizione incidentale di tipo comparativo.

[10] Il nome di questo personaggio tradisce la sua origine etrusca, come rivela il suffisso ­-enna. Morì nel 49 a.C.

[11] annorum decem septemque: sottinteso adulescens; era l’anno 217 e in Italia si stava allora combattendo la seconda guerra punica.

[12] Nel 214 a.C., anno in cui Claudio Marcello mise sotto assedio Siracusa, riuscendo a conquistarla soltanto due anni dopo. Durante il saccheggio della città rimase ucciso il famoso Archimede. Fu nel corso di questa campagna che Catone, in età straordinariamente giovane, fu nominato tribuno militare.

[13] ut: con l’indicativo assume qui valore temporale.

[14] L’odierna Senigallia. La battaglia, più nota come battaglia del Metauro, è del 207 a.C. I comandanti romani erano Claudio Nerone e il collega Marco Livio Salinatore.

[15] Nel 204. Quaestor è complemento predicativo del soggetto sottinteso Cato; obtigit è il perfetto di obtingo. I quaestores avevano il compito di amministrare le truppe e durante le campagne militari erano affiancati ai comandanti dell’esercito tramite sorteggio.

[16] namque… vita: ordina: namque dissensit ab eo perpetua vita. Si pone qui in rilievo con chiarezza il totale disaccordo tra Catone e Scipione che si manifestò soprattutto nel loro modo diametralmente opposto d’intendere il rapporto tra Roma e il mondo ellenico.

[17] factus est: perfetto di fio.

[18] Nel 199.

[19] Nel 198.

[20] In occasione di una tappa in Sardegna, durante il suo ritorno dall’Africa, nel 204 a.C. Catone aveva portato con sé a Roma il poeta Ennio, che militava nell’isola fra le truppe ausiliare. Uno dei massimi esponenti della letteratura latina arcaica, autore di numerose opere, fra cui tragedie, ma ricordato soprattutto per gli Annales, poema epico in esametri in cui veniva narrata la storia di Roma, Quinto Ennio (239-169) era nato a Rudiae, in Puglia e conosceva ben tre lingue: l’osco, il greco e il latino.

[21] quodtriumphum: quod è nesso relativo; minoris è genitivo di stima retto dal verbo aestimamus; quam introduce il secondo termine di paragone; quemlibet è accusativo dell’aggettivo e pronome indefinito quilibet, quaelibet, quodlibet, composto dall’aggettivo o pronome indefinito qui, quae, quod + il presente del verbo impersonale libet, libuit o libitum est, -ere (“piace”, “è gradito”).

[22] Consulatum gessit: unito al nome della carica il verbo gero assume il significato di “esercito”, “rivesto”. I consoli erano i supremi magistrati della Repubblica: comandavano l’esercito, convocavano e presiedevano i comitia.

[23] nactus: participio perfetto di nanciscor.

[24] L’espressione triumphum deportare ex aliquo significa “celebrare il trionfo su qualcuno”. I Romani avevano l’usanza di celebrare un pubblico trionfo quando risultavano vincitori di una guerra: il generale vittorioso (acclamato dai suoi soldati imperator) sfilava a cavallo, seguito dalle truppe, dai prigionieri e dal bottino, lungo un percorso che normalmente andava dal Campo Marzio al tempio di Giove Capitolino.

[25] ibi cum… moraretur: costrutto del cum narrativo con valore causale; diutius è il comparativo di maggioranza dell’avverbio diu.

[26] Nel 194.

[27] cuius… fuerat: proposizione relativa, il cui soggetto sottinteso è Catone.

[28] per senatum: complemento di mezzo costruito con per + accusativo.

[29] cum… obtineret: costrutto del cum narrativo con valore concessivo; il termine principatum, connesso al sostantivo princeps, indica la supremazia; il verbo obtineo non ha il significato di “ottengo”, ma di “mantengo”, “detengo”. Africano godeva di grande prestigio in Senato, appartenendo a una delle famiglie più in vista di Roma, ma, nonostante questo, non riuscì a far deporre Catone.

[30] quod… administrabatur: ordina: quod tum res publica administrabatur non potentia sed iure; proposizione causale con il verbo all’indicativo per esprimere oggettività; potentia e iure sono ablativi di causa efficiente. Emergono qui l’ammirazione e la nostalgia di Nepote per i tempi di Catone, quando lo Stato era amministrato secondo giustizia e nessun cittadino riusciva a impadronirsi del potere con la violenza.

[31] qua ex re: nesso del relativo.

[32] ‹consulatu› peracto: ablativo assoluto; peracto è participio perfetto di perago, composto da per + ago, in cui il prefisso per indica il compimento dell’azione.

[33] priuatus: usato in funzione predicativa.

[34] censor… factus: ordina: factus censor cum eodem Flacco (nel 184).

[35] severe… potestati: praefuit è perfetto di praesum, che, come ogni composto di sum, è accompagnato dal dativo; potestas ha il significato di “carica”. L’avverbio severe fissa l’attenzione del lettore sull’intransigenza di Catone nell’amministrare la censura, tanto da meritagli l’appellativo di “Censore” per antonomasia.

[36] animadvertit: il verbo animadverto, seguito da in + accusativo, significa “prendo provvedimenti contro qualcuno”.

[37] edictum: si fa riferimento qui alle leges sumptuariae che limitavano il lusso, in particolare alla lex Oppia.

[38] pullulare: il verbo presenta la medesima radice di pullus, “germoglio”, ed esprime l’idea di “metter germogli”, del “balzar fuori”. Detto della luxuria, rappresenta una metafora.

[39] circiter annos octoginta: complemento di tempo continuato in accusativo semplice.

[40] adulescentia: corrisponde all’età della giovinezza, compresa all’incirca tra i 15 e i 30 anni.

[41] causa: preceduto dal genitivo, esprime un complemento di fine.

[42] quoad vixit: proposizione temporale con l’indicativo, che esprime oggettività.

[43] Il capitolo si conclude con l’affermazione dell’integrità morale di Catone, evidente nell’uso della parola virtus.

Il paesaggio funerario a Roma tra il III e il I secolo a.C.

di C. VALERI, in I giorni di Roma. L’età della conquista, a cura di E. LA ROCCA, C. PARISI PRESICCE, A. LO MONACO, Milano 2010, pp. 137-147.

Rigorose disposizioni di legge vietavano a Roma di seppellire i morti in città; le necropoli si sviluppavano perciò all’esterno dei limiti cittadini, e cioè, in pratica, oltre le mura urbiche. In queste pagine esamineremo rapidamente il paesaggio attorno alle mura della città di Roma nei secoli compresi tra il III e il I secolo a.C., con qualche citazione di altri centri che hanno restituito testimonianze importanti; una disamina dunque delle tipologie monumentali utilizzate in questo periodo, una panoramica delle architetture funerarie e delle loro decorazioni che, inevitabilmente, prende in esame le costumanze di un limitato ceto sociale. In realtà, ci occuperemo delle modalità di sepoltura di coloro che erano in grado di impiegare cospicue sostanze per perpetuare la propria memoria, e quella della gens di appartenenza, attraverso la costruzione di edifici funerari più o meno scenografici e comunque duraturi. È stato giustamente rilevato come la parola monumenta, abitualmente utilizzata dagli scrittori latini per indicare gli edifici sepolcrali, abbia attinenza con il verbo greco mnēmoneúō, a suggerire quanto la loro natura sia correlata con la volontà, da parte del defunto, non solo di tramandare ai posteri il ricordo di sé, ma anche di esaltare attraverso la monumentalità dei sepolcri, la grandezza e la continuità della famiglia, celebrandone le virtù e soprattutto il ruolo sociale ed economico rivestito in seno alla società del tempo.

Mausoleo dei Cornelii Scipiones, III-II secolo a.C. sulla via Appia.

Ma i più potevano permettersi solo modeste inumazioni in fosse terragne o una deposizione dei resti incinerati in cassette di legno, in ceste di vimini, con, al massimo, il lusso di una stele di pietra che, sorgendo dal suolo, ne segnalasse la sepoltura. Testimonianze queste assai poco durevoli che, in gran parte, non possiamo più cogliere ed è provato anche da studi recenti che la percentuale di tali sepolture costituiva la quasi totalità nelle necropoli romane, con un rapporto che, nelle città più ricche, possiamo calcolare nella percentuale di uno a sette.

A Roma, così come in gran parte del mondo antico, i monumenti funerari erano raggruppati al di fuori delle porte urbiche, a comporre agglomerati allineati per lo più lungo le principali vie di accesso alla città, in posizioni di visibilità massima. Si ritiene generalmente che, fino al III secolo a.C., le tombe «si distribuivano irregolarmente sul territorio, forse sulle proprietà dei loro committenti, e prevalevano le sepolture ipogee o le camere sotterranee senza grandi monumenti in alzato» (von Hesberg); l’autorappresentazione familiare, che a Roma, fin dai tempi più remoti, si estrinsecava nella celebrazione del funerale, come impressivamente tramandatoci da Polibio (VI 53), non sembra aver assunto, almeno fino agli inizi del III secolo a.C., una vera e propria espressione monumentale. Nel corso del IV secolo a.C. sembra attenuarsi l’osservanza delle rigide leggi suntuarie che, codificate nelle XII Tavole, avevano influenzato il carattere delle sepolture nel secolo precedente. Una testimonianza in questo senso può essere riconosciuta nei resti dei corredi pertinenti a tombe ritrovate sul Celio, in via Santo Stefano Rotondo. Si tratta di piccole camere scavate nel banco tufaceo, dalla forma rettangolare, entro cui sono stati ritrovati, in condizioni più o meno frammentarie, sarcofagi in peperino privi di decorazioni, tra i quali uno di dimensioni decisamente monumentali; sulle casse dovevano essere dipinti tituli almeno con in nomi dei defunti. Il rango aristocratico degli ignoti proprietari del sepolcro è testimoniato dal corredo ritrovato all’interno del sarcofago più grande e da alcune raffinate terrecotte con evidenti tracce di policromia, sfuggite fortunosamente al saccheggio, con ogni probabilità appliques decorative di un qualche oggetto ligneo: databili negli anni finali del IV secolo a.C., raffigurano geni alati caratterizzati da un’impostazione monumentale della figura, un busto femminile emergente da una foglia di acanto e, in un chiaro simbolismo di salvazione ultraterrena, quadrighe che, condotte da nikai, solcano le acque marine fantasticamente simboleggiate da un tritone con doppia coda anguiforme.

Ricostruzione assiometrica del Mausoleo degli Scipioni (in F. COARELLI, Rom – Ein archäologischer Führer. Neubearbeitung von Ada Gabucci. Zabern, Mainz 2000)

A Roma le prime testimonianze archeologiche certe di sepolcri gentilizi risalgono al IV secolo a.C.: si tratta di tombe a camera scavate per lo più nella roccia e formate da uno o più ambienti collegati da gallerie, come nel caso del sepolcro dei Cornelii, intercettato negli anni cinquanta del secolo scorso durante la costruzione di un cavalcavia su via Marco Polo. Non è più ben percepibile l’aspetto originario della tomba, ricavata nel pendio tufaceo che scende verso la valle del fiume Almone, a una certa distanza dalle mura serviane, nei pressi di un importante asse viario: costruita forse già nella prima metà del IV secolo a.C., ebbe un periodo di utilizzo che non è possibile determinare, ma che comunque copre tutto il secolo, mentre è invece certo che nel I secolo d.C. il monumento non era più in funzione. L’ingresso alla tomba non è stato rintracciato, ma piuttosto che un semplice accesso nel banco di roccia si può ipotizzare una facciata con un paramento di blocchi di pietra squadrati, come nel sepolcro dei Furii a Tusculum, databile al IV secolo, quando la città ricevette la cittadinanza romana. Tra i materiali ritrovati durante  gli scavi della tomba dei Cornelii spiccano il coperchio di un sarcofago appartenuto a un Cornelio Cn(aei) f(ilius) e la cassa del sarcofago del pontefice massimo P. Cornelius Scapola, entrambi conservati nei Musei Capitolini (ora Centrale Montemartini). Il coperchio in peperino è conformato a tetto displuviato con tegole e coppi e, su ciascun lato, compaiono sei antefisse decorate da motivo vegetale; sul geison corre un fregio costituito da palmette, boccioli e fiori di loto, mentre le testate sono veri e propri frontoncini con un acroterio a disco sovrastante due ippocampi, affrontati ai lati di un grande fiore a campanula. I confronti di tali elementi decorativi con materiali provenienti dall’Etruria e dalle città laziali, in modo particolare Palestrina, hanno indirizzato verso una datazione intorno alla metà del IV secolo a.C. Il sarcofago di Scapola era realizzato in una pietra bianca travertinoide e, in antico, doveva essere interrato per circa venticinque centimetri, l’unica decorazione è rappresentata da due paraste rastremate verso l’alto che, sormontate da capitelli ionici, incorniciano lateralmente la fronte della cassa entro cui compare inciso il nome del defunto, forse da identificare con Publio Cornelio Scapola, console nel 328 a.C.

È stato più volte sottolineato come la costruzione della via Appia nel 312 a.C. abbia determinato l’ubicazione dei monumenti funerari di alcune delle più eminenti famiglie aristocratiche di Roma, prima fra tutte quella dei Cornelii Scipiones, fautrici di una politica di espansione verso il Mezzogiorno ellenizzato, con cui probabilmente intrattenevano interessi di varia natura (Zevi); non sarà casuale, pertanto, che altre importanti gentes dell’epoca (Metelli, Servilii, Atilii) avessero eretto i loro monumenti sepolcrali nella medesima zona (Cicerone, Tuscolanae, I 7, 13). Come informano alcune fonti letterarie, in particolare Cicerone e Livio, il sepolcro dei Corneli Scipiones sorgeva fuori la Porta Capena e, fin dal 1614, ne furono individuati i resti in una vigna sulla sinistra delle via Appia, lungo un diverticolo che la collegava con la via Latina. Nel 1780 i fratelli Sassi, proprietari della vigna, “riscoprirono” il monumento e condussero scavi purtroppo devastanti: in pochi mesi l’area venne indagata, recuperando il corredo epigrafico che ancora si conservava, ma in molti casi distruggendo sarcofagi intatti, disperdendo i resti ossei e altri oggetti mobili, nonché alterando fortemente anche l’aspetto delle cripte. Nel 1880 il monumento divenne proprietà dello Stato e durante gli anni venti del Novecento fu interessato da un profondo intervento di scavo e restauro guidato da A.M. Colini; in seguito a tali indagini Italo Gismondi approntò una documentazione grafica che, a tutt’oggi, rimane lo strumento di studio più attendibile.

Per una descrizione del sepolcro possiamo ricorrere alle parole di Antonio Nibby: «Ivi [lungo la via Appia, n.d.r.] forse era un predio avito della famiglia la quale profittando della rupe tufacea del colle aprì una specie di latomia, e dopo aver estratto le pietre formò in questa il sepolcro […]. Questa latomia aveva una certa regolarità, poiché riducevasi a un quadrato la cui volta naturale era retta da quattro enormi piloni: più larga era la via in mezzo, come quella per la quale introducevansi i sarcofagi…» (Roma nell’anno 1838, pp. 563 sgg.). In effetti la planimetria del monumento appare di forma quasi quadrata, pari all’incirca a 14,50 metri di larghezza per 13,50 metri di lunghezza, articolata all’interno in diversi settori individuati dai quattro pilastri risparmiati nella roccia e che hanno la funzione di sostenere la volta; risultano così quattro gallerie perimetrali ai lati e due che si incrociano ortogonalmente al centro. Successiva appare invece la costruzione di un’ulteriore galleria, così riteneva anche Nibby, sulla quale torneremo più avanti.

L. Cornelio Silla. Busto, marmo, I sec. d.C. München, Glyptothek.

Dalla camera ipogea provengono i materiali più antichi e le iscrizioni di età repubblicana conservateci corrispondono a nove deposizioni, di certo un’esigua parte rispetto a quella originariamente lì contenuta: è stato calcolato infatti che tra frammenti ancora in situ e tracce delle nicchie destinate a contenerne altri, dovevano trovarvi posto non meno di trentadue o trentatré sarcofagi (Coarelli). Il sarcofago qualitativamente più nobile, quello di L. Cornelius Scipio Barbatus, console nel 298 a.C., vincitore dei Sanniti e morto con ogni probabilità negli anni settanta del III secolo a.C., fu ritrovato nel 1780 ancora collocato nella sua nicchia al centro della parete di fondo, perfettamente in asse con l’ingresso antico. L’imponente arca in peperino ha la foggia di un grande altare; il coperchio è decorato lateralmente da pulvini desinenti in foglie acantiformi, mentre la cassa presenta in alto un coronamento di tipo architettonico con una cornice a dentelli e un fregio dorico con triglifi e metope decorate da rosette. Rispetto ai sarcofagi del sepolcro dei Cornelii, di poco anteriori, pienamente rispondenti alla tradizione etrusco-laziale del sarcofago a forma di casa, quello del Barbato allude nella foggia e nelle decorazioni agli altari greci, in particolare sicelioti. Il titulus in versi saturni del fondatore del sepolcro, inciso sulla fronte della cassa, recita: «Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Gneo, uomo forte e sapiente, il cui aspetto fu in tutto pari al valore, fu console, censore, edile presso di voi. Prese Taurasia e Cisauna nel Sannio, assoggettò tutta la Lucania e ne portò via ostaggi». L’elogio attribuito al capostipite della gens, al quale spetta di diritto il rango eroico, rivela un’allusione a un modello greco per cui la bellezza fisica eguaglia il valore (quoius forma virtutei parisuma fuit); tuttavia la grafia non sembra compatibile con la data della morte del Barbato ed è stato dunque ipotizzato che l’iscrizione sulla cassa, con versi forse in parte ripresi dalla laudatio funebris del personaggio, sia stata incisa solo verso la fine del III secolo. Le sepolture più antiche, quelle di Scipione Barbato e del figlio, sono caratterizzate da sarcofagi monolitici in peperino, le altre più recenti, che appaiono per lo più formate da spesse lastre di tufo dell’Aniene, erano state disposte intorno alla nicchia che ospitava la monumentale disposizione, praticando anche ulteriori cavità nel banco di cappellaccio. Da questa camera ipogea proviene anche il cosiddetto Ennio, una testa in tufo dell’Aniene conservata anch’essa nei Musei Vaticani: probabilmente appartenente a una statua databile verso la metà del II secolo a.C., serba l’effige di un membro della gens, forse un vir triumphalis, per la presenza di una corona di alloro, o, più semplicemente, un giovane Scipione eroizzato post mortem. Per la testa è stata anche proposta la pertinenza a un coperchio di sarcofago con figura giacente, sul modello di quelli etruschi, ma non vi sono altri confronti nel panorama romano contemporaneo e sembra difficile poter ipotizzare la presenza di sarcofagi di questo tipo accanto al monumentale sarcofago-ara di Barbato, che invece, nella tipologia e negli elementi decorativi, esprime chiari accenti greci assunti per il tramite delle colonie d’Italia.

Sarcofago di L. Cornelio Scipione Barbato con iscrizione (ILLRP, 309 Degrassi = ILS, I, 1 Dessau). Nefro, III sec. a.C. Mausoleo degli Scipioni sulla Via Appia.

Intorno alla metà del II secolo a.C. la più antica camera ipogea appariva ormai satura e per questo dovette essere approntata una nuova galleria sul lato verso la via Appia. Sembra possibile ascrivere l’ampliamento del monumento al tempo di Scipione Emiliano che avrebbe provveduto anche alla realizzazione di una facciata architettonica: è in questo momento forse che il sepolcro, sorta di sacrario delle memorie di famiglia, diventa accessibile al pubblico; lo era di certo all’epoca di Cicerone che lo visitò. Nell’alto podio in blocchi di tufo di Grotta Oscura si aprivano gli ingressi al sepolcro, i cui archi erano realizzati in tufo dell’Aniene; al di sopra sorgeva un prospetto in peperino scandito da semicolonne scanalate, ioniche o corinzie, su basi di tipo attico che determinavano una ripartizione della facciata, forse inquadrando nicchie entro le quali alcuni hanno immaginato di poter collocare le statue citate da Livio (XXXVIII 56, 1-4) e raffiguranti Scipione Africano, Scipione Asiatico e il poeta Ennio; quest’ultima era certamente ex marmore (Cicerone, Pro Archia, 22) e dunque si immaginano in marmo, a maggior ragione, anche le altre due. L’identificazione dei ritratti citati dalle fonti è stata oggetto di molteplici dibattiti anche recenti e la proposta di riconoscere, nel cosiddetto Mario e nel cosiddetto Silla (entrambi nella Gliptoteca di Monaco), i due Scipiones ha da ultimo sollevato forti dubbi. Qualche discussione è sorta anche in merito alla loro attinenza al sepolcro. L’assai probabile relazione tra il Tempio delle Tempeste, eretto dal figlio di Scipione Barbato, e la tomba gentilizia fuori Porta Capena, ha indotto a supporre che le statue dei membri più rappresentativi della famiglia potessero essere collocate in sacelli o heroa non coincidenti con il sepolcro (La Rocca) nel quadro di un rapporto tra aedes e tomba familiare, altrimenti attestato nello stesso periodo sia per la gens dei Claudii (tempio di Bellona), sia dei Marcelli (tempio di Honos et Virtus). Va detto comunque che, nel caso degli Scipiones, le fonti (Cicerone utilizza la formula in sepulcro Scipionum e Livio in Scipionum monumento) sembrerebbero riferirsi proprio al monumento funerario. Comunque, poco dopo la metà del II secolo a.C., il sepolcro degli Scipiones veniva dotato di una sorta di scaenae frons che, con la sua monumentalizzazione architettonica di matrice greca (sono gli anni in cui artisti e architetti provenienti dal Mediterraneo orientale operano già da tempo nella città, e tra questi basti ricordare Ermodoro da Salamina attivo a Roma dal 146 almeno fino al 102 a.C.), si sovrappose alla decorazione pittorica del podio la quale, ancora in parte apprezzabile nel suo carattere di autentico “palinsesto”, rispondeva alla tradizione tipicamente romana della pittura storico-trionfale.

Ennio. Testa, tufo dell’Aniene, metà del II secolo a.C. ca. dal Mausoleo dei Cornelii Scipiones. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Una siffatta «trasposizione in linguaggio figurativo dei commentarii che descrivevano le campagne militari» (La Rocca), all’esterno della più antica facciata del sepolcro gentilizio, era funzionale all’affermazione pubblica dello status sociale dei defunti ivi deposti. I resti pittorici occupano una striscia lunga oltre otto metri e alta all’incirca due, si riconoscono almeno cinque strati di intonaco sui quali è possibile intravedere lacerti di raffigurazioni che riconducono a scene di trionfo e di sottomissione di vinti. La conservazione fortemente compromessa degli affreschi non permette di ricostruire pienamente i cicli narrativi, caratterizzati comunque nel complesso da una certa qualità pittorica con punte d’eccellenza in alcuni dettagli superstiti che, databili forse ancora nel III secolo a.C., raffigurano uno scudo e una corazza anatomica resa con raffinate lumeggiature. Certo è che l’antica facciata del sepolcro doveva ricevere continui aggiornamenti decorativi ogni qualvolta veniva lì sepolto un importante personaggio della famiglia, in particolare i viri triumphales, ossia coloro che avevano ricevuto l’onore del trionfo, il più grande concesso a un magistrato romano. La necessità di onorare la memoria dell’illustre defunto imponeva un rinnovamento  delle pitture destinate a evocarne le gesta, esaltando nel contempo, per riflesso, anche i membri viventi della gens, secondo un’ideologia che presiedeva anche alla pompa funebris, episodio centrale nella vita della città, utilizzato dalle famiglie della nobilitas repubblicana per ribadire, al cospetto della collettività, status sociale e ambizioni politiche. Ma se il funerale, pur nella sua impressiva e ideologicamente pregnante scenografia, era episodio destinato a venir dimenticato e a sparire dalla memoria collettiva, perduravano invece i sepolcri, con le loro decorazioni, ben visibili da quanti percorrevano le maggiori strade di accesso alla città.

L’uso di decorare le sepolture con pitture dai soggetti storico-trionfali è altresì attestato a Roma nella necropoli esquilina, e offre l’occasione per introdurre altre tipologie di tomba a camera. Com’è noto, l’area era occupata da un vasto e antichissimo sepolcreto che rimase in funzione fino al I secolo a.C. quando, per iniziativa di Mecenate, tutta la zona fu risanata e convertita ad uso residenziale con l’apprestamento dei celebri horti Maecenatiani. Il ritrovamento dei monumenti funerari medio-repubblicani che qui si vogliono citare avvenne tra il 1874 e il 1876, nei pressi delle chiese di Sant’Eusebio e di San Vito, e costituisce «uno degli episodi più oscuri dell’archeologia romana», inserito com’è nell’ambito dei frenetici e poderosi sbancamenti che, spianando colli e colmando valli – «come se l’estetica di una città moderna dipendesse dalla sua orizzontalità» (Lanciani) – procedevano di parti passo con le speculazioni edilizie postunitarie. Oltre agli ipogei a camera, scavati nel tufo con banconi ricavati nelle pareti e destinati a interi nuclei familiari, si evidenziano infatti alcuni “sepolcri singolari”, tombe a camera di pianta rettangolare di dimensioni ridotte, emergenti quasi totalmente dal terreno e destinate probabilmente a deposizioni individuali. L’eccezionalità di queste sepolture è comprovata dalla presenza, almeno in due casi, di decorazioni pittoriche nonché dalla loro ubicazione nella zona di massima visibilità della necropoli, subito fuori la Porta Esquilina, a nord della via Labicana, ossia nel campus Esquilinus. Questo luogo, riservato alle sepolture pubbliche, ospitava anche il lucus Libitinae, un santuario suburbano dedicato a (Venere) Libitina, divinità tutelare delle cerimonie funebri, nel cui tempio era custodito l’apparato necessario ai funerali solenni.

Planimetria dei ritrovamenti della Necropoli dell’Esquilino (di G. Pinza, 1907).

Risulta piuttosto complesso ricostruire il reale aspetto di questi monumenti, uno dei quali, rintracciato tra le odierne via Carlo Alberto e via Rattazzi, ha restituito un frammento di intonaco dipinto, vero e proprio incunabolo delle pittura romana. Due personaggi, indicati nel dipinto con i nomi di M. Fannius e di Q. Fabius, compaiono in scene organizzate su più registri sovrapposti: i due s’incontrano davanti alle mura di una città e al cospetto dell’esercito, nell’ultimo registro appaiono in combattimento, l’uno in toga e l’altro in armi. Molteplici sono state le ipotesi proposte: potrebbe trattarsi degli episodi conclusivi di una delle guerre sannitiche con la resa di Marco Fannio al generale Quinto Fabio Rulliano, console per cinque volte tra il 322 e il 295 a.C., o al di lui omonimo figlio Quinto Fabio Gurges, console nel 292 e nel 276 a.C. (Coarelli), interpretazione che non solo attribuirebbe le titolarità del sepolcro a uno dei due personaggi citati, ma che suggerirebbe un’attribuzione al celebre Fabio Pittore, perché nel 303 a.C. aveva affrescato la cella del tempio votato a Salus, da C. Iunius Bubulcus qualche anno prima, nel corso della seconda guerra sannitica. Altri ha invece pensato di riconoscere la consegna di una hasta pura, sempre nel quadro delle guerre sannitiche, da parte di Q. Fabius a M. Fannius, valoroso soldato che, appartenente a una gens plebea ufficialmente nota solo a partire dagli anni ottanta del II secolo a.C., si sarebbe distinto durante le campagne militari, meritando prima l’onore della massima onorificenza militare e poi quello della sepoltura pubblica (La Rocca). Al di là delle varie interpretazioni, l’affresco, pur nella sua immediatezza espressiva, mostra dipendenze da modelli ellenistici nella tecnica pittorica “a macchia” e nella ricchezza dei dettagli, resi tramite efficaci lumeggiature a pennello. Più dubbia è l’esatta collocazione della pittura nel sepolcro: le notizie purtroppo esigue accennerebbero a un ritrovamento all’esterno, ma nella storia degli studi il dato non sembra aver riscosso troppo credito.

Fregio storico. Affresco, 300-280 a.C., dalla Tomba dei Fabii (Necropoli dell’Esquilino). Roma, Centrale Montemartini.

Apparteneva di certo a un trionfatore il vicino sepolcro “Arieti” (dal nome del suo scopritore) che con quello dei Fabii condivide le vicende della scoperta; in questo caso soccorrono però una documentazione di scavo più circostanziata e un acquerello che, eseguito prima del distacco delle pitture, risulta fondamentale per ricostruire la sequenza. Rinvenuto all’angolo tra le odierne via Napoleone III e via Rattazzi, il sepolcro si presentava come una camera di pianta rettangolare costruita in blocchetti di peperino e dalle dimensioni molto simili a quelle della tomba dei Fabii (5,50 x 3 metri, contro i 5 x 3,50 metri, anche se ricostruzioni recenti darebbero misure maggiori); il pavimento era costituito da lastre di peperino, le pareti poggiavano su uno zoccolo modanato e, superiormente, presentavano un coronamento di lastre di peperino un poco aggettanti (circa sei centimetri). Secondo l’acquerello ottocentesco si riconosce una scena di combattimento con guerrieri a piedi e a cavallo, posta «sul muro esterno accanto alla porta d’ingresso della tomba» (Talamo), mentre all’interno si dovrebbe invece immaginare il frammento pittorico, forse situabile al lato della porta, con una figura maschile dalle braccia alzate realizzata con vivido espressionismo e di assai discussa interpretazione, una sorta di telamone (La Rocca) piuttosto che un condannato al supplizio negli inferi (Lanciani), o una crocifissione (Coarelli). Anche la più complessa scena del trionfo, purtroppo oggi in parte dispersa, viene immaginata all’interno e probabilmente si sviluppava su due pareti ad angolo, per una lunghezza di almeno 3,80 metri. La quadriga trionfale era preceduta da sei littori (se ne conservano oggi solo quattro per una lunghezza di 1,55 metri) con il fascio delle verghe, vestiti del sagum rosso: il numero dei littori ha fatto giustamente supporre che il titolare della tomba fosse un pretore. Lo stile pittorico è caratterizzato da un tratto rapido, piuttosto corsivo e con accenti quasi caricaturali, espressione di un pittore “popolare” della metà del II secolo a.C., erede di quel Teodoto ridicolizzato qualche decennio prima dal poeta Nevio perché sugli altari compitali dipingeva come con una coda di bue figure di Lari danzanti. Studi recenti suggeriscono la collocazione all’esterno almeno di parte delle pitture della tomba “Arieti”, elemento che contribuirebbe a conferire a queste tombe individuali il carattere di veri e propri heroa destinati a personaggi cui erano stati conferiti onori del tutto eccezionali.

L’attenzione per la decorazione esterna dei monumenti funerari conosce uno sviluppo tutto particolare nel corso del II secolo a.C. il rifacimento del sepolcro degli Scipiones non costituisce l’unico caso; basti pensare al sepolcro dei Claudii Marcelli, eretto per il conquistatore di Siracusa lungo la via Appia in prossimità del tempio di Virtus da lui stesso voluto, che, intorno alla metà del II secolo a.C., venne ornato con tre statue raffiguranti il console M. Claudius Marcellus, morto nel 148 a.C., suo padre, console nel 196 a.C., e il celebre nonno, fondatore del sepolcro, console per ben cinque volte. Tale intervento suggerisce effettivamente una tripartizione della facciata con una sistemazione simile a quella del sepolcro degli Scipiones, in accordo con il nuovo gusto architettonico di influenza greco-ellenistica.

Nel corso del II secolo tali ascendenze determinarono l’avvio di un nuovo sviluppo delle tipologie architettoniche dei monumenta funerari direttamente proporzionale alla decisa volontà di un’affermazione individuale e non più gentilizia da parte degli esponenti della classe dirigente romana. Il fenomeno va letto in relazione con lo sviluppo delle statue onorarie e non possiamo non pensare, al riguardo, alla notizia di Plinio (Naturalis Historia, XXXIV 31-32) circa l’affollamento di statue nel Foro, tale da provocare l’intervento dei censori Publio Cornelio Scipione e Gaio Popilio (158 a.C.) che ne ordinarono la rimozione, risparmiando solo quelle che erano state erette per decreto del popolo o del Senato. La causa ovviamente va ricercata nel rapido mutamento di valori che interessò la società repubblicana a seguito delle vittorie su Cartagine e via via sui regni ellenistici, che fecero affluire a Roma un’enorme quantità di ricchezze, oltre ad assicurarle il dominio sul Mediterraneo tutto con le ben note conseguenze politiche, sociali e culturali.

Nel 183 a.C. Scipione Africano veniva sepolto a Liternum in un sepolcro all’interno della sua proprietà; Livio (XXXVIII 56, 3-4), che vede il monumento già in rovina, descrive un podio massiccio sul quale un tempo doveva trovarsi la statua stante del vincitore di Zama, forse riparata da una nicchia prostila. Lontano da Roma, Scipione poteva aspirare a un monumento funebre simile a un heroon microasiatico, rompendo decisamente con la tradizione delle tombe gentilizie ancora pienamente attuale nel panorama dell’Urbe, quasi uguagliando un dinasta orientale in questo rapporto tra il sepolcro e la villa-palazzo dove l’Africano risiedeva, anche se Seneca, qualche secolo più tardi, lo avrebbe additato come esemplare modello di morigeratezza.

Ritratto virile con testa calva, noto come “Scipione” (secondo alcuni studiosi rappresenterebbe molto probabilmente un sacerdote isiaco). Busto, bronzo, inizi I sec. d.C. dalla Villa dei Papirii, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Ma gli esempi archeologicamente attestati di veri e propri sepolcri individuali, con i primi timidi inserimenti di probabili elementi statuari, non sono anteriori alla fine del II secolo a.C. e sembrano stagliarsi ancora piuttosto isolati nel paesaggio delle necropoli al di fuori delle porte urbiche. Nei pressi della via Ostiense se ne rintraccia una delle più antiche testimonianze: si tratta del sepolcro di Servius Sulpicius Galba, da attribuire preferibilmente al console del 108 a.C. piuttosto che al di lui padre, console nel 144 a.C., situato accanto agli horrea Galbana nei pressi del porto fluviale. La tomba ha ora l’aspetto di un dado di 2,60 metri per lato: su uno zoccolo a due filari corre una modanatura a cyma reversa e ancora sopra quattro filari di tufo, l’iscrizione compare al centro su un blocco di travertino inquadrata da cinque fasces per lato, simbolo della dignità curule. La notizia del ritrovamento di un frammento di una statua togata seduta di dimensioni al vero, recentemente rintracciato (Ferrea), ha fatto ipotizzare che la tomba fosse provvista originariamente di un’edicola: si tratterebbe di uno dei primissimi esempi di questo tipo di monumento funerario di chiara ascendenza orientale, che avrebbe conosciuto un notevole successo nel corso del I secolo a.C.

Sempre nella zona del Testaccio, ma a una certa distanza a sud del sepolcro di Galba, è testimoniata una delle più antiche tombe in forma di altare, tipologia tra le prime ad essere adottata per monumenti funerari individuali, sia a Roma che nelle colonie. La tomba, ora non più visibile e purtroppo nota solo da una xilografia del XVIII secolo, fu scoperta tra il 1697 e il 1699 e venne subito attribuita alla gens dei Rusticelii grazie all’iscrizione presente su una delle pareti (CIL, VI, 11534). Il monumento, databile negli anni finali del II secolo a.C., è costruito in blocchi di tufo con un basamento modanato e una cornice superiore sormontata da un corto attico piatto; la lontananza da una via sepolcrale e il ritrovamento di altre iscrizioni che menzionano membri della gens hanno fatto supporre che il sepolcro sorgesse all’interno di un predio della famiglia. Questo doveva essere il caso anche del sepolcro di Galba, così vicino agli horrea da lui costruiti da farli ritenere, l’uno e gli altri, compresi entro una stessa proprietà confinante con la via Ostiense, con un affaccio verso il Tevere che ne esaltava la visibilità.

Torre funeraria della famiglia dei Cornelii Scipiones, a Tarragona.

Nel corso del I secolo a.C., le tombe ad altare di tipo greco sembrano divenire a Roma appannaggio della classe media. Ancora entro il primo quarto del secolo possono essere datate la cosiddetta tomba “dorica” e la vicina tomba “dei festoni” (o “a ghirlande”) al quarto miglio della via Appia, il cui aspetto attuale si deve alle ricostruzioni realizzate alla metà dell’Ottocento da Luigi Canina. Il nome della seconda di esse proviene dall’inserimento di un fregio non pertinente, con eroti alati che sostengono festoni, nella struttura a dado in blocchi di tufo, sormontata da una mensa d’altare con pulvini decorati da motivi fitomorfi e da teste di Medusa. Tombe ad altare decorate da fregi dorici si diffondono rapidamente nei centri italici più titolati, a partire dagli anni immediatamente successivi alla Guerra Sociale, divenendo quasi un segno distintivo dell’orgoglio municipale; non è casuale che a Pompei tale tipologia fu scelta per il sepolcro in blocchi di tufo di M. Porcio, duoviro della colonia e probabile triumviro della deductio sillana. Da tempo è stata infatti sottolineata la grande diffusione di tale tipologia e del motivo decorativo del fregio con triglifi e metope, entro cui, oltre ai motivi più consueti di rosette, bucrani e protomi taurine, possono comparire soggetti figurati più vari (armi, navi, delfini, ecc.) forse allusivi alla vita e alla carriera del defunto.

Una categoria importante, per le tipologie dei monumenti funerari individuali, è rappresentata da quelli a edicola di chiara derivazione ellenistica, la cui prima attestazione letteraria è forse costituita dal già citato sepolcro di Scipione a Liternum, e che, ancora nella prima metà del I secolo a.C., sembrano diffusi soprattutto in ambito extraurbano, sovente apprestati dai notabili della tarda repubblica in praedia di loro proprietà. Gli elementi dell’alto zoccolo e dell’edicola soprastante sono sempre presenti, ma, tra la tarda età repubblicana e il I secolo d.C., la tipologia funeraria conoscerà un’evoluzione e una sperimentazione tali da produrre innumerevoli e impressive varianti, in una moltiplicazione di piani e di nicchie dai disegni architettonici sempre più articolati e arricchiti da una molteplice varietà di elementi scultorei.

Uno degli esempi certi più antichi a Roma è riconosciuto nella tomba edificata dal Senato verso il 70 a.C. all’edile Gaio Poblicio Bibulo honoris virtutisque caussa, lungo la via che usciva per la porta Fontinalis ai piedi del Campidoglio. Su un alto basamento è costruita una cella rettangolare, della quale rimane ora solo la facciata con un’apertura inquadrata da quattro lesene tuscaniche; sulla trabeazione correva un fregio con ghirlande, bucrani e rosette. È probabile che la statua di Bibulo fosse al centro della facciata, ma la decorazione architettonica è ancora preponderante su quella statuaria e il messaggio celebrativo è affidato all’iscrizione che campeggia a grandi lettere sul prospetto e sui lati del basamento e che denuncia l’eccezionalità dei meriti del defunto al quale fu concesso un sepolcro pubblico. Gradualmente, l’architettura di coronamento – dapprima assolutamente scenografica di per sé, si pensi alla pompeiana tomba delle Ghirlande, che già presenta alcuni elementi architettonici realizzati eccezionalmente in marmo – viene animata dalla decorazione statuaria, che assume un ruolo via via preponderante. Il proliferare dei piani con nicchie ed edicole, il cui più antico modello va ricercato negli heroa ellenistici d’Asia Minore che sintetizzano i sepolcri-torre e i monumenti a naiskos della Licia, diverrà con il tempo assolutamente funzionale alla possibilità di esporre le statue ritratto dei defunti. Uno degli esempi più antichi e, allo stesso tempo, monumentali, è riconosciuto nel cosiddetto monumento di Pompeo sulla via Appia, nei pressi di Albano; ne rimane solo il nucleo cementizio, ma originariamente il sepolcro era suddiviso in quattro piani che dovevano raggiungere l’altezza di quasi trenta metri. Per avere un’idea, seppur più contenuta, dell’aspetto di questi monumenti bisogna scendere verso l’età augustea e il I secolo d.C. e spostarci nei municipi italici (Sarsina, Pompei, Aquileia) e provinciali che ne conservano quasi intatti alcuni straordinari esempi (sepolcro degli Iulii a Saint-Rémy, tomba di Poblicius a Colonia).

Iscrizione funeraria. Sepolcro di C. Poblicio Bibulo. 70 a.C. ca., presso il Campidoglio, Roma (CIL VI 1319).

Nella regione gravitante attorno alla via Aemilia, che offre importanti testimonianze di monumenti funerari già dai primi anni del I secolo a.C. (ante 90 a.C.) con i sepolcri a dado coronati da fregio dorico appartenuti agli Ovii e ai Maecii della colonia di Ariminium, si mantengono a Sarsina sepolcri a edicola in ottimo stato di conservazione. In particolare è da ricordare il sepolcro di Aefonius Rufus, ora integralmente ricostruito nel locale museo, che raggiunge i tredici metri di altezza. Esso è composto da tre distinti corpi: un dado per basamento, incorniciato da un fregio dorico e da un meandro entro i quali corre l’iscrizione; al centro compare una struttura a forma di tempietto tetrastilo corinzio, con un fregio a racemi di acanto che corre sulla trabeazione e una serie di statue previste a decorare gli intercolumni: uomini in toga, orgogliosi di mostrare la cittadinanza acquisita e l’elevato rango sociale ed economico raggiunto, e donne che, nella postura dei più frequenti tipi iconografici, come quello detto della Pudicitia, sfoggiano le pettinature dell’epoca. La copertura è costituita da un’alta cuspide affiancata da sfingi, a guardia del sepolcro, sormontata da un capitello corinzio che sorreggeva un finto vaso cinerario.

Nella tarda età repubblicana si diffondono a Roma le tombe a tumulo costituite da un poderoso basamento circolare, all’interno del quale era ricavata la camera funeraria, e da un cono di terra che su questo sorgeva e che aveva la funzione di un vero e proprio segno territoriale. La rinnovata diffusione di questo genere di sepoltura, che ha ben noti precedenti sul suolo italico, si deve probabilmente a Silla che, sappiamo, fu sepolto in un tumulo nel Campo Marzio (Lucano, Farsalia, II 222), area in quell’epoca riservata ai monumenta dei cittadini romani più illustri e degni. La struttura non aveva forse un carattere di particolare monumentalità e l’eccezionalità della sepoltura dovette essere sottolineata dal rito della cremazione (inusitata nella gens Cornelia che usava inumare i propri defunti) e che, a detta di Plutarco (Vita di Silla, 38) raggiunse livelli di estremo sfarzo.

Mausoleo detto ‘Torrione Prenestino’, fine I sec. a.C. – inizi I sec. d.C., sulla via Praenestina.

La più antica delle grandi tombe a tamburo, archeologicamente attestata, può essere riconosciuta nel Torrione “Micara” sulla via Tuscolana nei pressi di Frascati. Il suo diametro raggiunge quasi i trenta metri, pari all’incirca a quello dei più tardi mausolei di Cecilia Metella e di Casal Rotondo, attribuito a L. Aurelio Cotta, e di circa dieci metri inferiore al gigantesco “Torrione” di età augustea sulla via Prenestina. La struttura, costituita da blocchi di peperino (ma nelle camere funerarie all’interno i muri sono rivestiti in mattoni), sembra databile ancora entro la metà del I secolo a.C.; l’eccezionalità delle sue dimensioni, unita alla notizia – confermata da ritrovamenti epigrafici – di una vasta proprietà dei Licinii Luculli nella zona, ha permesso l’identificazione dell’edificio con il sepolcro di Lucullo, morto nel 57 a.C. Tra la fine della repubblica e l’età augustea questo tipo di monumentum ebbe grande diffusione; esso fu probabilmente utilizzato per la tomba di Giulia, figlia di Cesare sposa di Pompeo, morta nel 54 a.C. (Plutarco, Vita di Cesare, 23, 7; Vita di Pompeo, 53, 6), come per il sepolcro sulla via Praenestina di L. Cornelius, architetto di Q. Lutazio Catulo. In età augustea, oltre ai già citati esempi, si ricordano la tomba del praefectus fabrum Lucilio Peto e sua sorella Polla, sulla via Salaria, databile agli ultimi anni del I secolo a.C. e il sepolcro del generale cesariano C. Munatius Plancus, esaltato nella sua visibilità dalla collocazione in cima al panoramico monte Orlando a Gaeta. Nel corso del I secolo a.C. si moltiplicarono dunque soluzioni sempre più scenografiche e caratterizzate da dimensioni gigantesche, tra queste anche i sepolcri con alzato a forma di meta, che appaiono circoscritti alla seconda metà del I secolo a.C., meritano una breve menzione, se non altro per l’appartenenza alla categoria di uno dei monumenti che maggiormente tuttora distinguono il paesaggio della città di Roma. La piramide Cestia sulla via Ostiense, tomba di C. Cestio, pretore nel 44 a.C., si appoggia su una fondazione in opus caementicium e in blocchi di travertino ed è completamente rivestita in marmo di Carrara. La base misura cento piedi romani e si sviluppa per un’altezza di 36,81 metri, all’incirca centoventicinque piedi romani; il suo apparato decorativo prevedeva colonne ai quattro angoli e statue sulla facciata.

Mausoleo di Cecilia Metella, via Appia (foto d’epoca di G. Sommer).

Come abbiamo visto, molteplici sono le soluzioni adottate dai rappresentanti della vecchia e nuova aristocrazia per sepolture individuali, che dobbiamo immaginare sorgere ancora piuttosto isolate lungo le principali vie di accesso alla città, in casi particolari nell’area del Campo Marzio o entro i limiti di praedia privati, in zone comunque ben visibili e accessibili. Fin dai primi decenni del I secolo a.C. il paesaggio delle necropoli romane comincia ad arricchirsi anche dei sepolcri destinati alle famiglie di origine liberta che, con l’adozione di tipologie ben precise, interverranno a mutare non poco il paesaggio suburbano. Celebri quelli di via Statilia, nei pressi dell’antico asse viario del Celio, che costeggiano in una sequenza di facciate la via sepolcrale. Il più antico appartiene a un P. Quinctius, liberto di un Titus: al centro del prospetto si apre una porta ai lati della quale si riconoscono scudi oplitici, subito sotto il suo coronamento appaiono blocchi di travertino scolpiti a busto, che sembrano quasi rammentare gli abitanti di una casa affacciati alla finestra. Questi rilievi con mezzi busti di togati e di matrone velate, a volte ritratti nella dextrarum iunctio, invaderanno di lì a poco le necropoli dell’Urbe e dell’Italia tutta, caratterizzando i sepolcri della “middle class” romana tra la tarda repubblica e l’età giulio-claudia. L’ideologia della celebrazione familiare è decisamente lontana per questa classe di particolari “cittadini”, che compone il cuore pulsante della società economica dell’epoca con i loro mestieri di imprenditori, commercianti, artigiani, ecc. I liberti non hanno un passato da celebrare, la loro fortuna è tutta giocata nel presente, la loro esistenza dipende dal sospirato raggiungimento della dignità civica, che orgogliosamente enunciano mostrandosi in toga, l’abito dei cittadini romani. Tra i più impressivi monumenti funerari collettivi va annoverata la cosiddetta tomba dei Flavi di Porta Nocera a Pompei. Nella facciata in opera incerta, che giustamente è stato detto sembrare una fedele riproduzione degli appartamenti d’affitto (cenacula), si apre al centro un passaggio a fornice; al di sopra, un poco arretrato, compare una sorta di attico entro il quale si dispongono otto nicchie che ospitavano in antico altrettanti busti ritratto, realizzati in tufo e recanti i nomi dei defunti. Il tipo di sepolcro non ha alcun precedente in Campania ed è certamente un portato dei liberti dei coloni romani; in particolare quello dei Flavi costituisce uno degli esempi più antichi, databile verso il 70 a.C.

Mausoleo di Lucilio Peto, fine I secolo a.C., sulla via Salaria.

Questo rapido excursus si arresta ai limiti del principato augusteo, l’ascesa di Ottaviano avrebbe infatti decisamente stravolto l’assetto dello Stato repubblicano. Il clima delle ambiziose lotte politiche che, nel corso degli ultimi decenni della repubblica, aveva prodotto significativi risvolti sul piano delle autocelebrazioni, anche in contesti funerari, era decisamente tramontato. La drastica riduzione della possibilità di accedere a ruoli politici effettivi e un generale livellamento delle personalità,  che non fossero quella del princeps e dei membri della sua famiglia e di un ristretto entourage, sembrano condurre verso una graduale,  ma inarrestabile, normalizzazione e cristallizzazione dei monumenti funerari. Questi si arricchiscono certo grazie all’impiego quasi generalizzato del marmo e all’uso più diffuso della decorazione statuaria, con i noti rilievi “a cassetta” e i busti funerari nelle nicchie delle facciate dei colombari, ma il graduale processo di affastellamento dei sepolcri, registrato nelle necropoli suburbane di età augustea, va di pari passo con una certa omologazione del paesaggio funerario. Del resto non era pensabile rivaleggiare con la smisurata mole sepolcrale che Ottaviano, fin dagli esordi della sua ascesa al potere, cominciò a progettare e a costruire nel Campo Marzio, nell’ambito di un articolato e complesso sistema di rimandi monumentali e simbolici che, di fatto, rendevano il princeps l’unico protagonista di questa area, un tempo destinata anche ai publica sepulcra. Il gigantesco Tumulus Iuliorum, incastonato fra la via Flaminia e il Tevere, sulle cui acque doveva specchiarsi e allo stesso tempo incombere, inaugurava un clima di apoteosi dinastica che avrebbe annullato qualsiasi tipo di competizione.

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