ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Le notizie sulla vita di Mimnermo sono piuttosto scarse e non prive di contraddizioni; incerto è anche il periodo in cui visse. Se si vogliono accettare le indicazioni del lessico 𝑆𝑢𝑑𝑎, egli sarebbe nato a Colofone, città ionica dell’Asia Minore, a nord-ovest di Efeso, al tempo della XXXVII Olimpiade e cioè negli anni fra il 632 e il 629 a.C.; secondo altre fonti, più attendibili, Mimnermo sarebbe stato contemporaneo di Simonide di Amorgo e nato a Smirne, colonia di Colofone, verso la metà del VII secolo a.C.
Porfirione, nel suo commento a Orazio (Pᴏʀᴘʜ. 𝐻𝑜𝑟. 𝑐𝑜𝑚𝑚. 𝑒𝑝𝑖𝑠𝑡. II 2, 101 p. 399 Holder), attesta che la produzione superstite di Mimnermo circolasse divisa in due libri, mentre sono noti da altre fonti due titoli, la 𝑆𝑚𝑖𝑟𝑛𝑒𝑖𝑑𝑒 (Σμυρνῃίς), sulla storia di Smirne e della colonizzazione ionica, e la 𝑁𝑎𝑛𝑛𝑜́ (Ναννώ), dal nome dell’omonima etera amata dal poeta. Non è chiaro a quel di questi due componimenti alluda Callimaco di Cirene allorché, nel proemio degli 𝐴𝑖𝑡𝑖𝑎 (fr. 1, 11-11 Pfeiffer) contrappone la μεγάλη γυνή («grande donna») alle κατὰ λεπτόν [sc. ῥήσιες] («poesie alla spicciolata»), né come si possa conciliare la notizia sui due libri con questa raccolta di componimenti (che potrebbero essere stati in seguito intitolati 𝑁𝑎𝑛𝑛𝑜́ sul modello della 𝐿𝑦𝑑𝑒 di Antimaco di Colofone).
Che il poeta fosse originario di Smirne troverebbe conferma nel fatto che la tradizione attribuisse a Mimnermo l’esteso poema elegiaco, la 𝑆𝑚𝑖𝑟𝑛𝑒𝑖𝑑𝑒, relativo alla lotta fra gli Smirnei e il vicino regno di Lidia, al tempo di re Gige (cfr. Pᴀᴜs. IX 29, 4). Il componimento conteneva un complesso proemio rivolto alle Muse, nel quale non solo si ricordava il recente passato ma forse anche la fondazione della città stessa. Apparteneva probabilmente alla 𝑆𝑚𝑖𝑟𝑛𝑒𝑖𝑑𝑒 un breve frammento (fr. 14 W²), riportato da Stobeo (III 7, 11) senza indicazione dell’opera di provenienza, in cui è descritta la prodezza di un combattente che si era segnalato nel respingere sulla piana dell’Ermo, intorno al 670/60 a.C., l’esercito lidio che muoveva contro Smirne. Alcuni studiosi hanno supposto che il personaggio fosse un antenato dello stesso Mimnermo, il cui nome Μίμνερμος significa appunto «Colui che resiste al fiume Ermo» (dal verbo μίμνειν, «resistere»); in questo caso, l’elegia avrebbe forse avuto, oltre che un valore storico, anche un carattere parenetico, come i versi di Callino e di Tirteo, inserendosi così nel quadro di questo genere letterario, caratteristico della Ionia arcaica.
Pittore Lisippide (attribuito). Scena di combattimento oplitico. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, 530 a.C. c. da Vulci. Berlin, Staatliche Antikensammlungen.
οὐ μὲν δὴ κείνου γε μένος καὶ ἀγήνορα θυμὸν
τοῖον ἐμέο προτέρων πεύθομαι, οἵ μιν ἴδον
Λυδῶν ἱππομάχων πυκινὰς κλονέοντα φάλαγγας
Ἕρμιον ἂμ πεδίον, φῶτα φερεμμελίην·
τοῦ μὲν ἄρ’ οὔ ποτε πάμπαν ἐμέμψατο Παλλὰς Ἀθήνη
δριμὺ μένος κραδίης, εὖθ’ ὅ γ’ ἀνὰ προμάχους
σεύαιθ’ αἱματόεν‹τος ἐν› ὑσμίνηι πολέμοιο,
πικρὰ βιαζόμενος δυσμενέων βέλεα·
οὐ γάρ τις κείνου δηίων ἔτ’ ἀμεινότερος φὼς
ἔσκεν ἐποίχεσθαι φυλόπιδος κρατερῆς
ἔργον, ὅτ’ αὐγῆισιν φέρετ’ ὠκέος ἠελίοιο.
Non la forza di quello né l’animo gagliardo
quale io vengo a sapere dagli antenati, i quali lo videro
volgere in fuga le fitte falangi dei Lidii che combattono sui carri,
nella piana dell’Ermo, lui, uomo armato di lancia.
Pallade Atena non rimproverò mai la dura
tempra del suo cuore, quando, in prima fila,
si slanciava nella mischia della guerra sanguinosa,
opponendosi con forza agli amari dardi dei nemici;
nessun uomo più valente di quello ci fu, a compiere
contro gli avversari gesta di violenta mischia,
quando irrompeva, sotto i raggi del rapido Sole.
Come si è accennato, oltre alla 𝑆𝑚𝑖𝑟𝑛𝑒𝑖𝑑𝑒, Mimnermo avrebbe composto un’altra raccolta di versi intitolata 𝑁𝑎𝑛𝑛𝑜́, dal nome della flautista amata dal poeta. Nonostante il nome della donna non compaia in nessuno dei frammenti superstiti, l’affermazione di Ermesianatte che Mimnermo «ardeva [d’amore] per Nannó» (καίετο μὲν Ναννοῦς, fr. 7, 37 Powell = Aᴛʜᴇɴ. 13 597f = Pʜᴏᴛ. 𝐵𝑖𝑏𝑙. 319b, 11) suggerisce che la donna avesse una certa familiarità con il poeta; ancora Ermesianatte, nel medesimo componimento, riporta che Nannó «spesso messa la bocca al venerando / 𝑎𝑢𝑙𝑜́𝑠, faceva baldoria con Essamia» (πολιῷ δ’ ἐπὶ πολλάκι λωτῷ / κημωθεὶς κώμους εἶχε σὺν Ἐξαμύῃ, fr. 7, 37-38 Powell). Al di là di questa tradizione di età alessandrina, le citazioni dalla 𝑁𝑎𝑛𝑛𝑜́ coprono svariati argomenti, con incursioni nel mito e nella storia. Fra i brani riportati dagli antichi come provenienti da quest’opera è quello inserito nel racconto della celebre impresa di Giasone, la conquista del vello d’oro appartenente al re della Colchide, Eeta (fr. 12 W²). Poiché il sovrano era figlio di Helios, il Sole, di notte ospitava il dio nella sua reggia, perché vi riposasse. Dopo aver percorso il cielo durante il giorno, giunto all’estremo Occidente, il Sole si coricava in una barca d’oro, lasciandosi trasportare dalla corrente dell’Oceano. Il fiume primordiale, che cingeva il disco della Terra con le sue acque, lo riportava a Oriente, fino al palazzo di Eeta, dove il Sole, in una stanza tutta d’oro, attendeva l’alba, per aggiogare di nuovo al carro i suoi fiammeggianti cavalli e portare al mondo la luce di un nuovo giorno.
Ἠέλιος μὲν γὰρ πόνον ἔλλαχεν ἤματα πάντα,
οὐδέ ποτ’ ἄμπαυσις γίνεται οὐδεμία
ἵπποισίν τε καὶ αὐτῶι, ἐπεὶ ῥοδοδάκτυλος Ἠὼς
Ὠκεανὸν προλιποῦσ’ οὐρανὸν εἰσαναβῆι.
τὸν μὲν γὰρ διὰ κῦμα φέρει πολυήρατος εὐνή,
ποικίλη, Ἡφαίστου χερσὶν ἐληλαμένη,
χρυσοῦ τιμήεντος, ὑπόπτερος, ἄκρον ἐφ’ ὕδωρ
εὕδονθ’ ἁρπαλέως χώρου ἀφ’ Ἑσπερίδων
γαῖαν ἐς Αἰθιόπων, ἵνα δὴ θοὸν ἅρμα καὶ ἵπποι
ἑστᾶσ’, ὄφρ’ Ἠὼς ἠριγένεια μόληι·
ἔνθ’ ἐπέβη ἑτέρων ὀχέων Ὑπερίονος υἱός.
Helios ebbe in sorte una fatica quotidiana
e non esiste mai nessun riposo
per lui e per i cavalli, quando l’Aurora dalle rosee dita,
lasciato l’Oceano, sale su nel cielo;
infatti, attraverso le onde lo porta il bellissimo letto,
concavo, forgiato a martello dalle mani di Efesto
d’oro prezioso, alato, a fior d’acqua,
velocemente, mentre dorme, dalla regione delle Esperidi
fino alla terra degli Etiopi, dove attendono il rapido carro
e i cavalli, finché giunga l’Aurora mattutina:
allora, il figlio di Iperione sale sul carro.
D’altra parte, fin dall’antichità (cfr. Pᴏsɪᴅɪᴘ. 𝐴𝑛𝑡ℎ. 𝑃𝑎𝑙. XII 168; Hᴏʀ. 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. I 6, 65-66; Pʀᴏᴘ. I 9, 11, 𝑝𝑙𝑢𝑠 𝑖𝑛 𝑎𝑚𝑜𝑟𝑒 𝑢𝑎𝑙𝑒𝑡 𝑀𝑖𝑚𝑛𝑒𝑟𝑚𝑖 𝑢𝑒𝑟𝑠𝑢𝑠 𝐻𝑜𝑚𝑒𝑟𝑜) il nome di Mimnermo rimase legato essenzialmente a quella sfera dell’amore e del piacere che trovava il proprio limite invalicabile non tanto nella morte quanto nella squallida vecchiaia. Difatti, le composizioni più apprezzate di Mimnermo furono quelle di carattere soggettivo, in cui la personalità del singolo e le problematiche della vita individuale sembravano prevalere su ogni altro argomento. Queste liriche, come anche quelle di altri poeti della Ionia, suscitano nel lettore moderno l’impressione che, quanto più le esigenze della collettività vincolavano il comportamento dei cittadini al rispetto di normative sociali, tanto più essi avvertissero individualmente il bisogno di una vita privata libera, tesa alla realizzazione di una felicità sensibile, da vivere senza imposizioni esterne e schemi tradizionali.
Pittore di Brygos. Suonatrice di 𝑎𝑢𝑙𝑜́𝑠. Pittura vascolare dal tondo di una 𝑘𝑦́𝑙𝑖𝑥 attica a figure rosse, 490 a.C. ca., da Vulci. Paris, Musée du Lovure.
In conseguenza di ciò, la poesia si aprì a esperienze nuove, improntate a una sensibilità diversa e più personale, volte alla ricerca della gioia, della serenità, del piacere, nella convinzione che la vita fosse del tutto vana e priva di senso senza i godimenti più immediati e sensuali, primi fra tutti quelli della bellezza, della giovinezza e dell’amore. La produzione poetica ispirata a tale ottica esistenziale fu destinata a grande fortuna non solo nel mondo ellenistico, ma anche nella letteratura latina, a partire dai 𝑝𝑜𝑒𝑡𝑎𝑒 𝑛𝑜𝑣𝑖 per giungere fino a Orazio e all’elegia amorosa di Properzio e di Ovidio.
Questi caratteri costituiscono il fondamento dell’opera di Mimnermo, di cui è giunta una quindicina di frammenti piuttosto brevi. Poeta della giovinezza e dell’amore, egli predilesse una poesia fondata sulla riflessione e sul sentimento; il suo ambiente di elezione fu quello esclusivamente maschile del simposio, che gli offriva un’atmosfera e un pubblico particolarmente adatti ad apprezzare tali tematiche. Occorre tuttavia sottolineare, per evitare interpretazioni anacronistiche e sostanzialmente errate, che Mimnermo non si ispirò agli ideali né al genere di vita gaudente di stampo decadentistico: egli intese semplicemente proclamare il diritto dell’individuo a un comportamento personale caratterizzato dalla volontà di godere quanto la vita potesse offrire di lieto e di piacevole e che, proprio per questo, si discostava dall’etica della πόλις. Nacque così una tematica nuova, quella che contrapponeva τὸ ἡδύ, «il dolce», «il piacevole», che scaturisce dalle scelte e dal carattere dell’individuo, e τὸ καλόν, «il bello», sancito dalle regole dell’educazione collettiva.
Tuttavia, nei versi di Mimnermo, all’entusiasmo per la giovinezza, la bellezza, l’amore, non sono estranei una sconsolata rassegnazione e un disperato rimpianto di fronte agli spettri onnipresenti delle malattie, della vecchiaia e della morte, la cui tragica consapevolezza avvelena ogni momento di gioia nel cuore dell’uomo; quanto più esso è intenso, tanto più reca in sé, come un germe distruttore, l’ansia della propria caducità (cfr. frr. 1, 2, 4 e 5 W²). Si comprende così come una scelta, che in apparenza sembra gratificare la libertà individuale in modo pieno e appagante, costi, agli occhi del poeta, un prezzo assai alto: se l’uomo si abbandona al godimento di una felicità immediata e sensibile, deve essere memore dell’estrema caducità di quanto desidera e rassegnarsi, con dolente malinconia, alla breve fragilità di quelle gioie che pure sono le uniche a rendere l’esistenza degna di essere vissuta. Questo tipo di poesia, scaturita da una meditazione sulle fasi dell’esistenza umana in rapporto all’eros (la giovinezza e la vecchiaia rappresentano nella vita le situazioni estreme e contrapposte in relazione all’amore), fu favorita dall’ambiente simposiale, in cui l’età dei partecipanti offriva un quadro differenziato, ponendo sotto gli occhi di Mimnermo vecchiaia e malattia come naturale conclusione dell’età giovanile.
di A. FREDIANI, Le grandi battaglie dell’antica Grecia. Dalle guerre persiane alla conquista macedone, da Maratona a Cheronea, i più significativi scontri terrestri e navali di un impero mancato, Roma 2005, pp. 54-82.
I Greci hanno avuto un altro grande nemico, oltre che loro stessi, nell’età arcaica dell’Ellade, in Asia, e segnatamente in Iran, c’erano alcune tribù nomadi di Parsumaš che si barcamenavano, senza grandi risultati, per rimanere fuori dalla sfera di controllo dell’Impero assiro. Tutte le loro tribù finirono conquistate nel corso del IX secolo a.C. dal re assiro Salmanassar II, mentre nel secolo seguente una parte di esse finì sotto i Medi.
Per sfuggire alla morsa, alcuni gruppi di Parsumaš emigrarono verso il lago d’Aral o alla volta del Meridione, dove presero accordi con il Regno dell’Elam e, come avrebbero fatto i popoli barbari con l’Impero romano oltre un millennio dopo, fornirono la loro temibile cavalleria in cambio di terre entro cui stanziarsi. Scelsero la valle del Choaspes, l’attuale Karkheh, dove uno dei loro capi, Achemene, in breve tempo si ricavò un piccolo regno, con capitale Pasargade.
Mappa dell’Impero persiano achemenide (500 a.C. ca.).
L’espansione del modesto dominio proseguì per gran parte del VII secolo a.C., durante il quale perfino una parte dell’Elam finì sotto il controllo dei Parsumaš, divisi in più regni gravitanti nella zona dell’Aršan, prima che gli Assiri di Assurbanipal ne frenassero le ambizioni annettendo l’Elam. Il resto della regione se la prese Ciassare, il fondatore dell’Impero dei Medi e il responsabile della scomparsa di quello assiro.
Con l’avvento al trono di Ciro II, detto il Grande, nato nel 580 a.C., i Persiani – a questo punto della vicenda possiamo chiamarli così – erano pronti per un salto di qualità che li avrebbe portati, in pochi decenni, a costituire un impero più grande di quelli che si erano spartiti l’Asia nei secoli precedenti. Alla metà del VI secolo Ciro sconfisse il re Astiage e, in un triennio, si impadronì dell’intera Media, per poi rivolgere le proprie attenzioni alla Lidia di Creso, che a quel tempo inglobava nei propri domini le città costiere di matrice greca nell’Asia Minore. Il re divenuto famoso per la propria ricchezza dovette subire prima la sconfitta in battaglia, poi l’assedio e la caduta della sua capitale, Sardi, prima di trascorrere il resto della propria esistenza come consigliere del conquistatore (anche se qualcuno afferma che morì sul rogo).
Bassorilievo di Ciro II il Grande.
Di fronte alla minacciosa ascesa di Ciro, che con la caduta della Lidia si era impossessato dell’intera Asia Minore, si formò una coalizione anti-persiana, di cui entrò a far parte perfino Sparta, che il re non aveva mai neanche sentito nominare. Il membro più a portata di mano, il regno di Babilonia, non fu però in grado di opporre alcuna resistenza all’invasione del nuovo astro asiatico, che si impossessò anche dei contigui territori siriaci. La sua morte in battaglia nel 528 a.C. contro gli Sciti del nord-est – anche se Senofonte afferma che morì nel proprio letto – gli impedì di procedere anche all’annessione dell’Egitto; ma era stato in grado di costituire un impero nell’arco di soli dodici anni.
Ci pensò il figlio Cambise, che fece in tempo ad annettere il paese dei faraoni prima di morire, sette anni dopo la sua ascesa al trono, secondo una delle tante versioni trafitto dalla sua stessa spada fuoriuscita dal fodero rotto, mentre montava a cavallo. Il suo contributo, tuttavia, aveva permesso all’Impero persiano di portare a quattro i regni di grande rilievo nella storia dell’Antichità inglobati dai Persiani (Babilonia, Lidia, Media ed Egitto), legittimando l’aspirazione dei sovrani persiani a chiamarsi «Re dei re» o «Grande Re»: il loro Impero si estendeva ormai dall’Indo all’Egeo, e al Nilo inferiore, ed era necessario che il successore di Cambise rallentasse il ritmo delle conquiste per dare un’organizzazione a quella spaventosa estensione territoriale.
Bassorilievo raffigurante due soldati persiani. Palazzo di Apadana, Persepoli.
Il titanico compito se lo assunse Dario I, il figlio del satrapo di Ircania e Partia, un altro che si fece soprannominare “il Grande”; questi pervenne sul trono in forza della sua decisione più che per legittimità dinastica, dopo un paio di guerre intestine durante le quali, secondo le cronache, uccise un usurpatore che si proclamava figlio di Ciro, combatté diciannove battaglie e sconfisse nove re ribelli. Dario completò la conquista delle estremi propaggini orientali dell’Impero, annettendo i territori oltre l’Indo e le tribù dei Saka nell’Asia centrale, entrambe regioni che gli offrirono ampie possibilità di ingaggiare mercenari per il suo esercito; poi si concentrò a conferire una solida struttura amministrativa al regno. Lo divise in venti distretti con a capo i rispettivi satrapi (xšaθrapāvā, letteralmente «protettori del regno»), governatori provenienti dalle famiglie di più alto lignaggio, soprattutto persiane, nominati dal re pressoché a vita, con funzioni sia civili sia militari, e i cui territori erano tenuti a pagare un tributo e a fornire una leva per il servizio in guerra.
Con questa divisione in governatorati dotati di ampia autonomia, Dario prendeva atto del carattere prettamente feudale della società che governava: una società tripartita in azata, i “nobili”, bandaka, i “sudditi”, e mariaka, ovvero gli “schiavi”. Tutti, a parte questi ultimi, erano obbligati a compiere il servizio militare e a rimanere a disposizione dell’armata nazionale persiana anche dopo il congedo, perlomeno fino al cinquantesimo anno di età. I Persiani, ma anche i Medi, monopolizzavano i quadri ufficiali a tutti i livelli, perfino nei contingenti non iranici.
Dario, re dei Persiani, concede udienza a un dignitario (in atto di proskýnesis). Rilievo, granito, inizi V sec. a.C. dalla Scalinata settentrionale di Apadana. Tehran, Museo Nazionale.
Un bambino non incontrava il padre fino all’età di cinque anni – fino ad allora veniva allevato in un gineceo – a partire dai quali, e fino ai venti, era addestrato a cavalcare e a tirare con l’arco; dopodiché, entrava a far parte di compagnie da 50 uomini al comando di un giovane esponente della nobiltà.
Il sistema di inquadramento degli effettivi era rigidamente decimale, almeno sulla carta. Le divisioni, dette baivarabam, erano di 10.000 uomini, al comando di un baivarapatiš; i reggimenti, detti hazarabam, di mille effettivi, al comando di un hazarapatiš e suddivisi in unità da 100, definite sabatam, a loro volte suddivise in reparti da dieci, i dathabam. I comandanti delle successive unità disponevano di due vice ciascuno, che guidava la metà del reparto. Il baivarabam più celebre era quello personale del re, gli Amrtaka, ovvero gli “Immortali“, cosiddetti, secondo Erodoto, perché si trattava di un corpo mantenuto invariabilmente con gli effettivi al completo.
Erano gli arcieri il punto di forza delle armate persiane: nugoli di frecce tirate con maestria e perizia per mezzo dei magnifici archi compositi di derivazione scitica, ricavati dall’accostamento di due pezzi ondulati di legno o corno, uniti al centro, scompaginavano le falangi avversarie prima che la cavalleria caricasse. Gli sparabara, come venivano chiamati i componenti delle unità di fanteria dotate di arco, agivano al riparo di grossi scudi – gli spara, appunto, costituiti da cuoio indurito, nel quale erano innestate cannucce di vimini poste verticalmente quando era ancora flessibile –, sostenuti da un altro combattente, e si schieravano in fila, nell’ordine di nove ogni dathapatiš.
Gli sparabara persiani in azione, secondo la ricostruzione grafica di G. Rava.
Nel loro equipaggiamento, oltre all’arco, naturalmente, risaltava il caratteristico gorytós, una sorta di rinforzo lungo la coscia sinistra, quella portata in avanti per il caricamento, mentre i portatori di scudo disponevano di una scimitarra. In progresso di tempo, gli stessi arcieri vennero dotati di un piccolo scudo di legno o di cuoio con bordo di metallo, detto taka, più o meno della grandezza di un pélta, ma con il bordo superiore tagliato a mezzaluna, allo scopo di difendersi nel corpo a corpo una volta che l’avanzata della falange era riuscita a penetrare la cortina di spara. Il loro abbigliamento consisteva in una corta tunica stretta alla vita da una fascia annodata, pantaloni, e un cappello quasi “a bombetta” senza bordi.
Ve n’erano tuttavia anche montati, di arcieri, secondo la tradizione iranica: indossavano solo una tunica e delle brache imbottite. L’arco, peraltro, era appannaggio anche dei portastendardo, che si contraddistinguevano per una pelle di lupo posta sulla testa e sulle spalle, una tunica estremamente intarsiata per renderli distinguibili, una corta gonna e dei pantaloni aderenti e stretti alle caviglie.
Arcieri erano anche, ai tempi di Dario il Grande, gli stessi Immortali, così come vengono raffigurati nei fregi residui dei palazzi imperiali, nei quali notiamo, tra le altre cose, la barba e i capelli accuratamente lavorati a trecce, costume diffuso fra i Persiani. Si rileva nelle figure una fascia arrotolata di color giallo, avvolta intorno alla fronte, tempie e nuca, lasciando scoperta la sommità del capo; ma è probabile che in guerra i guerrieri usassero il classico copricapo iranico, un modello con lunghi lembi laterali piuttosto diffuso tra i popoli asiatici, e in particolare tra i contingenti di arcieri nonché tra i cavalieri, denominato tiara, o kyribasia; pare che si ricavasse tagliando su misura la pelle di qualche piccolo animale, e spuntandone le gambe; i risvolti potevano essere utilizzati a mo’ di sciarpa durante le marce per difendersi dal vento e dalla polvere, o in combattimento come protezione. Un’ampia tunica di colore cremisi, blu, giallo o bianco nascondevano un corsaletto a scaglie metalliche.
Bassorilievo di due Immortali reali, dal Palazzo di Dario I, a Susa. Paris, Musée du Louvre.
L’altra arma che vediamo raffigurata è la lancia, di cui erano dotati tutti i corpi d’élite persiani (lo stesso Dario era stato un lanciere reale di Cambise), contraddistinta da un pomo argentato – dorato per gli ufficiali – nella parte opposta alla punta. L’arma secondaria era costituita da una corta daga contrassegnata da un’elsa decorata con due teste di leone divergenti.
Possiamo affermare, con ragionevole sicurezza, che l’esercito persiano fu il primo della Storia ad adottare una certa uniformità nelle divise, dai più alti gradi ai corpi speciali, alla truppa; pare anzi che gli stessi satrapi provvedessero ad equipaggiare i soldati alle loro dipendenze, e quelli che dimostravano maggior gusto e solerzia venivano premiati dal Gran Re in persona il quale, dal canto suo, conservava in magazzini centralizzati tutto ciò che distribuiva ai corpi speciali. Le figure degli Immortali indossano ampie toghe intarsiate con i simboli e i colori dei rispettivi reggimenti, lunghe fino alla caviglia, lasciano intravedere dei pantaloni e delle scarpe chiuse gialle, collane e braccialetti dorati.
Probabilmente il reggimento d’élite degli Immortali, costituito dai lancieri reali, procedeva e seguiva il carro del sovrano durante la marcia, poggiando la lancia sulla spalla destra con la punta rivolta verso il basso, e costituiva la sua guardia del corpo in ogni occasione. Sul mezzo possiamo figurarci il Gran Re vestito di una corta tunica intarsiata, di pantaloni, scarpe, un copricapo cilindrico di color giallo e con uno scettro dorato con pomello. Accanto a lui, si trovava il suo gran ciambellano, un eunuco che curava il cerimoniale e gli affari di corte.
I lancieri reali erano reclutati tra la nobiltà, mentre gli altri reggimenti degli Immortali pescavano anche altrove, sebbene sempre tra Persiani e Medi; probabilmente, erano gli unici autorizzati a vestire indumenti con i colori del sovrano. Il tipico lanciere reale raffigurato nei rilevi di Persepoli, sulla tomba di Artaserse III, indossa una lunga tunica di porpora con una banda bianca al centro, e dei pantaloni dello stesso colore. Il copricapo, cilindrico, è blu, e dispone del caratteristico scudo ovale denominato dagli archeologi “dypilon” – dal sito di Atene nel quale vennero rintracciati vasi sui quale era raffigurato – , con due cerchi ritagliati lateralmente; probabilmente, l’attrezzo era rivestito di pelle seccata di gazzella.
Anche i satrapi avevano un reggimento a loro disposizione come guardia del corpo, denominato arštibara, al comando di un hazarapatiš, cui veniva affidata la sicurezza della satrapia, di concerto con le truppe mercenarie. Le roccaforti erano sotto il comando dei didapatiš, che dipendevano invece direttamente dal re, il quale si garantiva in questo modo una divisione dei poteri militari che limitava la concentrazione degli stessi nelle mani di un governatore.
Corpi della fanteria persiana (da sinistra a destra: un thanvabara, uno sparabara, un arštibara e un takabara). Illustrazione di R. Scollins.
Sulla fanteria persiana, alla quale veniva data scarsa rilevanza, in generale non si sa molto. Possiamo basarci principalmente su un frammento di un vaso attico conservato al Louvre, nel quale vediamo raffigurato un soldato con uno scudo a mezzaluna crescente, decisamente più grande del pélta, e un’ascia. il copricapo sembra di cuoio o di pelle ed evidenzia un accentuato paraorecchie, mentre una corta tunica senza maniche ricopre un camiciotto a maniche lunghe e sovrasta i pantaloni. In progresso di tempo le influenze greche si fecero sentire, soprattutto nello scudo, che divenne sempre più simile all’hóplon, e nella lancia, che accentuò la sua lunghezza. Per quanto riguarda gli ufficiali, possiamo dire che avevano un turbante in testa e che erano dotati, almeno loro, di una corazza di lino trapuntato, con tunica stretta in vita da una fascia annodata, e pantaloni.
Tuttavia, tra le leve del grande impero se ne vedevano di tutti i colori. I Persiani utilizzarono per le loro invasioni della Grecia anche gli Etiopi della Nubia, principalmente come marinai insieme ai Saka dell’Amu Darya, sebbene, dopo la disfatta di Salamina, li abbiano smobilitati per impiegarli come fanteria leggera sul fronte terrestre. Nei vasi greci li vediamo raffigurati con ciò che sembra una corazza di tessuto inspessito da più strati, forse lino, senza maniche, sotto la quale compare una casacca a maniche lunghe; dal bordo inferiore dell’armatura pendono pterugi, cui seguono i pantaloni, ma il tratto distintivo è un mantello che tengono avvolto lungo il braccio a mo’ di scudo. Di Nubiani, ve n’erano però di armati più alla leggera, vestiti di sola pelle di leopardo, con un lungo arco di legno di palma e frecce di canna battuta, con corta lancia di corno di antilope e una clava; in battaglia, solevano dipingersi metà del corpo in rosso vermiglio e passare del gesso sull’altra.
Pittore di Trittolemo. Combattimento fra un oplita e un persiano. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, V sec. a.C. Museo Archeologico Nazionale di Atene.
Non meno caratteristici erano i combattenti dell’Asia Minore, provenienti da Frigia e Paflagonia, vestiti solo di una corta tunica a canottiera, di stivaletti di cuoio e di un copricapo in vimini rinforzato da scaglie di metallo; il loro equipaggiamento consisteva in uno scudo simile al pélta per forma e dimensioni, una lancia e un paio di giavellotti.
In progresso di tempo, e con il costante deterioramento del sistema di leva interno dell’Impero, l’aliquota dei contingenti mercenari andò aumentando. I re attinsero sia all’interno delle stesse satrapie – come in quelle caucasiche o, più a est, in Ircania e in Battriana – , sia in quei territori ancora liberi ritenuti istituzionalmente una fucina di combattenti di professione. Tali erano, per esempio, la stessa Grecia oppure, in estremo oriente, le regioni del Punjab e del Sind. Molti territori, invece, venivano tenuti in uno stato di blanda soggezione, senza procedere a un’annessione vera e propria, proprio per poterne ricavare contingenti mercenari, come tra i Curdi, i Pisidi, i Misii; in tal modo si evitava l’uniformità con l’esercito nazionale, poiché costoro risultavano più efficaci combattendo con il loro armamento tradizionale.
Combattimento fra Greci e Persiani. Bassorilievo, marmo, fine V secolo a.C. Dal fregio meridionale del Tempio di Atena Nike.
I Greci vedevano questi soldati come peltasti, perché la maggior parte di essi si difendeva con il taka, tanto da essere definiti takabara, “portatori di scudi”, oltre a disporre di una lancia; privi di armatura, essi indossavano un camiciotto, una tunica intarsiata fin sopra il ginocchio e priva di maniche, una calzamaglia e la tiara. Tuttavia i loro compiti erano molto più vicini a quelli di una vera e propria fanteria di linea, e le loro armi più robuste e pesanti. Tra costoro si distinguevano i Licii, menzionati da Erodoto e raffigurati in un rilievo trovato a Konya, armati tutt’altro che alla leggera, con una corazza anatomica dotata di pterugi in vita e spallacci, un elmo con paranaso, paraorecchie e paranuca, alla cui sommità spiccava una cresta rigida, e gambali; il loro peculiare armamento si caratterizzava per uno scudo perfettamente rotondo, più ampio del pélta, per un falcetto in luogo della spada, e per una lancia a due punte, che si potrebbe definire un “bidente”.
Nel complesso, i fanti persiani non valevano granché, e nel IV secolo a.C. si preferì sempre più spesso ingaggiare opliti greci; Ificrate, distintosi per la prima volta in battaglia a soli 18 anni mentre militava nella flotta persiana a Cnido, fu uno dei maggiori comandanti mercenari utilizzati dai Persiani. Ma con il crollo delle sorti spartane dopo Leuttra ci fu un riflusso di combattenti peloponnesiaci, e i Persiani optarono per la creazione di una vera e propria fanteria pesante autoctona; pertanto, equipaggiarono e addestrarono alle tecniche oplitiche 120.000 asiatici, i quali andarono a costituire il corpo dei cardaci che, in verità, non diede gran prova di efficacia durante le guerre macedoni.
Le sempre più frequenti rivolte che contrassegnarono gli ultimi decenni di vita dell’Impero persiano, comunque, resero costante la domanda di soldati da parte dei ricchi satrapi, disposti a spendere grandi cifre per sostenere le proprie ambizioni; dall’altra parte dell’Egeo, d’altronde, le confederazioni che ruotavano intorno alle principali città-stato non sapevano come pagare i loro epílektoi, ovvero le loro truppe permanenti. Per la legge della domanda e dell’offerta, i Greci furono ben lieti, nei pur rari periodi di pace, di prestare i loro contingenti permanenti, costituiti per lo più da peltasti, ai governatori persiani, affinché fossero loro a retribuirli e a tenerli in allenamento.
La cavalleria mercenaria proveniva dalle estreme regioni orientali dell’Impero, tra quei nomadi sciti celebri per la loro efficacia sia come cavalieri leggeri che corazzati. Tra la cavalleria priva di armatura, Erodoto ci segnala i Sagartiani, che combattevano con il lazo, una daga e un’ascia da battaglia, indossavano una corta tunica con i lembi sovrapposti sul davanti e tenuti fermi da una cintura in vita.
Refrattari al dominio persiano, ma fior di combattenti quando erano ingaggiati come mercenari, erano i cavalieri sciti provenienti dalle steppe del Mar Nero. La loro abilità nell’uso dell’arco era leggendaria, anche se nel loro armamento troviamo giavellotti, spade anch’esse piuttosto lunghe, accette. Per quanto concerne l’equipaggiamento difensivo, gli Sciti potevano avere lo scudo o meno, l’elmo o un copricapo di cuoio o di pelle di animale, un’armatura a scaglie o una casacca di cuoio. Nelle raffigurazioni compaiono anche i soli pantaloni con un’armatura a scaglie. Particolarmente temibili erano i Saka dell’Asia orientale, provenienti dall’Indostan settentrionale. Si trattava di cavalieri corazzati in modo assai accentuato, con un’armatura a piastre di metallo sia per l’uomo che per l’animale; bracciali di acciaio ricoprivano il lato esterno dell’avambraccio del combattente, le cui gambe era difese da schinieri divisi in due parti, stinco e coscia, unite insieme sul ginocchio da lacci di cuoio. Il cavaliere utilizzava la lancia per la carica, ma disponeva anche di spada, nonché di arco che, insieme alle frecce, conservava nel classico gorytós.
Cavalleria leggera persiana del IV secolo a.C. Illustrazione di J. Shumate.
Ciascun proprietario terriero al quale il Gran Re aveva affidato i vasti territori che non facevano parte delle circoscrizioni delle città, manteneva una riserva di cavalieri, che metteva a disposizione del sovrano in caso di guerra; gli animali facevano parte dei tributi che i vari territori dell’Impero versavano annualmente al sovrano. Abbiamo una raffigurazione di un nobile anatolico a cavallo, in un dipinto murale in Turchia, vicino Elmali, che mostra una tunica porporata e dei pantaloni, oltre alla tiara e a una lancia. Il cavallo si distingue per un ciuffo ottenuto stringendo la parte sommitale della criniera con un nastrino, alle volte con l’aggiunta di capelli umani. Compare anche una parvenza di sella corazzata, a copertura parziale della coscia.
Non meno di quella mercenaria, anche la cavalleria nazionale persiana costituiva una forza di ragguardevole efficacia. Almeno inizialmente, veniva utilizzata non per lo sfondamento, ma per il tiro da lontano. All’inizio del V secolo a.C. i cavalieri persiani disponevano di un paio di giavellotti e semmai di un arco, di una kopís o di un’ascia. il capo era avvolto in una tiara, il torace da un corsaletto trapuntato rosso sopra una corta tunica marrone e bianca a maniche lunghe, che terminava all’inguine, sopra i pantaloni. La sella era di ottone e i finimenti del cavallo di cuoio, mentre la coda e la criniera erano tenuti insieme da un nastro rosso. col tempo, tuttavia, quella persiana andò sempre più caratterizzandosi come cavalleria pesante, soprattutto nel corso delle endemiche lotte civili del V secolo a.C.; al termine di tale evoluzione, un cavaliere corazzato annoverava nel proprio armamento una lancia, una daga, una mazza, un corsaletto di lino trapuntato forse con borchie di metallo lungo le spalle, forse uno scudo sovente a mezzaluna lavorata, e un arco con almeno 30 frecce nella faretra. Un rilievo rinvenuto in Turchia mostra perfino una protezione per il collo, una sorta di collare rigido, ed esistono anche raffigurazioni su monete di braccia e gambe rivestite di scaglie di ferro. Si conoscono anche selle corazzate, con un pezzo di armatura che partiva dalla sella e proteggeva la gamba, dal bacino al piede. Il capo era ricoperto da un elmo, di cui sono stati ritrovati esemplari in forma conica con sommità appuntita, da una calotta con una cresta in stile greco sulla sommità, o dalla tiara; la cresta era costituita da crine di cavallo disposto a spazzola e da una coda lungo la nuca.
Cavaliere corazzato persiano, epoca achemenide. Illustrazione di J. Burn.
Tra i reparti di cavalleria d’élite, si distinguevano i «congiunti del Re», gli , esponenti della nobiltà che non avevano una vera e propria parentela col sovrano, ma costituivano l’entourage reale e rappresentavano gli amici personali del monarca. Erano pertanto gli unici ad avere il privilegio di scambiare baci con quest’ultimo e di far parte della tavolata del sovrano durante i suoi pasti; a sua volta, il Re testimoniava il suo attaccamento ai propri congiunti onorifici colmandoli di regali, a cominciare dal loro equipaggiamento: una tunica di porpora (kantuš), collana e bracciali, un cavallo dell’allevamento reale, una sella dorata e una daga dorata, detta akinaka, lunga pressappoco quaranta centimetri.
I cavalieri corazzati che costituivano la guardia del corpo di Ciro il Giovane, al cui servizio si pose Senofonte, erano equipaggiati secondo uno stile che tradiva evidenti influenze greche. Due pettorali di lino rivestiti con scaglie di bronzo, sul dorso e sul petto, erano tenuti insieme dagli spallacci e terminavano alla vita con gli pterugi; l’avambraccio sinistro, privo di scudo, era avvolto in una protezione di cuoio. L’elmo aveva solo i paragnatidi, oltre alla calotta, ma alla sommità si dipartiva un piumacchio con crine di cavallo. Le gambe erano protette da gambali a scaglie di bronzo, che le rivestivano fino all’inguine, mentre il piede non disponeva di alcuna protezione se non di una calzatura in cuoio. Le armi offensive consistevano in due giavellotti, detti pálta, e in una kopís. Anche il cavallo disponeva di almeno una piastra metallica appesa al collo e d una sul muso, e la stessa sella era corazzata con dischi di bronzo. Attaccavano solitamente in colonna, con una forza di penetrazione straordinaria, e si possono prefigurare davvero come i primi esempi di cavalleria catafratta, quei “carri armati” dell’Antichità che tanto avrebbero messo in difficoltà i Romani al tempo dei Persiani Sassanidi.
di F. Ferrari, La porta dei canti. Storia e antologia della lirica greca, Bologna 2000, pp. 89-92. Cfr. I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca. Vol. I – Dalle origini al V secolo a.C., Firenze 2004, pp. 319-320.
Verso la metà del VII secolo a.C. i Cimmeri, dopo aver abbandonato le loro sedi a nord del Mar Nero ed essersi spinti verso il Caucaso, attraversarono l’Asia minore commisti ad altri gruppi (fra cui in particolare i Treri, su cui cfr. fr. 4 West: Τρήρεας ἄνδρας ἄγων, «conducendo uomini treri») e sospinti a loro volta da scorrerie scitiche, invasero lo stato lidio di Gige conquistando Sardi (nel 652 a.C., dopo averla messa a ferro e fuoco) e distruggendo Magnesia sul Meandro, e infine si riversarono su alcune città ioniche della costa dell’Egeo, fra cui Smirne ed Efeso (cfr. Mazzarino, 130-135). Appunto nell’ambito di una scorreria contro Efeso un poeta di questa città, quel Callino che Aristotele (fr. 676 Rose) e Didimo di Alessandria (cfr. Orione s.v. ἔλεγος, «canto») consideravano il più antico poeta elegiaco, esorta i concittadini a ridestarsi dal torpore che li paralizza e a lottare a difesa della pólis e del suo territorio. Le informazioni sulla biografia di questo poeta sono oltremodo scarse: le uniche notizie che riusciamo a racimolare provengono da fonti indirette letterarie. Callino visse verso la metà del VII secolo a.C., un po’ prima di Archiloco, secondo la testimonianza di un verso di quest’ultimo, citato dal geografo Strabone (Geografia, XIV 1, 4). Data la grande affinità con le elegie di Tirteo, si è in genere supposto che anche quelle di Callino, e in particolare il fr. 1 West (l’unico di una certa ampiezza – 21 versi – che di lui ci sia pervenuto), fossero recitati sul campo di battaglia. Questo frammento è tramandato da Giovanni Stobeo (IV 10, 12) all’interno della rubrica “elogio dell’ardimento”.
Cavaliere. Statuetta, bronzo, 560-550 a.C. da Grumetum (Lucania). London, British Museum.
D’altra parte proprio l’attacco del brano, segnato dall’antitesi fra l’attuale «stare distesi» e l’esortazione (παραίνεσις) a mostrare per il futuro animo prode, ha più plausibilmente suggerito lo scenario di un simposio (cfr. Tedeschi 1991, 95-104): il poeta esorterebbe i presenti a disertare i conviti e le feste, cui ora si abbandonano ignari, ad abbandonare la vita di mollezze e agi cui erano ormai avvezzi, per organizzarsi di fronte al pericolo contro di cui già lottano le comunità vicine. Dobbiamo considerare che questi 21 versi non sarebbero altro che la continuazione (preceduta, con ogni probabilità, da una lacuna) dell’esortazione vera e propria; qui si descrive essenzialmente l’azione della guerra finalmente intrapresa per cacciare i barbari invasori, e il poeta si lascia trasportare a un’esortazione dal tono decisamente epico (il debito di Callino con l’epos omerico è evidentissimo). Del resto, qui, per la prima volta nella letteratura greca – almeno per quanto ci è dato sapere – in questi versi la celebrazione di personaggi e di eventi mitici scompare per lasciare spazio all’esaltazione di un nuovo tema: il senso della collettività e la consapevolezza degli obblighi che legano il cittadino alla patria. Di fronte alla minaccia nemica, che può rappresentare un rischio per la sopravvivenza della stessa pólis, l’uomo coraggioso, l’ἀνήρ per antonomasia, non può e non deve pensare a se stesso, ma al contesto affettivo e sociale in cui vive, rappresentato dalla famiglia e dalla sua città, trovando in sé la forza per affrontare il pericolo e la morte; e se da solo «compie imprese degne di molti», proprio come gli eroi e i semidei cui gli Ioni facevano risalire la propria stirpe, la lode e il ricordo non gli sarebbero stati tributati grazie al canto degli aedi, ma sarebbero scaturiti dalla riconoscenza e del rimpianto dei suoi stessi concittadini. A sostegno della nuova concezione esistenziale, il poeta non nega i tradizionali valori dell’antica aristocrazia, ma li modifica e non li considera più qualità esclusive di singoli individui, determinate dall’appartenenza di sangue a una classe sociale privilegiata, ma li estende all’intera comunità della pólis, creando la figura del cittadino-combattente e conferendo al valore guerriero un diverso significato e un nuovo scopo, che s’identifica nello spirito di sacrificio per la salvezza della comunità.
L’esortazione è articolata ora attraverso interrogative concatenate (vv. 1-3), ora per imperativi perentori (vv. 5 e 9), e viene puntellata da sequenze raziocinanti, spesso marcate da γάρ («infatti»; cfr. vv. 6, 12, 18, 20), tese a sottolineare i vantaggi, anche pratici, del coraggio. Così il brano si sviluppa secondo sezioni ben definite, ora riflessive ora parenetiche: di qui un’enfasi ben distribuita, elaborata anche con l’impiego studiato dell’enjambement (cfr. in particolare vv. 2, 8, 13, 15: si tratta, per gli ultimi tre, di enjambement “periodici”, tali cioè che coinvolgono la nervatura del periodo sintattico) e di altri stilemi quali l’iperbato (lo stacco fra μάχεσθαι, «combattere», e δυσμενέσιν, «contro i nemici», ai vv. 6-8, e fra θάνατόν γε φυγεῖν, «sfugga alla morte», e ἄνδρα, «un uomo», ai vv. 12 s.) e l’espressione “polare” (v. 17).
I valori individualistici del mondo omerico appaiono calati in un contesto civico ben più ampio e diversificato, che ha di mira tanto i ricchi che i meno abbienti (cfr. v. 17), in funzione di un destinatario che (seppur probabilmente rappresentato dal simposio aristocratico) tende a identificarsi, almeno come mostra il carattere generalizzato delle allocuzioni, dapprima ai νέοι («giovani», v. 2) e poi a un onnicomprensivo τις, («ciascuno», vv. 5 e 9).
Fonte: Stobeo IV 10, 12 all’interno della rubrica ἔπαινος τόλμης («elogio dell’ardimento»)
Metro: Il distico elegiaco (ἐλεγεῖον) è costituito da un esametro dattilico e dal cosiddetto pentametro, il quale solo apparentemente consiste nella giustapposizione di cinque metra, ma in realtà deriva dalla duplicazione del colon detto hemiepes maschile.
[3] La αἰδώς, il senso di vergogna e di scrupolo che il guerriero prova di fronte alla prospettiva di mostrarsi vile, è fondamentale nella concezione omerica della virtù guerresca, ma questo sentimento viene qui riferito al rapporto con la comunità (cfr. Odissea II, 64 s.).
[4] Cfr. Iliade XV, 494-499: «su, combattete contro le navi; e chi fra di voi, ferito o colpito, debba incontrare destino di morte, muoia: non è sconveniente per lui morire difendendo la patria, ma sono salvi per il futuro la sposa e i figli, e intatti i beni e la casa, se mai gli Achei se ne andranno con le navi dalla terra paterna».
[5] Le dee del destino, corrispondenti alle Parche romane, che presiedono alla μοῖρα o “porzione” di vita assegnata a ciascuno.
di L. Braccesi, Caratteri della tirannide e dinamica sociale, e sgg. R. Bianchi Bandinelli, Origini e sviluppo della citta. L’Arcaismo. Il medioevo greco. Torino 1993.
La correlazione fra la genesi della tirannide e l’apertura ad un espansionismo marittimo da parte delle póleis è propria di Tucidide (I.13,1). Per altro, Erodoto (III.122,2) dice di Policrate di Samo – il più famoso dei tiranni della Ionia – che egli sognò il dominio sul mare. In effetti, in contrasto con la chiusa economia latifondista dei regimi oligarchici, l’età della tirannide si caratterizza nel risveglio prepotente di un espansionismo mercantile di carattere transmarino per parte di un nascente ceto medio, che riesce ad acquistare sempre maggior peso politico, opponendo, in una nuova dinamica sociale, beni mobili a proprietà fondiarie. È questa l’età infatti in cui gli Elleni acquisirono il controllo delle grandi rotte commerciali mediterranee e in cui l’esportazione di ceramica greca conosce il suo primo grande fiorire nel Ponto, in Oriente, in Egitto e nei mari occidentali. Ma tale è l’aspetto trionfante delle tirannidi.
L’origine di questo tipo di regime è altresì correlata ai profondi fermenti sociali verificatisi tra il VII e il VI secolo a.C.: le aspettative di rinnovamento di un mondo contadino sempre più soverchiato dall’espansione del latifondo, le aspirazioni alla conquista di uno spazio politico da parte del ceto artigianale urbano, e, infine, le rivendicazioni di un dēmos, ancora informe, ma che sta rapidamente maturando coscienza di sé grazie alla milizia oplitica. Tutti fattori che segnarono il risveglio della pólis e che accentuano il carattere rivoluzionario e dirompente con cui si ebbe la tirannide alle sue origini; la tirannide che non fu altro se non una tappa fondamentale della lotta di popolo, in funzione di scelte democratiche più avanzate, contro lo strapotere di una chiusa oligarchia, che, negava lo spazio politico all’iniziativa imprenditoriale del ceto artigiano e commerciante. Fattori peraltro che occorre valutare con flessibilità di giudizio, prestando attenzione al particolare contesto socio-economico di ogni singola pólis, perché la tirannide – pur al di là delle stesse aspirazioni dei tiranni – non fu un fenomeno supernazionale, ma squisitamente cittadino.
Pittaco di Corinto. Busto, marmo, copia romana di I sec. d.C. da originale greco di IV sec. a.C. Paris. Musée du Louvre.
La tirannide, anche se fu signoria dello Stato retto autocraticamente, si appoggiò alle masse popolari, ne interpretò le istanze di rinnovamento sociale e rappresentò un momento rivoluzionario e non involutivo della vita della pólis. Ma proprio per questo suo carattere, dettato dalle contingenze, e al contempo provvisorio e temporaneo, essa fu fenomeno della storia sociale e non della storia costituzionale. Esaurita la sua funzione storica nella lotta contro i monopoli del potere oligarchico, doveva infatti cadere, travolta da nuove e più mature rivendicazioni popolari, per lasciar luogo all’edificio della πόλις democratica. Per questo non resse per più di una o due generazioni, e oltre tutto, nella maggior parte dei casi, degenerando dopo la prima: il che ne accentuò il carattere di assoluta condanna nelle fonti storiche di età successiva. In questa tradizione, definitivamente canonizzata nel pensiero politico del IV secolo a.C., in cui “tirannide” si qualificò – ben al di là del suo originario portato rivoluzionario – come antitesi ai concetti di “democrazia” e “isonomia”; in cui il giudizio di valore è ormai inesorabilmente condizionato, né dissociabile, dalla fiera polemica contro i regimi dispotici orientali o contro i più vicini regimi autoritari sorretti dall’oro macedone.
Ma il termine tyrannís non ebbe in origine valore dispregiativo: indicò “signoria”; e, termine del linguaggio domestico, si affermò sull’onda di rivendicazioni popolari a indicare il nuovo potere – sfuggente a qualsiasi definizione costituzionale – del capo-fazione assurto a guida della polis. Il detentore della tyrannís, il “tiranno”, è appunto nel giudizio popolare il demagogo che guida il plebeo contro il nobile, o il povero contro il ricco, in una dinamica di lotta sociale che mira a una trasformazione profonda della struttura cittadina. Il termine tyrannís, senza alcuna caratterizzazione di sapore politico, compare per la prima volta in un frammento di Archiloco:
A me non importano le ricchezze di Gige dal molto oro,
né mai ebbi desiderio, né ambisco
i beni degli dèi, né aspiro ad una grande tirannide
(fr. 19 West).
In questo passo, nell’elencare tre distinte ambizioni, la tyrannís non ha nulla in comune con Gige; questi, stando alla nostra testimonianza, non ebbe certo l’appellativo di týrannos: assurdo è quindi congetturare che il titolo, volto a designare i dinasti microasiatici, sia tardivamente giunto in Grecia da Oriente, per cui, gli Elleni, in nota polemica, l’avrebbero recepito in senso spregiativo. Per altro tyrannís e týrannos parrebbero termini estranei alla lingua lidia, mentre più elementi indurrebbero a pensare che fossero penetrati nel lessico greco già da età assai antica: la loro origine “popolare” potrebbe facilmente giustificarne l’estraneità al linguaggio aristocratico dell’épos. Týrannos, seppure senza nota d’investitura carismatica, sarebbe stato originariamente sinonimo di basileús: il termine popolare si sarebbe poi affermato, in antitesi a quest’ultimo, ad indicare con propria significanza politica i nuovi “principi”, perché più consono ad esprimere la fluttuante realtà del momento, perché estraneo al lessico aristocratico.
Per Archiloco, in ogni caso, tyrannís equivale a “signoria” e il termine, ben lungi da accezioni politiche, non ha ancora quella nota dispregiativa che acquisterà in età successiva, allorché tirannide equivarrà a “usurpazione”, soprattutto nella lirica corale e nella poesia tragica. Allora la definizione di týrannos implica allora un giudizio di valore: era tale chi, con atto di violenza politica, arbitrariamente infrangeva lo statuto giuridico della pólis; illegale non era il suo potere dispotico, bensì l’atto di usurpazione che commetteva, il quale giustificava il tirannicidio come un’azione pia e giusta. Týrannos e basileús non sono più, quindi, sinonimi, ma concetti del tutto antitetici: l’uno è il sovrano legittimo, l’altro l’usurpatore. La tirannide fu dunque intesa dal pensiero politico classico come una forma particolare, seppure “cattiva”, di costituzione, inserita, con rigido determinismo, fra oligarchia e democrazia. Tuttavia, pur a prescindere dalla troppo netta distinzione fra un regime ed un altro, incerti sono gli stessi confini della tirannide, delineati dalle fonti. Se da un lato vi era la “tirannide-usurpazione”, dai connotati rivoluzionari, dall’altro c’era la “tirannide elettiva”, dalle caratteristiche riformistiche: i tratti dell’una e dell’altra sono tutt’altro che ben definibili; piuttosto sono viziati, a priori, dall’ideologia e dalla particolare sensibilità partigiana degli autori. Per contenere le pressioni dal basso, l’oligarchia cittadina, cedendo gradualmente alle rivendicazioni popolari e salvare il salvabile, senza perdere il controllo della pólis, si rassegnò a darsi essa stessa un “arbitro” (aisymnḗtēs), un “mediatore” (diallaktḗs), o un legislatore (nomothétēs). Il compito di una figura tale fu quello di assicurare il nuovo assetto della città, accogliendo le istanze delle frange più umili della popolazione e contenerne le spinte più eversive, operando, di fatto, una sorta di “rivoluzione pacifica”.
Istituzionalmente, l’operato di questi “pacificatori” si presenta come una missione temporanea con trasferimento legale di poteri pressoché illimitati ad un singolo individuo, che , talora, in certi casi, poteva anche essere straniero; ma il “salvatore”, beninteso, espletato il suo compito, doveva tornarsene a vita privata. Quindi, senza alcun carattere di violenza politica, la “tirannide elettiva” – come la chiamò Aristotele (Polit. 1280a) – o, se si vuole, una forma di “dittatura” – come ebbe a dire Dionigi di Alicarnasso (Antiq. Rom. V.73). Ciononostante, venne stigmatizzata ugualmente come “usurpatoria” da quegli oligarchi che neppure si rassegnarono a concessioni moderate: per questo, l’esimneta Pittaco fu “tiranno” per Alceo.
In certi casi di tensioni interne poco violente, la situazione di particolare immobilismo politico bastò ad un esimneta per assicurare un graduale trapasso a regimi più democratici, mentre in altri, nonostante un regime “illuminato”, non impedì l’instaurarsi di una tirannide vera e propria.
In tutti i casi, comunque, la tirannide segnò un momento necessario e sufficiente all’evoluzione della politica greca. Molteplici furono le cause di questo fenomeno, le quali vanno di volta in volta rapportate alla realtà socio-economica di ogni singola realtà urbana. Come si è già anticipato, tuttavia, si possono elencare – in un esame globale – almeno tre fattori costanti:
crisi agraria e risveglio delle masse contadine oppresse dallo strapotere del latifondo;
nascita di un ceto mercantile che oppone beni mobili ad immobili;
acquisizione di uno spirito d’appartenenza grazie al nuovo assetto politico.
Il principale fattore di disquilibrio fu dunque la gravissima crisi agraria che investì i piccoli proprietari terrieri, sempre più minacciati dall’espansione fondiaria di pochi nobili, gelosi del proprio potere e sordi ad ogni tipo di concessione o compromesso. Miseria, fame, impossibilità di riscattare i propri debiti, e schiavitù: questi erano gli spettri contro cui doveva rapportarsi quotidianamente l’uomo greco del VI secolo a.C.; qualora ci si appoggiasse a qualche latifondista per ottenere aiuto finanziario – dietro ipoteca – si finiva inesorabilmente per ritrovarsi con i propri averi fagocitati dal suo strapotere: nessuna legge tutelava o garantiva i diritti del singolo. Per altro, l’incertezza del domani e l’instabilità del presente sovrastavano ogni attività imprenditoriale, in una società in cui gli interessi dell’oligarchia erano direttamente contrari a quelli del ceto mercantile, aperto ad un’economia in espansione.
Fra il piccolo mondo contadino e quello commerciale, dunque, si consuma il dramma del rivolgimento. Chiaramente i mercanti rappresentano l’elemento attivo che porta all’ascesa al potere del tiranno. Questi – spesso un transfuga di campo avverso che, con l’adesione delle masse popolari, s’impadronisce a forza delle redini dello Stato – è anzitutto e contemporaneamente il difensore dei contadini e dei liberi commercianti. Gli uni rappresentano il fattore-base su cui poggia l’effettivo potere del tiranno, gli altri l’elemento dinamico che qualifica le sue scelte democratiche e le vedute più aperte. Tutti quanti si riconoscono come un unicum all’interno del nuovo ordinamento oplitico che li accomuna nella milizia civica, e li contrappone – con ugual peso e più matura coscienza di classe – al vecchio sistema strategico nobiliare. Anzi, il nuovo assetto militare della falange degli opliti, che riunisce sul campo, a sostenere il maggior sforzo bellico, quanti sono in grado di portare le armi (ópla parechómenoi), crea la figura del cittadino-soldato, che annulla le barriere anacronistiche dei privilegi sociali risalenti all’epoca dei regimi aristocratici, momento in cui i combattimenti si risolvevano a singolar tenzone e quando il “guerriero” vero e proprio era quello che montava a cavallo.
Pittore Amasis. Lotta oplitica (dettaglio). Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere, 540 a.C. ca., da Vulci. Paris, Cabinet des médailles.
Le póleis che fra il VII e il VI secolo a.C. non furono turbate da forti contrasti sociali, o che comunque riuscirono ad assorbirli, non conobbero regimi tirannici. Ad esempio Sparta, per il suo eccezionale immobilismo costituzionale. Calcide, invece – com’è noto – con una grandiosa emigrazione coloniale promossa dal ricco ceto fondiario locale, riuscì ad emarginare gli strati più poveri della comunità. D’altro canto, Egina, data la sua piccola estensione insulare, non ebbe mai un’oligarchia fondiaria dominante, e perciò, fin dall’età più remota, sviluppò una fiorente economia mercantile, che riuscì ad assicurare alla popolazione un sufficiente benessere.
Atene, obolo, 500-480 a.C. ca. AR. 0, 53, Recto: civetta, stante verso destra; sul bordo, l’iscrizione AΘE[NAI].
L’introduzione della moneta nelle singole póleis fu un fattore determinante, ed avvenne proprio in quest’epoca. Essa permise l’incremento di più rapidi ed efficienti scambi internazionali: la moneta era l’espressione dei tempi nuovi. Tramite l’intraprendenza dei mercanti, protesi alla conquista dei porti migliori, la piccola bottega divenne una vera e propria “industria” ante litteram, dotata di un programma di produzione in serie che mirava a condizionare la domanda esterna. Tale fu il processo che più visibilmente caratterizza quest’epoca di transizione, allorché la ceramica ellenica incominciò ad inondare tutti i mercati del bacino mediterraneo; ciò fu dovuto al fatto che le stesse città esportatrici erano proprio quelle rette da un tiranno.
Come è stato detto, il tiranno era l’interprete delle aspirazioni e dei bisogni del ceto mercantile e il garante della libertà dei contadini, insomma, era il capo degli opliti; nella maggior parte dei casi era un transfuga di campo avverso che spesso raggiungeva il sommo potere grazie all’esercizio di un’alta magistratura o di un’importante carica militare.
Tuttavia egli avvertiva l’imbarazzo di tradurre in formule giuridiche la realtà nuova del suo potere, e da ciò ne rimaneva inesorabilmente condizionato. Egli era un “monarca illuminato”, ma privo di carisma, che mirava tanto più urgentemente a legittimare il proprio potere, che da vitalizio voleva trasformare in ereditario, quanto più ne avvertiva il carattere transitorio e momentaneo. A nulla però sarebbe valso muoversi sull’infido terreno istituzionale; qualsiasi sovvertimento di costituzione avrebbe infatti sortito l’effetto contrario e indesiderato.
Solo in un caso circoscritto e in un’area del tutto periferica, a Cirene, si assistette in effetti alla trasformazione di una tyrannís in basileía sotto la dinastia dei Battiadi, ma si trattò di una graduale assimilazione, e non di una scelta predeterminata, ed inoltre il fenomeno fu favorito dall’isolamento culturale, da suggestione dei limitrofi monarchi barbari, dall’insolito perdurare di un istituto rivoluzionario ormai stemperatosi di ogni caratteristica eversiva.
Al di fuori della costituzione della pólis, il tiranno deve quindi ricercare la legittimazione del suo potere. E questa anzitutto chiede al diritto divino, quasi a rivendicare, agli occhi del popolo, una sorta di investitura carismatica. Il presentarsi particolarmente religioso e timoroso della divinità (e parimenti l’erigere templi, l’istituire nuove festività, l’inviare vistose offerte ai santuari federali della grecità) è peraltro per parte sua un’accorta politica di instrumentum regni. La politica religiosa del tiranno mira quindi da un lato ad ingraziarsi il favore della popolazione, dall’altro è tesa a disconoscere quelle divinità che nei génē gentilizi hanno assunto un chiuso carattere aristocratico. Quindi le scelte culturali s’indirizzano anzitutto verso quelle divinità panelleniche e poliadi che, a livello etnico o cittadino, hanno decisamente acquisito una spiccata connotazione popolare. E questo ovviamente, da parte del tiranno, sono tanto più onorate se connesse con la località di provenienza della sua famiglia.
Peraltro, i tiranni sottolineano con una politica promozionale di opere pubbliche il carattere duraturo e non provvisorio del proprio potere, oltre che con lo sviluppo di una vera e propria corte, con la promozione di gare pubbliche e agoni poetici, di modo che rinnovano non solo spiritualmente ma anche culturalmente l’anima della pólis.
Per quanto riguarda la politica estera, i tiranni si sentono sodali: si propongono vicendevole soccorso, rinsaldano amicizie ed alleanze con vincoli matrimoniali che tendono a sottolineare il principio dell’ereditarietà dinastica del proprio potere. Di contro avvertono tutto il peso dell’ostilità della vecchia classe aristocratica e di conseguenza, in fatto di politica interna, mirano con ogni sforzo a prevenire sovvertimenti reazionari: livellando le varie componenti sociali, creano una base d’uguaglianza fra tutti i cittadini e, talvolta (come accadde a Sicione anticipando il sistema clistenico di Atene) con provvedimento innovatore, sostituiscono le tribù gentilizie con tribù territoriali. In questo modo essi elevano gli umili e si sforzano di infrangere i presupposti del potere oligarchico: ciò spesso comportò condanne a morte, esili e confische comminati agli oppositori.
La fortuna dei tiranni fu indissolubilmente legata alla politica di promozione sociale che essi seppero instaurare nelle proprie città, accogliendo le rivendicazioni dei ceti che ne avevano favorito l’ascesa. Crisi agraria e disoccupazione erano le piaghe sociali che affliggevano la cittadinanza. Fu cura dei tiranni il miglioramento delle condizioni economiche dei contadini, la liberazione di questi dall’incubo di essere fagocitati dal grande latifondo, l’accogliere di fatto le rivendicazioni di questi e delle masse diseredate volte ad ottenere una più equa ripartizione della terra. Questo fecero senza alcun atto dichiaratamente rivoluzionario nei confronti della grossa proprietà, ma solo procedendo ad un’oculata ripartizione delle terre dai molti banditi politici di parte avversa. Provvedimento che assicurava un triplice obiettivo: colpire l’oligarchia, frantumare il latifondo, soddisfare le rivendicazioni delle masse rurali. Le città rette a tirannide furono così caratterizzate da una ripresa economica agricola con il concentramento di nuove energie in questo settore, con il potenziamento di colture pregiate, quali vigneti ed oliveti, con il dissodamento di terreni per l’innanzi adibiti al pascolo. Peraltro, come in tutti i regimi autoritari, si cercò di precludere alle masse contadine l’accesso alla città e al dibattito politico. E per far sì che i nuovi proprietari restassero più legati alla terra, si arrivò addirittura a distaccare nelle campagne l’amministrazione della giustizia: Periandro istituì tribunali locali disseminati nella campagna corinzia; Pisistrato organizzò dei giudici itineranti per l’Attica; Ortige rese giustizia alle porte di Eritre. Altri, come Clistene di Sicione, costrinsero i contadini ad indossare in permanenza il loro rozzo costume di pelle di montone perché fossero facilmente riconoscibili.
Per quanto riguarda il problema dell’occupazione i dati forniti dalla tradizione sono estremamente controversi: posto indubbio che tutti i tiranni promossero la costruzione di opere pubbliche, mentre la storiografia moderna propende per giustificare tali atti come dettati dal desiderio di dar impiego remunerativo al proletariato urbano, la tradizione antica è unanime nel dichiarare che si sfruttasse la popolazione con prestazioni di lavoro, più o meno forzate, a retribuzione irrisoria.
Al di là della contrapposizione – sostenuta dalla storiografia ottocentesca – fra Dori aristocratici e Ioni democratici, se è vero che la grecità è al contempo celebrazione di un’etica aristocratica e di un’esigenza democratica, in nessun area del mondo greco questa duplice istanza si è avvertita con tanta sofferta intensità come nella Ionia. Di qui, seppur con caratterizzazione del tutto particolare, l’estrema importanza della sua storia nell’età delle tirannidi, periodo che segnò sì la fine dei vecchi regimi aristocratici, ma in cui il trapasso verso forme democratiche più avanzate repentinamente si blocca per l’improvviso asservimento allo straniero, allorché ai tiranni-demagoghi si sostituiscono i tiranni governatori del Grande Re.
Purtroppo i dati pervenuti sono piuttosto esigui, per lo più notizie tradite da eruditi che non consentono la ricostruzione di un quadro unitario, o semplici nomi di tiranni – Pindaro di Efeso, Ortige di Eritre, Anficle e Politecno di Chio – avulsi da qualsiasi memoria di cronachistica locale. Solo di Mileto sul continente e di Lesbo e Samo nell’area insulare si conosce qualcosa di più e si può tentare un’interpretazione delle notizie pervenute.
Per Mileto, si ha la testimonianza di Erodoto che parla di Trasibulo, seppur incidentalmente e in un contesto interessato a riferire un aneddoto su Periandro di Corinto. Da Plutarco (Quæs.Gr. 298c) si conoscono i nomi dei due tiranni che gli successero, Damasenore e Toante. Inoltre, ancora da Erodoto, si apprende di discordie vivaci insorte fra fazioni rivali alla caduta della tirannide, protrattesi per due generazioni e conclusesi con un arbitrato dei Parii, i quali avrebbero rimesso il potere «a quanti avevano meglio coltivati i propri campi» (Erodoto, V.29). Le fazioni in lotta sono per Plutarco le eterie Ploutís e Cheiromácha; gli appartenenti alla prima – a suo dire – sarebbero gli aeinaûtai, «i sempre naviganti»; gli appartenenti alla seconda, stando ad Eraclide Pontico (fr.50 Wehrli), i non meglio identificabili gérgithes. Attraverso questi scarni indizi, seppur con cautela, si può tentare un’interpretazione delle vicende interne di Mileto, certo emblematiche per la storia delle città della Ionia. La tirannide di Trasibulo va posta intorno al primo decennio del VI secolo a.C.: la fine della lunga stasi, protrattasi per due generazioni, nell’ultimo quarto del secolo. Trasibulo, di origini aristocratiche, come parrebbe mostrare il suo ufficio di prýtanis, s’impadronì del potere assai probabilmente nel clima arroventato della guerra che oppose Mileto al re di Lidia, Aliatte, e in cui egli ebbe un ruolo da protagonista.
Prima dell’instaurazione della tirannide, Mileto aveva conosciuto l’evoluzione tradizionale di tutte le città greche, con passaggio del potere politico dal génos reale dei Nelidi all’aristocrazia di sangue che nella pritania riconosceva la massima magistratura civica. Anche qui, almeno esteriormente, si vede coincidere la tirannide con il momento del maggior espansionismo transmarino: tramite le colonie del Ponto Eusino e il parziale controllo dell’emporio di Naucratis in Egitto, Mileto monopolizzò gran parte dei commerci granari del Mediterraneo orientale. Inoltre, come testimoniano cospicui ritrovamenti di vasi milesi, la città esportava nelle regioni danubiane vino e olio, mentre importava schiavi, pellicce pregiate e ambra dai mercati dell’interno e pesce dalle colonie costiere: tutti articoli che, per buona parte, e soprattutto per i prodotti ittici, dovevano essere rivenduti sul mercato internazionale con scopi puramente commerciali.
Mileto, statere, 560-545 a.C. ca. EL 13, 87 gr. Recto: leone accovacciato con testa rivolta a destra.
Alla fazione Ploutís appartenevano i ricchi, la cui attività, più ancora che sul latifondo, doveva esplicarsi in campo commerciale: donde il nome di aeinaûtai, «i sempre naviganti». A questa quindi appartenevano i grandi possidenti terrieri che disponevano di navi per collocare sui mercati lontani l’eccedenza dei propri prodotti agricoli; il ricordo della loro agiatezza è legato al mare, perché ovviamente si arricchivano con facili prezzi concorrenziali in campo internazionale, e quindi con cespiti di guadagno in ultima analisi più legati all’attività marinara, che all’attività agricola. Nella Cheiromácha invece s’inclinano oggi a individuare non tanto gli strati inferiori della popolazione, o i liberi caduti in servitù, ma gli esponenti della piccola e media proprietà – stigmatizzati per parte avversa con il nomignolo di gérgithes, riconducibile, assai probabilmente, con nota di dileggio, all’ambiente indigeno pre-greco. Tra l’altro, cheirómaches, «coloro che combattono con le mani», parrebbe essere una denominazione che si attaglia assai bene agli opliti costituenti il nerbo dell’esercito, e quindi ad una classe di possidenti, seppur modesti, ma in grado di procurarsi l’armamento necessario alla guerra. Il contrasto di fondo sarebbe stato quindi fra la grande e la piccola proprietà: quest’ultima si veniva a trovare impotente dinnanzi alla concorrenza di chi sul mercato internazionale poteva collocare i propri prodotti con autonomi mezzi di trasporto. E per giunta gli aeinaûtai, di contro ai cheirómaches, erano destinati ulteriormente ad arricchire divenendo sul mare interlocutori economici di altri popoli, come parrebbe dimostrare l’ovvia constatazione che il commercio milesio va ben oltre il livello di scambio dei prodotti agricoli locali.
Proprio la particolare floridezza economica di Mileto, la ricchezza della sua terra, determina in un certo senso un quadro “alla rovescia” dei tradizionali equilibri di forze che portano all’instaurazione della tirannide; non si ha opposizione fra latifondo e attività marittima, ma monopolio di quest’ultima a vantaggio di pochi: all’antitesi un mondo precocemente cittadino, “oplitico”, che è soffocato dal ceto dominante sia nell’incentivazione della produzione sia nell’intrapresa di una libera attività marinara. La situazione di crisi della piccola proprietà, i cui interessi si saldano a quelli del ceto artigiano e imprenditoriale, porta al sovvertimento sociale che si traduce nella sconfitta dell’oligarchia dominante: le lotte stesse fra génē aristocratici, le preoccupazioni per la guerra contro la Lidia, le tensioni per i contrasti talassocratici con Samo, favoriscono l’atto rivoluzionario.
A Lesbo la città di Mitilene, di gran lunga più florida dell’isola, conosce travagliate vicende sociali che portano Melancro a farsi tiranno negli ultimi decenni del VII secolo a.C. A lui, morto assassinato, succede Mirsilo, che, per l’aristocratico Alceo, è signore ancora più detestabile del precedente. Alla morte di questi, celebrata da Alceo (fr. 332 Voigt) con il primo brindisi funebre delle letterature occidentali, succede Pittaco, che, pur attraverso le avarissime notizie che se ne hanno, appare personalità di grande rilievo. Questi sale al potere in un clima di tanto esasperante contese cittadine da ispirare ad Alceo (fr. 208a Voigt) la metafora, ben nota anche per imitazione oraziana, della nave della pólis che rischia il naufragio. Vive nella prima metà del VI secolo a.C., è contemporaneo di Solone, e come lui è annoverato dalla tradizione fra i sette sapienti. La sua figura si stacca nettamente, e con forte caratterizzazione, da quella dei suoi predecessori: mentre essi furono “tiranni-usurpatori” egli è “tiranno elettivo”, cioè esimneta. La sua azione fu temporanea e durò il tempo necessario ad assicurare la pace all’interno della città. È perciò da pensare che, nel clima di lotte violente che caratterizzò l’instabile presa di potere per parte di due capi-popolo rivoluzionari (Melancro e Mirsilo), la stessa aristocrazia, per scongiurare radicali rivolgimenti, abbia stimato opportuno scendere a compromessi ed offrire concessioni alla parte avversa, esprimendo un moderatore dal proprio seno col compito di assicurare una pacificazione sociale. Il che ovviamente non esclude che, per opposti motivi, Pittaco sia apostrofato come “tiranno” da esponenti oltranzisti dell’aristocrazia, come Alceo (fr. 348 Voigt), o, viceversa, sia esaltato come “re illuminato” nei canti popolari mitilenei; la contraddizione è solo apparente: il poeta lesbio esecra il demagogo ed è ostile a qualsiasi forma di concessione sociale, la tradizione popolare celebra il legislatore che sanzionò in forma duratura le conquiste del dēmos.
A Samo, il ricordo della tirannide è legato al nome di Policrate, la cui azione è suscettibile di un inserimento in un più ampio contesto internazionale. Policrate, avventuriero e signore munifico, conobbe indipendenza e vassallaggio, capeggiò nella sua isola la rivolta contro l’oligarchia terriera e si trovò poi a reprimere un movimento popolare, anticipò nei fasti della sua corte il carattere grandioso delle tarde tirannidi siracusane. Come Trasibulo a Mileto egli proveniva da una famiglia aristocratica che già aveva rivestito le più alte cariche cittadine; la sua pólis, con una nutrita classe marinara ed imprenditoriale, è già rivolta ai grandi commerci internazionali, ma il potere è saldamente in mano agli esponenti di una chiusa oligarchia fondiaria, i cosiddetti geōmóroi. Contro costoro un tale Demotele, che pagò poi con la morte il suo gesto rivoluzionario (Quæs. Gr. 303c–304e), aveva tentato di suscitare un moto popolare; ma Policrate, in tempi più maturi, riuscì ad affermare il proprio potere. Certamente, per impadronirsi della città, ebbe l’appoggio di Ligdami di Nasso, ma pare altresì che il suo colpo di stato sia avvenuto senza colpo ferire (Erodoto III.120,3).
E peraltro a lui aristocratico, con l’aiuto dei consanguinei – di cui poi si disfece – e con l’appoggio di una cittadinanza in avanzato processo di trasformazione, non dovette essere difficile impadronirsi del potere. Operò nella seconda metà del VI secolo a.C., quando anche la Grecia continentale conobbe le sue più grandi tirannidi, e la sua isola prospiciente Mileto fu testimone della progressiva avanzata dell’Impero persiano nel mondo microasiatico: dalla conquista dell’Egitto fino all’inglobamento delle città ioniche. In questa età di trapasso, e finché non cadde il suo stesso stato nell’orbita d’influenza persiana, Policrate seppe prosperare e crearsi sul mare un ampio spazio d’azione: creò una flotta di trecento triremi, affermando la sua signoria sulle Cicladi e compiendo azioni piratesche contro le città affacciate sull’Egeo; svolse un ruolo di mediatore fra la grecità continentale e l’Anatolia; strinse un fruttuoso patto d’alleanza con Amasi, faraone d’Egitto.
La tradizionale rivale di Samo era Mileto: entrambe, con interessi competitivi, avevano un fondaco a Naucrati; entrambe avevano preso parte alla Guerra lelantina, l’una dalla parte di Calcide, l’altra dalla parte di Eretria. Policrate mosse guerra a Mileto, ancor prima che cadesse in mano persiana, riuscendo ad affermare il suo controllo sull’immediato entroterra asiano, e coinvolgendo in battaglia navale, dalla quale uscì vittorioso, i Mitilenei, accorsi in aiuto ai Milesii.
Degna di tale uomo fu la sua corte sfarzosa e liberale, cui accorsero ingegni finissimi da ogni parte del mondo ellenico; qui visse Anacreonte e sostò Ibico; qui artigiani illustri elaborarono soluzioni tecniche all’avanguardia per realizzare opere pubbliche destinate a rinnovare l’assetto urbanistico della signoria. Si attirò l’inimicizia di Spartani e Corinzi, ma ben più gravi pericoli, anche se più latenti, dovevano alla lunga minarne il potere: da un lato una fazione popolare rivoluzionaria, formata dai pescatori dell’isola (i mythiētai), che premevano dal basso per un radicale sovvertimento sociale (Anacreonte fr. 21 Gentili); d’altro canto la crescente ingerenza persiana, che, soffocando le città ioniche e minando la talassocrazia egiziana, veniva rapidamente a modificare i tradizionali equilibri di forze nel mondo medio-orientale. Periando ancora una volta agì in modo spregiudicato: per ingraziarsi Cambise, allorché questi muoveva contro l’Egitto, rotta prontamente l’alleanza con il faraone, gli inviò un contingente di armati formato – come dice Erodoto III.44,2 – «da quelli fra i cittadini dei quali soprattutto sospettava che si ribellassero», cioè dai mythiētai. Questi però, invertita la rotta, tornarono a Samo e vi si insediarono per qualche tempo in forma autonoma, sorretti dall’appoggio spartano. Policrate rimase vittima di una morsa di ferro della quale non riuscì a liberarsi: da una parte la rivoluzione del popolo, dall’altra la richiesta persiana, sempre più incalzante, del suo vassallaggio.
Isches. Koûros. Statua colossale, marmo, 570 a.C. c. dall’Heraion di Samo. Samo, Museo Archeologico Nazionale.
Nel Peloponneso si trovano regimi tirannici, in particolare nelle grandi città protese ad un espansionismo commerciale marittimi, affacciate sul Golfo di Corinto e sul Golfo Saronico: Corinto, Mègara, Sicione. Ma, a prescindere dall’area dell’Istmo, fattori economici e ragioni d’ordine politico preclusero alle città dell’interno – ai centri della Messenia, dell’Arcadia, dell’Elide e dell’Acaia – un’evoluzione verso forme più avanzate di governo e qualsiasi possibilità di sovvertimento degli arcaici ordinamenti vigenti. Su queste regioni infatti estendeva il suo controllo, in forma diretta o indiretta, la potente Sparta.
Solo Argo, eterna rivale di Sparta, conobbe attorno alla metà del VII secolo profondi rivolgimenti sociali che si legano alla figura di Fidone. Di costui, che fu settimo re della città, si sa ben poco, ma pare verosimile che abbia trasformato l’antico istituto monarchico in una semplice magistratura. Il suo potere, che per tanti aspetti appare in nulla dissimile da quello di un tiranno, si basava sull’appoggio di un ceto medio e precocemente “oplitico”, che gli consentì di operare radicali riforme in campo economico e militare, tali da assicurare alla città, di contro a Sparta, un ruolo di primato nell’egemonia del Peloponneso. Smantellò il potere dell’aristocrazia, legata ad interessi fondiari, e da Nauplia e dagli altri porti dell’Argolide incrementò il commercio con l’Oriente: fu tra i primi o addirittura il primo in Grecia, a batter moneta. Dopo la sua morte, Sparta riprese però il sopravvento sulla regione, mentre le forti tirannidi istmiche, potenziatesi in età successiva, preclusero alla città qualsiasi possibilità di espansione verso nord, mentre Egina, già sua soggetta, riuscì a soppiantarla nei commerci con l’Egeo settentrionale.
I regimi tirannici di Corinto, Sicione e Mègara, si presentano con forte analogia di caratteri distintivi; anzitutto, qui il capo-popolo appare come il tiranno “tipo”: egli è espressione diretta di un ceto imprenditoriale e mercantile che si è aperto all’espansione marittima; mira a creare un vero e proprio impero coloniale politicamente unito alla metropoli; favorisce l’introduzione della moneta per incrementare i traffici; allarga su altre città la propria sfera d’influenza con un’accorta politica matrimoniale. In particolare, sia i Cipselidi di Corinto sia gli Ortagoridi di Sicione dilatarono il campo delle esportazioni delle loro città; entrambi i casati furono interessati ad espandersi in aree lontane per assicurarsi il controllo di importanti distretti minerari per le proprie emissioni monetali; entrambi cercarono di esercitare un controllo sempre più forte sulla vita politica ateniese cercando legami nuziali, gli uni imparentandosi con il génos dei Filaidi, gli altri con quello degli Alcmeonidi. Tra l’altro anche Teagene, tiranno di Mègara, che in contrasto con Pisistrato di Atene rivendicava il controllo di Salamina, si propiziò il favore dell’eteria a lui avversa imparentandosi con Cilone. Caratteri comuni hanno pure i termini di questi regimi: finirono tutti in modo traumatico, esaurita la propria funzione storica, quando il dēmos prese più matura coscienza di sé, ma anche quando incipiente crisi economica e mutati equilibri internazionali le costrinsero a ridimensionare la propria politica espansionistica. Sulle loro ceneri non sorsero però regimi democratici, bensì governi a moderato regime timocratico, favoriti da Sparta e favoriti dalla rapida adesione alla Lega peloponnesiaca cui furono costrette.
A Corinto, dove il potere era nelle mani della potente casata dei Bacchiadi, sostituitasi all’antichissima monarchia, fu Cipselo – ad essi imparentato per parte di madre – a guidare il movimento popolare che portò all’instaurazione della tirannide nella seconda metà del VII secolo a.C. La sua ascesa, vuole la tradizione, pare sia stata predetta dall’oracolo delfico con parole che ne sottolineano l’adesione alla causa cipselide, sono d’auspicio alla potenza della tirannide corinzia e, al contempo, ne rimarcano la breve durata: ὄλβιος οὗτος ἀνὴρ ὃς ἐμὸν δόμον ἐσκαταβαίνει, Κύψελος Ἠετίδης, βασιλεὺς κλειτοῖο Κορίνθου αὐτὸς καὶ παῖδες, παίδων γε μὲν οὐκέτι παῖδες («felice quest’uomo che nella mia casa discende, Cipselo, figlio di Eezione, re della gloriosa Corinto; felice lui e i suoi figli; non più, però, i figli dei figli», Erodoto V. 92ε,2). Egli, come ancora predisse l’oracolo è il macigno che ἐν δὲ πεσεῖται ἀνδράσι μουνάρχοισι, δικαιώσει δὲ Κόρινθον («si abbatterà su coloro che hanno il potere, e castigherà Corinto», Erodoto V. 92β,2). E conformemente alla sentenza oracolare, Cipselo e suo figlio Periandro – che la tradizione annovera fra i Sette Sapienti per le sue disposizioni suntuarie volte a frenare il lusso dei ricchi (Arist. Polit. 1315b; Diog. Laert. I.94-100) – innalzarono Corinto a splendore e potenza mai eguagliati nella sua lunga storia, debellando definitivamente il potere della vecchia aristocrazia. Anche in questo caso vi è una stretta connessione fra il potere tirannico e le organizzazioni militari oplitiche, giacché Cipselo, proprio a capo di queste come polemarco, assunse il potere supremo. La città con due porti, Lecheo e Cencrea, che si affacciavano rispettivamente sul Golfo Corinzio e il Golfo Saronico e collegati tra loro da un díolkos, che consentiva un facile trasbordo delle navi lungo l’Istmo, era scalo primario e punto di transito obbligato per il commercio fra Oriente ed Occidente. E verso Occidente, Corinto aveva già esteso il proprio raggio d’azione con le grandi colonie di Corcira e Siracusa. Anzi, fu proprio la colonizzazione che la trasformò in una città trafficante, protesa ad un espansionismo marittimo: qui l’industria della ceramica, destinata all’esportazione in cambio di materie prime e di schiavi, ebbe ampio sviluppo; qui, con soluzioni tecniche all’avanguardia, si vararono le prime triremi greche.
Tutto ciò portò in seno alla cittadinanza ad una rapida e traumatica trasformazione delle condizioni socio-economiche, e un ceto imprenditoriale rivendicò il monopolio dei commerci e più ampio spazio politico, opponendosi alle vecchie consorterie oligarchiche, detentrici del potere, e favorendo l’insurrezione contro lo strapotere dei Bacchiadi. Non è da escludere che il gesto rivoluzionario sia stato determinato anche da una ragione più contingente: la perdita della colonia di Corcira, affrancatasi dalla madre-patria intorno alla metà del VII secolo a.C. (evento testimoniato da Tucidide I.13,4), e il potenziamento dei porti rivali della Megaride. I due motivi comunque si saldano. Certo è sì che Cipselo prima e Periandro poi proseguono la politica coloniale: risottomettono a forza Corcira ed estendono l’influenza corinzia su Epidamno; vengono fondate sulla costa acarnano-epirota Ambracia, Leucade, Anattorio, Apollonia, nella Penisola Calcidica viene istituita Potidea e Cipsela nel Chersoneso Tracico. Nuovi e vecchi stanziamenti corinzi, per la prima volta nella storia della colonizzazione greca, sono ora legati da precisi vincoli di dipendenza politica nei confronti della madre-patria. All’area dell’espansionismo commerciale della Corinto dei Bacchiadi succede il forte impero coloniale dei Cipselidi: questo si snoda su tutto il fronte della Grecia settentrionale, dall’Epiro alla Macedonia e alla Tracia, in aree che sono poli terminali di importanti vie di penetrazioni in regioni dell’entroterra ricche di giacimenti metalliferi. Da Epidamno, infatti, si raggiungono facilmente i distretti interni dell’Illiria; ai medesimi, si accede anche da Potidea, cui pure si dischiudono le vie d’accesso alle miniere macedoni.
Peraltro l’espansionismo corinzio non si esauriva solo verso Occidente: in Oriente, Periandro fu in relazione d’amicizia con i reami di Lidia e d’Egitto, riscuotendo credito presso i tiranni ionici, ed esercitando il ruolo di mediatore nelle controversie internazionali. Contrastando la potenza di Mègara ed Egina, Periandro tentò di conquistare il controllo del Golfo Saronico. Intrattenne rapporti amichevoli con Atene, peraltro favoriti dalla comune rivalità con Mègara; anzi, cercò di inserirsi nel vivo delle sue lotte politiche e ad esercitavi un certo controllo con una serie di alleanze matrimoniali con il génos dei Filaidi e con gli stessi Pisistratidi. Non è un caso che queste famiglie abbiano coniato le proprie monete con argento corinzio e che entrambe abbiano creato possedimenti personali in are della Grecia interessate proprio dall’espansionismo cipselide. Tutto ciò mostra chiaramente il prestigio e il grado di prosperità e di ineguagliata grandezza raggiunti da Corinto sotto questo illustre casato, allorché le feste Istmie divennero solennità panelleniche.
In politica interna, la tirannide, pur nelle sue caratteristiche fortemente accentratrici, creò le basi per un profondo rinnovamento sociale: i beni dei Bacchiadi e dei loro sostenitori furono confiscati a profitto della pólis, e assai verosimilmente per procedere ad una generale ridistribuzione delle terre; una tassa speciale sulle entrate, introdotta da Cipselo, fu devoluta –a quanto pare – ad opere di pubblica utilità; l’introduzione della moneta incrementò il commercio e ne estese l’area d’azione. Cipselo, che conservò il titolo di re che già fu dei Bacchiadi, di fatto, trasformò l’antico regime oligarchico in un governo autocratico; suo figlio Periandro fu propriamente un τύραννος, come lo intese il pensiero politico classico, ed accentuò il suo carattere dispotico col circondarsi di una guardia del corpo armata. Entrambi tennero una grandiosa vita di corte, che richiamò da ogni parte della Grecia artisti e poeti: fra essi, animatore di cori ditirambici, il celebre Arione. La decadenza iniziò con il terzo Cipselide, Psammetico, nipote di Periandro. Questi fu travolto ben presto, intorno al 540 a.C., da una violenta insurrezione popolare che pose fine alla tirannide. Si ignorano i motivi di tale rivolta, ma è certo che essi sono più immediatamente indagabili nella reazione popolare ad un dispotismo che iniziava a degenerare, e nella strumentalizzazione che di tale malcontento seppero fare i fuoriusciti da parte aristocratica. Non si deve tuttavia sottovalutare un’altra possibile ipotesi che vuole che oltre a ciò vi fossero altri fattori, di carattere economico internazionale: da una parte l’affermarsi della ceramica attica sui mercati mediterranei, che finì con il soppiantare quella corinzia, e dall’altra l’ingerenza di Sparta e della Lega peloponnesiaca sull’area istmica. Tutti elementi che aiutano a comprendere il motivo per cui Corinto, una volta decaduta la tirannide, non evolva in un governo democratico, ma assuma, a seguito delle rivolte interne, la sua forma pacifica sotto un regime moderato e timocratico.
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