ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di B. SCARDIGLI, Introduzione alle Vite parallele di Plutarco (Agesilao-Pompeo), ed. E. LUPPINO MANES, Milano 1996, 5-14.
Plutarco nacque attorno al 45 d.C. nella cittadina di Cheronea in Beozia. Della famiglia parla con calore e rispetto, tanto del padre Autobulo, del nonno Lampria e dei fratelli Lampria e Timone, quanto della moglie Timossena e dei figli. Studiò ad Atene, seguendo soprattutto le lezioni di Ammonio, filosofo platonico[1]. A Cheronea rivestì cariche pubbliche e fondò una scuola. Dal 95 fu sacerdote del santuario di Delfi. Ricevette la cittadinanza romana (portò il nome gentilizio di Mestrio) e tra il 98 e il 117 gli ornamenta consularia, cioè le insegne proprie di un console. La condizione economica agiata gli permise di fare molti viaggi in Asia, in Egitto, nell’Italia settentrionale e a Roma[2], dove tenne conferenze e strinse amicizia con personaggi autorevoli, tanto che dedicò le Vite parallele, le Quaestiones conviviales e il De profectibus in virtute a Q. Sosio Senecione, consolare di alto rango[3].
Plutarco. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Delfi, Museo Archeologico.
È significativo che dopo la prima decade delle Vite Plutarco (Aem. I 1) dichiari di voler continuare, per suo personale piacere, l’opera concepita su sollecitazione di altri; è altrettanto significativo che proprio la prima copia della nuova decade (Emilio Paolo – Timoleonte) sia la più idealizzata di tutte[4].
Plutarco è uno degli scrittori più fertili dell’antichità e uno dei più letti in tutte le epoche. La maggior parte delle sue opere, composte a Cheronea, nacque da occasioni ben precise ed era anche destinata a mantenere le relazioni con gli amici vicini e lontani e con i vecchi scolari.
L’opera si divide in due corpora: da un lato i Moralia, dall’altro le biografie. I Moralia sono saggi che trattano questioni di etica, antiquaria, filosofia, religione, retorica, di critica letteraria e di politica: questi ultimi sono in genere i più vicini all’altro corpus, quello delle biografie, consistente in ventidue coppie greco-romane (di cui una perduta[5] e una eccezionalmente composta di quattro Vite: Agide e Cleomene – i due Gracchi); vi erano anche biografie singole, di cui alcune perdute, altre rimaste allo stadio di progetto[6], come l’Eracle, il Leonida (De Her. Malignitate 32, 866b), il Metello Numidico (Mar. 29), il Cratete e forse la Vita di Scipione Emiliano, se il partner dell’Epaminonda era l’Africano[7]; due superstiti (l’Arato e l’Artaserse). Plutarco scrisse inoltre le Vite degli Imperatori fino ai Flavi (sono conservate quelle di Galba e di Otone), redatte diverso tempo prima delle Vite parallele.
Anche se i due grandi ambiti tematici a prima vista sembrano distanziarsi l’uno dall’altro, essi hanno in realtà non pochi elementi in comune: gli stessi temi infatti si ripropongono spesso in opere da diversi punti di vista[8].
Obiettivo delle Vite parallele era ricordare ai Romani, ormai dominatori dell’intero mondo mediterraneo (della Grecia da due secoli e mezzo), il glorioso passato del popolo greco e invitare i Greci a un atteggiamento conciliante nei confronti di Roma[9], così da prevenire malintesi e litigi[10]. A questo scopo le biografie comparate si prestavano assai meglio di un testo storico[11], poiché la lettura della Vita di un Grande coinvolge un pubblico più largo e offre un ampio materiale di confronto.
Il pubblico al quale Plutarco si rivolge è greco e romano[12], ma il destinatario privilegiato è certamente quello greco, al quale vengono illustrati istituzioni, costumi e termini romani[13]. Non conosciamo le reazioni dei contemporanei, non sappiamo se i Greci si sentissero, per esempio, onorati o piuttosto umiliati dal confronto con gli eroi del passato romano, se i Romani riconoscessero i Greci come popolazione alla pari in virtù della loro superiorità culturale, o se li guardassero dall’alto in basso, a causa della loro ormai scarsa rilevanza politica[14].
Combattimento fra Ateniesi e altri Greci. Bassorilievo, marmo, fine V sec. a.C., dal fregio occidentale del tempio di Atena Nike.
In Plutarco, che era convinto del valore assoluto della cultura greca, il Greco è spesso colui che gode della migliore e più eletta educazione, che manifesta un gusto più raffinato di fronte all’arte, che s’intende di filosofia[15], e che vive in modo speciale la quotidianità, anche se nella vita pubblica è un noto statista o comandante militare.
Personaggi come Coriolano, Mario e Catone Censore, invece, sono uomini rudi, anche se ottimi generali. I Romani più colti e più abili a controllare i πάθη e lo θυμός hanno avuto un’educazione greca: in alcuni essa rimane alla superficie (come in Antonio, e per certi aspetti anche in Marcello), mentre in altri ancora penetra in profondità (in Emilio Paolo, Lucullo, Catone Uticense, Cicerone, Bruto e nei Gracchi[16]: e questi – pur con qualche elemento di riserva – costituiscono il gruppo di eroi romani preferito da Plutarco!).
Vittoria. Testa, marmo, copia romana del II secolo d.C. dell’originale di Peonio. Stoà di Attalo, Museo dell’Antica Agorà, Atene.
Gli studi moderni riguardanti il corpus delle Vite concentrano l’attenzione prevalentemente sui seguenti temi:
il periodo in cui Plutarco vive e i suoi governanti; questioni di programma, di metodo e di redazione (l’ordine cronologico della composizione, i rinvii interni, l’eventuale redazione contemporanea di più biografie, l’utilizzo per la preparazione di riassunti di letture fatte, di aiuto per parte di terzi, ecc.);
la scelta dei personaggi e delle fonti e il loro reciproco rapporto[17]. Spesso Plutarco rivela una mano felice in ambedue i settori (su alcuni personaggi soprattutto sapremmo molto poco, se non disponessimo delle biografie); nel caso di non pochi autori antichi dobbiamo solo a lui, se abbiamo un’idea della loro opera (o di parte di essa), spesso di qualità eccellente, come le Storie di Posidonio o di Asinio Pollione o come, in altro campo, le relazioni scritte di testimoni oculari, per esempio di ufficiali che parteciparono alle guerre partiche di Crasso e poi di Antonio;
le tecniche usate da Plutarco, che hanno reso accessibile un modo di procedere assai frequente negli autori antichi (manipolazioni, semplificazioni, contaminazioni, spostamenti, connessioni di avvenimenti non collegati nella fonte o non collegabili, aggiunte, puntigliose spiegazioni dei fatti);
il ruolo particolare dei paragrafi finali (synkriseis) e i criteri di accoppiamento. I contributi riguardano perciò l’esame dei fattori che differenziano due eroi e di ciò che li unisce, le coppie a cui manca la synkrisis, quelle in cui il partner romano precede quello greco, il livello letterario delle synkriseis, giudicato modesto e prevalentemente moralistico[18]; inoltre le discrepanze tra il materiale della synkrisis e quello delle Vite;
la fortuna di Plutarco, sia nei Moralia, sia nelle biografie, nelle diverse epoche.
I contributi sui primi quattro punti sono di solito elaborati nelle varie introduzioni e nelle note alle singole biografie pubblicate in questa collana; qualche informazione in più diamo sull’ultimo.
Timoleonte si appresta a salpare per la Sicilia. Illustrazione da W.H. WESTON – W. RAINEY (eds.), Plutarch’s Lives for Boys and Girls, New York 1900, 102.
Pochi autori hanno conosciuto, nel corso della tradizione storica, periodi di fama incontrastata e quasi mitica come il Plutarco delle Vite parallele, l’unico forse, fra i classici, che in certe età abbia eguagliato la fortuna di Orazio o di Virgilio.
Plutarco fu conosciuto e ammirato dai contemporanei (vir doctissimus ac prudentissimus lo qualificava, a trent’anni dalla morte, Aulo Gellio nelle sue Notti Attiche I 26, 4) e il suo culto continuò in età bizantina, sia fra i pagani sia fra i cristiani, che nei suoi scritti trovavano consonanza di principi etici e umanitari.
Nel Medioevo di lui si predilesse la raccolta dei Moralia, un insieme di opuscoli di vera erudizione, in cui il gusto della curiosità enciclopedica si unisce all’interesse per problematiche filosofiche e morali, esteso alle sfere più intime e quotidiane della vita (l’educazione dei figli, i rapporti coniugali, la gestione del patrimonio).
Con l’Umanesimo e il Rinascimento, l’insorgere di un nuovo senso dell’individualità, volto a cercare nei classici il proprio modello, riportò l’attenzione sulle biografie, che i dotti greci, affluiti in Italia dopo la caduta di Costantinopoli, contribuirono a divulgare, e di cui furono fatte traduzioni in latino[19], epitomi[20], imitazioni[21]. I grandi personaggi di Plutarco cominciarono ad alimentare l’immaginario poetico, offrendo materiale d’ispirazione in campo letterario, teatrale e anche figurativo[22]. «Al ritratto degli altri – scrive H. Barrow – Plutarco aggiunse il proprio autoritratto, inconsciamente disegnato nelle Vite e nei Moralia: il ritratto dell’uomo buono, che viveva umilmente in accordo con i più alti modelli della classicità, sereno con se stesso, di aiuto per gli amici; l’ideale di un “veramente perfetto” gentiluomo, che la nuova Europa stava cercando. Forse nessun esplicito programma di scrittore raggiunse mai una più alta misura di successo»[23].
Fra i secoli XVI e XVIII la fama di Plutarco tocca il suo apogeo, come attesta il moltiplicarsi di edizioni e traduzioni. Escono in Francia l’edizione completa dello Stephanus (Paris 1572) e la famosissima traduzione di J. Amyot (Les Vies des Hommes Illustres, Paris 1559; Les Oeuvres Morales, Paris 1572)[24]; in Inghilterra la traduzione di Th. North (1579, con dedica alla regina Elisabetta) cui attinse Shakespeare, e più tardi quella intrapresa da quarantun studiosi sotto la guida di J. Dryden (1683-1686). Sono inoltre da ricordare l’edizione tedesca delle Vite curata da J.J. Reiske (1716-1774), che procedette a una nuova collazione dei manoscritti, e l’edizione olandese dei Moralia pubblicata da D. Wyttenbach (Oxford 1795-1830), al quale si deve anche il lessico plutarcheo (Leipzig 1830, rist. 1962) tuttora indispensabile. Personaggi prediletti delle Vite furono, di volta in volta, gli eroi della guerra, come Alessandro e Cesare, o gli eroi del dovere, come Coriolano, o quelli delle virtù repubblicane, come Catone Uticense e Bruto, idoleggiati nell’età della Rivoluzione francese. In Francia, dove la traduzione di Amyot divenne patrimonio diffuso, ne furono entusiasti estimatori Montaigne («è un filosofo che ci insegna la virtù», Essais, II, p. XXXII), Corneille, che dalle Vite trasse materia per i drammi Sertorioe Agesilao, Racine, che se ne ispirò per il Mitridate, Pascal, Molière[25]; in Inghilterra Shakespeare, cui la lettura di Plutarco offrì la traccia per le tragedie Coriolano, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra[26]; in Italia D’Azeglio, Leopardi, Alfieri, che allo spirito plutarcheo informò la sua stessa autobiografia[27]; in Germania Goethe, Schiller, Lichtenberg, Jean Paul[28] e molti altri[29]. Alla suggestione di Plutarco non si sottrassero neppure gli uomini di potere, principi assoluti come Enrico IV di Francia e Giacomo I d’Inghilterra, e «illuminati» come Federico II di Prussia; rivoluzionari e repubblicani come Franklin e Washington fino a Robespierre e a Napoleone[30]; del suo influsso risentirono anche gli antesignani del moderno pensiero educativo, Rousseau e Pestalozzi.
London, British Library. The Lives of the Noble Greeks and Romans. Traduzione inglese di T. North. London 1579 [link].Nella seconda metà dell’Ottocento tuttavia la scena cambia: il lavoro erudito si restringe nell’ambito degli specialisti (anche se molti artisti, come Wagner e D’Annunzio, continueranno ad amare Plutarco). Vengono allora alla luce edizioni critiche di scritti singoli, sia dei Moralia sia delle Vite, talora provvisti di commento minuzioso. Si interviene drasticamente sul corpus dei Moralia, negando l’autenticità di alcuni opuscoli tramandati nel cosiddetto catalogo di Lamprias (III-IV sec. d.C.).
Dopo i moltissimi contributi dell’inizio del Novecento, spesso intesi a illustrare aspetti particolari delle Vite[31] o a studiare le fonti plutarchee o lo schema biografico; dopo le ricerche volte a individuare la provenienza di questo tipo di biografie (peripatetica, alessandrina, di ispirazione stoica), o a far distinzione tra categorie moralistiche e narrazione storica, corrispondente all’alternativa tra passi «eidologici» e passi «cronografici» (secondo la terminologia di Weizsäcker), oggi si sta dando, sembra con frutto, nuovo impulso all’interpretazione delle biografie per opera non tanto di studiosi tedeschi (il cui interesse attuale è senz’altro diminuito rispetto ai lavori delle generazioni di un Wilamowitz, di Weizsäcker e Ziegler), quanto soprattutto di anglo-americani (Stadter, Jones, Wardman, Russel, Pelling, Swain e altri), di un grande studioso francese (R. Flacelière) e della scuola, di italiani (Valgiglio, Piccirilli, Manfredini, Desideri, Guerrini e altri), ma anche di studiosi di altri Paesi.
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Note:
[1] Cfr. Russell (1968), 132 ss.; Donini (1986), 97 ss.
[2] Si vd. per es., Barrow (1967), cap. V: “Plutarch Abroad”; Jones (1971), cap. 6 ss. con Geiger (1974), 141.
[3] Wardman (1974), 37 s. Su Romani importanti con i quali Plutarco fece conoscenza si vd., per es., Philipps (1957), 102 ss.; Jones (1971), 48 ss.; Simms (1974), cap. I; Geiger (1988), 245 ss.; e Swain (1990), 128 ss.
[4] Cfr. Ingenkamp H.G., Plutarch’s Two Aims in His Lives of Aemilius Paulus and Timoleon, Convegno Oxford cit.
[5]Epaminondas-Scipio (Africanus maior?): cfr. Herbert (1957), 83 ss. Forse conteneva un’introduzione generale al corpus, cfr. Gossage (1967), 48; e Geiger (1981), 87. Scettico Desideri (1992), 4472 s. Sull’Epaminonda adesso, si vd. Tuplin (1984), 346 ss.
[7] Secondo Wilamowitz (1967), 260, era l’Emiliano; e così per Herbert (1957), 83 ss. Secondo Ziegler (1951), 895-896 si trattava, invece, di Scipione Africano.
[8] Wardman (1974), 37. Si vd. per es. il Pelopida e diversi passi analoghi in scritti etici; cfr. Buckler (1978), 36 ss.; corrispondenze tra passi delle Vite di Romolo, Publicola e Alessandro col De mul. virt., l’Amatorius e altri in Stadter (1965), 30 ss.; 80 ss.; 103 ss.; 112 ss.; su passi nelle Vite di Licurgo, Numa, Solone, Dione e Bruto e nei Moralia: Goessler (1962) passim; l’importanza della retorica sia per le Vite sia per i Moralia in Russell (1972), 21 ss.; Harrison (1987), 271 ss.; Stadter (1987), 251 ss. e Stadter (1989), XXXVIII ss. In generale, si vd. Valgiglio (1987), 1738, 1740 ss.
[9] Cfr. il programma simile di Dionigi di Alicarnasso (vd. però n. 11). Su Plutarco, per es., Wilamowitz (1967), 259 s.; Weber (1959), 78; Gomme (1945), 55; Jones (1971), 103 s.; Barrow (1967), 56 ss.; Simms (1974), 238 ss; Boulogne (1990), 473 ss.
[10] Diversa la situazione per gli storici di formazione greca nell’Impero romano dopo Plutarco (Appiano, Arriano, Dione Cassio), poiché essi partecipavano attivamente alla vita politica di Roma (cfr. Pelling [1988a], 9).
[11] Un compito simile, in qualità di storico, si assumeva Dionigi «per mostrare ai Greci che i Romani non erano barbari, bensì ben disposti verso la cultura greca e, di fatto, di origine greca essi stessi». Il programma di Dionigi – a differenza di quello di Plutarco – era ben precisato fin dall’inizio e perseguiva precisi intenti propagandistici: cfr. Babut (1975), 208 ss.
[15] Cfr. Pelling (1989), 200 ss. e (1988b), 266 ss.; Desideri (1992), 4486, che opportunamente parla di una «sorta di divisione funzionale delle rispettive competenze nell’ambito di una complementarietà globale: alla Grecia l’elaborazione e la diffusione dei valori culturali, a Roma la realizzazione dei grandi progetti politici».
[16] Cfr. Swain (1990b), 192 ss. e (1990a), 131 ss. Su Cicerone, si vd. però Pelling (1989), 218 ss.
[21] Per es., Donato Acciaiuoli scrisse una Vita di Annibale e una di Scipione Africano, precedute da una prefazione in cui ringrazia Pietro dei Medici dei benefici ricevuti da lui e suo padre Cosimo e spiega di aver inserito fra le biografie plutarchee quelle di Annibale e Scipione, quae ex varis auctoribus tum graecis, tum latinis collegeram… La coppia è conservata in tutte le ristampe e nelle prime traduzioni, dove però, soppressa la prefazione, spesso viene attribuita allo stesso Plutarco.
[22] Per es., Guerrini (1985a), 87 ss. (1985b), 83 ss. e (1985c), 179 ss.
[30] Cfr. Frost (1980), 41: «Le sue censure contro la disumanità e l’abuso del privilegio hanno infiammato spiriti liberali a un grado sensibilmente inferiore al punto di combustione, mentre la sua evidente predilezione per un potere illuminato gli ha procurato una favorevole collocazione nelle biblioteche dei più illuminati despoti».
[31] Russell (1966), 139: «La fama e l’influenza di cui Plutarco godette nei giorni della riscoperta dell’antichità non poteva sopravvivere alla rivoluzione negli orientamenti storici e accademici che segnarono il XIX secolo. Invece di essere considerato come uno specchio dell’antichità e della natura umana egli divenne “un’autorità secondaria”, da usarsi là dove le “fonti primarie” venivano a mancare, ed egli stesso finì per essere lapidato dagli studiosi della Quellenforschung (ricerca delle fonti) e abbandonato come un rudere. Conseguenza di ciò è l’abbandono delle Vite nei programmi dell’educazione. Dovrebbe inoltre essere evidente che, proprio in considerazione degli obiettivi storici per i quali l’opera viene prevalentemente studiata, è del tutto ingannevole e pericoloso considerare quello che è proprio uno dei più sofisticati prodotti dell’antica storiografia senza una costante attenzione ai piani e agli scopi del suo autore. Fortunatamente molto è stato scritto, soprattutto negli ultimi vent’anni, per ristabilire l’equilibrio».
di I. BIONDI, Callimaco, in Storia e antologia della letteratura greca. 3. L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, pp. 155-167.
Callimaco: la voce più significativa della poesia ellenistica
Il Bello. Ritratto funebre, tavola lignea dipinta, II sec. d.C. ca. dal Fayyum. Moskva, Puškin Museum.
Callimaco nacque a Cirene, colonia greca di Thera, a nord della Grande Sirte, negli anni fra il 315 e il 310 a.C., da famiglia aristocratica. I suoi si vantavano di discendere dal fondatore stesso della città, un figlio di Polimnesto, il quale aveva mutato il proprio nome, Aristotele, in quello di Batto, che nel dialetto libico locale significava «sovrano». Il padre di Callimaco portava lo stesso nome dell’antico capostipite; e proprio negli anni in cui nacque il poeta, la famiglia godeva di grande fama e prosperità grazie all’appoggio di Ofella, generale del re Tolemeo I, che nel 322 a.C. aveva conquistato Cirene. È probabile che Callimaco abbia trascorso a Cirene gli anni della giovinezza e vi abbia completato la prima fase della propria formazione culturale; verso il 290 o il 285 a.C. (nessuna delle due date è certa!), egli lasciò la città per trasferirsi ad Alessandria, dove, verso il 270 a.C., ebbero inizio la sua vita a corte e la sua attività nella Bibliotheca, destinata a continuare fino alla sua morte.
Il poeta ebbe così a disposizione il materiale raro ed erudito che tanto lo appassionava e che lasciò un’impronta indelebile in tutta la sua produzione; gli anni dal 270 al 245 a.C. furono forse i più fecondi della sua vita. Il poeta continuò a godere del favore di Tolemeo II Filadelfo, che governò l’Egitto fino al 246 a.C. e, in seguito, di Tolemeo III Evergete, sposo di Berenice, figlia di Megas e originaria di Cirene, dalla quale Callimaco ottenne una particolare protezione. In questo periodo (246-245 a.C.) il poeta ebbe modo di conoscere un altro grande intellettuale del suo tempo, Apollonio Rodio, con il quale intrattenne un rapporto assai complesso e, a quanto sembra, anche polemico. La data della scomparsa di Callimaco ci è sconosciuta, ma non dovrebbe essere di molto posteriore al 244 a.C.
Tolomeo III Evergete. Busto, copia romana in marmo da originale ellenistico di III sec. a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
La tradizione dei testi
La maggior parte della vastissima opera di Callimaco è andata perduta; degli scritti eruditi rimangono solo pochi frammenti, mentre ci è giunta completa – a parte qualche trascurabile lacuna – la raccolta dei sei Inni (A Zeus, Ad Apollo, Ad Artemide, A Delo, Per i lavacri di Pallade, A Demetra). Ciò fu dovuto a un anonimo grammatico che li inserì, verso il VI secolo d.C. (o, secondo altri, nel X secolo), in una raccolta che iniziava con gli inni omerici. L’Anthologia Palatina, compilata intorno alla metà dell’XI secolo, ci ha conservato sessantatré epigrammi (cinque derivano da altre fonti), che, pur non rappresentando l’intera produzione callimachea in questo genere, ne sono comunque un significativo esempio. Per gli Aitia, i Giambi, l’Ecale e altri componimenti abbiamo a disposizione un congruo numero di papiri, alcuni dei quali sono posteriori di pochi anni alla morte del poeta, mentre altri giungono fino al VII secolo d.C.
L’opera poetica di Callimaco fu anche oggetto di commenti grammaticali e storici da parte di un valido studioso della poesia ellenistica, Teone di Artemidoro, vissuto sotto il principato di Augusto e di Tiberio. Al suo lavoro si aggiunse, verso la fine del I secolo, quello di Epafrodito; da questi commenti derivano le διηγήσεις («argomenti», «riassunti») delle opere del poeta, contenute nel Papiro Milanese 18, che risale al II secolo. A questa tradizione si affianca quella indiretta, proveniente dagli scritti di dotti bizantini come Areta e Costantino Cefala (entrambi del X secolo) e Michele Choniates (fine del XII secolo), allievo di Eustazio, arcivescovo di Tessalonica, ai quali la produzione poetica callimachea era ben nota. La perdita della tradizione diretta può essere spiegata come conseguenza del bellum Latinum (IV Crociata) e del barbaro saccheggio che devastò Costantinopoli nel 1204, distruggendo l’esemplare o i pochi esemplari delle opere del poeta fino ad allora sopravvissuti.
P. Oxy. XI, 1362 (II sec.). Pagina manoscritta del fr. 178 Pf. dagli Aitia di Callimaco.
Opere di erudizione e di critica
Il vastissimo insieme delle opere erudite di Callimaco, andato quasi completamente perduto, può essere in parte ricostruito nelle linee e nei contenuti essenziali attraverso l’elenco dei titoli, tramandatoci dal lessico Suda. Possiamo così distinguere un gruppo di opere a carattere geografico (Sui fiumi dell’Europa, Sui fiumi dell’ecumene), forse ricollegabili con la polemica che divise Callimaco e Apollonio Rodio a proposito dell’itinerario seguito dagli Argonauti nel loro viaggio di ritorno. Una paradossografia, il primo testo di questo genere giunto fino a noi, che contiene la descrizione delle «cose strane e meravigliose» (παράδοξα καί θαυμάσια) del Peloponneso, dell’Italia e di tutta la terra. Un gruppo di opere di interesse naturalistico, che però rivela anche intenti nomenclatorii e storici (Sugli uccelli, Sui venti, Sui nomi dei mesi per popoli e per città, Sulla fondazione di isole e città). In un ambito più strettamente letterario, la massima testimonianza dell’erudizione di Callimaco furono i Pinakes (πίνακες τῶν ἐν πάσῃ παιδείᾳ διαλαμψάντων καὶ ὧν συνέγραψαν, «registri» o «tavole di tutti coloro che si distinsero in ogni settore della cultura e di ciò che scrissero»), una monumentale bibliografia ragionata, a carattere enciclopedico, di tutti i principali scrittori in lingua greca, suddivisa in vari settori, a seconda del genere. Nell’ambito delle varie sezioni, che erano almeno dieci (lirica, tragedia, filosofia, ecc.), gli autori erano catalogati in ordine alfabetico; ogni nome era accompagnato da una sintetica biografia (ampliata in seguito da Ermippo di Smirne), seguita dai titoli delle opere, corredati, quando era possibile, dall’incipit di ciascun testo. Allo stesso genere apparteneva anche un’altra opera, una «lista» (ἀναγραφή) di tutti i poeti drammatici, disposti in ordine cronologico, che si fondava forse su un analogo lavoro di Aristotele, le Didascalie. Tutti questi scritti, frutto delle ricerche di Callimaco nella Biblioteca di Alessandria, contribuirono a conferire anche alla sua poesia un carattere di straordinaria preziosità culturale e formale, che sarebbe poi divenuto elemento peculiare dell’intera letteratura ellenistica.
Gli Aitia: struttura e contenuti
I quattro libri degli Aitia, l’opera principale di Callimaco, rappresentano anche la testimonianza più completa e significativa della sua poesia e della sua poetica, che, nei secoli successivi, avrebbe avuto vasta risonanza nella letteratura latina. L’opera comprende un numero notevole di componimenti in distici elegiaci (finora ne sono stati identificati una quarantina), nei quali si narrano le «cause» (αἴτια) di miti, riti sacri, festività, eventi storici o ritenuti tali, appartenenti alla cultura del mondo ellenico o, più genericamente, a quella dell’area mediterranea. Quasi certamente, i due libri inziali furono composti in periodi diversi dal III e dal IV, che presentano differenti caratteristiche e sembrano perciò appartenere alla fase più matura, o addirittura tarda, della produzione di Callimaco.
Il I libro, dopo un’elegia autobiografica a carattere introduttivo (Elegia contro i Telchini), in cui Callimaco espone i punti chiave della sua poetica, contiene la descrizione dell’incontro del poeta con le Muse e il racconto di una di esse, Clio, su riti sacrificali in uso a Paro e sulla nascita delle Cariti. Trattando poi dei sacrifici in onore di Apollo, che si celebravano ad Anafe, un’isola del Mare Cretico, Callimaco vi inserisce una breve digressione, dedicata al viaggio degli Argonauti, di ritorno dalla Colchide a Iolco. La narrazione diverge in modo significativo da quella di Apollonio Rodio (Argonautiche IV); e non è escluso che proprio da ciò abbia avuto origine la polemica fra i due, di cui parlano le fonti antiche (se pure ci fu veramente). In seguito, Callimaco paragona i riti di Anafe a quelli di Lindos in onore di Eracle. Anche in questo caso, Apollonio Rodio (Argonautiche I, 1218-1220) appare in disaccordo con Callimaco nel descrivere il personaggio di Eracle; il poeta di Cirene, tuttavia, riconfermò in seguito le proprie scelte nell’Inno ad Artemide (vv. 159-161). Sempre nel I libro, Callimaco descrive anche la storia di Lino e Corebo, un mito poco noto di origine argiva, l’origine del culto di Diana Leucadia, quella dell’offerta espiatoria ad Aiace e gli avvenimenti connessi con la fondazione di Mallos, antichissima città della Cilicia.
Clio. Mosaico delle Nove Muse (dettaglio). Rodi, Palazzo dei Gran Maestri di Rodi.
Il contenuto del II libro, a causa della perdita delle διηγήσεις, i brevi «riassunti» delle varie composizioni in esso raccolte, ci è meno noto; esso comprendeva, in una successione che non conosciamo, le elegie sulla fondazione di alcune città della Sicilia, la storia di Busiride, il crudele re egizio ucciso da Eracle, e quella di Falaride, tiranno di Agrigento.
Il III libro, nella sistemazione definitiva, si apriva con l’Epinicio per Berenice, in cui era esposto l’αἴτιον dell’istituzione dei Giochi Nemei da parte di Eracle, che confermava la volontà di Callimaco di trattare l’impresa dell’eroe in toni diversi dall’epos. Seguivano poi gli αἴτια delle Tesmoforie, feste in onore di Demetra, quelli riguardanti il sepolcro di Simonide, e i miti delle fonti di Argo, dell’ospite di Isindo, di Artemide Ilitia, di Frigio e di Euticle di Rodi.
Il IV libro, che iniziava con un’invocazione del poeta alle Muse, comprendeva una serie di sedici αἴτια, di cui non ci è giunto quasi altro che l’incipit. L’ultimo di essi trattava un episodio del mito argonautico; in questo modo, l’intera opera si chiudeva con una struttura ad anello, riallacciandosi al già ricordato episodio del I libro. In seguito, però, probabilmente nello stesso periodo in cui inserì all’inizio degli Aitia l’Elegia contro i Telchini e all’inizio del III libro l’Epinicio per Berenice, Callimaco pose a chiusura dell’opera la Chioma di Berenice, che pure aveva avuto una tradizione autonoma come elegia celebrativa.
Un certo numero di frammenti, quasi tutti brevi e non sempre ben leggibili, come pure l’αἴτιον sul culto di Peleo e quello sugli Iperborei, non hanno ancora trovato sistemazione definitiva all’interno dell’opera.
La struttura di base degli Aitia sembra essere un colloquio del poeta con le Muse; egli, infatti, racconta di essere stato trasportato in sogno in Beozia, sul monte Elicona, là dove un tempo Esiodo, intento a pascolare il suo gregge, aveva incontrato anch’egli le Muse (Teogonia, vv. 22 sgg.). Qui il giovane Callimaco avrebbe conversato con le dee presso la fonte Castalia, interrogandole sui più svariati argomenti e facendo tesoro delle risposte ottenute dalle figlie di Zeus, divine depositarie di ogni memoria. Il motivo del sogno, esplicito riferimento all’opera esiodea, ebbe poi fortuna anche nella letteratura latina, tanto che fu ripreso da Ennio nei proemi del I e del VII libro degli Annales.
Accanto all’espediente narratologico del colloquio con le Muse, ben evidente nel I e del II libro, compaiono però altri accorgimenti per introdurre nuovi temi: una diretta apostrofe al protagonista dell’αἴτιον, accompagnata da un invito al racconto; un dialogo a domanda e risposta, tecnica che forse compare qui per la prima volta in un’opera in versi; una conversazione fra amici a simposio; il monologo di un oggetto che racconta la propria storia, come accade anche nella tradizione epigrammatica. Infine, soprattutto nel III e nel IV libro, il poeta sembra abbandonare ogni preoccupazione di organicità narrativa e si limita a una semplice giustapposizione degli episodi, come accade con l’Epinicio per Berenice, che apre il III libro, e con la Chioma di Berenice, che conclude il IV.
Muse e maschere teatrali (dettaglio). Bassorilievo su sarcofago, 200 d.C. ca. Berlin, Altes Museum.
La Chioma di Berenice, forse la più nota fra le composizioni di Callimaco, ci è giunta solo parzialmente nell’originale greco; possiamo disporre però della sua “versione” latina, composta da Catullo (Carmen LXVI) in distici elegiaci e tradotta nel 1803 da Ugo Foscolo. Lo spunto per la Chioma fu offerto a Callimaco da un evento accaduto poco dopo l’ascesa al trono di Tolemeo III Evergete, nel 244: appena assunto il potere, il sovrano dovette abbandonare l’Egitto per prendere parte a una campagna militare in Siria. In quell’occasione la sposa del re, Berenice, appartenente alla casa regale di Cirene, fece voto solenne di consacrare ad Afrodite la sua bellissima chioma, se il marito fosse tornato sano e salvo. Così, al rientro di Tolemeo, la regina mantenne la promessa e offrì i suoi capelli nel tempio di Arsinoe-Afrodite. Tuttavia, dopo qualche tempo, la chioma recisa della donna scomparve dal santuario e l’astronomo di corte, Conone, credette di identificarla in un nuovo gruppo di stelle da lui osservato, a cui diede appunto il nome di “Chioma di Berenice”. In questo modo, egli intendeva significare che gli dèi avevano voluto compensare, oltre all’amore coniugale, anche la pietas religiosa della regina, con il καταστερισμός (la «trasformazione in astro») dei suoi riccioli. Nella composizione di Callimaco è la chioma stessa a parlare, fiera dell’onore accordatole dagli dèi, ma anche rattristata per essere stata per sempre separata dal capo regale di Berenice. La bella sposa di Tolemeo era infatti solita prendersi grande cura dei suoi capelli, cospargendoli di preziosi profumi; ma come avrebbero potuto opporsi, le morbide ciocche della regina, al taglio crudele del ferro?
τί πλόκαμοι ῥέξωμεν, ὅτ’ οὔρεα τοῖα σιδή[ρῳ
εἴκουσιν; Χαλύβων ὡς ἀπόλοιτο γένος,
γειόθεν ἀντέλλοντα, κακὸν φυτόν, οἵ μιν ἔφηναν
50 πρῶτοι καὶ τυπίδων ἔφρασαν ἐργασίην.
ἄρτι [ν]εότμητόν με κόμαι ποθέεσκον ἀδε[λφεαί,
καὶ πρόκατε γνωτὸς Μέμνονος Αἰθίοπος
ἵετο κυκλώσας βαλιὰ πτερὰ θῆλυς ἀήτης,
ἵππο[ς] ἰοζώνου Λοκρίδος Ἀρσινόης,
55 ἤ[λ]ασε δὲ πνοιῇ με, δι’ ἠέρα δ’ ὑγρὸν ἐνείκας
Κύπρ]ιδος εἰς κόλπους ἔθηκε
Cosa faremo noi trecce, se monti sì grandi cedono
al ferro? Possa perire la stirpe dei Càlibi,
che, mala pianta, sorgente da terra, lo rivelarono
50 per primi, e mostrarono l’arte dei magli!
Da poco, recisa di fresco, mi rimpiangevan le chiome sorelle,
ed ecco il fratello di Memnone l’Etiope
si slanciava ruotando le ali screziate, vento ferace,
destriero della Locride Arsinoe, cinta di viole:
55 con il soffio mi [spinse], e, portandomi per l’umido aere,
Ambrogio Borghi, La regina Berenice (o Chioma di Berenice). Statua, marmo, 1878. Monza, Musei Civici.
La raffinata eleganza del brano citato, la grazia gentile dell’omaggio che non ha niente di ostentato né di servile, la preziosità dei riferimenti eruditi (il vento leggero «fratello di Memnone l’Etiope» è Zefiro, i «monti sì grandi» sono i massicci dell’Athos, attraverso cui Serse fece scavare un canale, per permettere il passaggio alla sua flotta da guerra, nel 480 a.C.) ci offrono un’eloquente testimonianza dello stile di Callimaco e di quella poetica alla quale egli rimase fedele per tutta la vita, a noi nota attraverso i numerosi accenni presenti in varie opere. Da questo punto di vista, ci appare particolarmente significativa l’elegia autobiografica che Callimaco, ormai vecchio, premise, in forma di prologo, al I libro degli Aitia. In essa il poeta respinge le critiche che sono state mosse alla sua arte, bollando gli avversari con il nome di “Telchini”, i maligni demoni figli di Ponto, il mare, e di Gea, la terra, il cui sguardo era carico di un potere malefico, che furono fulminati da Zeus per aver cercato di rendere sterile l’isola di Rodi, bagnandola con l’acqua infernale dello Stige.
Callimaco si difende dalle accuse dei suoi avversari, che gli rinfacciano, per velenosa invidia di non essere mai stato capace di affrontare composizioni poetiche veramente impegnative, ma di essersi limitato a “giocare” con i versi, come un ragazzo, benché la sua età sia ormai più che matura. Ma egli può addurre a suo sostegno la più autorevole delle testimonianze, quella del dio stesso della poesia, che gli è stato prodigo di consigli fin dal momento in cui il poeta si accinse per la prima volta a scrivere, dopo aver appoggiato la tavoletta sulle ginocchia. Il particolare non è privo di importanza; infatti, al poema di vasto respiro, non sostenuto da un’adeguata cura formale e destinato all’ascolto, si sostituisce la composizione di breve dimensione, perfetta nel suo nitore, destinata alla lettura e al giudizio di un pubblico scelto per sensibilità e cultura; doctus non meno dell’autore, come lo definiranno i poeti latini che, a partire da Catullo, assimilarono a fondo la lezione di Callimaco. Quest’ultimo ribadì i concetti-base della sua poetica anche in altre opere; leggiamo, ad esempio, l’epigramma XXVIII:
ἐχθαίρω τὸ ποίημα τὸ κυκλικόν, οὐδὲ κελεύθωι
χαίρω τίς πολλοὺς ὧδε καὶ ὧδε φέρει,
μισέω καὶ περίφοιτον ἐρώμενον, οὐδ᾽ ἀπὸ κρήνης
πίνω· σικχαίνω πάντα τὰ δημόσια.
Odio il poema ciclico, né una strada
mi piace che molti porti qui e lì.
Non sopporto un amante vagabondo, né dalla pubblica fonte
La metafora della κρήνη, la «fontana pubblica», richiama, per contrasto, un’altra immagine: quella della sorgente purissima, limpida e remota, che la massa non può contaminare:
105 L’Invidia furtiva all’orecchio disse ad Apollo:
«Non apprezzo il poeta che non canta neanche quanto il mare».
Apollo l’Invidia col piede scacciò, e disse così:
«Grande è il flutto del mare d’Assiria, ma spesso
sozzure di terra e molto fango sull’acqua trascina.
110 Ma a Deò non da ogni dove recano acqua le api,
ma quella che pura e incontaminata zampilla
da sacra sorgiva, piccola stilla, è l’offerta migliore»[3].
Il tono deciso dei testi fin qui citati testimonia assai bene l’asprezza della polemica che divideva i letterati di Alessandria e che li spingeva a un dissidio intellettuale senza esclusione di colpi. Un ulteriore documento di questo acceso scontro fra eruditi proviene da un commento antico al prologo degli Aitia, in cui si elencano addirittura i nomi di alcuni dei personaggi contro cui erano diretti gli strali di Callimaco; e probabilmente anche l’Ibis, un poemetto andato perduto, notissimo ai poeti romani e soprattutto a Ovidio, che forse lo ebbe come modello per la sua omonima composizione, altro non era che un virulento attacco contro Apollonio Rodio. Tale almeno era l’opinione comune dei grammatici antichi, che però non siamo in grado di verificare, a causa delle scarsissime notizie in nostro possesso.
Donna seduta con kithara. Probabilmente si tratta di un ritratto della regina Berenice II, mentre si esercita al canto. Affresco (dettaglio), 50-40 a.C. ca. dalla Villa di P. Fannius Synistor, Boscoreale.
Ma l’atteggiamento polemico di Callimaco non riguardava solamente l’accurato labor limae formale, da lui ritenuto indispensabile e che non sarebbe stato possibile in scritti di vasta mole; l’erudizione e la novità dovevano risaltare con brillante evidenza nella scelta, oltre che nella trattazione dei contenuti. È questa la «fonte intatta», il «sentiero non calpestato da alcuno» a cui il poeta allude più volte, per sottolineare l’originalità delle sue composizioni. In quest’ottica, egli affrontò spesso l’arduo compito di superare e di rovesciare tradizioni poetiche ormai ben consolidate e rese insigni da grandi nomi, compreso quello di Omero, utilizzando la tecnica dell’oppositio in imitando, tanto ardita quanto geniale. Ne abbiamo un esempio nell’Epinicio per Berenice, che ci è giunto grazie a due diversi ritrovamenti papiracei, pubblicati uno nel 1941 e l’altro nel 1977. Il tono generale della lirica ricorda Pindaro, un autore con cui Callimaco condivideva sia l’alto concetto di sé che quello dell’originalità della propria arte; inoltre, il poeta tebano aveva anche esaltato, nella Pitica IV, il trionfo di Arcesilao, un sovrano che aveva svolto un ruolo preminente nell’antica storia di Cirene, patria amatissima di Callimaco.
Il nucleo centrale dell’epinicio callimacheo trattava il mito di fondazione dei giochi Nemei da parte di Eracle. Ma il poeta si rifiutò di celebrare la parte più nota della vicenda, l’uccisione del leone, figlio di Ortro e di Echidna, che l’eroe dovette strangolare con le mani nude, perché la terribile belva era invulnerabile. Secondo il suo gusto, Callimaco rifuggì dai toni epici e si soffermò invece a descrivere il soggiorno di Eracle presso Molorco, l’umile campagnolo che avrebbe voluto sacrificare il suo unico montone per onorare degnamente l’ospite; e frugando con sguardo attento e curioso nelle zone più inesplorate di un’illustre tradizione (l’accoglienza di Molorco a Eracle ha il suo archetipo in quella di Eumeo a Odisseo, nel XIV libro dell’Odissea), il poeta celebrò, insieme all’αἴτιον delle solennità panelleniche, anche l’ingegnosa abilità con cui il pastore costruiva le trappole per i topi, flagello delle sue magre provviste.
Leone. Statua, marmo bianco pario, 400-390 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.
Allo stesso modo, nel III libro degli Aitia, Callimaco si accinse a narrare la storia dell’antico e nobile γένος degli Acontiadi, collegato alle più remote vicende della città di Iuli, nell’isola di Ceo. Ben presto, però, la fantasia del poeta fu attratta, più che da una ricostruzione erudita, ma forse un po’ arida, dal piacere di raccontare una bella e drammatica storia d’amore, coronata, dopo molte peripezie, dall’immancabile lieto fine: la vicenda di Acontio e Cidippe.
La favola gentile fu trattata da Callimaco con la consueta originalità. Egli non si dedicò tanto a un preciso racconto dei fatti, quanto alla descrizione di ciò che più attraeva la sua fantasia: la straordinaria bellezza dei due protagonisti, la passione immediata e profonda di Acontio, la malattia oscura e crudele di Cidippe, la gioia del sogno d’amore finalmente coronato. A conclusione del racconto, il poeta, desideroso di garantirne ai suoi lettori la veridicità, citò anche la sua fonte, l’opera di Xenomede, uno studioso del V secolo a.C., autore di una storia locale dell’isola di Ceo; in questo modo, Callimaco volle dare risalto non solo alla sua capacità creativa, ma anche alla sua attenta fatica di ricercatore erudito, evidente, per altro, in ogni momento della narrazione.
I Giambi
Sotto questo titolo sono raccolti tredici componimenti in dialetto ionico, caratterizzato da alcuni dorismi, nei quali Callimaco sperimentò vari tipi di versi giambici. Il contenuto e le occasioni delle singole liriche sono assai vari e anche la cronologia non è sempre ben determinabile. Tuttavia, la raccolta trova un motivo di unità nella sua struttura ad anello, poiché la prima e l’ultima composizione hanno come protagonista Ipponatte e sono scritte in giambi scazonti (coliambi), il metro di cui l’antico giambografo del VI secolo fu ritenuto inventore. Nel giambo I, Callimaco immagina infatti che Ipponatte, ritornato dal regno dei morti, perduto ormai interesse alla «guerra» contro Bupalo, il suo odiato avversario, si rivolga ai letterati del Serapeo, perennemente in discordia fra loro, per esortarli alla modestia e alla concordia, con l’edificante storia della coppa di Baticle. Costui, uomo di grandi ricchezze, in punto di morte consegnò al proprio figlio Anfalce una coppa d’oro con l’incarico di consegnarla al più saggio fra i sette sapienti. Il giovane offrì allora il prezioso oggetto a Talete, che, però, lo mandò a Biante, ritenendolo più meritevole. Biante, a sua volta, ne fece dono a Periandro e così via, finché l’ultimo, Cleobulo di Lindos, restituì la coppa a Talete, che la consacrò ad Apollo Didimeo. In questo modo, ciascuno dei sette diede prova di un’umiltà e di un senso della misura che sembrano essere scomparse del tutto dal cuore dei letterati moderni, perennemente rosi dall’orgoglio e dall’invidia.
Anche il giambo II, che ha forma di favola esopica, affronta il tema della polemica letteraria. In esso si narra che un tempo anche gli animali avevano avuto da Zeus il dono della favella; ma poiché ne abusarono con sfacciata petulanza, il dio, irritato, li rese muti e aggiunse le loro voci a quelle che gli uomini già possedevano; per questo motivo Filtone si esprime come un cane ed Eudemo come un asino. Purtroppo, la mancanza di più ampie notizie su questi due personaggi ci impedisce di appurare con certezza la loro identità e di comprendere a fondo il senso dell’ironia di Callimaco.
Banchetto sul fiume. Mosaico, I sec. a.C. ca. dal «Mosaico con scena nilotica». Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.
Il giambo III ha carattere morale e contiene un’aspra critica contro la corruzione dei tempi e degli uomini, che preferiscono il denaro alla virtù; di carattere analogo è il giambo V, in cui si rimprovera il comportamento scorretto e violento di un maestro di scuola nei confronti dei suoi allievi.
Il giambo IV riprendeva un tema antichissimo, quello della contesa fra piante. Un esempio di questo tipo di favola compare già nella letteratura assiro-babilonese: ne sono protagonisti la palma e il tamerisco, che, in un vivace battibecco, esaltano ciascuno le proprie qualità. In Callimaco, che afferma di narrare una favola lidia, i contendenti sono l’alloro e l’olivo, che rivendicano ciascuno per sé il primato assoluto; la parte finale del componimento, gravemente mutila, ci impedisce di comprenderne la conclusione.
Da quanto si è detto fin qui, appare evidente come, al di là della forma metrica, la poesia giambica di Callimaco abbia assai poco in comune con l’antico carattere di questo genere letterario; un’ulteriore testimonianza ci viene fornita dagli altri componimenti della raccolta, in cui il poeta trattò argomenti del tutto estranei al giambo tradizionale.
Il giambo VI, ad esempio, è una descrizione (ἔκφρασις) della statua crisoelefantina di Zeus Olimpio, opera di Fidia; i giambi VII, VIII, X e XI hanno invece carattere eziologico: nel VII, la statua stessa di Hermes illustrava una forma particolare del culto del dio, onorato in Tracia con l’appellativo di Perpheraios; nell’VIII si spiegava l’origine di una gara di corsa, attribuendone l’istituzione agli Argonauti; il X narrava le vicende dell’eroe Mopso, per spiegare il motivo per cui, in Panfilia, Afrodite veniva onorata con il sacrificio di un cinghiale. Il rito, infatti, traeva origine dalla promessa fatta da Mopso di offrire alla dea il primo animale che avrebbe ucciso a caccia. Nell’XI, Callimaco ricostruiva l’αἴτιον di un’espressione proverbiale.
Il giambo IX riprende i temi moraleggianti del III e del V, mentre nel XII, classificabile come poesia d’occasione, Callimaco, per festeggiare la bambina dell’amico Leonte, giunta al suo settimo giorno di vita, descrive i doni offerti dagli dèi alla piccola Ebe, la dea della giovinezza, figlia di Era e di Zeus, nella stessa circostanza. Particolarmente significativo è quello di Apollo: il dio della musica e della poesia compone infatti un canto in onore della fanciulla, sicuro che il trascorrere del tempo distruggerà i doni di tutti gli altri dèi, ma non il suo, che è il più bello perché è destinato a durare per sempre. Con queste parole, Callimaco riprende il tema dell’eternità della poesia, già trattato dai lirici del VI secolo (da Saffo, soprattutto), che passerà poi, con largo successo, nella letteratura latina: il celebre incipit oraziano Exegi monumentum aere perennius (Odi III 30) ne è forse l’esempio più noto.
Ragazza che gioca agli astragali. Marmo, 130-150 d.C., Berlin, Antikenmuseum.
Questa varietà di contenuti, in contrasto con le consuetudini ormai consolidate, dovette attirare qualche critica a Callimaco da parte di altri letterati, che avrebbero preferito una più tradizionale unità di argomenti. Ce lo dimostra il giambo XIII, in cui il poeta si difese dall’accusa di πολυείδεια, presentando l’«eterogeneità» dei temi come un pregio e non come un difetto e confermandone la legittimità con l’esempio di Ione di Chio, un versatile poeta amico di Sofocle, vissuto fra il 490 e il 421 a.C., autore di tragedie, ma anche di componimenti epici, elegiaci, lirici e filosofici. Come abbiamo già detto, nel giambo XIII, l’ultimo della raccolta, compariva di nuovo il personaggio di Ipponatte; ma le lacune del testo ci impediscono di comprenderne con chiarezza il motivo e la funzione. Con questa sua produzione, Callimaco iniziò un nuovo genere letterario, detto σπουδογέλοιον, «seriocomico»; la critica moderna lo ha giudicato assai significativo, non solo perché ci offre un’ulteriore dimostrazione del multiforme ingegno del poeta, ma anche perché esso ebbe una notevole risonanza nella letteratura latina. Infatti, nonostante l’affermazione di Quintilianosatura…tota nostra est (Institutio oratoria X 1, 93), si è ormai giunti alla convinzione che Callimaco abbia contribuito, insieme ai giambografi del VI secolo a.C. e alla commedia antica, a offrire temi e modelli alla poesia satirica latina e al genere letterario della satura, che da lui assimilò il carattere composito dei contenuti e la tendenza a esprimere concetti di elevata e perfino severa moralità con piglio disinvolto e faceto.
Serapide. Tavola, affresco, II-III sec. d.C. dall’Egitto.
Le poesie liriche
Callimaco compose anche un certo numero di poesie liriche, in cui compaiono, ancor più accentuate, quelle caratteristiche di raffinatezza formale e di ricercata varietà del metro che già si notano nella produzione giambica. A quanto pare, egli non le raccolse in un corpus a parte, distinto dalle altre opere; perciò, nel volumen che servì a un ignoto grammatico del I secolo come fonte per le διηγήσεις del Papiro Milanese 18, queste liriche sono inserite dopo gli Aitia e i Giambi.
La prima di esse era composta in endecasillabi faleci, il metro che diverrà così caro a Catullo; ne rimangono soltanto l’incipit e l’argomento, dal quale si può comprendere che il poeta cantava la storia delle donne dell’isola di Lemno, assassine dei loro uomini.
La seconda lirica era intitolata Παννυχίς, «festa notturna», ed era composta in un metro asinarteto spesso usato da Euripide, formato da un dimetro giambico unito a un verso itifallico; l’argomento ci informa che, nella parte centrale, il carme trattava le vicende dei Dioscuri e di Elena.
La terza composizione, della quale rimangono interi poco più di venti versi, era la già ricordata Apoteosi di Arsinoe, scritta poco dopo la morte della sposa di Tolemeo II Filadelfo, avvenuta nel 270 a.C. In essa il poeta dava ancora una volta prova di rara erudizione, usando un metro anapestico piuttosto inconsueto, l’archebuleo; il contenuto era caratterizzato da toni alti e patetici, soprattutto nella descrizione del lutto che aveva colpito le città d’Egitto per la morte della regina.
Arsinoe II con le fattezze di Iside-Selene. Busto, marmo, III secolo a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Nel quarto carme, di cui restano circa dieci versi, in pentametri coriambici catalettici, Callimaco cantava il mito di Branco, un bellissimo pastorello di Mileto amato da Apollo, che aveva avuto dal dio il dono della profezia, trasmesso poi a tutti i suoi discendenti, la casta sacerdotale dei Branchidi.
A questi quattro componimenti lirici se ne possono aggiungere alcuni altri, di varia estensione, dei quali è rimasta traccia nei reperti papiracei e nella tradizione indiretta. Uno di essi, intitolato Γραφεῖον («Lo stilo», con cui si incidevano le parole sulla superficie cerata delle tavolette), era composto in distici elegiaci e, a quanto ci è dato sapere, trattava dello stile pungente e aggressivo della poesia satirica di Archiloco.
Berenice II. Alessandria d’Egitto, post 241 a.C. ca. Emidramma, AV 2, 13 g. Obverso: ΒΕΡΕΝΙΚΗΣ-ΒΑΣΙΛΙΣΣΗΣ, cornucopia, diadema e stella (simbolo dei Dioscuri).
L’Ecale
Questo poemetto in esametri è la prima testimonianza sicura di un nuovo genere letterario, l’epillio (ἐπύλλιον). Prima di Callimaco, il termine fu usato da Aristofane con il valore di «piccolo verso» e, in seguito, dal retore Ateneo, nel III secolo d.C., con il significato di «poemetto epico» di breve lunghezza, in cui predominano aspetti descrittivi o contenuti amorosi, piuttosto che storie di dèi e di eroi. Con questo tipo di composizione, Callimaco volle dimostrare la possibilità di una poesia diversa e più adatta ai mutati gusti del pubblico, scegliendo un argomento poco noto e sviluppandolo con grande perizia formale, oltre che con la consueta originalità e autonomia dalla tradizione. Il poemetto, che in origine doveva constare di un migliaio di versi (forse anche meno), ci è noto attraverso numerosi frammenti di varia estensione e attraverso le διηγήσεις del già citato Papiro Milanese 18. In esso Callimaco raccontava un’impresa di Teseo, la cattura del Toro di Maratona.
Sfuggito alle insidie di Medea, la terribile maga della Colchide divenuta moglie di Egeo, allora re di Atene, Teseo era tenuto sotto strettissima sorveglianza dal genitore, che temeva per la sua vita. L’eroe, però, eluso il controllo del padre, si mise in viaggio per affrontare il Toro di Maratona, un animale gigantesco e feroce che desolava la regione. Sorpreso dalla sera e da un violento temporale, Teseo fu costretto a chiedere ospitalità in un casolare, appartenente a una vecchia contadina, Ecale. Ella accolse cortesemente l’eroe e lo ricolmò di affettuose premure, offrendogli il meglio delle sue povere provviste. Dopo aver trascorso la notte in piacevole conversazione, l’eroe ripartì al sorgere dell’alba. In seguito, catturato e domato il terribile toro, Teseo ritornò dalla sua ospite per ringraziarla e per rassicurarla sul felice esito dell’impresa. Purtroppo, Ecale nel frattempo era morta; a Teseo, addolorato per la sua scomparsa, non restò che onorarne la memoria dando alla località il nome di Ecale e fondandovi un tempio dedicato a Zeus Ecalesio, con una festività annuale, in cui aveva luogo una gara di corsa.
Il poemetto, che ha carattere eziologico, testimonia l’erudizione di Callimaco non solo nella scelta dell’argomento, ma anche nei sottili collegamenti che legano il mito di Teseo a quello di Eracle, trattato nell’Epinicio per Berenice. Sappiamo infatti che per gli antichi le due figure di Eracle, di origine dorica, e di Teseo, l’eroe attico per antonomasia, erano contrapposte e complementari, come dimostra anche il fatto che si dicessero l’uno nato da Zeus, il dio del cielo, e l’altro da Poseidone, il signore del mare. Fra le fatiche di Eracle è compresa la cattura del toro di Creta; ma l’animale, una volta raggiunta l’Ellade, sfuggì all’eroe o fu liberato da lui, trovando dimora nelle campagne di Maratona, dove poi fu nuovamente catturato, questa volta da Teseo. Inoltre, il racconto dell’ospitalità offerta a Eracle da Molorco, che rappresenta una digressione descrittiva nella struttura dell’epinicio, appare molto simile, come intenti e come toni, al brano dell’epillio in cui Callimaco si sofferma a descrivere il povero casolare di Ecale, i vari utensili domestici, i rustici ma gustosi cibi da lei imbanditi all’eroe; un mondo semplice e sereno, contemplato con nostalgia dal cittadino di una grande e raffinata metropoli, che però rimpiange talvolta un genere di vita duro e povero, ma di più umana misura.
La “Vecchia mercantessa” (Old Market Woman). Dettaglio del volto. Statua, copia romana di età Giulio-Claudia da originale ellenistico di II sec. a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.
Oltre all’Ecale, Callimaco aveva composto anche un altro epillio in esametri, la Galatea, di cui restano un frammento e la διήγησις. In esso, il poeta narrava il mito della Nereide Galatea e di suo figlio Galato, capostipite del popolo dei Galati, gli stessi che, nel 278 a.C., si spinsero fino all’Ellesponto, con un’impresa che colpì vivamente i contemporanei e che avrebbe potuto fornire al poeta lo spunto per la sua opera. Se così fosse, la Galatea sarebbe da considerare una delle opere giovanili di Callimaco.
Gli Inni
Dell’opera di Callimaco fanno parte anche sei inni, di varia estensione, metro e lingua; i primi quattro, infatti, furono composti in esametri e in dialetto epico ionico; il quinto è in distici elegiaci, con una coloritura dorica di carattere spiccatamente letterario, che richiama assai da vicino il linguaggio di un altro grande poeta ellenistico, Teocrito. Callimaco si servì dello stesso dialetto anche nell’ultimo inno, che, però, è in esametri. Tali deviazioni dagli aspetti tradizionali del genere non devono però stupirci, perché non fanno altro che confermare un carattere della poetica callimachea, la πολυείδεια, a cui abbiamo prima accennato. Gli Inni devono essere considerati composizioni letterarie, non cultuali; e se anche alcuni di essi, come il primo, il terzo e il quarto, conservano un’impostazione che richiama l’innografia omerica, essi furono destinati certo alla recitazione, forse in ambiente simposiale. Ciò si può dedurre dalla struttura del secondo, del quinto e del sesto, che hanno carattere espositivo, con un narratore che si rivolge al pubblico, durante lo svolgimento di un rito. Questa particolarità ha indotto alcuni studiosi a stabilire un raffronto con Teocrito, tentando di ricavarne anche delle indicazioni per la datazione, che si rivela però un problema piuttosto difficile. È certo infatti che gli Inni vennero composti in un arco di tempo assai lungo; elementi interni ad essi ci permettono di stabilire che il più antico è l’inno A Zeus, databile forse fra il 283 e il 280 a.C., mentre il più tardo è quello Ad Apollo, che potrebbe risalire al periodo fra il 258 e il 247 a.C. Un accenno all’invasione dei Galati (274 a.C.) e all’apoteosi di Tolemeo Filadelfo, scomparso nel 246, ci sono utili per datare l’inno A Delo; per gli altri tre, purtroppo, non abbiamo indicazioni sufficienti.
Il contenuto degli Inni presenta un’evidente fusione di antico e di nuovo; insieme a tracce della remota tradizione rapsodica compaiono aspetti tipici della cultura ellenistica: alla celebrazione degli dèi si affianca quella del sovrano, considerato come il protagonista di sfarzose cerimonie di gusto più orientale che greco; il mondo divino è descritto con una certa vena umoristica, che ha dei precedenti in Omero (Odissea VIII 266 sgg.), come il racconto boccaccesco ante litteram degli amori di Ares e Afrodite, sorpresi da Efeso, imprigionati in una rete ed esposti al ludibrio degli altri dèi. Ma in Callimaco compare anche il gusto per la descrizione precisa e concreta, per il particolare prezioso o quotidiano, assolutamente assente nella tradizione più antica; di conseguenza, la vita degli dèi si colora, nei versi nel nostro poeta, di toni molto più umani e “borghesi”, mentre sarebbe inutile cercarvi sentimenti di autentica religiosità, ormai estranei al mondo alessandrino.
Tolomeo III Evergete, Alessandria d’Egitto, 245-222 a.C. ca. Emidramma, AE 35, 46 g. Recto: Testa diademata e barbata di Zeus-Ammone, voltata a destra.
L’inno I, A Zeus, sembra riprendere, all’inizio, schemi tradizionali, narrando la nascita e l’infanzia di Zeus con forme e linguaggio di stampo epico, a cui si unisce però la tendenza a digressioni descrittive del tutto nuove. Così, quando il poeta racconta come Rea, dopo aver partorito Zeus, cercasse invano dell’acqua per purificarsi e per lavare il neonato, la sua attenzione si sofferma a lungo, con erudizione, ma anche con vivo realismo, sull’arido paesaggio dell’Arcadia, che non ha ancora ricevuto dal grembo di Gea il dono delle acque. Prima che Rea colpisca con lo scettro il fianco sassoso del monte, per farne scaturire le impetuose fiumane prigioniere nelle viscere della terra, l’occhio del poeta coglie tutti i particolari dell’ambiente desolato dalla calura: i lecci dalle chiome disseccate dalla siccità, i segni lasciati dalle ruote dei carri nella polvere delle vie, le petraie assolate popolate di serpi, il viandante sitibondo che cerca ansiosamente un filo d’acqua, ignorando che, sotto i suoi piedi, nel seno profondo della terra, ne scorrono rapinosi torrenti. La dimensione temporale del racconto è quella arcaica del mito; ma la descrizione del paesaggio prende spunto da un’esperienza concreta, che ci richiama alla mente l’ardente estate mediterranea già descritta da Esiodo e da Alceo. Ma l’infanzia di Zeus, allattato dalla capra Amaltea e affidato da Rea alle Ninfe, fu di breve durata; divenuto precocemente adulto, il giovane dio spartì con giustizia il potere con i suoi fratelli maggiori e assegnò a tutti gli altri dèi il controllo sulle attività umane, riservando per sé solo il compito di proteggere i re, «perché non c’è niente di più divino dei sovrani, stirpe di Zeus» (Inni I, 79-80). A questo punto, all’esaltazione della potenza di Zeus si ricollega l’omaggio a Tolemeo Filadelfo, esempio terreno di regalità, che il dio supremo ha voluto subito mettere alla prova, per saggiarne le capacità. Quest’allusione, prima di qualunque tono servile o bassamente adulatorio, permette di datare l’inno con una certa sicurezza al 283 o al 282 a.C., quando Tolemeo, appena salito al trono, dovette fronteggiare la ribellione provocata dai suoi fratelli maggiori e quando forse Callimaco non era ancora stato accolto a corte; si tratterebbe perciò del più antico fra gli Inni.
Statua di Apollo. Marmo, copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, da Cirene. British Museum.
L’inno II, Ad Apollo, può invece essere considerato il più tardo della raccolta, perché è databile agli anni in cui Cirene ritornò sotto il potere dei Tolemei, con le nozze fra Berenice e Tolemeo III Evergete. In esso, Callimaco, dopo aver esaltato il dio e i suoi benefici nei confronti dell’umanità, secondo gli schemi dell’innologia sacra, lo celebra con l’epiteto Κάρνειος, che il poeta considera «avito», perché tipico della città di Cirene, fondata dal suo antenato Batto proprio per volere del dio. Ma oltre a questa allusione alle glorie di famiglia, l’inno contiene un altro importante accenno autobiografico, che abbiamo già preso in esame: la scena finale in cui l’Invidia, che sussurra all’orecchio di Apollo calunnie contro il poeta, viene sdegnosamente allontanata dal dio con un calcio; il tono è analogo a quello dell’Elegia contro i Telchini, che, come abbiamo visto, appartiene agli anni senili del poeta.
Statua di Artemide. Bronzo, IV secolo a.C. ca. Museo Archeologico del Pireo.
L’inno III, Ad Artemide, è uno dei più estesi e anche dei più vari nel contenuto, tanto da sembrare privo di unità; ma questa caratteristica, presente anche negli Aitia, ci fa supporre che Callimaco abbia scelto deliberatamente tale struttura, nel desiderio di sperimentare una nuova tecnica narrativa, applicandola a un genere letterario così antico. L’inno è databile solo approssimativamente al periodo centrale dell’attività di Callimaco (forse dopo il I libro degli Aitia). Fra i passi degni di nota per l’erudizione, possiamo ricordare un accenno al mito di Eracle e Teodamante, in polemica con il modo in cui l’aveva trattato Apollonio Rodio, e uno sfogo di preziosa dottrina nella parte finale del componimento, in cui compare un elenco di luoghi e personaggi legati al culto di Artemide, forse un po’ troppo lungo e monotono per il nostro gusto. Al contrario, ci attraggono per la loro grazia e la loro perfezione formale alcune scenette, in cui il poeta descrive con una straordinaria freschezza l’infanzia di Artemide. All’inizio, il poeta ci mostra la dea, ancora bambina, mentre cerca di convincere il padre ad accontentare i suoi desideri, standogli seduta sulle ginocchia e accarezzandogli il volto, e, anche se questo padre è Zeus, il dio supremo ci appare come un qualunque genitore affettuoso, schiavo delle moine della figlioletta e assolutamente incapace di rifiutarle qualche cosa (Inni III, 4-40). D’altra parte, che Artemide sia una bambina decisa e capace di ottenere tutto ciò che vuole, lo dimostra il suo comportamento di fronte ai Ciclopi che devono fabbricarle l’arco e le frecce. Ben lontana dall’essere spaventata dai mostruosi giganti monocoli, che le altre dee minacciano di chiamare per intimorire i loro figli quando fanno i capricci, la piccola si arrampica sulle ginocchia poderose di uno di essi, Bronte, e aggrappandosi con le manine al folto pelo che copre il petto del Ciclope, ne strappa un ciuffo lasciandogli per sempre una chiazza depilata al centro del torace (Inni III, 72-86). In questo modo, Callimaco offre un magistrale esempio del gusto alessandrino, temperando la solennità del tema con un garbato umorismo; ne è riprova la scena in cui Eracle, perennemente affamato, esorta la futura cacciatrice a non perdere tempo con piccole prede, ma a dedicare la sua attenzione soltanto a cinghiali e a tori, suscitando così il riso di tutti gli dèi, che ben conoscono il formidabile appetito del fortissimo eroe (Inni III, 144-157).
Guerriero galata. Statuetta, terracotta, 200 a.C. ca. dall’Egitto.
L’inno IV, A Delo, il più ampio di tutti, riprende all’inizio un tema già trattato nell’inno omerico Ad Apollo Delio. In esso si narra che, quando Latona stava per partorire, nessuna delle terre voleva accoglierla, per timore della vendetta di Hera, gelosa della rivale. Questa parte iniziale del mito offre a Callimaco l’opportunità per un’ampia digressione geografica, che evoca agli occhi del lettore un vasto quadro di paesaggio, delineato con grande novità espressiva, oltre che con profonda erudizione. Infine, Latona, disperatamente in cerca di un rifugio che il mondo intero sembra negarle, giunge all’isola di Cos; e qui avviene il più straordinario dei miracoli: Apollo, ancora chiuso nel seno materno, fa sentire la sua voce profetica, dando così prova di una precocità superiore a quella di qualunque altro dio. Prima di Callimaco, il tema della precocità divina era stato trattato solo nell’inno omerico A Hermes, ben noto e assai apprezzato dai lettori ellenistici. In questo modo, il poeta entrò in competizione con il suo illustre modello e se ne distaccò, sviluppando l’argomento in modo completamente diverso. Apollo, infatti, consiglia alla madre di non fermarsi a Cos, perché non è conveniente che egli venga alla luce in quell’isola, che pure è fertile e bella; «ma un altro dio le Moire destinano a lei [sc. a Cos], / eccelsa prole di dèi Salvatori» (Inni IV, 165-166), che governerà fino all’estremo Occidente, dove a sera riposano i cavalli del Sole. La profezia di Apollo continua alludendo all’invasione dei Celti, designati qui con il nome di “Galati”, che la Grecia dovette fronteggiare intorno al 280 a.C. Questi popoli, emigrati verso sud in cerca di nuove terre, attaccarono dapprima la Macedonia, uccisero in battaglia il re Tolemeo Cerauno e dilagarono poi nel cuore dell’Ellade. Le loro orde giunsero in prossimità del santuario di Delfi, probabilmente con l’intenzione di spogliarlo dei ricchissimi doni votivi; ma furono respinti dagli Etoli. Questo accenno permette una datazione abbastanza precisa dell’inno; e l’invenzione poetica della profezia apollinea a proposito dell’isola di Cos, mentre contribuisce, in quanto parola divina, a dare un tono di ineludibile verità al presagio della futura grandezza di Tolemeo, ne attenua al tempo stesso il tono evidentemente encomiastico.
Statua della cosiddetta «Atena Farnese». Copia romana dall’originale di Pirro, della scuola fidiaca, V secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
L’inno V, Per i lavacri di Pallade, è scritto in distici elegiaci e non presenta alcun elemento interno che possa permettere una collocazione cronologica anche approssimativa. Oltre ad avere una metrica inconsueta per un inno, questo componimento è anche un esempio di poesia «mimetica», una forma innovativa portata a perfezione da Callimaco e da Teocrito, che conferisce all’inno la struttura di un discorso diretto, pronunciato dai protagonisti di un cerimonia rituale. In questo caso, il poeta rievoca la festa annuale di Pallade Atena ad Argo, durante la quale la statua della dea viene posta su un carro e portata a bagnarsi nelle acque del fiume Inaco. La voce narrante è quella di un banditore sacro, che invita le devote e dà loro istruzioni per il rito. Poiché l’apparizione della statua della dea rappresenta un’autentica epifania, nessun occhio maschile si deve posare sul suo simulacro, immerso nel bagno rituale; perciò, affinché nessun uomo sia tentato di cedere a una curiosità sacrilega, l’araldo narra il mito di Tiresia.
Un giorno, Pallade e la ninfa tebana Cariclo, sua inseparabile compagna e madre di Tiresia, vollero trovare sollievo alla calura pomeridiana, bagnandosi nelle fresche acque della fonte Ippocrene; Tiresia raggiunse quel luogo sacro per dissetarsi:
75 Τειρεσίας δ᾽ ἔτι μῶνος ἁμᾶ κυσὶν ἄρτι γένεια
περκάζων ἱερὸν χῶρον ἀνεστρέφετο·
διψάσας δ᾽ ἄφατόν τι ποτὶ ῥόον ἤλυθε κράνας,
σχέτλιος· οὐκ ἐθέλων δ᾽ εἶδε τὰ μὴ θεμιτά.
Ma ancora Tiresia solo coi cani, la guancia appena da barba
scurita, si aggirava per il luogo sacro;
mosso da sete indicibile giunse alle acque della fonte,
sciagurato: e, senza volerlo, vide la proibita visione[4].
Pallade Atena, adirata, alza un grido; una tenebra improvvisa, profonda come la notte, cade sugli occhi di Tiresia, che rimane immobile e muto. Ma sua madre Cariclo, disperata per il destino del figlio, invoca pietà dalla dea, che le ha finora dimostrato affetto e amicizia. Atena, pur senza mutare la legge irrevocabile che condanna alla cecità l’uomo che posi gli occhi su una nudità divina, si lascia impietosire e promette a Cariclo che suo figlio sarà compensato della perdita della vista con il dono della profezia. I suoi occhi mortali saranno ciechi per sempre, ma egli avrà la capacità di comprendere il misterioso linguaggio dei segni mandati dagli dèi, vivrà una vita lunghissima e conserverà le sue capacità di veggente anche dopo la morte.
L’inno, dunque, sviluppa anche il tema eziologico, caro a Callimaco; ma quello che maggiormente colpisce la nostra attenzione è la straordinaria capacità di suggestione che emana dai versi centrali dell’inno: la profonda calma meridiana, l’acqua della fonte, la quiete suprema che domina la montagna evocano nella fantasia del lettore un paesaggio carico di sacro mistero, in cui il sovrumano silenzio prelude a un’epifania divina, inviolabile dall’occhio umano. L’avventura di Tiresia è delineata in pochissimi versi, con tratti di una sobrietà scarna e stupendamente efficace: la visione involontaria, il grido di Pallade, l’improvvisa notte che piomba sugli occhi del giovane, suggellandovi per sempre l’immagine della dea; poi, l’immobilità di Tiresia e il suo silenzio, che lo assimilano all’incanto del paesaggio. Dopo questo momento di altissima poesia, l’inno riprende il suo ritmo più discorsivo e disteso, fino al commiato finale, quando la statua della dea, terminata la cerimonia, si appresta a far ritorno nel tempio, in mezzo alla schiera delle sue fedeli.
Iside-Demetra con spiga e scettro. Stele con rilievo, III-II sec. a.C. ca. dal Tempio di Iside. Dione, Museo Archeologico.
L’inno VI, A Demetra, è anch’esso un saggio di poesia «mimetica»; come nel precedente, la voce narrante è quella di un addetto alla cerimonia sacra, che si rivolge alle fedeli della dea, in attesa di celebrare le Tesmoforie dopo un giorno di digiuno rituale. Dopo il preludio, in cui si indicano alle donne le prescrizioni da seguire, mentre aspettano che giunga la processione della dea, il narratore inizia il racconto delle affannose peregrinazioni di Demetra in cerca di sua figlia Persefone, rapita da Hades. Ma la triste rievocazione delle pene della dea si chiude quasi subito: tutta la parte centrale dell’inno, che non è fra i più estesi, è dedicata al mito di Erisictone, l’eroe tessalo, figlio di re Triopa, che, per aver tentato di abbattere un bosco sacro a Demetra, fu punito da lei con una fame insaziabile. Il giovane intendeva usare il legname degli alberi consacrati per costruirsi una sala da banchetto nel suo palazzo; ma non appena ebbe vibrato il primo colpo d’ascia contro il tronco di un altissimo pioppo, la pianta emise un doloroso grido, che giunse alle orecchie della dea. Demetra, allora, assunte le sembianze di un’anziana sacerdotessa, cercò di distogliere Erisictone dal suo proposito; ma l’eroe la trattò con prepotenza e disprezzo, minacciando di colpirla con l’ascia, se avesse continuato a importunarlo. Allora Demetra riprese il suo vero, terribile aspetto e condannò il giovane sacrilego a essere tormentato implacabilmente dalla fame e dalla sete.
A questo punto, la funzione eziologica dell’inno sarebbe già compiuta, perché la punizione di Erisictone si ricollega, per contrasto, al digiuno rituale delle fedeli della dea, ormai giunta al termine. Ma Callimaco sente ancora il bisogno di dare libero sfogo alla sua fantasia e alla sua straordinaria capacità fabulatoria; il poeta, così sobrio e incisivo nel narrare l’avventura di Tiresia, cede qui al piacere del racconto. Erisictone è un principe di sangue reale e i suoi familiari non vorrebbero che il suo stato recasse loro disonore agli occhi dell’intera città; perciò, tentano in ogni modo di tener nascosta la sua terribile disgrazia, adducendo le più varie giustificazioni per le assenza del principe.
L’insaziabile voracità di Erisictone lo spingerà, dopo aver divorato tutte le scorte della reggia, a elemosinare il cibo per strada, rendendo così manifesta a tutti la sua terribile punizione.
Callimaco descrive la pena dell’eroe senza suscitare alcun senso di orrore religioso, ma inserendola nel contesto quotidiano di una realtà familiare, in cui essa crea umanissimi sentimenti di disagio e di vergogna. L’inno si chiude con un’invocazione a Demetra, perché conceda alle sue fedeli abbondanza e felicità.
Tolomeo III Evergete, Alessandria d’Egitto, 245-222 a.C. ca. Emidramma, AE 35, 46 g. Obverso: ΠΤΟΛEMAIOY- BAΣΙΛΕΩΣ, Aquila stante verso sinistra, sopra un fascio di saette, una cornucopia e il diadema reale.
Gli Epigrammi
La produzione poetica di Callimaco comprende anche un corpus di oltre sessanta epigrammi di vario argomento e di diversa estensione (dal monodistico, formato da due soli versi – un esametro e un pentametro – alla breve elegia), di cui non è possibile stabilire una cronologia interna, benché alcuni di essi contengano riferimenti storici o autobiografici. In base all’argomento trattato, essi possono essere suddivisi in quattro categorie: epigrammi funerari, votivi, erotici e letterari. Grazie a essi, Callimaco occupò una posizione di preminenza nell’ambito della prima generazione dei poeti appartenenti alla cosiddetta scuola ionico-alessandrina, per lo stile raffinato, la grazia elegante, la capacità di esprimere sia il pathos sincero che l’omaggio garbato, senza cadere mai in toni lacrimevoli o servili.
Gli epigrammi più interessanti per noi sono forse quelli letterari, in cui compaiono accenni alla poetica dell’autore, che arricchiscono e completano quelli presenti in altre opere. Grazioso e significativo, a questo proposito, l’epigramma I, Anthologia Palatina VII, 89, che ha come protagonista Pittaco, uno dei sette sapienti già ricordati nel giambo I. Il saggio vegliardo, mentre siede tranquillo in una piazzetta nella quale alcuni bambini giocano con le trottole, vene interrogato da un giovanotto in procinto di sposarsi. Poiché gli sono state offerte due possibilità, quella di unirsi a una ragazza ricca e di condizione sociale superiore alla sua, e quella di prendere in moglie una fanciulla di rango più modesto e di mezzi pari a quelli del futuro marito, il giovane vorrebbe conoscere l’opinione di Pittaco, prima di impegnarsi con l’una o con l’altra. Ma, mentre il saggio sta per rispondere, uno dei bambini, vedendo che un suo compagno sta per colpirgli la trottola, gli grida: τὴν κατὰ σαυτὸν ἔλα («Prendi quella alla tua portata!». Pittaco, allora, invita il giovane a considerare le parole del fanciullo come la risposta giusta ai suoi dubbi. Lo spirito della favoletta è simile a quello dei Giambi; e la critica è concorde nel riconoscere in essa un’ulteriore riconferma delle scelte letterarie e stilistiche di Callimaco, ben consapevole di ciò che si adattava maggiormente alla sua vena poetica.
Alla categoria degli epigrammi letterari di contenuto encomiastico appartiene il LI, scritto probabilmente dopo il 246 a.C., quando si celebrarono le nozze fra Tolemeo III Evergete e Berenice, figlia di Megas. Alludendo a una statua che raffigurava la giovane e bella sovrana, Callimaco afferma, con elegante omaggio cortigiano, che le Cariti ormai non sono più tre, ma quattro e senza la quarta «neanche le Cariti stesse sarebbero Cariti».
La stessa sorridente finezza toglie ogni senso del dramma alle sofferenze d’amore e riduce il rapporto fra innamorati a un gioco di schermaglie e di ripicche, in cui il rifiuto o l’abbandono possono causare malinconia, ma non certo profonde crisi esistenziali. Ne è esempio l’epigramma LXIII, dedicato a una ragazza di nome Conopio («Zanzaretta»), che sa essere pungente e dispettosa come il suo nome:
Ragazza in fuga. Parte della decorazione acroteriale, pietra locale, dalla Casa Sacra di Eleusi.
Il tema è quello del παρακλαυσίθυρον (il «lamento dell’amato presso la porta chiusa»), caro ai poeti erotici alessandrini e destinato a grande fortuna nella poesia lirica latina. La raffinatezza formale, evidenziata dall’insistito gioco delle anafore (vv. 1 e 3, 4-5), dà alla breve lirica un tono di elegante intellettualismo, assolutamente privo di dramma. Anche l’accenno finale all’inesorabile vicinanza della vecchiaia – un topos in questo genere di letteratura – esprime qui soltanto una ripicca un po’ stizzosa, unica possibilità di rivincita dell’amante respinto, non certo l’angosciosa premonizione della caducità della gioventù, della bellezza, dell’amore e della vita stessa, che rende così intense le poesie di Mimnermo.
Ma questa poesia tanto leggera e sorridente può anche trovare le espressioni più pure e intense di una mestizia raccolta e dignitosa, come accade in alcuni epigrammi sepolcrali, a cui la brevità conferisce un più profondo senso di composto dolore:
Δωδεκέτη τὸν παῖδα πατὴρ ἀπέθηκε Θίλιππος
ἐνθάδε, τὴν πολλὴν ἐλπίδα, Νικοτέλην.
Dodicenne il bambino ha qui deposto il padre Filippo,
Una fortuna grandissima, dall’antichità ai giorni nostri
Dopo Omero e Menandro, Callimaco è forse il poeta greco che ha avuto più fortuna, dall’antichità ai giorni nostri. Nella letteratura latina arcaica, Ennio si ispirò al proemio degli Aitia per comporre quello degli Annales, in cui, con evidente riferimento al testo callimacheo, narra che Omero gli apparve in sogno sul monte Parnaso. Anche il genere letterario dell’epillio, ripreso da Mosco, un poeta siracusano della seconda metà del II secolo a.C., ebbe una straordinaria fortuna: i maggiori fra i poetae novi, come Elvio Cinna, Licinio Calvo e lo stesso Catullo (Carmen LXIV) si ispirarono a esso; a Catullo appartiene anche la già ricordata versione della Chioma di Berenice.
In età augustea, il poeta elegiaco Properzio considerò titolo d’onore essere definito «il Callimaco romano» e anche Orazio, Ovidio (il personaggio di Bauci, Metamorphoseon VIII, 620 sgg. si ispira a quello di Ecale) e lo stesso Virgilio si rifecero speso a temi della poesia e della poetica callimachee; perfino la Ciris, poemetto di non sicura attribuzione, che apparterrebbe agli anni giovanili di Virgilio, risente di questa influenza. Dell’importanza di Callimaco per comprendere a fondo tono e contenuto della satira latina si è già parlato.
Tuttavia, ancora più notevole della sua influenza diretta di questo autore, fu quella esercitata per molti secoli dal suo canone stilistico: della subtilitas callimachea e delle sue continue esortazioni al labor limae fecero tesoro non solo la letteratura latina, ma anche la letteratura italiana rinascimentale e neoclassica. Agnolo Poliziano, nella Giostra, e Ugo Foscolo, nelle Grazie, ebbero senza dubbio presenti il testo e lo stile del poeta cirenaico che, in tempi più vicini a noi, non mancò di ispirare anche Pascoli (Poemi conviviali) e D’Annunzio (Alcyone) con la sua elegante preziosità, frutto di erudizione e di attenta ricerca filologica.
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Note:
[1] Callim. Aitia IV, fr. 110 Pf., 47-56, tr. G.B. D’Alessio.
Sis quocumque tibi placet / sancta nomine (Catull. 34. 21 s.): «sii onorata con qualunque nome di piaccia». La stilizzata movenza che avvia alla chiusa del catulliano inno a Diana, ove è il riflesso del canto (e consueto) pragmatismo con cui l’orante intende tutelarsi dal rischio di invocare la divinità con appellativi che non le competono, o peggio di ometterne le specifiche denominazioni cultuali[1], si presta con particolare opportunità a riferirsi a una dea (Hor. Carm. 3, 22, 4: diua triformis) che è, a un tempo, una e trina (34, 13-16):
tu Lucina dolentibus
Iuno dicta puerperis,
tu potens Triuia et notho es
dicta lumine Luna.
Allorché, infatti, l’antica divinità italica preposta a esercitare un proprio autonomo ruolo nella sfera relativa alla fecondità – in virtù, pare, di un’origine ctonia, che tuttavia le inibì la dotazione di alcune prerogative di carattere uranio[2] – finì per essere accostata, quando non sovrapposta, all’Artemide greca, di quest’ultima ereditò ben presto e senza conflitti, come fu spesso a Roma, le diverse competenze e investiture. Fatta oggetto di una confusa azione sincretistica, per altro ben lungi dal non essere, talora, ignorata, Diana assume così i tratti di Iuno Lucina, la dea che tutela il parto, quelli più sfumati di Ecate, la misteriosa entità demoniaca signora dei crocicchi, degli spiriti notturni e con imprecise implicazioni nel campo della magia, Triuia[3] appunto, nonché il ruolo di dea della luna, quasi un diritto “transitivo” (su scorta stoica) della sorella di Apollo. Gli effetti complessivi di una tale articolazione, caratterizzata da ininterrotte osmosi e contaminazioni[4] (il fatto che delle tre dee una si chiamasse «Trivia», dopotutto, non contribuiva a semplificare le cose) sono visibili nelle congestionate testimonianze di Varrone e Cicerone, non a caso percorse da un duplice denominatore, la luce e il tre. Se l’uno alza appena lo sguardo dalle strade al cielo (ling. Lat. 7, 16):
Triuia Diana est, ab eo dicta Triuia, quod in triuio ponitur fere in oppidis Graecis uel quod luna dicitur esse, quae in caelo tribus uiis mouetur, in altitudinem et latitudinem et longitudinem,
Dianam autem et lunam eandem esse putant, cum […] luna a lucendo nominata sit; eadem est enim Lucina, itaque ut apud Graecos Dianam eamque Luciferam sic apud nostros Iunonem Lucinam in pariendo inuocant. […] (69) Diana dicta quia noctu quasi diem efficeret. Adhibetur autem ad partus, quod i maturescunt aut septem non numquam aut ut plenumque nouem lunae cursibus[5].
Paul-Jacques-Aimé Baudry, Diana Reposing. Olio su tavola di mogano, 1859 c. Baltimora, Walters Art Museum.
Non sappiamo per chi e in quale contesto Catullo abbia composto il suo inno; può darsi che l’occasione fosse un omaggio ‘privato’ alla dea, calcato sulle forme di una celebrazione liturgica – come pare provato dal colorito romano dell’attacco (Dianae sumus in fide) e dalla menzione in explicit, a chiudere anularmente la struttura, della «stirpe di Romolo» – ma verisimilmente escluso dalla pubblicità di una performance rituale: non importa verificarlo, se mai possibile, in questa sede. Più memorabile è il fatto che Catullo aspiri a impreziosire alessandrinamente il suo dettato operando una strategia tutta giocata sulla riduzione e sul rimosso: non solo opta per la versione meno nota della leggendaria nascita della dea (vv. 7 s.), trascurando poi di ricordarne l’immediata prerogativa, quella di essere signora delle fiere e protettrice della caccia, ovvia al lettore educato che si prospetta: tale processo di riduzione, cui risponde sul piano stilistico l’alleggerimento di una (troppo) intensa sequenza allitterante, egli pone in atto anche nella riscrittura allusiva di un modello lucreziano, chiarita da una riconoscibile spia lessicale. La memoria, secondo un modulo riscontrabile altrove in Catullo, non gravita qui sull’innovazione né sullo scarto, ma funziona piuttosto come scelta, comunque connotante, tra opzioni già occupate (a cauzione, per inciso, della possibilità stessa di orientare il rapporto imitativo), omaggio riconosciuto all’autorità di chi detiene le competenze del naturalista e del poeta («la luce della luna può essere “falsa”, lo dice anche Lucrezio») nondimeno congiunta al prestigio di una tradizione antica che affonda le sue radici nel pensiero presocratico[6] (Lucr. 5, 575 s.):
Leocare, Diana cacciatrice. Copia romana di un originale greco del IV secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.
È interessante notare come anche Lucrezio in un’anticipazione delle teorie prevalenti e approvate da Epicuro (cfr. epist. Pyth. 94) sull’origine della luce lunare (luce propria o riflessa), condensate in un distico risonante, sacrifichi senza difficoltà una terza ipotesi (una luna sempre nuova si rigenera quotidianamente), descritta insieme alle altre, poco più avanti. Pur incardinata su un modello argomentativo a base analogica, caro a Lucrezio[8], e anche trascurandosi quella censura preventiva, si capisce che quest’ultima ha minor peso delle prime due, indebolita dalla stessa movenza sintattica che la introduce (5, 731: denique cur nequeat…): la sua fondatezza, meno scientifica che dialettica, risiede piuttosto nell’impossibilità di dimostrarne il contrario.
A designare la non autoctonia del tenue chiarore lunare, nothus appare vocabolo ben scelto. Prestito originariamente della lingua del diritto, è risorsa di cui i Latini fruiscono, colmando una loro lacuna lessicale, vuoi per denotare una particolare casistica esclusa dalla disciplina giuridica romana[9], vuoi, soprattutto, per profittare di suggestioni più aperte e variamente negoziabili: tant’è vero che l’àmbito di tale riuso latino, come avvisa M. Zicari, è per lo più greco, quand’anche solo per ascendenza letteraria[10]. E un precisa tradizione dossografica (greca), nota ancora mezzo secolo dopo a Filone Alessandrino[11], Catullo avrà forse inteso alludere, ma con un’ulteriore, almeno così parrebbe, motivazione contestuale: convertendo cioè quell’atto imitativo, nel caricare notho[12] di una debole accezione concessiva («sei detta Luna a motivo della luce, che pure è riflessa»), in un invito a mediare su un paradosso etimologico. Paradosso acuito dall’opposizione, contestualmente rilevata da una simmetria chiastica, rispetto a Lucina…dicta, che non è soltanto un modo per sottolineare quanto l’etimo di Lucina sia invece ovvio ed evidente, ma piuttosto per coinvolgere del lettore, dopo la sfera ‘calda’ dell’emotività (evocando una figura cara alla tradizione popolare), quella più ‘fredda’ dell’intelletto. Che luna, infatti, debba il suo nome alla luce, malgrado questa non le sia attributo costante né tantomeno suo proprio, è un dato che può legittimamente incuriosire; più ancora, però, se il merito, involontario, di aver contribuito a svelare l’arcano debba essere riconosciuto non a un latino, ma a un greco.
***
[1] Esemplare, al riguardo, l’equilibrio tra completezza e vaghezza dell’invocazione con cui Lucio, esasperato dal perdurare della sua condizione asinina, rivolge una supplica alla Luna (Apul. Met. 11, 2): regina caeli, siue tu Ceres…, seu tu caelestis Venus…, seu Phoebi soror…, seu… horrenda Proserpina triformi facie…, quoquo nomine, quoquo ritu, quaqua facie te fas est inuocare (L. Pasetti, La morfologia della preghiera nelle Metamorfosi di Apuleio, Eikasmos 10, 1999, 247-71; sull’approccio formale e contrattuale nei confronti del divino, da parte dei Romani, oltre alle ormai classiche pagine di E. Norden, Agnostos Theos, Leipzig-Berlin 1913 [= Darmstad 1971], è utile il materiale raccolto da G.B. Pighi, La poesia religiosa romana. Testi e frammenti…, Bologna 1958, così come la messa a punto di C. De Meo, Lingue tecniche del latino, Bologna 19862, 133-66; un contributo recente, senza significative novità, è quello di Ch. Guittard, Invocations et structures théologiques dans la prière à Rome, REL 76, 1998, 71-92).
[2] Una discussione più impegnativa può rinvenirsi in N. Scivoletto, L’inno a Diana di Catullo, in AA.VV., Filologia e forme letterarie. Studi offerti a Francesco della Corte, II, Urbino 1987, 357-74 (a minima integrazione si consideri A.E. Gordon, On the Origin of Diana, TAPhA 63, 1932, 177-91, per quanto rielaborato nel successivo, e citato, The Cult of Aricia, Berkeley 1934); sull’ipotesi che vuole attribuito a Diana un complesso intreccio di caratteri ctoni e urani (nel nome stesso si avverte l’attivazione etimologica di dius / dies, preziosamente comprovata, ad es., dalla scansione virgiliana di Aen. 1, 499: Diana, più problematico è verificarla in Catullo, data la mobilità della base bisillabica del gliconeo), soprattutto le pp. 363 s. Su genere letterario, tematica e destinazione del carme, si veda anche la sintesi di B. Németh, Der Diana-Hymnus (c. 34) von Catull. Analyse und Schlußfolgerungen, ACUSD 12, 1976, 37-45.
[3] Noto ad Ennio (scen. 121 V.2 [= 363 J.]) e a Lucrezio (1. 84), è appellativo (quando si escluda per certo l’inverso) calcato su τριοδίτις, il cui conio parrebbe logico supporre in età più alta, verosimilmente alessandrina, rispetto a quelle di Plutarco (mor. 937e) e di Ateneo (325a).
[4] Di cui sia prova, a titolo di esempio, questo verso euripideo (Hel. 569): ὦ φωσφόρ᾽ Ἑκάτη, πέμπε φάσματ᾽ εὐμενῆ; parimenti con «Trivia» è indicata la luna in Catull. 66, 5, come sarà in Dante (Par. 23, 25 s.): «quale ne’ plenilunii sereni / Trivia ride tra le ninfe etterne…».
[5] Cfr. ancora Varro, ling. Lat. 5, 68: luna quod sola lucet noctu; [69]: quae ideo quoque uidetur ob Latinis Iuno Lucina dicta, quod est et terra, ut physici dicunt, et lucet; Isid. Orig. 3, 71, 2: luna dicta quasi Lucina, oblata media syllaba; […] sumpsit autem nomen per deriuationem a solis luce, eo quod ab eo lumen accipiat, acceptum reddat (R. Maltby, A Lexicon of Latin Etymologies, Leeds 1991, 351).
[6] Cfr. Parmen. fr. B 14 D.-K.7: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς tra i dubia il fr. B 21: ὅθεν ψευδοφανῆ τὸν ἀστέρα [scil. τὴν σελήνην] καλεῖ.
[7] L’argomento, al fine di un’attribuzione di paternità, si capisce, non è probante, però è notevole il fatto che Apuleio, recuperando alla memoria l’eco della iunctura, la riferisca senz’altro a Lucrezio (deo Socr. 1, contaminando i due versi): … ut uerbis utar Lucreti, notham iactat de corpore lucem [scil. Luna]. I contesti e la struttura dei movimenti argomentativi non sono lontani, ma sono opposte le prospettive, ed è chiaro che Apuleio, se non forse provocatoriamente in un’operetta che è solo un brillante esercizio di stile sulla demonologia medioplatonica, non voglia cercare accrediti in Lucrezio, semmai il piacere di una citazione poetica a scopo di ornato (come altrove, in quelle stesse pagine, richiamando Plauto, Ennio, Terenzio, Accio e Virgilio); e Catullo (senz’altro in auge, con i neoteroi, nel II sec. d.C.), tanto più il Catullo “religioso” e impegnato del c. 34, avrebbe ben soddisfatto a tale necessità. Non sarà dunque per scrupolo se subito dopo Apuelio si affretta a precisare che (ibidem 2) utracumque harum uera sententia est [se la luna brilli di luce propria o rifletta i raggi del sole], … tamen neque de luna neque de sole quisquam Graecus aut barbarus facile cunctauerit deos esse.
[8] D’obbligo il rinvio a A. Schiesaro, Simulacrum et imago. Gli argomenti analogici nel ‘De rerum natura’, Pisa 1990.
[9] Cfr. Quint. 3, 6, 96 s.: nothus ante legitimum natus legitimus filius sit… [97] Nothum, qui non sit legitimus, Graeci uocant; Latinum rei nomen, ut Cato quoque in oratione quadam testatus est, non habemus ideoque utimur peregrino.
[10] A partire dal problema dell’ibridazione latina di vocaboli greci, discusso da Varrone (ling. Lat. 10, 69-71), per non dire dei prodigiosi puledri che Circe ottenne da un destriero (rubato) dal cocchio paterno e una comune cavalla (Verg. Aen. 7, 282 s.), sino all’illegittimità della nascita del troiano Antifate, figlio di Sarpedonte e di madre tebana (Verg. Aen. 9, 696 s.) o di Ippolito, la cui madre non fu sposa, bensì preda di guerra di Teseo (Ov. Her. 4, 121 s.): M. Zicari, Nothus in Lucr. 5, 575 e in Catull. 34, 15, in AA.VV., Studia Florentina Alexandro Ronconi sexagenario oblata, Roma 1970, 526 s. [= Studi catulliani, Urbino 1978, 182 s.]. In parte diverso è il discorso su notha mulier di Catull. 63, 27, con cui si delegittima la pretesa sessualità femminile di Attis. Nell’epiteto, da un lato coerente all’atmosfera grecizzante del carme, va piuttosto riconosciuto, quale arricchimento connotativo, una spia del complesso rapporto di integrazione fra le Gallae (che Attis incita chiamandole Maenades) e il loro contraltare cultuale, le Baccanti (Eur. Bacch. 1060): οὐκ ἐξικνοῦμαι μαινάδων ὄσσοις νόθων, dove è evidente che di quelle, non dubitandosi della loro sessualità, si vuole sottolineata l’orrenda trasfigurazione, per effetto dell’invasamento del dio, in esseri furiosi, donne cioè non più donne, in belve assetate di sangue (Gaio Valerio Catullo, Attis [carmen LXIII]), a cura di L. Morisi, Bologna 1999, ad loc.).
[11] Philo Alex. de somn. 1, 23: τι δέ, σελήνη πότερον γνήσιον ή νόθον έπιφέρεται φέγγος ήλιακας έπιλαμπόμενον ακτίσιν; dilemma riproposto più avanti in 1, 53.
[12] Ne percepisce l’ambiguità semantica lo Zicari, Nothus, 184: «ma “falso” può o dire soltanto che l’irraggiamento della luce della luna è apparente, non “genuino”, in quanto l’astro non l’emana proprio de corpore; o descrivere piuttosto l’effetto di questo fenomeno, cioè la qualità della luce che ne risulta. Questa duplice possibilità espressiva a me sembra insita nella parola stessa», pur incline, in definitiva, a privilegiare la seconda opzione (185): «non importa qui la nozione che i raggi solari sono riflessi dall’astro, bensì rievocare alla fantasia il mite fulgore lunare». Németh e Scivoletto (più decisamente quest’ultimo), invece, vedono in notho un ablativo di qualità (artt. citt., rispettivamente pp. 368 e 42). Più facile concordare con D.F.S. Thomson (Catullus. Edited with a Textual and Interpretive Commentary, Toronto-Buffalo-London 1997, ad loc.): «the emphasis is on lumine, not on notho: “you are given the name Luna because of the light (lumen), which is ‹not your own but› reflected (notho)”».
di G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 49-51.
Maschera comica. Mosaico, ante 79 d.C. dalla Casa del Fauno (VI 12, 2-5), Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Vita
Come Andronico e Terenzio, Cecilio Stazio era un liberto di origine straniera. Veniva, pare, da Mediolanum ed era perciò un Gallo insubre; dato che l’acme della sua produzione si colloca intorno al 180 a.C., è verosimile che egli sia stato portato a Roma dopo la battaglia di Clastidium del 222. La data di nascita potrebbe, dunque, essere tra il 230 e il 220; la sua attività letteraria colloca Cecilio come contemporaneo prima di Plauto e poi di Ennio. Di quest’ultimo, in particolare, fu amico intimo. Morì un anno dopo di lui, nel 168, e i due poeti furono sepolti vicino.
La notizia che il giovane Terenzio leggesse al vecchio Cecilio la sua prima opera, l’Andria, è probabilmente un falso destinato a meglio riconnettere fra loro i due più stimati successori di Plauto. È noto, invece, che l’Andria andò in scena solo nel 166. Comunque, come Terenzio, anche Cecilio fu strettamente legato all’influente attore e soprattutto impresario teatrale Ambivio Turpione.
Opere
Di Cecilio Stazio restano una quarantina di titoli, tutti di commedie palliate e frammenti per quasi trecento versi. La commedia di gran lunga meglio conosciuta è il Plocium (“La collana”). I titoli hanno sia forme greche – ad esempio, Ex hautoù hestòs (“Quello che sta in piedi da sé), Gamos (“Le nozze”), Epikleros (“L’ereditiera”), Synaristòsai (“Le donne a colazione”) e Synépheboi (“I compagni di gioventù”) – sia latine – quali, ad esempio, Epistula (“La missiva”) e Pugil (“Il puglile”) –, ma pure forme doppie, come Obolostàtes/Faenerator (“Lo strozzino”).
Le ragioni per cui Cecilio Stazio è trattato, nei manuali di storia letteraria, come un minore sono del tutto accidentali e dipendono dalla perdita dei suoi testi. Grandi intellettuali e profondi conoscitori di letteratura quali Varrone, Cicerone e Orazio valutarono Cecilio come un autore di primo rango, per niente inferiore a Plauto e a Terenzio. Orazio lo elogiava per la serietà dei sentimenti e Varrone approvava i suoi intrecci; solo sulla purezza del suo uso latino permaneva, in Cicerone, qualche riserva (Brutus 258, 3; ad Att. 7, 3, 10). Il canone dei più apprezzati poeti comici di Roma, stilato intorno al 100 a.C. dall’erudito Volcacio Sedigito, pose Cecilio al primo posto, davanti a Plauto. La scomparsa della sua produzione non è dovuta, quindi, a un discredito o ad una manifesta inferiorità rispetto ad altri classici.
La posizione storica di Cecilio suggerisce una sorta di intermediazione fra Plauto e Terenzio. Qualche indizio conferma questa posizione mediana. Gran parte dei frammenti che sono pervenuti si iscrive perfettamente nell’atmosfera del teatro plautino: grande ricchezza di metri, vivace fantasia comica, sanguigno gusto per il farsesco. Rispetto a Plauto, però, Cecilio sembra, in un certo senso, più vicino al modello della Commedia Nea ateniese; quanto meno, i titoli che si hanno sono riproduzioni molto fedeli (a volte letterali: ad esempio, Plocium dal Plokion di Menandro) dei titoli degli originali greci. Inoltre, è assente dai titoli la figura dello schiavo: in Plauto, la passione per questo personaggio dominava anche i titoli (si veda, ad esempio, lo Pseudolus) e andava spesso a trasformare le linee del modello greco per crearsi un maggiore spazio vitale. Si ha, dunque, l’impressione che Cecilio fosse un po’ più rispettoso dei modelli. Inoltre, egli sembra avere una predilezione decisa per Menandro: per quasi metà dei titoli attestati, infatti, si può proporre una derivazione affatto menandrea.
Somiglianze tra Cecilio e Terenzio
Interesse per Menandro e più sorvegliata adesione al modello greco via via adottato (in rapporto con una fase sempre più dotta ed ellenizzante della cultura romana), dunque, sono tratti che accostano Cecilio a Terenzio e lo staccano da Plauto. Non si ha, invece, alcuna prova che Cecilio anticipasse aspetti fondamentali tipici della nuova maniera terenziana, quali la rinuncia a certe varietà metriche, la riduzione degli effetti farseschi e sboccati, l’approfondimento psicologico. Del resto, è noto che Terenzio rimase un isolato nella tradizione della palliata.
Il vertere di Cecilio: un confronto con il modello
Il relitto più interessante dell’opera ceciliana deriva da un paragrafo delle Noctes Atticae di Gellio (2, 23), in cui l’erudito istituisce un puntuale confronto tra un passo del Plocium e uno corrispondente del modello seguito, il Plokion menandreo: si consideri che – prima della recente scoperta di un papiro del Dis exapatòn di Menandro, confrontabile con i passi delle Bacchides di Plauto – si trattava dell’unica occasione utilizzabile per comparare un brano abbastanza corposo di palliata con il relativo modello greco. Si nota così chiaramente quanto libero sia il rifacimento che i Romani chiamavano vertere: le innovazioni portate da Cecilio sul tessuto della sua fonte sono giudicate da Gellio con una certa severità e sono indubbiamente significative di una poetica comica autonoma. In Menandro si ha un marito che si lamenta perché la moglie bisbetica ha cacciato di casa la giovane ancella: «ha buttato fuori di casa, come voleva, la fanciulla che le dava ombra, perché tutti volgano gli sguardi al volto di lei e sia ben chiaro che è lei la mia padrona…». Nello sviluppo di Cecilio questo è solo un canovaccio: egli inserisce, secondo un suo gusto caratteristico, una massima di carattere generale in apertura: «Quell’uomo, appunto, è un disgraziato che non sa nascondere il suo patire…»; Cecilio, insomma, approfondisce enfaticamente il motivo della “schiavitù” dell’uomo sposato e dà corpo alla frustrazione del marito facendo sì che questi si immagini una colorita scena di donne pettegole, in cui la vecchia e brutta moglie si vanta del suo trionfo. Più in generale, il tranquillo monologo menandreo è stato convertito in un’aria farsesca, in un canticum. Da altri confronti è possibile ravvisare che Cecilio non arretrava di fronte a tinte ancora più forti, caricando sui misurati copioni menandrei anche lazzi e battutacce: «quando rientro a casa, mia moglie mi dà subito un bacio a stomaco vuoto… Non lo fa per sbaglio: vuole che tu vomiti quello che ti sei bevuto fuori casa». Come Plauto, insomma, anche Cecilio non si sforzava tanto di “rinarrare” ciò che era benissimo riuscito a Menandro o a Difilo, quanto di reinventare le storie dei modelli secondo una nuova e autonoma poetica teatrale.
Bibliografia
I frammenti sono stati raccolti da O. RIBBECK, Die römische Tragödie im Zeitalter der Republik, Leipzig 1875 (rist. Hildesheim 1968); inoltre, da T. GUARDI, I frammenti. Cecilio Stazio, Palermo 1974. Alcune informazioni biografiche sono state raccolte da F. SKUTSCH, s.v. Caecilius (25), RE 3, 1 (1897), coll. 1189-1192. Le migliori analisi (dopo F. LEO, Geschichte der römische Literatur, Berlin 1913, pp. 217-226) sono venute da A. TRAINA, Vortit barbare. Le traduzioni poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma 19742, pp. 41-53, e ID., Comoedia. Antologia della palliata, Padova 19692, pp. 95 ss. Si vedano, inoltre, J. WRIGHT, Dancing in Chiains. The Stylistic Unity of the “Comoedia Palliata”, Roma 1974, pp. 86 ss. e, per il confronto Cecilio-Menandro, L. GAMBERALE, La tradizione in Gellio, Roma 1969.
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Giuseppe Amisani, Cleopatra lussuriosa. Olio su tela, 1900.
L’ode fu composta nell’agosto del 30 a.C., dopo l’annunzio della presa d’Alessandria e del suicidio di Cleopatra, seguito a quello d’Antonio. L’attacco impetuoso del carmen riprende l’incipit dell’ode alcaica in morte del tiranno (fr. 332 L.P.: «Ora bisogna ubriacarsi e che ognuno beva a forza, poiché Mirsilo è morto») e risponde alla domanda dell’epodo IX (Quando repositum Caecubum… bibam?), scritto l’anno prima per la vittoria di Azio: una vittoria che non consentiva festeggiamenti, perché lasciava l’Oriente in mano ad Antonio. L’ansia dei Romani, accresciuta da una libellistica oracolare che adombrava la fine dell’imperium e la riscossa dell’Oriente, si dissolse all’annuncio della morte della regina, portato a Roma da M. Tullio Cicerone, il figlio dell’Arpinate.
Al modello alcaico, poi, si aggiunge quello pindarico, alto e solenne, come il più adatto all’intento di celebrare l’eroe che libera l’umanità da un fatale monstrum. Di qui il tono magniloquente, la connessione logica resa «ardua» (anche se non oscura) dalla sintassi densa di subordinate, dall’accumulo di periodi ampi arditamente agganciati mediante un dimostrativo, un participio, un relativo. Di qui le contorsioni di un’eloquenza di largo respiro, la tendenza alla megaloprépeia (la magnificenza), «il male più funesto della lirica civile di Orazio», secondo Antonio La Penna.
Sebbene questa sintassi poetica, complicata ulteriormente dal gioco degli enjambements, non agevoli il riconoscimento della struttura, Elisa Romano individua una tripartizione del contenuto secondo le tematiche: l’ebbrezza (vv. 1-12), la follia (vv. 12-21) e il coraggio (vv. 21-32). Ottaviano è al centro dell’ode tra due blocchi dedicati alla regina, che dall’uno all’altro muta da femmina corrotta e folle (immagine conforme al cliché della propaganda augustea) a donna fiera e coraggiosa.
Malgrado la centralità di Ottaviano, l’ode non è un panegirico del princeps. Vera protagonista è la regina, nella cui caratterizzazione confluiscono «il modello catoniano del suicidio stoico… il tema, archilocheo e oraziano, della virile accettazione della sorte… l’atteggiamento tipicamente romano del rispetto dei vinti» (Romano).
Certo, l’intento encomiastico obbligò Orazio all’interpretazione “ufficiale” degli eventi, quella conforme alla propaganda, che vedeva nella battaglia lo scontro fra un Oriente corrotto e autocratico e un Occidente libero e romano, tacendo la realtà della guerra civile. L’intonazione epico-celebrativa imponeva al poeta una velocizzazione degli eventi che esaltava la virtus dell’eroe con scarso rispetto della realtà storica. Tuttavia, nella seconda parte del componimento la propaganda tace, anzi, semmai è rovesciata: «La nobile e fiera figura della regina, che vultu sereno va incontro alla morte, sovrasta su tutto e su tutti e cancella il vittorioso protagonista. Una personalità più forte ha preso il sopravvento e funge, per così dire, da correttivo allo zelo encomiastico della prima parte» (V. Cremona). Il cambiamento di genere grammaticale (fatale monstrum: quae…) sottolinea il trapasso fulmineo: da simbolo del furor e della libido orientali a simbolo del pati fortia e della vitus romana.
Rispetto a Virgilio che ritrae la sposa egizia di Antonio (nefas!) in pavida fuga (inter caedespallentem morte futura, Aen. VII 675 ss.), rispetto a Properzio che con compiaciuta misoginia immagina «qual splendido trionfo sarebbe stato quello in cui una sola donna fosse trascinata per le vie attraverso le quali era stato condotto l’africano Giugurta» (IV 6), Orazio rivela autonomia di giudizio e assenza di cortigianeria. Egli è disposto a riconoscere nobiltà e grandezza tragica alla regina avversaria di Roma, sulla scia di Sallustio, autore di ritratti di nemici di Roma romanticamente, come Cleopatra, «ricchi di vizi e di virtù» (si pensi al ritratto di Giugurta o a quello di Catilina).
Pieter Paul Rubens, Cleopatra. Olio su tela, 1615 c.
Guido Reni, Il suicidio di Cleopatra. Olio su tavola, 1625. Potsdam, Bildergalerie
Ora bisogna bere, ora bisogna battere
la terra con danze sfrenate, ora sarebbe il momento
di ornare i letti degli dèi con vivande
degne dei Salii, o amici.
Prima d’ora non era lecito portar fuori
il Cecubo dalle avite cantine, finché una folle
regina tramava rovine al Campidoglio
e disgrazia all’impero
con il suo gregge infetto d’uomini turpi
per la loro menomazione, sfrenata tanto
da sperare qualsiasi cosa e ubriacata
dalla dolcezza della fortuna. Ma le spense la folle
esaltazione quell’unica nave a stento scampata alle fiamme
e la mente di lei resa furiosa dal Mareotico
Cesare ricondusse a ben più reali
timori, incalzandola a forza di remi nel suo volo
di fuga dall’Italia, come lo sparviero incalza
le tenere colombe o il rapido cacciatore
la lepre sui campi della nevosa
Emonia, per mettere in catene
il prodigio fatale. Ma lei, desiderando
morire in modo più nobile, non temette
come una donna la spada né riparò
con la rapida flotta in lidi remoti,
avendo anche il coraggio di guardare la reggia prostrata
con viso sereno, forte anche nel maneggiare
gli squamosi serpenti, per sorbire con il suo corpo
il nero veleno, più fiera per aver deciso di morire:
naturalmente rifiutando alle crudeli navi liburniche
di essere portata via come una donna qualunque,
lei donna non umile, per il superbo trionfo.
Cleopatra VII. Busto, calcare, I sec. a.C. Greco-Roman Museum of Alexandria.
Lo stile di quest’ode, alto e solenne, risente del modello di un’eloquenza pindarica, aspra nella sintassi e forte nella scelta delle immagini, volutamente difficile nell’articolazione del discorso e nella connessione dei pensieri, uno stile nettamente diverso dalla tersa scrittura più caratteristica della lirica di Orazio e che rivela l’intenzione di cercare una maniera espressiva “sublime”.
Nella strofe iniziale, la triplice anafora di nunc esprime l’entusiasmo con cui si deve dar vita alle celebrazioni per la vittoria, ma anche quasi scandisce il ritmo di quella danza a cui Orazio invita i suoi amici (all’effetto contribuisce anche il nesso allitterante pede… pulsanda). Ai vv. 6 ss. l’espressione della follia di Cleopatra è affidata all’efficace enallage dementis ruinas (v. 7) e alla coppia di epiteti impotens ed ebria: il primo è audacemente costruito con l’infinito sperare (un grecismo sintattico), mentre il secondo origina un’immagine metaforica, alla cui densità concorre anche l’aggettivo dulci, riferito a fortuna: Cleopatra assapora il dolce sapore della Fortuna benevola e finisce per ubriacarsene.
Morte di Cleopatra. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale
Ma è soprattutto nella seconda parte dell’ode che queste caratteristiche di stile emergono. Dal v. 12 alla fine corre un unico periodo, di articolazione sintattica estremamente contorta, suddiviso in numerosi cola asimmetrici; le frasi quasi si accalcano le une sulle altre, con una serie di ardue transizioni logiche e grammaticali e ripetuti cambi di soggetto (prima la nauis, vv. 12-13, poi Caesar, vv. 14-21; infine, dal v. 21, Cleopatra: ma il relativo femminile Quae è concordato solo ad sensum con monstrum, e non ha un vero antecedente grammaticale se non, al v. 7, regina). La continua espansione del senso e della sintassi al di là dei confini del verso e della strofe, mediante il ripetuto ricorso all’enjambement, è un’altra evidente caratteristica di questi versi (per esempio, Caesar, ab Italia uolantem / remis adurgens, vv. 16-17; daret ut catenis / fatale monstrum, vv. 20-21). Sul piano sintattico, domina una costruzione generalmente nominale ed ellittica (come nelle similitudini dei vv. 17-20), basata sulla duttilità sintattica dei participi (le frasi principali abbondano: uolantem… adurgens, vv. 16-17; perire quaerens, v. 22; ausa… uisere, v. 25; inuidens… deduci, vv. 30-31) e degli aggettivi (si noti al v. 26 la costruzione di fortis con l’infinito, altro grecismo sintattico). Anche gli effetti di suono e le allitterazioni contribuiscono a questo stile drammatico (expauit ensem, v. 23; classe cita, v. 24; corpore conbiberet, v. 28).
Emblematici della ricercatezza stilistica del componimento sono i tre versi conclusivi. Le ragioni soggettive del suicidio di Cleopatra sono espresse nell’immagine del «rifiuto» (inuidens, v. 30) da lei opposto alle navi di Ottaviano, che si stagliano temibili sullo sfondo, quasi ad amplificare il coraggio della regina, sola contro tutti. La struttura chiastica e a cornice superbo, non humilis mulier, triumpho (vv. 31-32) rende bene l’orgogliosa e indomita fierezza della donna, anche ridotta a priuata, che si oppone alla celebrazione del superbo trionfo romano; triumpho, che è proprio l’ultima parole dell’ode, ritorna all’occasione che a essa ha dato origine, il trionfo di Ottaviano, che, in fin dei conti, è stato descritto solo di scorcio e dal punto di vista della sconfitta, come evento al futuro che ella cerca di scongiurare con il suicidio.
Cleopatra VII. Testa, marmo, 40-30 a.C. c. dalla Via Appia. Berlin, Altes Museum
In questo carmen Orazio finisce per mettere in secondo piano l’intento celebrativo della vittoria di Ottaviano, per concentrare la propria attenzione sulla nemica sconfitta, la cui figura campeggia al centro del componimento. Come si è visto, il poeta rievoca qui le ultime vicende della vita della regina, dalla disfatta di Azio, nel 31 a.C., fino al suicidio avvenuto l’anno seguente in Egitto, per evitare di cadere in mano a Ottaviano ed essere costretta a sfilare al suo trionfo (e, infatti, nella grande celebrazione per la vittoria aziaca, nel 29 a.C., il princeps dovette accontentarsi di esibire un’effige della regina, avvolta da serpenti).
Nel dare alla narrazione di questi eventi un colorito epico e drammatico, Orazio commette tuttavia alcune imprecisioni storiche, esagerando sia la portata della sconfitta aziaca (egli parla di uix una sospes nauis, v. 13, mentre è noto da altre fonti che più di sessanta navi della flotta di Antonio furono tratte in salvo), sia la rapidità della fuga di Cleopatra e dell’inseguimento di Ottaviano (in realtà, passò più di un anno dalla battaglia navale prima che il princeps giungesse in Egitto, inducendo la regina a darsi la morte).
Il ritratto oraziano del fatale monstrum Cleopatra presenta quasi tutti quei tratti negativi che una tradizione ostile aveva attribuito alla regina tolemaica: il suo folle piano di portare rovina a Roma e al suo imperium (vv. 6-8); la depravazione della sua corte, popolata da turpi eunuchi (vv. 9-10); persino le accuse di ubriachezza (cui Orazio allude nell’immagine metaforica nei vv. 12 e 14), alle quali Antonio era stato costretto a rispondere con un libello De ebrietate sua. Ma nel corso del carmen Cleopatra subisce una decisa trasformazione: da nemico accecato dalla follia di una guerra disperata e votata al disastro la regina acquisisce, nel momento della sconfitta, la piena dignità di una donna rimasta titanicamente sola a fronteggiare gli avversari. Ecco che nella rappresentazione della sua morte generosa e non muliebris, del suo comportamento fortis e ferox anche nell’estremo gesto, del suo contegno fino in fondo non humilis, si insinua una nota di sincera ammirazione, che fa della Cleopatra oraziana un vero e proprio eroe tragico.
***
[1]vv. 1-4. Nunc… bibendum: «Ora bisogna bere», forma perifrastica passiva impersonale. Nunc… nunc… nunc…: la triplice anafora (contrapposta ad antehac del v. 5) scandisce il ritmo della danza. pede libero pulsanda tellus: «ora bisogna battere la terra con danza libera», cioè sfrenata; infatti, liberus allude tanto alla velocità del movimento quanto alla libertà ora salva; pulsanda tellus è forma perifrastica personale (sott. est); l’allitterazione pede… pulsanda è fonosimbolica. Saliaribus… dapibus: «con cibi degni dei Salii» o, intendendo come dativo di scopo, «per il banchetto dei Salii». I Salii erano i sacerdoti di Marte (il cui nome derivava dal verbo salio, «ballare»), custodi degli ancilia (i mitici scudi caduti dal cielo, garanti della potestas Romae) e celebri per i lauti banchetti. ornare pulvinar deorum: «ornare i letti degli dèi», il poeta qui allude al lectisternium, un banchetto rituale durante il quale venivano presentate delle offerte alle immagini delle divinità, posate su cuscini («portar fuori le statue degli dèi, collocarle a due a due in letti triclinari davanti a mense cariche di vivande. Il che si faceva nei grandi avvenimenti, buoni o cattivi, per ringraziare o scongiurare», G. Pascoli). Eppure, ciò non significa che Orazio stia qui pensando a una cerimonia pubblica presieduta dai Salii, ma a una festa privata che cerchi di uguagliarne la sontuosità. tempus erat: l’imperfetto è inteso comunemente come una formula attenuata per «sarebbe il momento»; altri considerano l’espressione una parentesi esclamativa, del tipo: «(era tempo!)», cioè «(era ora!)» o «(finalmente!)». sodales: «o amici», intercalare usuale nella poesia simposiale (cfr. Epist. XIII 3: rapiamus, amici, occasionem de die).
[2]vv. 5-8. Antehac… auitis: «Prima d’ora non era lecito portar fuori dalle cantine il Cecubo»; Antehac è scandito come un bisillabo, per sinizesi della sequenza –ehac (pronunciata come una sillaba sola). Il Cecubo era un vino pregiato del Lazio meridionale. Al primo annuncio della vittoria di Azio, Orazio aveva scritto (Epod. IX 1 ss.): «Quando berrò on te nella tua alta casa, lieto per Cesare vittorioso… o Mecenate beato, il Cecubo serbato per i pranzi festosi…?». C’è chi ha visto nel carattere italico di questo vino un elemento di contrapposizione all’esotico vino mereotico di Cleopatra (v. 13). dum Capitolio… parabat: «finché una folle regina tramava rovine al Campidoglio e disgrazia (funus et = et funus, anastrofe) all’impero». La regina è ovviamente Cleopatra, mai nominata esplicitamente; il titolo – inviso ai Romani – è accostato a Capitolio, simbolo della potenza della res publica, per enfatizzare il contrasto fra Occidente e Oriente; e questo, anche in sintonia con la propaganda di Ottaviano, che interpretava la guerra civile come un conflitto contro lo straniero e diffondeva la voce che Antonio, vincitore, avrebbe donato Roma a Cleopatra. dementis (-es) riferito per enallage a ruinas, connota in realtà Cleopatra: l’insulto è tipico dell’invettiva politica, come pure il successivo funus, spesso usato da Cicerone per indicare una sciagura per lo Stato.
[3]vv. 9-12. contaminato… ebria: «con il suo gregge infetto di uomini turpi per la loro menomazione (morbo)». Ma morbo può anche dipendere da contaminato: l’espressione si riferisce agli eunuchi, comunemente impiegati nelle corti orientali e, in particolare, presso quella tolemaica. Il quadro di depravazione come il successivo accenno all’ebbrezza della regina riflettono la propaganda di Ottaviano. Ovviamente virorum, riferito a evirati, è ironico. quidlibet… ebria: «sfrenata nelle sue aspirazioni, e inebriata dalla fortuna favorevole»; impotens è costruito con l’infinito sperare (che regge a sua volta l’oggetto quidlibet, lett.: «sfrenata nello sperare qualsiasi cosa»): questa brachilogia è un grecismo sintattico ardito, ma in tutta l’ode prevale la costruzione nominale imperniata su aggettivi e participi. Fortuna… dulci(v. 11) è ablativo in dipendenza da ebria, che prelude a lymphatam Mareotico (v. 14), con climax ascendente dall’ebbrezza traslata a quella reale.
[4]vv. 12-21. Sed…ignibus: «ma le spense la folle esaltazione quell’unica nave a stento (vix) scampata alla fiamme». mentemque… Caesar: «e la mente di lei resa furiosa dal Mareotico Cesare ricondusse a giustificati timori». La regina è invasata per effetto del vino al pari delle baccanti (cfr. Catul. 64, 254: lymphata mente… bacchantes…). Lymphatus rende il gr. Nimpholeptos, che significa «delirante» (per la visione di una ninfa che causa la follia). Mareotico è il vino di Mareia, una località a sud di Alessandria. Allitterazione e assonanza di m sottolineano nel v. 14 l’accusa di ebbrezza che la propaganda contro Antonio (peraltro autore di un De ebrietate) estendeva a Cleopatra. Della regina tolemaica Properzio scrive che «ha la lingua sepolta dalle continue bevute» (Eleg. IV 11) e un epigramma dell’Anthologia Palatina inciso su un’ametista con la figura di Methe («Ebbrezza») recita: «… sono sacro possesso di Cleopatra». ab Italia… adurgens: «incalzandola a forza di remi nel suo volo di fuga dall’Italia». Ab Italia sottointende un’aggressione al cuore dell’imperium, che certo non rientrava nei piani di Antonio. Volantem rende sarcasticamente non già la rapidità della conquista, ma la velocità della fuga, mentre l’iperbole remis adsurgens (dove remis è metonimia per nauibus) mira alla resa epica dell’inseguimento. In realtà, trascorse un anno tra la vittoria di Azio e l’arrivo di Ottaviano in Egitto, ma l’intento panegiristico condensa i fatti sopprimendo i vuoti temporali. accipiter uelut… Haemoniae: «come lo sparviero incalza le tenere colombe o il rapido cacciatore la lepre sui campi della nevosa Emonia» (cioè della Tessaglia, detta Emonia dall’eroe eponimo Emone). L’immagine del rapace e delle colombe, omerica (Il. XXII 139, con Achille-nibbio che insegue Ettore-colomba) e virgiliana (Aen. XI 721), concorre al tono epico. Anche l’altro quadro del cacciatore, che pur deriva da un epigramma di Callimaco già imitato in Sat. I 2, 105-106 (Leporem uenator ut alta / in neue seccetur…), non è estraneo all’epica, dove abbondano le similitudini venatorie. daret… monstrum: «per mettere in catene quel mostro mandato dal destino». Ma fatale indica anche ciò che è «letale» e «rovinoso»; inoltre, implica l’irresponsabilità della regina, che diviene simbolo delle forze ostili a Roma. Il sottinteso «imperiale» è l’identificazione di Ottaviano con gli eroi civilizzatori e liberatori del mito, i quali (Eracle, ma anche l’Epicuro di Lucrezio) incatenano il mostro. In quest’ottica panegiristica monstrum, peraltro comune nelle invettive, conserva il valore etimologico (da moneo) di «avvertimento, monito, segno».
[5]vv. 21-24. Quae: = at illa, concordato ad sensum con regina. generosius: «più nobilmente», che in catene. muliebriter: «come una donna». Anche Velleio Patercolo (II 87, 2) dice che Cleopatra era «priva di donnesca paura». ensem: per alcuni è la «spada» di Ottaviano, per altri quella del legato Proculeio secondo il racconto di Plutarco (Ant. 79, 2). Secondo Giorgio Pasquali, ensem è metonimia per «battaglia». nec latentis (-es)… oras: «né sulla veloce flotta raggiunse coste remote». Forse si allude al progetto di una fuga con le navi verso il Mar Rosso, impedito dall’opposizione degli Arabi di Petra (Plut. Ant. 69). Reparo, dall’originario valore mercantesco di «avere qualcosa in cambio di qualcos’altro», passa a indicare lo scambio o il trasferimento di sede.
[6]vv. 25-29. ausa… regiam: «avendo anche il coraggio di guardare la reggia prostrata». et ha valore di etiam oppure è correlativo di et del verso seguente. iacentem dice, piuttosto che l’abbattimento del palazzo, l’umiliazione della regina. viso insiste sull’intenzionalità dell’atto («guardare, fissare»). uultu sereno, ablativo di modo, in posizione enfatica, rende l’impassibilità stoica di Cleopatra di fronte alla sventura. fortis et (et fortis)… serpentes: «forte anche nel maneggiare gli squamosi serpenti». C’è chi intende asperas nel senso tattile di «ruvidi, scagliosi». Cleopatra si sarebbe uccisa facendosi mordere da un aspide recatole in mezzo a fiori (Cass. Dio LI 14, 1) o in un cestello di fichi coperti di foglie (Plut. Ant. 86). A questo morso da cui «la morte prese subitana e atra» (Dante, Pd VI 78) Cleopatra deve la propria consacrazione a eroina tragica, ispiratrice di letterati e artisti di ogni tempo. Si noti il fonosimbolismo dell’assonanza s (fortis… asperas… serpentes). ut atrum… uenenum: «per assorbire con il (suo) corpo il mortale veleno». atrum è il colore della morte. L’allitterazione (corpore… conbiberet) enfatizza l’ostinata volontà di morire della regina. deliberata… ferocior: «più fiera per aver deciso di morire». deliberata è di stile più elevato, più confacente al rango di regina rispetto al sinonimo decreta.
[7]vv. 30-32. saeuis… triumpho: «naturalmente rifiutando alle crudeli navi liburniche di essere portata via come una donna qualunque (priuata), lei donna non umile, per il superbo trionfo». Ma c’è chi intende saeuis Liburnis come ablativo strumentale retto da deduci, e superbo… triumpho come dativo di scopo. Liburnis: navi leggere dei Liburni, un popolo illirico dedito alla pirateria, usate da Ottaviano ad Azio contro le pesanti triremi di Antonio. superbo… triumpho: l’opposizione non humilis mulier, litote intensiva incorniciata dall’iperbato, traduce ironicamente l’incompatibilità per una regina di essere trascinata nel superbo trionfo del vincitore.
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