La carriera smagliante di M. Porcio Catone (Nep. 24, 1-2)

Cfr. commento di E. GIAZZI, G. BOCCHI (eds.), Dentro e fuori i confini di Roma. I vires illustres di Cornelio Nepote, Milano 2007, 15-17; cfr. traduzione da Cornelio Nepote, Vite dei massimi condottieri, a cura di E. NARDUCCI, C. VITALI, Milano 2010, 326-329

Cornelio Nepote, nato nella Gallia Cisalpina intorno al 100 a.C., si stabilì probabilmente fin dall’adolescenza a Roma, dove si dedicò agli studi, intrattenendo rapporti di amicizia con Tito Pomponio Attico, Marco Tullio Cicerone e il conterraneo Gaio Valerio Catullo, che gli dedicò il suo Liber di poesie; morì probabilmente poco dopo il 27 a.C. Fu autore di un’opera di cronografia in tre libri, i Chronica, e di una raccolta di Exempla in cinque libri; ma la sua opera principale fu il De viris illustribus, noto anche come Vitae, una raccolta di biografie di personaggi famosi dell’antichità. Il testo doveva comprendere almeno sedici libri, dei quali rimangono un libro sui comandanti militari stranieri (De excellentibus ducibus exterarum gentium) e le vite di Attico e di Catone, tratte dal Liber de Latinis historicis.

Con il De viris illustribus Nepote si iscrisse nel filone biografico. Quanto resta di quest’opera è solo una piccola parte di quella che dovette essere l’impresa più vasta e ambiziosa: una grande raccolta di biografie costruita con l’intento di fare di questo genere letterario il veicolo di un confronto sistematico fra la civiltà greca e quella romana. L’idea di Cornelio Nepote era quella di raggruppare le notizie dei suoi personaggi in categorie “professionali” (re, condottieri, filosofi, storici, poeti, oratori, ecc.); ogni categoria occupava due libri, in cui venivano rispettivamente trattati i suoi esponenti stranieri (soprattutto greci, ma non solo) e romani. Anche se la consuetudine di radunare i personaggi secondo categorie era ben attestata nella biografia ellenistica, il raffronto sistematico fra “eroi” romani e stranieri sembra costituire il non trascurabile apporto originale di Nepote, che farà da modello in età imperiale al capolavoro di questo genere, le Vite parallele di Plutarco di Cheronea (I-II secolo d.C.).

Si è pensato che l’intento fondamentale di Nepote fosse quello di suggerire la superiorità dei Romani in ogni settore. Ma quanto rimane non sembra viziato da pregiudizi “nazionalistici”: fra gli scrittori latini egli è, per esempio, quello che rappresenta nella luce migliore la figura di Annibale, il nemico più terribile che Roma si fosse mai trovata ad affrontare. Il progetto dell’autore è semmai sintomatico di un’epoca in cui i Romani cominciarono a interrogarsi sui caratteri originali della propria civiltà, e a farsi più disponibili ad apprezzare i valori e le usanze di quelle straniere. Addirittura di una forma moderata di “relativismo culturale” si può parlare a proposito della breve praefatio che Cornelio Nepote premette al libro sui condottieri stranieri. I concetti di «moralmente onorevole» e «moralmente turpe», egli precisa, non sono gli stessi presso i Greci e i Romani: la distinzione dipende dai maiorum instituta di ciascun popolo; così alla biografia di Epaminonda viene premesso l’avvertimento di non giudicare i costumi di altre nazioni sulla misura dei propri: la musica e la danza, disdicevoli per un cittadino romano, non lo sono altrettanto per un personaggio eminente di una città greca, dove anzi procurano favore e reputazione.

Ritratto virile. Busto, bronzo, 30 a.C. c.
Ritratto virile. Busto, bronzo, 30 a.C. c.

Nella breve Vita Catonis, Cornelio Nepote delinea alcuni tratti della personalità del protagonista, precisando anche con chiarezza i motivi della sua diffidenza nei confronti delle mode grecizzanti del suo tempo. Fin dal primo capitolo Nepote dice che Catone sarà in contrasto per tutta la vita con Scipione Africano: in effetti, con una serie di processi (187-184) egli riesce persino a farlo condannare all’esilio. Sempre in tribunale, inoltre, Catone cerca di reprimere il lusso, imperante soprattutto tra le donne romane, opponendosi all’abrogazione della lex Oppia che, approvata durante la seconda guerra punica, vietava loro ornamenti e stili di vita troppo sfarzosi; mentre, sul piano letterario, può essere considerato il vero fondatore della prosa latina diversamente dagli annalisti che, come Fabio Pittore e Cincio Alimento, scrivevano in greco. Catone, infatti, compone in latino un’opera storica, le Origines, tacendo il nome dei protagonisti delle varie imprese della storia romana per raccontarla come un fatto collettivo, non legato al prestigio personale di alcuno: in questo modo, egli non cede al culto della personalità di stampo ellenistico, che tendeva a presentare i grandi personaggi come veri e propri “miti”. A ciò si possono aggiungere altri elementi dell’azione anti-greca di Catone, non direttamente affrontati da Nepote. Quando viene eletto censore, nel 184, Roma è ancora agitata dallo scandalo dei Baccanali: è difficile pensare che Catone non abbia contribuito alla battaglia contro i riti dionisiaci, che si svolgevano in modo del tutto sfrenato ed eccessivo. Inoltre, nel 155, sempre Catone fa allontanare da Roma tre filosofi greci (l’accademico Carneade, il peripatetico Critolao e lo stoico Diogene di Babilonia), giunti in qualità di ambasciatori di Atene, in quanto ritenuti responsabili di un’azione corruttrice dei giovani, dovuta al diffondersi delle loro dottrine “razionalistiche”.

Nella biografia del personaggio, Nepote non mette in rilievo soltanto i motivi che lo portarono a opporsi al filellenismo del suo tempo, ma lo presenta anche come un vero campione di virtù, elevandolo a exemplum e facendone il prototipo dell’onesto cittadino romano. Emergono, infatti, diversi aspetti di questa personalità e dell’opera che inequivocabilmente lo pongono nell’alveo del più puro spirito italico tradizionale.

Come in tante altre sue biografie, anche all’inizio di quella di Catone, l’autore traccia un breve profilo del personaggio, presentandone il luogo di nascita, i primi passi nella vita pubblica e poi la smagliante carriera. Dopo una giovinezza passata nel podere paterno in Sabina, Catone, com’era consuetudine per i Romani che si avviavano a ricoprire cariche pubbliche, cominciò a frequentare il foro, dove riscosse fin da subito grande popolarità. Egli svolse poi il servizio militare nel corso della Seconda guerra punica, partecipando nel 207 a.C. alla sanguinosa battaglia del Metauro, in cui trovò la morte Asdrubale, fratello di Annibale. Intraprese, quindi, la carriera politica vera e propria, della quale bruciò le tappe: seguendo la successione delle magistrature stabilite dal cursus honorum, Catone fu questore nel 204 a.C., edile plebeo nel 199, pretore nel 198 e, infine, console nel 195.

Angus McBride, Catone il Censore.
Personaggio togato. Illustrazione di A. McBride.

M. Cato, ortus[1] municipio Tusculo[2], adulescentulus, priusquam honoribus operam daret[3], uersatus est[4] in Sabinis[5], quod[6] ibi heredium a patre relictum habebat. inde hortatu L. Valerii Flacci[7], quem in consulatu censuraque habuit collegam[8], ut[9] M. Perpenna[10] censorius narrare solitus est, Romam demigrauit in foroque esse coepit. primum stipendium meruit annorum decem septemque[11]. Q. Fabio M. Claudio consulibus tribunus militum in Sicilia fuit[12]. inde ut[13] rediit, castra secutus est C. Claudii Neronis, magnique opera eius existimata est in proelio apud Senam[14], quo cecidit Hasdrubal, frater Hannibalis. quaestor obtigit P. Africano consuli[15], cum quo non pro sortis necessitudine uixit: namque ab eo perpetua dissensit uita[16]. aedilis plebi factus est[17] cum C. Heluio[18]. praetor prouinciam obtinuit Sardiniam[19], ex qua quaestor superiore tempore ex Africa decedens Q. Ennium poetam deduxerat[20], quod non minoris aestimamus quam quemlibet amplissimum Sardiniensem triumphum[21].

Marco Catone, nato nella cittadina di Tusculum, durante la giovinezza, prima di darsi alla vita pubblica, visse tra i Sabini, perché vi aveva un piccolo fondo lasciatogli in eredità dal padre. Di là – come soleva narrare Marco Perpenna, l’ex censore – si trasferì a Roma e, su esortazione di Lucio Valerio Flacco, che gli fu poi collega nel consolato e nella censura, cominciò a frequentare il Foro. A diciassette anni guadagnò la prima paga da soldato [: iniziò il servizio militare]. Sotto il consolato di Quinto Fabio Verrucoso e di Marco Claudio Marcello fu tribuno militare in Sicilia. Ebbene, quando ne ritornò, militò agli ordini di Gaio Claudio Nerone, e la sua partecipazione alla battaglia di Sena in cui cadde il fratello di Annibale, Asdrubale, fu considerata di gran peso. La sorte lo designò come questore del console Publio Cornelio Scipione Africano, con il quale, però, non ebbe la dimestichezza che quel sorteggio avrebbe voluto; anzi, fu in contrasto con lui per tutta la vita. Fu creato edile della plebe insieme a Gaio Elvio; in qualità di pretore, ottenne la provincia di Sardinia, dalla quale, in precedenza, e cioè tornando dalla questura dell’Africa, aveva condotto a Roma il poeta Quinto Ennio: cosa che non considero meno di qualsivoglia magnifico trionfo sui Sardi.

Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli)
Generale romano. Statua, marmo, 75-50 a.C. ca. dal Santuario di Ercole (Tivoli).

Eletto console nel 195 a.C., all’età di trentanove anni, con l’amico e patrono Lucio Valerio Flacco, Catone ottiene per sorteggio di amministrare la provincia appena costituita (197 a.C.) dell’Hispania Citerior (s’intende la Spagna al di qua del fiume Ebro). Dopo un breve accenno all’ottenimento del trionfo proprio per questo incarico, Nepote non si sofferma sulla descrizione del periodo iberico, preferendo affrontare il delicato problema dell’opposizione di Scipione Africano all’operato del console. Nella vita nepotiana Catone, e con lui il Senato, esce vincitore da questo confronto con il potentissimo rivale quale incrollabile difensore della legalità: nonostante Africano goda di un immenso prestigio e aspiri al potere personale, non è in grado di convincere i senatori a rimuovere Catone dal suo mandato, perché la res publica a quel tempo, a differenza dell’epoca in cui Nepote scrive, è ancora retta iure (“dal diritto”). Si legge in queste parole un’amara nota polemica dell’autore nei confronti del secolo in cui vive. La parte finale del capitolo si riferisce alla censura, carica alla quale Catone viene eletto nel 184 insieme con Flacco: è questo il periodo della lotta serrata al lusso dilagante e alla corruzione dei costumi, una lotta che procurerà a Catone numerose inimicizie, ma della quale mai si stancherà, rimanendo sempre fermo nella sua posizione di campione del mos maiorum.

Consulatum gessit[22] cum L. Valerio Flacco, sorte prouinciam nactus[23] Hispaniam citeriorem, exque ea triumphum deportauit[24]. ibi cum diutius moraretur[25], P. Scipio Africanus consul iterum[26], cuius in priori consulatu quaestor fuerat[27], uoluit eum de prouincia depellere et ipse ei succedere, neque hoc per senatum[28] efficere potuit, cum quidem Scipio principatum in ciuitate obtineret[29], quod tum non potentia, sed iure res publica administrabatur[30]. qua ex re[31] iratus senatui ‹consulatu› peracto[32] priuatus[33] in urbe mansit. at Cato, censor cum eodem Flacco factus[34], seuere praefuit ei potestati[35]. nam et in complures nobiles animaduertit[36] et multas res nouas in edictum[37] addidit, qua re luxuria reprimeretur, quae iam tum incipiebat pullulare[38]. circiter annos octoginta[39], usque ad extremam aetatem ab adulescentia[40], rei publicae causa[41] suscipere inimicitias non destitit. a multis tentatus non modo nullum detrimentum existimationis fecit, sed, quoad uixit[42], uirtutum laude creuit[43].

Esercitò il consolato insieme a Lucio Valerio Flacco, gli toccò in sorte la provincia della Hispania citerior, e da questa riportò un trionfo. Siccome, però, vi si trattenne alquanto a lungo, Publio Scipione Africano, nel suo secondo consolato – nel primo Catone era stato suo questore –, volle farlo espellere dalla provincia per prenderne il posto, ma non riuscì ad ottenerlo dal Senato, benché fosse il cittadino più influente; allora, infatti, lo Stato si reggeva non tanto con il credito individuale quanto con l’esercizio del diritto. Ciò lo offese a tal punto che, scaduto il periodo del consolato, si ritirò a vita privata. Quanto a Catone, creato censore insieme allo stesso Flacco, esercitò il suo incarico con assoluto rigore: colpì con note di biasimo parecchi cittadini in vista e aggiunse alle leggi suntuarie molte nuove prescrizioni per porre freno al lusso che allora cominciava a dilagare. Per circa ottant’anni, e cioè dall’adolescenza fino agli ultimi giorni, Catone non rinunciò mai a tirarsi addosso odio e inimicizie per il bene dello Stato. Citato spesso in giudizio, non solo non subì alcuna diminuzione di stima, ma, anzi, finché visse, andò sempre crescendo nella fama della sua virtù.

***

Note:

[1] ortus: è participio perfetto di orior, -eris, ortus sum, -iri, verbo di coniugazione mista.

[2] Cittadina del Lazio, sui colli albani, corrispondente all’odierna Frascati. Il municipium (da munus capio “assumo i [miei] doveri”, s’intende di cittadino romano) era una città che, una volta conquistata, entrava a far parte della cittadinanza romana; i municipia potevano scegliere se adottare il diritto romano o mantenere le proprie leggi; i loro abitanti, tuttavia, avevano i diritti e i doveri della Romana civitas.

[3] priusquam honoribus operam daret: costruito con il congiuntivo imperfetto, introduce una proposizione temporale che indica un’azione posteriore a quella della reggente (versatus est), cioè l’anteriorità della reggente rispetto alla temporale. L’espressione operam dare seguita dal dativo corrisponde all’italiano “impegnarsi”, “dedicarsi a qualche cosa”.

[4] versatus est: perfetto da versor.

[5] I Sabini erano un’antica popolazione laziale di lingua osca imparentata con i Sanniti.

[6] quod: introduce una proposizione causale oggettiva con l’indicativo habebat.

[7] Lucio Valerio Flacco fu console con Catone nel 195 a.C. e con lui ottenne la censura nel 184 a.C., condividendone la lotta contro la corruzione dilagante per la salvaguardia del mos maiorum.

[8] collegam: predicativo dell’oggetto riferito a quem.

[9] ut: costruito qui con l’indicativo solitus est, introduce una proposizione incidentale di tipo comparativo.

[10] Il nome di questo personaggio tradisce la sua origine etrusca, come rivela il suffisso ­-enna. Morì nel 49 a.C.

[11] annorum decem septemque: sottinteso adulescens; era l’anno 217 e in Italia si stava allora combattendo la seconda guerra punica.

[12] Nel 214 a.C., anno in cui Claudio Marcello mise sotto assedio Siracusa, riuscendo a conquistarla soltanto due anni dopo. Durante il saccheggio della città rimase ucciso il famoso Archimede. Fu nel corso di questa campagna che Catone, in età straordinariamente giovane, fu nominato tribuno militare.

[13] ut: con l’indicativo assume qui valore temporale.

[14] L’odierna Senigallia. La battaglia, più nota come battaglia del Metauro, è del 207 a.C. I comandanti romani erano Claudio Nerone e il collega Marco Livio Salinatore.

[15] Nel 204. Quaestor è complemento predicativo del soggetto sottinteso Cato; obtigit è il perfetto di obtingo. I quaestores avevano il compito di amministrare le truppe e durante le campagne militari erano affiancati ai comandanti dell’esercito tramite sorteggio.

[16] namque… vita: ordina: namque dissensit ab eo perpetua vita. Si pone qui in rilievo con chiarezza il totale disaccordo tra Catone e Scipione che si manifestò soprattutto nel loro modo diametralmente opposto d’intendere il rapporto tra Roma e il mondo ellenico.

[17] factus est: perfetto di fio.

[18] Nel 199.

[19] Nel 198.

[20] In occasione di una tappa in Sardegna, durante il suo ritorno dall’Africa, nel 204 a.C. Catone aveva portato con sé a Roma il poeta Ennio, che militava nell’isola fra le truppe ausiliare. Uno dei massimi esponenti della letteratura latina arcaica, autore di numerose opere, fra cui tragedie, ma ricordato soprattutto per gli Annales, poema epico in esametri in cui veniva narrata la storia di Roma, Quinto Ennio (239-169) era nato a Rudiae, in Puglia e conosceva ben tre lingue: l’osco, il greco e il latino.

[21] quodtriumphum: quod è nesso relativo; minoris è genitivo di stima retto dal verbo aestimamus; quam introduce il secondo termine di paragone; quemlibet è accusativo dell’aggettivo e pronome indefinito quilibet, quaelibet, quodlibet, composto dall’aggettivo o pronome indefinito qui, quae, quod + il presente del verbo impersonale libet, libuit o libitum est, -ere (“piace”, “è gradito”).

[22] Consulatum gessit: unito al nome della carica il verbo gero assume il significato di “esercito”, “rivesto”. I consoli erano i supremi magistrati della Repubblica: comandavano l’esercito, convocavano e presiedevano i comitia.

[23] nactus: participio perfetto di nanciscor.

[24] L’espressione triumphum deportare ex aliquo significa “celebrare il trionfo su qualcuno”. I Romani avevano l’usanza di celebrare un pubblico trionfo quando risultavano vincitori di una guerra: il generale vittorioso (acclamato dai suoi soldati imperator) sfilava a cavallo, seguito dalle truppe, dai prigionieri e dal bottino, lungo un percorso che normalmente andava dal Campo Marzio al tempio di Giove Capitolino.

[25] ibi cum… moraretur: costrutto del cum narrativo con valore causale; diutius è il comparativo di maggioranza dell’avverbio diu.

[26] Nel 194.

[27] cuius… fuerat: proposizione relativa, il cui soggetto sottinteso è Catone.

[28] per senatum: complemento di mezzo costruito con per + accusativo.

[29] cum… obtineret: costrutto del cum narrativo con valore concessivo; il termine principatum, connesso al sostantivo princeps, indica la supremazia; il verbo obtineo non ha il significato di “ottengo”, ma di “mantengo”, “detengo”. Africano godeva di grande prestigio in Senato, appartenendo a una delle famiglie più in vista di Roma, ma, nonostante questo, non riuscì a far deporre Catone.

[30] quod… administrabatur: ordina: quod tum res publica administrabatur non potentia sed iure; proposizione causale con il verbo all’indicativo per esprimere oggettività; potentia e iure sono ablativi di causa efficiente. Emergono qui l’ammirazione e la nostalgia di Nepote per i tempi di Catone, quando lo Stato era amministrato secondo giustizia e nessun cittadino riusciva a impadronirsi del potere con la violenza.

[31] qua ex re: nesso del relativo.

[32] ‹consulatu› peracto: ablativo assoluto; peracto è participio perfetto di perago, composto da per + ago, in cui il prefisso per indica il compimento dell’azione.

[33] priuatus: usato in funzione predicativa.

[34] censor… factus: ordina: factus censor cum eodem Flacco (nel 184).

[35] severe… potestati: praefuit è perfetto di praesum, che, come ogni composto di sum, è accompagnato dal dativo; potestas ha il significato di “carica”. L’avverbio severe fissa l’attenzione del lettore sull’intransigenza di Catone nell’amministrare la censura, tanto da meritagli l’appellativo di “Censore” per antonomasia.

[36] animadvertit: il verbo animadverto, seguito da in + accusativo, significa “prendo provvedimenti contro qualcuno”.

[37] edictum: si fa riferimento qui alle leges sumptuariae che limitavano il lusso, in particolare alla lex Oppia.

[38] pullulare: il verbo presenta la medesima radice di pullus, “germoglio”, ed esprime l’idea di “metter germogli”, del “balzar fuori”. Detto della luxuria, rappresenta una metafora.

[39] circiter annos octoginta: complemento di tempo continuato in accusativo semplice.

[40] adulescentia: corrisponde all’età della giovinezza, compresa all’incirca tra i 15 e i 30 anni.

[41] causa: preceduto dal genitivo, esprime un complemento di fine.

[42] quoad vixit: proposizione temporale con l’indicativo, che esprime oggettività.

[43] Il capitolo si conclude con l’affermazione dell’integrità morale di Catone, evidente nell’uso della parola virtus.

Marco Minucio e l’imperium aequatum

di F. Cerato, su Classicult.it, 24 gennaio 2019 (ribloggato).

 

L’articolo che segue mostra come dallo studio di una fonte epigrafica si possa confermare o negare informazioni che la tradizione storiografica pone come controverse.

L’iscrizione in questione (96 × 70 × 69 cm) proviene da un grande altare di pietra dei Colli Albani, sicuramente peperino, ritrovato nel 1862 a Roma, in via Tiburtina, presso la Basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, e oggi conservato nel Museo del Palazzo dei Conservatori (Musei Capitolini) di Roma[1].

 

Hercolei / sacrom / M(arcus) Minuci(us) C(ai) f(ilius) / dictator vov(it).

 

«Marco Minucio, figlio di Gaio, dittatore, votò [questo] sacro [donario] a Ercole».

Ercole Marco Minucio
Dedica votiva a Ercole da parte di M. Minucio (CIL VI, 284 (p. 3004, 3756) = CIL I, 607 (p. 918) = ILS 11 = ILLRP 118 (p. 319) = AE 1991, 211a). Base di donario, pietra peperino, ultimo quarto del III sec. a.C. Roma, Musei Capitolini. Foto di Marie-Lan Nguyen (User:Jastrow) 2009, CC BY 2.5

 

Come lascia intendere il titulus, l’altare doveva costituire un donario votato ad Ercole, divinità tutelare a cui molti generali romani, tra il III e il II secolo a.C., si rivolgevano per la buona riuscita delle proprie imprese all’estero.

Il nome della divinità (Hercoles) è posto enfaticamente all’inizio dell’iscrizione, in alto. Alcuni tratti notevoli del ductus del documento sono la r, che presenta l’occhiello non chiuso, e la l, che mostra l’asta orizzontale con un grado inferiore a 90° rispetto a quella verticale; quanto alla forma della m, essa risente dell’influenza etrusca.

L’uscita in –om, anziché in –um, dell’accusativo singolare dei nomi della seconda declinazione e degli aggettivi di prima classe, equivale a quella dell’accusativo greco in -ον e segnala che, nella seconda metà del III secolo a.C., il fenomeno fonetico e grafico dell’oscuramento non si era ancora verificato.

Alla r.3 compare la sequenza onomastica del dedicatario: M(arcus) Minuci(us) C(ai) f(ilius).

Nel commento alla scheda dell’ILLRP, Degrassi ha osservato che «in latere sinistro extat nota l i xxvi»[2]. Si tratterebbe di una marca: nei giacimenti di pietra (lapicedinae), infatti, era consuetudine presso i Romani contrassegnare il materiale estratto con un numero di serie relativo alla squadra di operai (brachium), preposta allo scavo, e al settore del fronte di taglio al quale gli operai erano stati assegnati. Il primo ad interessarsi a questo genere di marcature fu Bruzza: questi, in un contributo del 1870, affermò che Ritschl aveva inteso la sigla in esame come l(egiones) I (et) XXVI, ipotizzando che il reperto provenisse proprio da una cava assegnata a due reparti militari – cosa probabile! – e che fosse stato estratto dai soldati stessi dopo il congedo (ma ciò non è attestato!)[3]. Theodor Mommsen, invece, ritenne trattarsi della stima effettiva del donativo votato a Ercole dai soldati per tramite del dittatore, e, pertanto, sciolse l’abbreviazione in l(oricae) i(nlatae) XXVI. Più verosimile appare l’ipotesi avanzata da Henzen, il quale, intervenuto sul testo, interpretò la sigla come l(oco) i‹n(numero)› XXVI: la marca, a suo dire, indicava il numero di comparto da cui la lastra era stata estratta[4]. Più recente è stata la congettura dell’archeologo italiano La Regina, secondo il quale la sigla andrebbe interpretata come (in) l(ibro) I (loco) XXVI, cioè come numero del catalogo di opere d’arte esposte[5].

Quanto al nome gentilizio del dedicante, Kaimio ha mostrato che l’abbreviazione in Minuci del nominativo si spiega grazie al concorso combinato di ragioni di spazio, di ordine fonologico e di influssi etruschi[6].

Da un confronto con le fonti storiografiche, il personaggio in questione sarebbe Marco Minucio (Rufo), uomo politico romano vissuto verso la fine del III secolo a.C., che, malgrado le origini plebee, nel 221 divenne console e nel 216 morì combattendo a Canne[7].

Un aspetto poco chiaro della carriera politica di Marco Minucio è costituito dal titolo di dictator con cui egli si fregia nel titulus preso in esame. A questo proposito, Polibio è molto esplicito: egli informa che, nel 217, siccome i senatori accusavano e biasimavano Q. Fabio Massimo per la sua eccessiva prudenza nel gestire l’invasione annibalica, «avvenne allora quello che mai era accaduto: a Marco Minucio assegnarono i pieni poteri (αὐτοκράτορα γὰρ κἀκεῖνον κατέστησαν), convinti che avrebbe rapidamente condotto le cose a buon fine; in due, dunque, erano diventati i dittatori per le stesse operazioni, cosa che presso i Romani non era mai accaduta prima» (III 103, 4)[8].

Vale la pena di soffermarsi sul fatto che la testimonianza polibiana costituisca il tipico caso in cui un autore greco del II secolo a.C. trovasse difficoltà nel tradurre dal latino il nome di un’istituzione o di una carica pubblica romana. D’altronde, il dictator latino non aveva corrispondenza nel mondo greco, ma il termine che Polibio adottò, comunque, implicava l’idea di un individuo dotato di un potere esercitato per sé e da sé, senza essere eletto né nominato da un’assemblea, né tantomeno senza la consultazione di altri. È vero anche che la notizia riportata dallo storico megalopolita segnala un’alterazione: la dittatura romana, infatti, non era una magistratura collegiale, ma poteva essere affiancata, nel suo esercizio, da una figura subalterna, il magister equitum; colui che era chiamato ad assumere il mandato non era certamente eletto da un’assemblea popolare, ma veniva investito (dictus) dal console in carica. Si trattava, infine, di una magistratura straordinaria, necessaria solamente in casi di eccezionale gravita, quali la presenza sul territorio di un nemico, l’urgenza di sedare rivolte o rivoluzioni, e altre calamità politico-istituzionali che impedissero la regolare gestione della cosa pubblica. Il mandato durava normalmente sei mesi, tempo limite entro il quale il dictator doveva portare a termine tutti i provvedimenti e le soluzioni per i quali era stato indicato; in quel lasso di tempo, il prescelto deteneva il summum imperium e concentrava nelle proprie mani le prerogative di entrambi i consoli.

Il caso di Marco Minucio, stando dunque alla testimonianza polibiana, fu davvero eccezionale, un fatto senza precedenti: la gravità della situazione (Annibale era alle porte!) era tale da indurre ad alterare un’istituzione tanto rigida come la dictatura. Gli altri autori a disposizione per ricostruire la vicenda, tuttavia, non sono così espliciti, ma anzi sembrano, in un certo senso, contraddire quanto riportato da Polibio.

Ad esempio, Livio – o sarebbe meglio dire la sua fonte annalistica per il periodo, Fabio Pittore, il quale mostra di nutrire poca simpatia nei confronti di Marco Minucio Rufo –, riferisce che, in piena guerra annibalica, il comandante romano, mentre si trovava ad operare nel Sannio in qualità di magister equitum di Fabio Massimo, decise di assalire una parte dell’esercito punico intento a foraggiare. Ad un certo punto, il racconto liviano – o meglio la sua fonte annalistica – riferisce che, a seguito del confronto armato nei pressi di Gereonium, si contarono sex milia hostium caesa, quinque admodum Romanorum: per Minucio si trattò di una vittoria ottenuta al prezzo di numerose perdite, a ben guardare. Eppure – continua la fonte –, famam egregiae uictoriae cum uanioribus litteris magistri equitum Romam perlatam («il magister equitum in un suo dispaccio mendace fece pervenire a Roma la notizia millantatrice di una spettacolare vittoria»)[9]. Per mettere a tacere discussioni, critiche e voci dubbie sulla vicenda, Livio riproduce il discorso pubblico tenuto da uno dei tribuni della plebe, certo Marco Metilio, il quale, siccome Gaio Flaminio era caduto in combattimento al lago Trasimeno, l’altro console, Gneo Servilio Gemino era stato incaricato di fiaccare la flotta punica nel Tirreno e i due pretori erano occupati a presidiare Sicilia e Sardegna, avanzò la proposta de aequando magistri equitum et dictatoris iure: il conferimento di un aequatum imperium avrebbe comportato la piena parità di poteri fra Fabio Massimo e Marco Minucio[10]. Con buona pace della fonte liviana, che chiaramente parteggia per Massimo, nella figura di Metilio si potrebbe ravvisare la posizione condivisa fra quanti, all’interno del Senato, non gradissero la politica prudente del Cunctator. La testimonianza annalistica, alla fine, riversa tutto il proprio astio nei confronti di Minucio, stigmatizzando la sua arroganza (Livio connota l’atteggiamento del personaggio con le seguenti espressioni: grauitas animi, cum inuicto…animo, utique immodice immodesteque…gloriari), non appena quello fu raggiunto dalla lettera del Senato che lo informava dell’equiparazione dei comandi[11]. Ad ogni modo, considerando la versione liviana (o fabiana) a confronto con quella polibiana, l’autore patavino non nomina mai Minucio in qualità di dictator – anzi sembra quasi si astenga coscientemente dal farlo.

Una testimonianza simile, benché molto più audace, appare in Appiano, il quale riporta che il Senato, durante la guerra annibalica, diede disposizioni affinché il magister equitum, Minucio, detenesse un’autorità equiparata in tutto e per tutto a quella del dictator (ἴσον ἰσχύειν αὐτῷ τὸν ἵππαρχον)[12].

Contrariamente alla superiorità numerica delle fonti antiche che formano la tradizione secondo cui Minucio non sarebbe stato incaricato formalmente della dictatura (Nepote, Valerio Massimo, Cassio Dione, Zonara, e l’anonimo de viris illustribus), Dorey si è detto convinto che le prove materiali sembrano, tuttavia, confermare la testimonianza di Polibio: la dedica a Ercole, a suo dire, costituirebbe «a conclusive proof that Minucius was formally and officially appointed Dictator by the plebiscite of Metilius»[13]. Lo studioso, addirittura, ha ipotizzato che il documento in questione facesse riferimento a una possibile dittatura anteriore al 217[14].

La questione, però, si complica ulteriormente, confrontando la testimonianza di Plutarco (Vita Marcelli) e quella di Valerio Massimo, a proposito della dittatura del 220 a.C. Plutarco, infatti, racconta che il dittatore, Minucio, al momento di nominare il proprio magister equitum, Gaio Flaminio, si udì un topolino squittire: la folla dei cittadini interpretò tale coincidenza come un presagio ostile e costrinse i magistrati ad abbandonare le proprie cariche, perché fossero sostituiti da altri. L’episodio è esattamente ripreso da Valerio Massimo, ma con l’unica grande differenza che, al posto di Minucio, compare nientemeno che il Temporeggiatore[15].

L’indicazione offerta da Valerio Massimo, in effetti, trova conferma in Livio e nel cosiddetto Elogium Fabii, testimonianze che provano che Quinto Fabio Massimo sia stato dittatore prima del 217 a.C.[16]

Per Dorey, comunque, Marco Minucio fu nominato dictator comitiorum habendorum causa, per venire a capo del conflitto d’interesse fra i consoli per regolare la convocazione dei comitia, in vista delle elezioni dei magistrati per l’anno successivo. Jahn, al contrario, si è detto convinto che Minucio fosse stato realmente dittatore sia nel 220 sia nel 217 a.C.[17]

Càssola e Meyer sembrano avere colto meglio nel segno, inserendo tutta la vicenda di Minucio nel più ampio rapporto conflittuale fra il Senato e Fabio Massimo[18].

Quanto all’Elogium Fabii, esso testimonia che Q. Fabio Massimo fu davvero dittatore nell’anno 220 a.C. e si scelse C. Flaminio in qualità di subalterno. Tre anni dopo, però, allorché si presentò una nuova situazione d’emergenza, il Senato, per evitare che lo stesso Fabio potesse scegliersi come vice un altro fra gli outsider politici legati al proprio clan gentilizio, approvò l’aberrante rogatio elettiva del magister equitum. Tra l’altro, siccome l’unico console in vita, Gneo Servilio, conduceva le operazioni belliche sul mare e a causa di ciò non poteva essere in patria in quel momento per nominare un dictator, a Fabio Massimo fu conferito un imperium pro dictatore.

 

Elogium Fabii Quinto Fabio Massimo
Elogium Fabii (CIL XI 1828 = CIL I, p. 193 = ILS 56 = Inscr. It. XIII 3, 80 = AE 2003, +267 = AE 2011, +361). Tabula onoraria, marmo, 2 a.C. – 14 d.C., da Arezzo. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Foto di SailkoCC BY 2.5

 

La statua di Quinto Fabio Massimo nei giardini del Palazzo di Schönbrunn a Vienna. Monumento sottoposto a tutela col numero 114069 in Austria. Foto di Herzi PinkiCC BY-SA 4.0

 

Plutarco (Vita Fabii) riprende sostanzialmente la versione degli eventi fornita da Livio, riportando che il tribuno Metilio avanzò la proposta di equiparare i poteri di Minucio e di Fabio, perché in tal modo essi potessero condividere con pari diritto e pari dignità la conduzione della guerra annibalica[19]. Una conferma della promulgazione della rogatio deriva dallo stesso Elogium Fabii: alle rr. 9-12, infatti, si dice che magistro/ equitum Minucio quoius popu-/lus imperium cum dictatoris / imperio aequauerat.

Meyer, però, non nascondeva la propria perplessità circa la bontà della dedica a Ercole, ma si chiedeva se, in qualche modo, Minucio avesse voluto autorappresentarsi in maniera del tutto differente rispetto a quanto le fonti letterarie tramandano. Tuttavia, la posizione dello studioso appare infondata, perché è vero che, tendenzialmente, le fonti epigrafiche non contrastano con la fattualità del contesto storico che le ha prodotte. Al limite, forse, si potrebbe pensare che, a quei tempi, chiunque leggesse quella dedica sorridesse maliziosamente di fronte all’arrogante pretesa di Minucio nel fregiarsi di un titolo che non doveva affatto appartenergli[20].

Come, infine, ha puntualizzato Degrassi nella nota di commento all’iscrizione, Marco Minucio fu eletto collega di Fabio Massimo secondo le indicazioni della lex Metilia del 217 a.C. Quanto ai Fasti Capitolini, invece, non risulta alcuna menzione di una simile co-dittatura[21].

 

***

 

Note:

[1] Si tratta di una roccia magmatica (trachite o tefrite) caratterizzata da una colorazione grigia e macchiettata da piccoli granuli di biotite (mica), simili a grani di pepe, dai quali deriva il nome. L’indicazione del litotipo permettono di ricostruire la provenienza del materiale, il suo ruolo e la sua importanza a livello commerciale, la sua area di diffusione e la sua presenza sul mercato nell’antichità.

[2] Degrassi A., Inscriptiones Latinae liberae rei publicae (ILLRP), I, Firenze 19652, 90.

[3] Bruzza L., Iscrizioni dei marmi grezzi, Annali dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica 42, 1870, 114 (= Ritschl cit., IX).

[4] Cfr. ibid.

[5] La Regina A., Tabulae signorum urbis Romae, in Di Mino R.M. (ed.), Rotunda Diocletiani. Sculture decorative delle terme nel Museo Nazionale Romano, Roma 1991, 5, n.1: secondo lo studioso, il reperto, come altri, dovette godere almeno in età imperiale di una qualche forma di musealizzazione. L’ipotesi di per sé non è peregrina, dato il fatto che nel corso del II sec. d.C. in tutto il mondo romano si diffusero le scuole di retorica ispirate alla corrente della Seconda Sofistica, i cui metodi d’insegnamento e di apprendimento consistevano proprio nel cimentarsi in descrizioni di opere d’arte.

[6] Kaimio J., The nominative singular in -i of latin gentilicia, Arctos 6 (1969), 23-42.

[7] Münzer F., s.v. Minucius52, RE XV, 2 (1932), 1957-1962.

[8] Pol. III 103, 4.

[9] Liv. XXII 24, 1114, in part. 14.

[10] Liv. XXII 25, 10.

[11] Liv. XXII 26, 56; 27, 12.

[12] App. Hann. III 12.

[13] Dorey T.A., The Dictatorship of Minucius, JRS 45 (1955), 92.

[14] Ibid.

[15] Cfr. Plut., Marcel. 5, 4, con Val. Max., I 1, 5. Dorey T.A., ibid., che riferisce che Scullard, convenendo con Münzer, ha sostenuto che il Μινουκίου di Plutarco si trattava di un errore della tradizione manoscritta e che si doveva emendare in Μαξίμου.

[16] Cfr. Liv. XXII 9, 7, e CIL XI 1828 = CIL I, p. 193 = ILS 56 = Inscr. It. XIII 3, 80 = AE 2003, +267 = AE 2011, +361.

[17] Jahn J., Interregnum und Wahldiktatur, Kallmuenz 1970, 113-115.

[18] Si vd. Càssola F., I gruppi politici romani nel III secolo a.C., Trieste 1962, 261-268, e Meyer E., Römische Annalistik im Lichte der Urkunden, ANRW I.2 (1972), 975-978.

[19] Plut., Fab. 10, 1.

[20] Per Meyer E., Römische Annalistik…, cit., tutte le fonti concordano nel descrivere Marco Minucio come un uomo particolarmente spavaldo e arrogante.

[21] L’assunto di Degrassi ha ispirato Meyer a ritenere che Minucio non fosse mai stato riconosciuto ufficialmente come dictator.

Manio Valerio Massimo, dittatore e augure

di F. VALLOCCHIA, Manio Valerio Massimo, dittatore e augure, in Index, 35, 2007, 27-39.

Non placeo concordiae auctor. Optabitis, mediusfidius, propediem, ut mei similes Romana plebis patronos habeat. Quod ad me attinet, neque frustrabor ultra ciues meos neque ipse frustra dictator ero. Discordiae intestinae, bellum externum fecere ut hoc magistratu egeret res publica: pax foris parta est, domi impeditur; priuatus potius quam dictator seditioni interero (Livio, Ab Urbe condita II 31, 9-10).

Manio Valerio, dittatore nell’anno 494 a.C., dopo aver constatato di non essere riuscito ad imporsi quale concordiae auctor[1], in quanto il senato non aveva accettato le sue proposte per la liberazione dei plebei dai debiti, abdica dalla dittatura, «facendo al senato profezie» (Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane VI 43, 2)[2] sulla secessione della plebe.
Secondo la narrazione di Livio, Manio Valerio sembra così uscire dalla storia della secessione che, proprio in conseguenza della sua abdicazione dalla dittatura, la plebe attuerà in quello stesso anno. La storiografia contemporanea, fatte poche eccezioni (seppure di grande rilievo, come si vedrà), sembra voler trascurare l’importante ruolo che Manio Valerio ebbe anche per tutta la durata della secessione; ruolo che possiamo ricavare da un buon numero di fonti: un elogium epigrafico ed alcuni testi di Cicerone, di Dionigi di Alicarnasso, di Valerio Massimo e di Plutarco. Da queste si ricavano anche altre informazioni che mettono in luce la grande importanza di Manio Valerio nella storia di Roma. Per primo, egli ricoprì contemporaneamente la dittatura e l’augurato, come solo Quinto Fabio Massimo, Lucio Cornelio Silla e Gaio Giulio Cesare dopo di lui faranno[3]; e per primo egli ricevette l’onore della speciale denominazione di Maximus (Cicerone, Brutus 54; Plutarco, Vita di Pompeo, XIII 11), della quale solo molto tempo dopo sarà insignito anche Quinto Fabio.

Nicolas Poussin, Coriolano riceve le suppliche della sua famiglia. Olio su tela, 1652-53. Les Andelys, Musée Nicolas-Poussin.

La prima secessione della plebe nelle narrazioni di Livio e di Dionigi di Alicarnasso

Livio e Dionigi di Alicarnasso mostrano una particolare attenzione per gli avvenimenti relativi alla secessione plebea del 494 a.C.; a tale avvenimenti sono dedicati ben 46 titoli (dal 45 al 90) del libro sesto dell’opera dello storico greco contro una parte del titolo 31, l’intero titolo 32 ed una parte del titolo 33 del libro secondo dell’opera dello storico latino. Questa palese sperequazione si riflette soprattutto sulla quantità di notizie fornite dalle due narrazioni, le quali, quanto al contenuto, non fanno però emergere differenze tali per cui le si possa ritenere in contrapposizione tra loro.
Quanto alle possibili ragioni delle differenze tra le narrazioni di Livio e di Dionigi, Theodor Mommsen scrisse brevemente: «contra Livius solo opinor brevitatis studio ductus in his rebus narrandis et Valerii nomen plane suppressit et de fenore levato verbum nullum fecit»[4].
In effetti, ponendo a confronto il testo di Livio con quello di Dionigi sugli eventi collegati all’inizio ed alla fine della detta secessione, si ricava che: a) sia Livio (II 31, 11) sia Dionigi (VI 45, 1) evidenziano il nesso tra l’abdicazione di Manio Valerio dalla dittatura e l’inizio della secessione plebea; b) sia Livio (II 32, 12) sia Dionigi (VI 83, 2) evidenziano il nesso tra l’apologo di Menenio Agrippa e la fine della secessione; c) Livio (II 32, 8) mette in luce solo il ruolo svolto da Menenio Agrippa sul Monte Sacro; ma non lo fa in modo tale da escludere quanto rileva nel racconto di Dionigi (VI 69, 3), nel quale è detto che sul Monte Sacro erano stati inviati dieci présbeis[5], tra i quali Menenio Agrippa e Manio Valerio; d) Livio, pur avendo chiaramente indicato nel peso dei debiti la causa principale della secessione, evidenzia, tra le condizioni poste dai plebei per la fine della stessa, la sola istituzione del tribunato della plebe (Ab Urbe condita II 33, 1); nella sua narrazione, però, non vi sono elementi che possano escludere anche l’accoglimento di istanze relative ai debiti, come esposto da Dionigi (VI 88, 3).
Pertanto, come evidenziato da Mommsen, non vi è contrapposizione tra i testi dei due storici; le poche differenze sono dovute ad una minor quantità di notizie riferite dallo storico latino. Differenze più importanti, invece, vi sono tra Livio ed altre fonti.

B. Barloccini, La secessio plebis al Mons Sacer (494-93 a.C.). Incisione, 1849.

Manio Valerio in CIL VI 40920 e XI 1826, Cicerone, Valerio Massimo e Plutarco

In un’iscrizione marmorea di età augustea[6], rinvenuta ad Arezzo nel 1688, è riportato l’elogium di Manio Valerio:

M/ · Valerius
Volusi · f
Maximus
dictator · augur primus · quam
ullum · magistratum · gereret
dictator · dictus · est · triumphavit
de Sabinis · et · Medullinis · plebem
de sacro · monte · deduxit · gratiam
cum · patribus · reconciliavit · fae
nore · gravi · populum · senatus · hoc
eius · rei · auctore · liberavit · sellae
curulis · locus · ipsi · posterisque
ad Murciae · spectandi · caussa · datus
est · princeps · in senatum · semel
lectus · est.

Elogio di M’. Valerio Voluso Massimo, dittatore. Tabula, marmo, 19 a.C. c. (CIL XI, 1826 = Inscr.It. XIII 3, 78 = ILS 50). Arezzo, Museo Archeologico Nazionale ‘G.C. Mecenate’ [link].
Theodor Mommsen (in CIL I, 1, 186 ss.) affermava che questa iscrizione era stata posta da Augusto all’interno del Foro fatto da lui costruire a Roma e che una copia di essa era stata collocata anche ad Arezzo, unitamente ad altri sei elogia tratti da iscrizioni presenti in quel Foro. Un parziale riscontro di queste affermazioni è costituito dal rinvenimento, nel 1934 a Roma alle pendici del Campidoglio, dalla parte dell’Altare della Patria, di una epigrafe mutila riproducente parte della iscrizione già rinvenuta ad Arezzo; G. Alföldy e L. Chioffi (in CIL VI, 8, 4839 s.) affermano che questa iscrizione sarebbe stata collocata non nel Foro di Augusto, ma nel Foro Romano per ordine di Augusto stesso (per il testo dell’epigrafe rinvenuta a Roma, vedasi CIL VI, 8, 4920)[7].
In questo elogium è posto in risalto il ruolo di conciliatore avuto da Manio Valerio in occasione della prima secessione plebea; nelle linee 8 e 9 si legge: «gratiam / cum · patribus · reconciliavit». Questo ruolo di Manio Valerio è evidenziato anche in altre fonti, pur con vari intendimenti politici.

a)        In un passo di un’opera retorica di Cicerone, il Brutus, è posta in risalto l’attività fondamentale di Manio Valerio nella fine della secessione plebea; nel sottolinearne la capacità oratoria, l’Arpinate afferma che Manio Valerio «aveva sedato le discordie»:

Videmus item paucis annis post reges exactos, cum plebes prope ripam Anionis ad tertium miliarium consedisset eumque montem, qui Sacer appellatus est, occupavisset, M. Valerium dictatorem dicendo sedavisse discordias, eique ob eam rem honores amplissumos habitos et eum primum ob eam ipsam causam Maxumum esse appellatum (Cicerone, Brutus 54).

Nel passo, Cicerone sembra supporre esservi contemporaneità tra la carica di dittatore di Manio Valerio e la sua salita al Monte Sacro; invece, tanto Livio quanto Dionigi riferiscono dell’abdicazione di Manio Valerio dalla dittatura prima della secessione. Pertanto, o Cicerone è incorso in un errore, oppure egli ha voluto semplicemente richiamare l’attenzione sul fatto che Manio Valerio era stato dittatore. Del resto, la citazione di Manio Valerio non ha finalità di ricostruzione storica, ma esclusivamente di esaltazione della retorica. Vero è, comunque, che nei testi in cui Cicerone tratta di attività compiute da dittatori, è evidente che queste attività sono svolte in una stretta contestualità con la carica rivestita[8].

b)       Valerio Massimo, sottolineando l’eloquenza di Manio Valerio come già aveva fatto Cicerone, ne mette in luce l’attività di persuasione verso la plebe; Manio Valerio fu colui che “sottomise il popolo al Senato”:

Regibus exactis plebs dissidens a patribus iuxta ripam fluminis Anienis in colle, qui sacer appellatur, armata consedit, eratque non solum deformis, sed etiam miserrimus rei publicae status, a capite eius cetera parte corporis pestifera seditione diuisa. ac ni Valeri subuenisset eloquentia, spes tanti imperii in ipso paene ortu suo corruisset: is namque populum noua et insolita libertate temere gaudentem oratione ad meliora et saniora consilia reuocatum senatui subiecit, id est urbem urbi iunxit. uerbis ergo facundis ira, consternatio, arma cesserunt (Factorum et dictorum memorabilium libri IX, VIII 9,1).

Come nell’elogium epigrafico, così nel passo di Valerio Massimo, successivo di qualche anno, si passa da uno specifico riferimento al rapporto plebs-patres ad un generale riferimento al populus. Peraltro, Valerio Massimo (IV 4,2) riporta anche la tradizione di Menenio Agrippa, riferendo altresì alcuni particolari già oggetto della narrazione di Livio; egli infatti, dopo aver affermato che il senato e la plebe avrebbero scelto Menenio Agrippa come conciliatore, narra che il suo funerale sarebbe stato garantito con il denaro raccolto «a populo».
c)       Plutarco evidenzia l’opera di convincimento posta in essere da Manio Valerio; questi fu colui che «aveva riconciliato il senato e la plebe»:

Δύο γοῦν Μαξίμους, ὅπερ ἐστὶ μεγίστους, ἀνηγόρευσεν ὁ δῆμος· Οὐαλλέριον μὲν ἐπὶ τῷ διαλλάξαι στασιάζουσαν αὐτῷ τὴν σύγκλητον (Plutarco, Vita di Pompeo, XIII 11).

Dunque: mentre in Livio è narrata la mediazione del solo Menenio Agrippa, nell’elogium epigrafico, in Cicerone, in Valerio Massimo (che ricorda, però, anche Menenio Agrippa) ed in Plutarco è indicata la sola attività di convincimento posta in essere da Manio Valerio; in una posizione intermedia tra questi due gruppi di fonti si pone la narrazione di Dionigi di Alicarnasso, nella quale trovano spazio tanto Menenio Agrippa quanto Manio Valerio, pur se al primo è riservata un’attenzione maggiore. Tutto ciò conduce a pensare che esistano due tradizioni, nelle quali il merito della fine della secessione medesima è attribuito rispettivamente a Menenio Agrippa ovvero a Manio Valerio.

Guerriero con elmo calcidese. Testa fittile, terracotta policroma, V sec. a.C. da Albano.

Valerio Anziate e l’odierna storiografia. Mommsen aveva ragione

Le posizioni assunte dagli storici contemporanei circa queste tradizioni, sono sostanzialmente quattro. a) La grande maggioranza di essi raccoglie solo la tradizione di Menenio Agrippa; b) pochissimi riportano la sola tradizione di Manio Valerio[9]; c) alcuni riferiscono ambedue le tradizioni senza prendere posizione, oppure, più spesso, criticano la tradizione di Manio Valerio[10]; d) altri hanno una visione ipercritica di tutta la tradizione delle secessioni plebee[11].
Le accuse di non veridicità rivolte alla tradizione di Manio Valerio derivano da una più generale critica alle fonti annalistiche romane. Hirschfeld aveva sostenuto che il testo dell’elogium epigrafico di Manio Valerio non sarebbe dipeso da una antica tradizione annalistica, ma dagli Annali di Valerio Anziate[12]. Successivamente, altri studiosi affermarono, in riferimento alla prima secessione plebea, che Valerio Anziate avrebbe apportato ai dati più risalenti le «falsificazioni, di cui abbonda la pseudo-storia romana, a favore dei Valerii»[13]. Le «falsificazioni» dell’Anziate avrebbero influenzato fortemente, oltre il citato elogium, anche le opere di Dionigi, di Valerio Massimo (per di più anch’egli membro della gens Valeria) e di Plutarco[14]. Il ruolo di Manio Valerio sarebbe stato dunque “inventato” da Valerio Anziate che, così, avrebbe cercato di contrapporre questa sua ricostruzione alla tradizione antica[15], la quale attribuiva a Menenio Agrippa il merito della fine della prima secessione.
Contro le critiche alla veridicità della tradizione di Manio Valerio e, in particolare, contro le accuse di scarsa attendibilità mosse all’elogium epigrafico di questi, Mommsen affermava che il testo dell’elogium «pendere ab annalibus antiquis et optimis»[16]. Ritengo che Mommsen avesse ragione. Quattro osservazioni conducono a questa conclusione.

  • Innanzitutto, non abbiamo alcuna notizia certa sulla datazione degli Annali di Valerio Anziate; inoltre, è noto che di quest’opera sono pervenuti solo alcuni frammenti[17].
  • Non è possibile appurare se fossero già stati pubblicati gli Annali di Valerio Anziate nel 46 a.C., quando Cicerone scriveva il Brutus, opera nella quale appare il richiamo al ruolo di Manio Valerio nella conclusione della secessione plebea del 494 a.C.; inoltre, l’Arpinate in nessuno scritto menziona l’annalista Anziate[18]. È dunque molto probabile che il riferimento fatto da Cicerone a Manio Valerio nel Brutus sia dipeso da una fonte diversa dagli Annali di Valerio Anziate.
  • Non è possibile provare che il testo dell’elogium di Manio Valerio sia dipeso dagli Annali di Valerio Anziate. È quindi possibile che l’elogium sia stato ispirato da altra fonte, forse la stessa di cui si era avvalso Cicerone qualche decennio prima.
  • È possibile che lo stesso Valerio Anziate abbia tratto le informazioni riguardanti Manio Valerio da fonti più antiche[19]. Se così fosse, non avrebbe senso sostenere che il ruolo di Manio Valerio nella prima secessione plebea sia dipeso da una “invenzione” dell’Anziate; al più si potrebbe sostenere che questi abbia dato maggiore risonanza alle narrazioni che ponevano in risalto la figura di Manio Valerio[20].

È pertanto assai probabile che la tradizione di Manio Valerio sia stata fondata su narrazioni molto antiche, quanto quelle che riferivano dell’apologo di Menenio Agrippa. Gli annalisti successivi, ciascuno secondo le proprie idee ed i propri metodi, hanno basato le loro ricostruzioni su un nucleo originario che conteneva i tratti fondamentali di quelle vicende: a) il dittatore Manio Valerio e la questione dei nexi; b) la secessione della plebe; c) l’apologo di Menenio Agrippa; d) la nascita del tribunato della plebe; e) la discesa dei plebei dal Monte Sacro. Del resto, Cicerone, Dionigi e Livio attingevano le loro notizie da numerosi annalisti, dai più antichi ai più recenti; tutti e tre, per esempio, conoscevano gli scritti di Fabio Pittore, il più antico.

La questione dei nexi

Livio e Dionigi sono concordi nel riconoscere l’occasione della prima secessione plebea nella abdicazione di Manio Valerio dalla dittatura:

Namque Valerius post Vetusi consulis reditum omnium actionum in senatu primam habuit pro uictore populo, rettulitque quid de nexis fieri placeret. Quae cum reiecta relatio esset, «non placeo» inquit, «concordiae auctor. (…) priuatus potius quam dictator seditioni interero». Ita curia egressus dictatura se abdicauit. Apparuit causa plebi, suam uicem indignantem magistratu abisse; itaque uelut persoluta fide, quoniam per eum non stetisset quin praestaretur, decedentem domum cum fauore ac laudibus prosecuti sunt (Ab Urbe condita II 31, 8-11);

Εὐθὺς δὲ μετὰ τοῦτο τάδε ἐγίνετο· οἱ μὲν πένητες οὐκέτι κρύφα οὐδὲ νύκτωρ ὡς πρότερον, ἀλλ᾽ ἀναφανδὸν ἤδη συνιόντες ἐβούλευον ἀπόστασιν ἐκ τῶν πατρικίων (Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane VI 45,1).

Il dittatore Manio Valerio si dimette dalla carica perché il Senato rifiuta di approvare le sue proposte a favore dei nexi; il dittatore non riesce ad imporsi quale concordiae auctor. In conseguenza dell’abdicazione, la plebe attua la secessione.

È di tutta evidenza che sia per Livio sia per Dionigi la questione dei nexi ha un peso fondamentale sulle motivazioni che spingono la plebe alla secessione[21]; e non credo che il limitato sviluppo dell’economia monetaria nei primi decenni del V secolo a.C., possa costituire una prova della scarsa incidenza dell’indebitamento tra le cause della prima secessione plebea[22]. Peraltro il nexum, sicuramente antecedente alla legge delle XII Tavole, sarà abolito solo alla fine del IV secolo a.C.[23]

Tuttavia, se per Livio e Dionigi l’indebitamento dei plebei è una delle cause della secessione del 494 a.C., il solo Dionigi dice espressamente che la liberazione dai debiti sarà formalmente deliberata dal senato nel 493 a.C.; Livio non ne fa menzione, pur avendo chiaramente indicato il problema dei nexi tra i motivi della secessione e pur avendo scritto che il dittatore Manio Valerio si era dimesso dalla carica perché il senato non era voluto intervenire nella questione dell’usura[24].

Come in Dionigi, così nell’elogium epigrafico di Manio Valerio è richiamata la decisione del senato sulla liberazione dai debiti:

fae/nore · gravi · populum · senatus · hoc / eius · rei · auctore · liberavit.

Il Senato liberò il populus dai debiti, essendo Manio Valerio auctor della deliberazione senatoria. Orbene, circa questo aspetto, sono due i punti sui quali si confrontano l’elogium e Dionigi: a) la liberazione dai debiti ad opera del Senato; b) la persona cui attribuire il merito di questa iniziativa. Sul primo punto c’è totale concordanza; sul secondo, invece, potrebbe sembrare che vi sia contrasto; infatti, dal racconto dello storico greco parrebbe che il merito di tale liberazione debba essere attribuito a Menenio Agrippa. Questi, nella ricostruzione di Dionigi, si rivolge una volta al senato e quattro volte alla plebe secessionista[25]; al senato, per convincerlo ad inviare présbeis ai plebei con pieni poteri nelle trattative (Antichità romane VI 67,2), alla plebe, nella prima parte del suo primo discorso, per garantire espressamente la liberazione dai debiti, descrivendo nei dettagli il contenuto della deliberazione che il Senato avrebbe approvato una volta raggiunto l’accordo con i plebei secessionisti (Antichità romane VI 83,4-5). Il racconto di Dionigi, però, è complesso ed una sua attenta lettura ci permette di pervenire ad una conclusione più articolata.

Innanzitutto, è evidente che, prima ancora che avvenga la secessione, l’indebitamento è tra le principali preoccupazioni del dittatore Manio Valerio, tanto che lo stesso dittatore prevede la futura seditio cagionata dalla mancata risoluzione del problema dei nexi; e questo, come ho già avuto modo di osservare, è chiaro tanto per Livio quanto per Dionigi. Inoltre, con la secessione in corso e prima che Menenio Agrippa pronunci il suo primo discorso alla plebe, già Manio Valerio aveva assicurato che il senato era pronto ad accettare le condizioni dettate dai plebei (Antichità romane VI 71); infine, dopo l’apologo di Menenio Agrippa e l’assicurazione che tutti i présbeis saranno garanti degli accordi raggiunti, è Manio Valerio colui che ritorna a Roma per convincere il senato, contro l’accanita opposizione di Appio, ad accettare tutte le condizioni poste dalla plebe, compresa la “novità” dei tribuni (Antichità romane VI 88,2-3).

Pertanto, nella narrazione di Dionigi è evidente il doppio ruolo di Manio Valerio; questi: a) garantisce (insieme agli altri présbeis) l’accordo tra plebei e Senato; b) convince il senato ad accogliere le richieste dei plebei. Il termine auctor, con cui nell’elogium è qualificata l’attività di Manio Valerio nella liberazione dai debiti, può indicare ambedue i ruoli evidenziati.

La parola auctor, con riferimento all’attività del Senato, indica l’azione di colui che propone una deliberazione senatoria[26].

Peraltro, il termine è connesso all’istituto della mancipatio e della conseguente auctoritas da parte del mancipio dans, detto appunto auctor. Orbene, il mancipio dans-auctor, sulla base di una norma delle XII Tavole (Cicerone, Topica IV 23, usus auctoritas fundi biennium est; De officiis I 12, 37, adversus hostem aeterna auctoritas), «in caso di minacciata evizione avrebbe dovuto intervenire nella rivendica promossa dal terzo contro l’acquirente»[27]; in altri termini, in caso di trasferimento della res tramite mancipatio, l’auctoritas costituiva per il mancipio accipiens una garanzia per l’evizione[28].

Dunque, la parola auctor si addice al ruolo di Manio Valerio, come emerge dal racconto di Dionigi, tanto se interpretata secondo il significato di garante (per l’evizione), quanto se interpretata secondo il significato di proponente un senatoconsulto. La prima accezione è riconducibile al ruolo di garante[29] della non modificabilità (in peius) delle disposizioni relative alla liberazione dai debiti, che in uno dei discorsi di Menenio Agrippa è attribuito a tutti i présbeis (Antichità romane VI 84,2). La seconda accezione ha fondamento sul fatto che è Manio Valerio, sempre secondo il racconto di Dionigi, ad esporre per primo al Senato il suo parere favorevole all’approvazione di tutte le richieste avanzate dalla plebe (Antichità romane VI 88,3).

Guerriero ferito (dettaglio). Statua frontonale, terracotta, V sec. a.C. dal Tempio di Sassi Caduti. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

La discesa dei plebei dal Monte Sacro ed il ruolo dell’augure Manio Valerio

Manio Valerio, secondo l’elogium, oltre che dittatore fu anche augure. Livio riporta la notizia della morte di un augure Manio Valerio nel 463 a.C. (Ab Urbe condita III 7,6: mortui et alii clari uiri, M. Valerius (…) augures). I due Valerii possono essere la stessa persona, anche se un passo di Dionigi rende problematica questa identificazione, in quanto lo storico greco riproduce un discorso (494 a.C.) del dittatore Manio Valerio, nel quale questi afferma di avere più di settanta anni (Antichità romane VI 44,3); ritenendo che l’augure del 463 sia lo stesso Manio Valerio del 494, questi sarebbe dunque morto ad un’età superiore a cento anni[30]; il che peraltro non è impossibile. Comunque, anche non accettando l’identificazione tra il dittatore ed augure Manio Valerio e l’augure morto nel 463, non v’è motivo di dubitare che il dittatore Manio Valerio fosse anche augure. Altro problema è stabilire se Manio Valerio fosse già augure nel 493, quando, secondo il racconto di Dionigi, fu inviato dal senato al Monte Sacro. In più punti delle sue storie Dionigi attira l’attenzione sull’età avanzata di Manio Valerio (Antichità romane VI 39,2; 41,2; 43,4; 71,1); in considerazione di ciò, è del tutto plausibile che Manio Valerio fosse augure già precedentemente[31]. Ora, occorre capire quale relazione vi possa essere tra l’augurato e la fine della secessione plebea. L’elogium epigrafico di Manio Valerio, sul punto specifico della fine della secessione plebea, recita:

plebem / de sacro · monte · deduxit;

L’elogio che Livio fa di Menenio Agrippa, sullo stesso punto riferisce:

Huic (Menenio Agrippa) … reductori plebis Romanae in urbem (Ab Urbe condita II 33,11).

Non vi è contraddizione tra i due elogi, perché Manio Valerio condusse la plebe giù dal Monte Sacro[32], mentre Menenio Agrippa ricondusse la plebe a Roma. Orbene, l’azione di Menenio Agrippa fu di natura politica; quella di Manio Valerio ebbe implicazioni giuridico-religiose ed almeno quattro sono le argomentazioni che lo chiariscono.

a) Il rapporto tra Iuppiter e l’augur. Gli auguri sono definiti da Cicerone, egli stesso augure, quali interpretes Iovis Optumi Maximi (Cicerone, De legibus II 8,20).

b) Il rapporto tra Iuppiter e la plebe sul Mons Sacer. Dionigi racconta che i plebei bōmòn kateskeúsan sulla cima del monte su cui si erano accampati, che chiamarono di Zeús Deimatíos (Iuppiter Territor)[33] (Antichità romane VI 90,1). In questa notizia, è implicito il nesso tra la secessione ed il timore di Iuppiter, diffuso tra i plebei sul Monte Sacro.

Nell’opera di Festo, sotto la voce Sacer mons, si legge che i plebei consacrarono il mons a Iuppiter:

Sacer mons appellatur trans Anienem, paullo ultra tertium miliarum: quod eum plebes, cum secessisset a patribus, creatis tribunis plebis, qui sibi essent auxilio, discendentes Iovi consecraverunt (Festo, v. Sacer mons, 422 e 424 – ed. Lindsay).

Nel passo di Festo è chiaramente detto che oggetto della consecratio fu il mons sul quale i plebei si erano ritirati dopo la secessione. Ora, nelle fonti sono indicate, quali oggetti di consecratio, res dai termini ben individuati e, soprattutto, agevolmente individuabili[34]; il mons, invece, si divide in più parti (radices, latera, iuga, vertices)[35], tanto da renderne problematica una precisa delimitazione ai fini della consecratio, per non parlare dell’evidente problema della estensione territoriale. Tutto ciò potrebbe far pensare ad una imprecisione terminologica di Festo, che, forse, intendeva indicare con il termine mons la parte della sommità, ove nell’antichità non era raro che fossero costruiti altari agli dèi[36]. Pertanto, è possibile che la consecratio di cui parla Festo abbia avuto ad oggetto non l’intero mons, ma la sua sommità (epì tēs akrōreías), dove era stato edificato il bōmòs di cui parla Dionigi. Peraltro, in altre due fonti si trova il riferimento alla consecratio di un mons; si tratta di un frammento delle orazioni perdute di Cicerone e di un passo di Valerio Massimo. Il testo di Cicerone (Oratio pro Gaio Cornelio, 49) è relativo proprio al mons sacer: «Montem illum trans Anienem, qui hodie Mons Sacer nominatur, in quo armati consederant, aeternae memoriae causa consecrarent». Il passo di Valerio Massimo (II 2,9) è invece riferito al monte Palatino: «Lupercalium enim mos a Romulo et Remo inchoatus est tunc, cum laetitia exultantes, quod his auus Numitor rex Albanorum eo loco, ubi educati erant, urbem condere permiserat sub monte Palatino, hortatu Faustuli educatoris sui, quem Euander Arcas consecrauerat». In ambedue i casi è dubbio se gli autori usino il verbo consecrare in un senso tecnico o lato; né è chiaro se oggetto di consecratio sia il mons nel suo complesso o sue parti. Certo è che lo stesso Cicerone usa consecrare anche in una accezione lata, come si può constatare nel seguente passo: «insulam Siciliam totam esse Cereri et Liberae consecratam» (In Verrem V 106).

c) Il rapporto tra l’augur e l’inaugurazione e consacrazione dei luoghi[37]. L’augure è il solo sacerdote che possa procedere alla inauguratio dei luoghi, pur se questo potere presuppone un’apposita richiesta del magistrato. Il luogo inaugurato è definito templum e può trovarsi sia all’interno del pomerio sia fuori; in ogni caso, esso è destinato allo svolgimento di attività magistratuali e sacerdotali. Per ciò che concerne il rapporto tra inauguratio e consecratio, le fonti testimoniano l’esistenza di luoghi inaugurati e non consacrati, ma anche di luoghi consacrati e non inaugurati. Comunque, la consecratio di un luogo deve avvenire in templo, cioè in un luogo inaugurato (si vedano Cicerone, De domo sua 53, 136-137; Servio, Ad Aeneidem I 446). Ora, occorre considerare che sul mons della prima secessione sono compiute, dai plebei o per i plebei, attività che, se compiute dal populus o pro populo in Roma, avrebbero dovuto essere generalmente effettuate in templo: riunione di un’assemblea di cives per eleggere i magistrati; riunione di un’assemblea di cives per deliberare un nómos; edificazione di un’ara; consacrazione di un luogo ad una divinità. Limiterò la mia attenzione agli ultimi due punti: i plebei bōmòn kateskeúsan[38] a Iuppiter (Antichità romane VI 90,1) ed alla stessa divinità consacrano il mons della secessione (Antichità romane VI 90,1; Festo, v. Sacer mons, 422 e 424, ed. Lindsay). Orbene, come ho già detto, gli atti di consecratio dovevano avvenire in un luogo inaugurato. È noto che la consecratio di un luogo era competenza dei pontefici; non si può, però, stabilire con certezza se sul Monte Sacro fosse presente anche un pontefice. È comunque possibile che vi fosse, considerato che sappiamo pochissimo sui nomi dei componenti i collegi sacerdotali di questo periodo e che tra i présbeis inviati dal Senato sul Monte Sacro, oltre all’augure Manio Valerio, vi era probabilmente almeno un altro sacerdote, Servio Sulpicio Camerino (Antichità romane VI 69,3), di cui Livio dice che era curio maximus nel 463 a.C., anno della sua morte (Ab Urbe condita III 7,6). In ogni caso, non vedo come i plebei avrebbero potuto effettuare una consecratio senza l’intervento dei pontefici.

d) Religio e plebe. L’auctoritas dell’augure Manio Valerio permette alla plebe di lasciare il mons della secessione senza aver turbato la pax deorum o, comunque, in pace con essi. Pur in un clima indubbiamente rivoluzionario, nel racconto di Dionigi è evidente la volontà dei plebei di seguire il più possibile il modello organizzativo della civitas di appartenenza, soprattutto per ciò che concerne l’osservanza delle caerimoniae. Iuppiter è al centro tra plebei e Senato: l’augure, interprete (patrizio) della volontà di Giove, pone le condizioni giuridico-religiose necessarie perché la plebe non violi la Romana religio. Sia nell’elogium di Manio Valerio sia nei passi di Dionigi e di Festo è evidente la posizione di Iuppiter in relazione alla fine della secessione: nell’elogium i plebei sono condotti giù dal Monte Sacro dall’interprete di Iuppiter (augur … plebem de sacro monte deduxit); in Dionigi i plebei dimostrano il loro timore per Iuppiter (bōmòn kateskeúsan… Diòs Deimatíou); in Festo i plebei scendono dal Monte dopo averlo consacrato a Iuppiter (eum plebes … discendentes Iovi consecraverunt). L’incontro tra i due ordines della civitas (plebs e gentes patriciae sono indicate quali ordines civitatis dal giurista dell’età augustea Ateio Capitone in Gellio, Noctes Atticae X 20,5) nel culto di Iuppiter è molto importante per la religio, tanto da richiedere l’intervento dei feziali (Antichità romane VI 6,89,1), segno evidente della unità del sistema giuridico-religioso romano: nella narrazione di Dionigi, tra senato e plebe vengono conclusi synthḗkai, parola greca che traduce il termine latino foedus[39]. La particolare attenzione da parte dei plebei per la religio apparirà evidente anche quarantaquattro anni dopo, in occasione della seconda secessione plebea, quando la riconciliazione con i patres sarà resa possibile, anche in questo caso, grazie all’opera di un sacerdote: il pontifex maximus. Da questi sarà infatti presieduta nel 449 a.C. l’assemblea plebea che, dopo l’esperienza del decemvirato legislativo, tornerà ad eleggere i tribuni della plebe (Asconio, In Cornelianam, 77 – ed. Clark; Ab Urbe condita III 54,11)[40].

 


[1] Sui «dittatori favorevoli alla plebe e al popolo» e sul «dictator quale concordiae auctor», vedasi G. Meloni, Dictatura popularis, in Dictatures. Actes de la table ronde, Paris 27-28/02/1984, Paris 1988, 79 ss. e 84 s.; cfr. ID., Dottrina romanistica, categorie giuridico-politiche contemporanee e natura del potere del “dictator”, in AA.VV., Dittatura degli antichi e dittatura dei moderni, a cura di G. Meloni (Biblioteca di Storia antica, Collana diretta da L. Capogrossi Colognesi e L. Labruna. A cura del Gruppo di ricerca sulla diffusione del diritto romano, 16), Roma 1983, 90; 108 nt. 84-85.

[2] Dionigi di Alicarnasso scrive che Manio Valerio fece delle profezie al senato che si rifiutava di accogliere le sue proposte in merito ai debiti; Dionigi utilizza il verbo apothespízein che, appunto, indica l’attività di chi fa profezie (vedasi H.G. Liddell – R. Scott, Greek-English Lexicon, I, Oxford 1940).

[3] Vedasi V. Spinazzola, Gli augures, Roma 1895, 85 s.

[4] Mommsen, in CIL I, 1, 1893, 190.

[5] La parola greca présbeis traduce il termine latino legati. Si vedano D. Magie, De Romanorum iuris publici sacrique vocabulis solemnibus in Graecum sermonem conversis, Lipsiae 1905, 87 s.; H.J. Mason, Greek Terms for Roman Institutions, Toronto 1974, 153. In E. Boisacq, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Heidelberg 1950, 811, la traduzione in francese è resa con «envoyés, députés, ambassadeurs».

[6] Per il testo dell’epigrafe e per un suo commento, si vedano CIL I, 1, 189 e XI 1826, Inscriptiones Italiae, XIII, 3 (Elogia), 57 ss.

[7] Il testo dell’iscrizione rinvenuta a Roma (CIL VI, 8, 4920) inizia dalla parola populum, presente nella linea 10 dell’iscrizione aretina (CIL XI 1826): populum · sen[atus] / hoc auctore [liberavit] / sellae curuli[s locus] / ipsi posteri[sque ad] / Murciae · s[pectandi] / caussa · pu[blice datus] / est · prin[ceps in senatum] / semel l[ectus est]. Le differenze tra i due testi sono solo due: nella iscrizione di Roma non appare eius rei che invece è presente nella linea 11 dell’epigrafe aretina ed in quest’ultima non appaiono le lettere pu, integrate in publice dal CIL, che sono invece incise nella linea 6 dell’iscrizione romana.

[8] Si vedano, ad esempio, Cicerone, Pro P. Quinctio 24, 76; De domo sua 79; De officiis 2, 29; Brutus 312; Brutus 328.

[9] Vd. Th. Mommsen, Storia di Roma antica, I, 2, Firenze 1960 (Römische Geschichte, Berlin 1888), 336 s., il quale dava spazio al solo Manio Valerio, affermando che questi convinse la plebe a tornare a Roma ed il senato ad accettare le richieste plebee sulla liberazione dai debiti e sulla creazione dei tribuni.

[10] Vd. E. Pais, Storia di Roma, III, Roma 1927, 21 s., il quale richiamava tanto Menenio Agrippa quanto Valerio Massimo (che lo studioso chiama Marco e non Manio) e poneva in evidenza il fatto che Dionigi «trova modo di fondere le diverse narrazioni e di assegnare una parte tanto a Manio Valerio quanto a Menenio Agrippa». Vedasi anche J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine, Rome 1978, 542, il quale, pur riportando sia le fonti che tramandano la tradizione di Menenio Agrippa sia quelle che ricordano il ruolo di Manio Valerio, pone su queste ultime l’accusa di dipendere dall’opera di Valerio Anziate.

[11] Vedasi G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, Milano-Torino-Roma 1907, 6 s.: «quali precisamente tra i moventi della lotta siano stati quelli che determinarono la secessione o le secessioni, che cosa per l’appunto si sia ottenuto per questa via dai patrizi, se la plebe si sia ritirata sull’Aventino soltanto una volta o più, quando esattamente ciò abbia avuto luogo, son quesiti a cui sarebbe pura illusione il credere che la tradizione, come a noi è pervenuta, possa dar modo di rispondere». Vedasi anche H.H. Scullard, Storia del mondo romano, I, Milano 1983 (A History of the Roman World 753-146 BC, London 1980), 108, il quale ricorda il ruolo di Menenio Agrippa, mettendo però in dubbio la veridicità stessa di tutta la tradizione relativa alla prima secessione plebea.

[12] O. Hirschfeld, Das Elogium des M. Valerius Maximus, in Philologus, 34, 1876, 85 ss.

[13] Così G. De Sanctis, v. Valerio Anziate, in Enciclopedia Italiana, XXXIV, Roma 1937, 916. Sulle falsificazioni di cui si sarebbe reso responsabile Valerio Anziate per dare lustro alla gens Valeria si vedano altresì H. Volkmann, v. Valerius Antias, in PWRE, VIII, A2, 1948, 2312 ss., e, più recentemente, F.X. Ryan, The subsequent magistracy of M’ Valerius Volusi f. Maximus, in Acta Antiqua Academiae Scientiarum Hungaricae, 38, 1998, 353 ss.

[14] G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, cit., 41, sostiene che Dionigi, «non riuscendo a giudicare rettamente del valore delle fonti e ad avvertire quanto di menzognero era, per esempio, in Valerio Anziate, scelse a guida gli annalisti che meglio si prestavano a fornirgli gli elementi di un racconto prammatico, cioè i più mendaci e recenti, di cui appunto pel desiderio d’essere compiuto accolse assai di più di Livio le invenzioni». L’influenza dell’opera dell’Anziate in Dionigi, Livio e Plutarco è altresì evidenziata da L. Pareti, Storia di Roma e del mondo romano, I, Torino 1952, 37 s. La dottrina più recente, soprattutto i giuristi, è meno critica nei confronti della attendibilità dell’opera di Dionigi; si vedano S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, Milano 1981, 10 ss.; L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella ‘Storia di Roma arcaica di Dionigi di Alicarnasso, I, Napoli 1988, 7 ss.; F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, I, Napoli 1999, 36 s.

[15] Sull’antichità della tradizione relativa a Menenio Agrippa e, allo stesso tempo, sulla impossibilità di stabilire con certezza l’epoca in cui essa sarebbe stata formata, vedasi la ricognizione delle opinioni espresse dalla dottrina contemporanea in J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine, cit., 542 nt. 344.

[16] Th. Mommsen in CIL I, 1, 1893, 189 ss.

[17] H. Volkmann, v. Valerius Antias, cit., 2312 ss.

[18] Valerio Anziate non è mai menzionato, neppure indirettamente, da Cicerone (al riguardo, vedasi G. De Sanctis, v. Valerio Anziate, cit., 916). L. Pareti, Storia di Roma e del mondo romano, I, cit., 37, sostiene che «il fatto che vari autori lo (scilicet Valerio Anziate) dicono coevo di Sisenna, e che la sua storia si proponeva, a quanto sembra, di giungere fino alla morte di Silla, pare testimoniare che il silenzio di Cicerone su di lui non dipende dall’aver Valerio Anziate pubblicato i suoi Annali dopo il 43, in cui l’oratore morì; ma dal non averne voluto parlare».

[19] Si vd. O. Hirschfeld, Das Elogium des M. Valerius Maximus, cit., 85 ss., e H. Volkmann, v. Valerius Antias, cit., 2312 ss.

[20] Vd. L. Peppe, Studi sull’esecuzione personale, I, Milano 1981, 65 nt. 94, il quale non esclude che Valerio Anziate abbia ripreso ed ampliato una tradizione più antica.

[21] Vd. F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, I, cit., 111 e 241, il quale insiste sulle motivazioni economiche della prima secessione plebea.

[22] Sulle motivazioni di natura economica della prima secessione plebea e, soprattutto, sulla monetazione e sulla natura dei debiti in età arcaica, vedasi F. De Martino, Storia economica di Roma antica, I, Firenze 1979, 13 ss.; 29 ss.; 45 ss. Per una ricognizione della dottrina sul problema dell’indebitamento in età arcaica, vedasi C. Gabrielli, Contributi alla storia economica di Roma repubblicana. Difficoltà politico-sociali, crisi finanziarie e debiti fra V e III sec. a.C., Como 2003, 11 ss.

[23] Per una precisa ricostruzione storico-giuridica nel nexum, vedasi F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, I, cit., 230 ss. L’abolizione del nexum avviene tra il 326 ed il 313 a.C. con una legge Poetelia, o Poetelia Papiria.

[24] Riferendosi alla spiegazione data da Mommsen circa la differenza tra la narrazione di Livio e quella di Dionigi (per la quale vedasi supra, nel testo), L. Peppe, Studi sull’esecuzione personale, I, cit., 64, sostiene che «una tesi siffatta, a parte la sua indimostrabilità, è banale e in fondo gratuita». Tuttavia, lo stesso Peppe pretende di dimostrare che le omissioni di Livio sarebbero prove della inesistenza del problema dell’indebitamento nel V secolo a.C.

[25] Per pronunciare il famoso apologo (Antichità romane VI 83,3-5 e VI 84-86); per chiedere a Giunio Bruto di manifestare quale garanzia voglia la plebe (Antichità romane VI 6,87,3); per chiedere che una parte dei présbeis torni a Roma per presentare al senato le richieste plebee (Antichità romane VI 88,1-2); per consigliare ai plebei di inviare in città degli uomini per ricevere dal senato assicurazioni (Antichità romane VI 88,4).

[26] Vd. per esempio, Gaio, Istituzioni I 73: divus Hadrianus … auctor fuit senatusconsulti faciundi.

[27] M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palermo 1994, 317 nt. 51.

[28] Nelle fonti giuridiche di età successiva alle XII Tavole, il termine auctor è impiegato anche nel significato più generale di dante causa; si veda il Vocabularium Iurisprudentiae Romanae, I, v. Auctor, 513 s. Su auctoritas ed auctor si vedano anche L. Amirante, Sul concetto unitario dell’auctoritas, in Studi in onore di S. Solazzi, Napoli 1948, 375 ss., e, soprattutto per ciò che concerne l’età arcaica, F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, I, cit., 309 s.

[29] In H.G. Liddell – R. Scott, Greek-English Lexicon, I, cit., la parola anádochos, con specifico riferimento a Antichità romane VI 84, è tradotta con il termine inglese “surety”, che in italiano significa anche “garante”.

[30] Così G.J. Szemler, The Priests of the Roman Republic, Bruxelles 1972, 52 s., per le opinioni espresse in dottrina sulla identificazione tra i due Valerii. Szemler, seguendo Mommsen, propende a credere che l’augure morto nel 463 sia lo stesso Manio Valerio della prima secessione plebea.

[31] Secondo J. Rüpke – A. Glock, Fasti sacerdotum: die Mitglieder der Priesterschaften und das sakrale Funktionspersonal römischer, griechischer, orientalischer und judisch-christlicher Kulte in der Stadt Rom von 300 v. Chr. bis 499 n. Chr., II, Stuttgart 2005, 1351, Manio Valerio sarebbe già augure dal 495 a.C.

[32] Sul significato di deducere, vd. la voce Deduco, in Lexicon totius Latinitatis, II, 600, ed in Thesaurus linguae Latinae, V,1, 272 e 277.

[33] R. Bartoccini, v. Iuppiter, in Dizionario epigrafico di antichità romane, II, 2, rist. Roma 1961, 245, cita solo un’epigrafe che indica Territor come attributo di Iuppiter: sancto Iovi territori sacrum (CIL XIV 3559).

[34] Per una elencazione delle res consacratae indicate nelle fonti, si vd v. Consecro, Thesaurus linguae Latinae, IV, 379 ss. Si vedano anche E. Pottier, v. Consecratio, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, I, 2, rist. Graz 1969, 1448 ss.; G. Wissowa, v. Consecratio, in PWRE, IV, Stuttgart 1900, 896 ss.; E. De Ruggiero, v. Aedes, in Dizionario epigrafico di antichità romane, I, rist. Roma 1961; G. Luzzatto, v. Consecratio, in NNDI, IV, Torino 1959, 110; C. Frateantonio, v. Consecratio, in Der Neue Pauly, 3, Stuttgart-Weimar 1997, 128.

[35] Vd. la voce Mons nel Thesaurus linguae Latinae, VIII, 1431.

[36] Vd., infatti, F. Lenormant, v. Montes divini, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, III, 2, rist. Graz 1963, 1995.

[37] Sulla inauguratio dei luoghi e sul rapporto con la consecratio, si veda P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960, 248 ss.

[38] Il verbo kataskeúazein indica un’attività di edificazione. Il termine bōmós traduce il latino ara; vedasi E. Saglio, v. Ara, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, I, 1, rist. Graz 1969, 347.

[39] Vd. H.J. Mason, Greek Terms for Roman Institutions, cit., 90. Sul foedus tra Senato e plebei nel 493 a.C. e sulla «unicità virtualmente universale del sistema giuridico-religioso elaborato dai feziali», vd. P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, 199 s.

[40] Vedasi C.M.A. Rinolfi, Livio 1.20.5-7: pontefici, sacra, ius sacrum, in Diritto @ Storia, 4, 2005, 15 ss.