ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di G. REALE, I sofisti, in Il pensiero antico, Milano 2001, pp. 63-66.
Il significato del termine “sofista”– Prima di iniziare un discorso sulla sofistica, è indispensabile chiarire quale sia stato il significato originario e autentico del nome “sofista”. È noto, infatti, che sofista, nel linguaggio corrente, ha da tempo assunto un senso decisamente negativo: sofista vien detto colui che, facendo uso di ragionamenti capziosi, per un verso cerca di indebolire e di offuscare il vero e, per l’altro, tenta di rafforzare il falso rivestendolo delle apparenze del vero. Ma non è affatto questo il senso originario del termine, che significava semplicemente “sapiente”, “esperto del sapere”, “possessore del sapere” e, quindi, voleva dire non solo qualcosa di valido, ma qualcosa di altamente positivo. L’accezione negativa del termine sofista è diventata corrente a partire forse già da Socrate e certamente dai discepoli di questi – Platone e Senofonte – che radicalizzarono la battaglia contro i sofisti e poi con Aristotele, che codificò quanto Platone aveva detto nel modo seguente: «La sofistica è una sapienza apparente, non reale: il sofista è uno smerciatore di sapienza apparente, non reale» (79a 3 DK).
I capi d’accusa sono due e di diversa natura: a) la sofistica è un sapere apparente e non reale e, per giunta, essa b) è professata a scopo di lucro e nient’affatto per disinteressato amore di verità. A questi capi d’accusa addotti da filosofi dovettero poi aggiungersi anche quelli fatti valere dalla pubblica opinione. Questa vide nei sofisti un pericolo sia per la religione sia per il costume morale, dato che proprio su questo terreno i sofisti avevano spostato la propria attenzione. Gli aristocratici, in particolare, non perdonarono ai sofisti di aver contribuito alla loro perdita di potere e di aver dato un forte incentivo alla formazione di una nuova classe che non contava più sulla nobiltà di natali, bensì sulle doti e sulle abilità personali, che erano appunto quelle che i sofisti intendevano creare, o comunque sistematicamente educare. Resta, in ogni caso, il fatto che la responsabilità massima nello screditare i sofisti fu di Platone e lo fu, oltre che per quello che disse, per il modo particolarmente efficace in cui lo disse, con lo strumento della sua arte.
Ma vedremo subito che, se le ragioni che portarono al discredito dei sofisti agli occhi dei contemporanei e di Platone potevano apparire fondate e indiscutibili, non lo sono, invece (o lo sono solo in parte), per l’interprete che, storicamente educato, sappia porti al di sopra delle parti e giudicare in modo obiettivo. Gli studiosi sono oggi concordi nell’affermare che i sofisti furono un fenomeno storico necessario al pari di Socrate e di Platone; questi, anzi, senza i sofisti sarebbero impensabili.
Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).
Le ragioni del sorgere della sofistica– I sofisti hanno apportato qualcosa di totalmente nuovo e, in qualche modo, hanno operato una rivoluzione rispetto ai filosofi della φύσις: è questa rivoluzione, insieme alle ragioni che la produssero, che noi ora dobbiamo mettere in chiaro.
Il nuovo obiettivo fu appunto quello che i naturalisti avevano o del tutto trascurato, oppure solo marginalmente appena toccato, vale a dire l’uomo e tutto ciò che è tipicamente umano. E perciò ben si comprende come i temi dominanti della speculazione sofistica divenissero etica, politica, retorica, arte, lingua, religione, educazione – cioè tutto ciò che noi oggi chiamiamo cultura umanistica. Con i sofisti, insomma, iniziò quello che, con efficace espressione, è stato detto «periodo umanistico della filosofia antica».
Noi, però, non ci potremmo spiegare questo radicale spostamento dell’asse della filosofia, se ci limitassimo a rilevare questo fattore negativo, vale a dire l’esaurimento delle risorse della filosofia della natura. Oltre e accanto a esso, agirono, in modo decisivo, le nuove condizioni storiche che vennero via via maturando nel corso del V secolo a.C. e i nuovi fermenti sociali, culturali e anche economici, che, in parte, crearono e, in parte, furono creati dalle nuove condizioni storiche.
Ricordiamo, innanzitutto, la lenta, ma inesorabile, crisi dell’aristocrazia, che andò di pari passo con il potere sempre crescente del δῆμος (del «popolo»); l’afflusso nelle città, specie in Atene, sempre più massiccio di meteci; l’ampliarsi del commercio che, superando i ristretti limiti delle singole città, portava ciascuna di esse a contatto con un mondo più ampio; il diffondersi delle esperienze e conoscenze di viaggiatori che portarono all’inevitabile raffronto fra usi, costumi e leggi ellenici ed elementi totalmente differenti. Tutti questi fattori contribuirono fortemente al sorgere della problematica sofistica. La crisi dell’aristocrazia comportò anche quella dell’antica ἀρετή, dei valori tradizionali, che appunto erano quelli tenuti in pregio dall’aristocrazia. Il crescente affermarsi del potere democratico e l’allargamento a cerchie più vaste della possibilità di accedere alle cariche pubbliche fecero crollare la convinzione che l’ἀρετή fosse legata alla nascita, cioè che virtuosi si nascesse e non si diventasse, e pose in primo piano il problema del come si acquistasse la «virtù politica». La rottura del ristretto cerchio della polis e la conoscenza di opposti costumi, leggi ed usi dovettero costituire la premessa del relativismo, ingenerando la convinzione che ciò che era ritenuto eternamente valido fosse, invece, privo di valore in altri ambienti e in altre circostanze. I sofisti seppero cogliere in modo perfetto queste istanze dell’età travagliata in cui vissero, le seppero esplicitare, dando loro forma e voce.
«Testa del filosofo». Testa, bronzo, seconda metà del V sec. a.C. ca. da un relitto dalle acque di Ponticello, Villa S. Giovanni (RC). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.
Finalità pratiche della sofistica– Quanto abbiamo finora precisato ci permette di comprendere quegli aspetti della sofistica che in passato sono stati meno apprezzati, o che, addirittura, sono stati considerati del tutto negativi. Si è, per esempio, molto insistito sul fine pratico e non più puramente teoretico della sofistica e si è considerato questo come uno scadimento speculativo e morale. I filosofi della natura ricercavano la verità per se medesima, e il fatto di avere o meno allievi era, in certo senso, accidentale; viceversa, i sofisti non ricercavano la verità per se medesima, ma avevano per scopo l’insegnamento e il disporre di discepoli era, invece, per loro essenziale. Insomma, del loro sapere i sofisti facevano una vera e propria professione.
Ora, per quanto questi giudizi contengano del vero, portano peraltro fuori strada, se non si tiene ben presente quanto segue. È vero che i sofisti compromisero in parte l’aspetto teoretico della filosofia, ma è altrettanto vero che, poiché la tematica che essi trattarono non concerneva la φύσις, ma la vita umana e i concreti problemi etico-politici, contrariamente ai naturalisti, essi dovettero essere spinti dalla necessità delle cose a finalizzare praticamente le loro riflessioni.
Ma la finalizzazione pratica delle loro dottrine ebbe anche un più alto significato: con essi, il problema educativo e l’impegno pedagogico emersero in primo piano ed assunsero un nuovissimi significato. Contro la pretesa dell’aristocrazia, la quale riteneva che la virtù fosse una prerogativa del sangue e della nascita, i sofisti intesero far valere il principio che tutti potessero, invece, acquistare l’ἀρετή, e che questa, anziché fondarsi sulla nobiltà del sangue, si basasse sul sapere.
E alla luce di questo si spiega ancor meglio il fatto che i sofisti vollero essere dispensatori del sapere, e cioè non dei semplici indagatori, ma degli educatori. E se è vero che i sofisti non estesero a tutti il proprio insegnamento, ma solo a quella élite che doveva, o voleva, accedere alla guida dello Stato, resta pur vero che, con il loro principio, spezzarono almeno il pregiudizio che vedeva l’ἀρετή necessariamente legata all’aristocrazia.
Allievo e maestro. Rilievo su sarcofago, III sec. d.C. dalla Via Praenestina. Roma, Museo del Tabularium.
Il compenso in denaro preteso dai sofisti– Siamo così in grado di affrontare e risolvere anche la spinosa questione del compenso, che i sofisti esigevano per il loro insegnamento e per la loro opera di educazione. Platone e altri antichi bollarono la venalità dei sofisti e considerarono questo costume di far pagare gli insegnamenti come un indiscutibile segno di bassezza morale. Ma Platone era, in questo giudizio, vittima del pregiudizio aristocratico (in genere, la cultura era retaggio dei “migliori” e dei ricchi, che, avendo risolto tutti i problemi della vita, si davano alla cultura come a un sublime otium e la consideravano avulsa in larga misura da tutto ciò che avesse rapporto con il guadagno e con il denaro, ritenendola puro frutto di disinteressata comunione spirituale).
Ma i sofisti non avevano fissa dimora e non avevano cespiti di guadagno e, quindi, vendo impostato il loro sapere e la loro opera nel modo che abbiamo spiegato, dovevano necessariamente farne mestiere ed esigere un compenso in denaro per sostentarsi. E si potranno certamente biasimare gli abusi di cui essi si resero responsabili; ma bisogna, in ogni caso, essere assai guardinghi nel giudicarli troppo severamente.
Pittore Duride. Scuola di scrittura su tavoletta con stilo. Dettaglio dal lato B di una kylix attica a figure rosse, inizi V sec. Berlin, Staatliche Museen.
Spirito panellenico della sofistica– I sofisti furono, poi, rimproverati di essere dei girovaghi, di passare di città in città e, quindi, di infrangere la fedeltà alla propria patria e, pertanto, di rompere quel legame che il Greco riteneva infrangibile. Ebbene, se per l’uomo di allora il rimprovero ben si comprende, esso diventa merito, non appena lo si collochi in una più vasta prospettiva storica: i Greci, per salvarsi politicamente e uscire dalle mortali lotte fra città, avrebbero avuto bisogno di ancorarsi a un solido ideale panellenico; e i sofisti furono espressione di questo ideale: sentirono, cioè, che gli angusti limiti della polis non si giustificavano più, non avevano più ragion d’essere e più che cittadini di una data città si sentirono cittadini dell’Ellade.
Filosofo. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Museo Archeologico di Delfi.
Le diverse correnti della sofistica – E, per concludere, dobbiamo chiarire un ultimo punto. Non esiste un sistema filosofico sofistico o una dottrina sofistica, nel senso che è impossibile ridurre il pensiero dei vari sofisti a proposizioni comuni. Ma non è nemmeno vero che le singole dottrine costituiscano quasi delle unità fra loro incommensurabili. È vero, invece – come è stato ben rilevato – che la sofistica del V secolo a.C. rappresenti una serie di soluzioni diverse di una gamma di problemi identici.
Dobbiamo, quindi, vedere i vari sforzi differenti compiuti dai singoli sofisti ed esaminare i metodi da essi escogitati. Ma, prima di procedere a questo esame, occorre ancora precisare che, per poter intendere e valutare correttamente i sofisti, bisogna distinguerli l’uno dall’altro, senza fare di ogni erba un fascio. La sofistica, infatti, subì un’evoluzione, anzi un’involuzione piuttosto marcata, e fra i maestri della prima generazione e i discepoli della seconda corse una differenza notevole, come in parte lo stesso Platone aveva già notato. È necessario, pertanto, discernere almeno tre gruppi di sofisti: 1) i grandi e famosi maestri della prima generazione, niente affatto privi di ritegni morali e, anzi, come lo stesso Platone riconobbe, sostanzialmente degni di rispetto; 2) gli “eristi”, cioè coloro che, sfruttando il metodo sofistico ed esaltandone l’aspetto formale senza alcun interesse per i contenuti e senza ritegno morale, trasformarono la dialettica sofistica in una sterile arte di contendere con i discorsi, in una vera e propria arte della λογομαχία; 3) infine, i sofisti “politici”, che furono uomini di Stato – o aspiranti tali – che, senza più alcun ritegno morale, abusarono di certi principi sofistici per teorizzare un vero e proprio immoralismo, che sfociò nel disprezzo della «cosiddetta giustizia», di ogni legge costituita, di ogni principio morale: ma costoro, più che lo spirito autentico della sofistica, ne rappresentavano l’escrescenza patologica.
di F. Bethencourt, Razzismi. Dalle crociate al XX secolo, trad. it. di P. Palminiello, Bologna, Il Mulino, 2013, Parte prima – Le crociate, capitolo primo – La percezione dell’altro: dai greci ai musulmani, pp. 33-36.
Gli uomini di lettere greci e romani ritenevano che le caratteristiche fisiche e mentali degli esser umani fossero plasmate da fattori esterni, una concezione – o teoria – dell’ambiente che ha inciso in modo cruciale sulle rappresentazioni e classificazioni dei popoli. Si supponeva che la struttura del corpo, la forza o la debolezza fisica, la durezza o docilità di carattere, l’intelligenza viva o tarda, e l’indipendenza di pensiero o viceversa la propensione alla subordinazione fossero tutte determinate, in genere, dal clima e dalla collocazione geografica, e pertanto che le differenze tra i vari popoli riflettessero le condizioni dei territori in cui ciascuno di essi aveva avuto origine. A consentire ai greci e ai romani di attribuirsi le virtù necessarie alla realizzazione dei loro progetti imperiali fu infatti la valutazione positiva della posizione geografica rispettivamente della Grecia e di Roma – una zona temperata, tra il freddo nord e il caldo sud, e collocata, per quel che concerne la Grecia, tra Oriente e Occidente (e, cosa ancora più importante, lontano dall’«arroganza», dalla «corruzione» e dal «servilismo» dell’Asia). Attenuava in parte la rigidezza di questa prospettiva il riconoscimento dei contrasti fra le popolazioni della montagna (considerate rozze e asociali) e quelle delle pianure (civili e raffinate), un riconoscimento che faceva spazio se non altro alla realtà dei conflitti di comportamento tra vicini. E non vanno dimenticati, tra gli elementi in parte non congruenti con la teoria di base, gli atteggiamenti tanto dei greci quanto dei romani nei confronti di alcuni modi di vivere diversi dal proprio – quello dei nomadi, per esempio – e di certe forme di governo, in particolare del dispotismo tipico dell’Oriente, del quale si diceva favorisse la dipendenza e la debolezza[1].
Pittore Oltos. Rappresentazione di un arciere scita. Pittura vascolare dal tondo di una kylix bilingue attica a figure nere, 530-520 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Questa teoria ambientalista si combinava talvolta con la tesi dell’ereditarietà delle caratteristiche acquisite dagli esseri umani. Le nozioni di lignaggio e autoctonia sviluppate dagli ateniesi, persuasi di avere sempre occupato lo stesso territorio e di poter vantare una stirpe pura, plasmarono l’atteggiamento dei greci e dei romani nei confronti degli altri popoli[2]. L’idea di discendenza divenne cruciale in due modi: in primo luogo, in quanto legame tra il sangue e il territorio, il quale autorizzò ad attribuire ai vari popoli (gentes) un’identità essenziale a partire dal loro aspetto, dalla lingua e dai costumi; in secondo luogo, in quanto garanzia della riproduzione all’interno di ciascun popolo delle caratteristiche determinate in origine dal suo ambiente di nascita. Dunque, i discendenti, per esempio, dei siriani avrebbero portato su di sé le più importanti caratteristiche mentali e fisiche dei loro antenati anche se nati altrove. I pregiudizi dei romani nei confronti della maggioranza dei popoli orientali, giudicati schiavi naturali, ricadevano tanto su questi popoli considerati nei loro ambienti, quanto sui migranti stabilitisi in altre province o al centro dell’impero, ossia a Roma. Più in generale, supporre che ambiente ed eredità fossero connessi e che, allo stesso modo, lo fossero anche le caratteristiche esteriori e quelle interiori implicava la negazione di qualsiasi differenza da individuo a individuo o da generazione a generazione. Il cambiamento poteva essere, in sostanza, soltanto collettivo e di fatto in direzione di un peggioramento: l’idea di discendenza esplicitata dal vanto ateniese di purezza di lignaggio tradiva una valutazione negativa degli individui di origine mista. Si supponeva che le unioni di individui di diversa discendenza generassero esseri umani inferiori, che indebolissero le qualità positive originarie. Per le stesse ragioni, un cambiamento dell’ambiente non avrebbe potuto che portare a una degenerazione degli esseri umani coinvolti e dei loro discendenti.
Cavaliere barbaro disarcionato. Statuetta, bronzo, III sec. d.C.
L’applicazione di questi criteri era tuttavia piuttosto approssimativa e contraddittoria. È possibile imbattersi, per esempio, in lodi dei coraggiosi guerrieri germanici, gallici o ispanici; non essendo mai stati sconfitti, e conservando dunque intatte le loro qualità guerresche, i germani erano considerati in effetti una minaccia. Eppure, si supponeva anche che odiassero la pace e l’impegno nel lavoro, mentre i galli erano presentati come forti bevitori e persone volubili e insubordinate, benché anche buoni oratori. La nozione di schiavitù naturale era utilizzata in riferimento a diversi popoli del Medio Oriente, ma non ai persiani, che non erano mai stati conquistati dai romani, e neppure agli ebrei, considerati un caso a parte per le continue ribellioni. L’antica civiltà egizia era rispettata, ma i suoi abitanti erano ritenuti malvagi e strani a causa della loro religione zoomorfica. L’ingegno attribuito ai fenici e ai cartaginesi era tanto grande quanto la loro supposta inaffidabilità, mentre i siriani erano presentati come effemminati, depravati e superstiziosi. Le accuse di fare ricorso alla pratica del sacrificio e all’antropofagia erano utilizzate per condannare, tra gli altri, i druidi, mentre i pregiudizi nei confronti degli ebrei avevano al centro le idee di comportamento antisociale e di religione elitaria. L’accusa di usura, la principale attività antisociale attribuita agli ebrei nel Medioevo, non compare nelle fonti greche e romane; a quanto sembra è un’invenzione del XII secolo.
Servo africano che porta fiasche d’olio. Mosaico, ante 79 d.C. Pompei, Casa del Menandro.
Che il pregiudizio cambi oggetto di frequente lo dimostra lo stesso lascito di greci e romani. I giudizi dei greci sui popoli orientali hanno finito infatti con il ricadere su loro stessi: i romani li consideravano colti e ingegnosi, ma anche arroganti, effeminati, corrotti, incostanti e poco seri. Per esprimere le loro idee preconcette nei confronti di esseri umani (e popoli), i romani si servivano, inoltre, spesso del confronto con animali. Uno dei pregiudizi sui neri africani incentrato sul colore si è il seguente: li si considerava bruciati dal sole – dall’etimologia greca del termine ‘etiope’ –, un effetto indesiderabile dalle avverse condizioni climatiche del sud estremo. Tuttavia, ciò che occorre qui sottolineare è che nel mondo greco e romana il pregiudizio era già legato alle nozioni di lignaggio e di discendenza[3]. In ogni caso, nulla dimostra che i popoli considerati etnicamente diversi fossero vittime di discriminazioni sistematiche; al contrario, la politica di concessione della cittadinanza seguita dai romani fu relativamente generosa.
Prigioniero gallico. Statuetta, bronzo, fine I sec. a.C., da Arles.
Il problema è semmai capire come questi pregiudizi mutevoli e instabili nei confronti di altri popoli, costruiti da greci e romani in risposta, in parte, ai bisogni posti loro dalle rispettive storie di espansione, abbiano risentito del processo di cristianizzazione e del declino e poi del crollo dell’Impero romano in Europa occidentale. Una cosa comunque è chiara: il concetto di conversione universale introdotto dalla prima chiesa cristiana avrebbe compromesso significativamente la precedente identificazione dei popoli con il loro territorio e la loro religione. Per quanto li si considerasse una setta del popolo ebraico, fu uno svantaggio per i primi cristiani che li si vedesse privi di legami con la tradizione e di radici storiche. Tuttavia, dopo tre secoli di repressioni e resistenze, la novità pagò. Il riconoscimento del cristianesimo e la sua adozione come religione dell’impero da parte di Costantino (321-325), seguiti dalla messa al bando del paganesimo decretata da Teodosio (392), segnarono l’identificazione del messaggio multietnico cristiano con l’ideologia imperiale del governo universale e la trasformazione della chiesa da comunità perseguitata a depositaria della religione dominante sostenuta dal potere politico.
Cavaliere partico. Rilievo, granito, II-I sec. a.C. ca. Torino, Palazzo Madama.
***
Note:
[1] Seguo qui Benjamin Isaac, The Invention of Racism in Classical Antiquity, Princeton (NJ), Princeton University Press, 2006.
[2] Marcel Detienne, Comment devenir autochtone. Du pur Athénien au Français racinée, Paris, Seuil, 2003.
[3] Frank Snowden esclude invece che si nutrissero in questo periodo pregiudizi relativi alla discendenza: si veda Before Color Prejudice: The Ancient View of Blacks, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1983.
di G. SFAMENI GASPARRO, Introduzione alla storia delle religioni, Roma-Bari 2011, pp. 28-45.
[…] Quando Lattanzio nelle Divinae institutiones, con esplicita intenzione polemica oppone all’etimologia ciceroniana del termine religio da relegere quella che invece lo fa derivare da religare non si apre certo un dibattito su un problema filologico quanto piuttosto un confronto/scontro su due diverse maniere di porsi dinnanzi a quel livello «altro» dell’uomo che – dati i contesti culturali che utilizzano il termine deus/dii per designare le «potenze» efficaci che popolano il livello in questione – legittimamente definiremo del «divino». Cicerone (106-43 a.C.) infatti, in un famoso passo di quel trattato – De natura deorum, composto nel 45 a.C. – in cui si affrontano e si misurano criticamente alcune fra le più autorevoli espressioni del pensiero filosofico del tempo interessato al tema enunciato, aveva definito i religiosi ex relegendo, essendo costoro qui autem omnia, quae ad cultum deorum pertinerent, diligenter retractarent et tamquam relegerent («coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere», De nat. deor. II 28, 72). In conformità ai numerosi luoghi dell’opera in cui, secondo un uso ampiamente attestato nelle fonti anteriori e contemporanee, religio interviene quale termine alternativo di cultus deorum (cfr. De nat. deor. I 41, 115–42, 118; II 2, 5 e II 3, 8: […] religione id est cultu deorum) e, spesso nella forma del plurale ([…] caerimonias religionesque publicas sanctissime tuendas arbitror, «ritengo che si debbano osservare scrupolosamente le cerimonie e il culto pubblico», I 22, 61), designa le varie pratiche rituali che scandivano la vita della comunità cittadina nella Roma repubblicana, Cicerone spiega l’attributo di religiosus in rapporto all’individuo che assuma un atteggiamento di accurato esame di tutto quel complesso di azioni umane che hanno come oggetto quegli esseri sovrumani, dotati di potenza e di capacità di intervento nel mondo, che nel suo ambiente culturale sono gli dèi. La derivazione proposta dal verbo relegere dell’aggettivo religiosus e, indirettamente, dell’etimo religio illumina pertanto l’aspetto preminente e qualificante dell’orizzonte religioso dell’antica Roma, ossia quello delle osservanze rituali che l’articolazione annuale del calendario festivo rende chiaramente manifesto.
Scena di sacrificio. Particolare del bassorilievo dell’Altare di Domizio Enobabo (detto ‘Fregio del censo’, marmo, II sec. a.C., dal Campo Marzio (Roma). Paris, Musée du Louvre.
Nel passo citato del De natura deorum (II 28, 72) si propone anche l’opposizione tra superstitiosus e religiosus, quindi la contrapposizione tra le nozioni di superstitio e di religio alle quali i due aggettivi rimandano. Esso si situa in un’ampia argomentazione elaborata dallo stoico Balbo a illustrazione e difesa delle posizioni della propria scuola, tra cui fondamentale quella efficacemente sintetizzata nella formula secondo cui «il mondo è dio e tutta la massa del mondo è preservata dalla natura divina» ([…] deum esse mundum omnemque vim mundi natura divina contineri, II 11, 30), ossia la nozione del cosmo come totalità dell’essere, insieme razionale («il principio guida che i Greci chiamano hegemonikón», II 11, 30) e materiale, e dell’universale Provvidenza divina come principio di preservazione dell’ordine cosmico. Se dunque per lo stoico Balbo l’assunto razionalmente fondato è quello che ammette la divinità del mondo, al cui riconoscimento l’uomo perviene attraverso la contemplazione dei moti celesti, egli non manca di giustificare anche le tradizioni religiose del proprio ambiente culturale, ricorrendo a varie teorie interpretative correnti all’epoca, come quella della «divinizzazione» degli elementi naturali in quanto apportatori di benefici benefattori dell’umanità (II 23, 60). Segue quindi l’enumerazione di alcune fra le grandi divinità del pantheon romano, quali Cerere e Libero, come esempi di questo processo di identificazione fra elementi benefici della natura (le messi, il vino) e i personaggi oggetto del culto tradizionale romano. Un’altra categoria di divinità appare poi quella che, secondo i presupposti della teoria elaborata da Evemero di Messina nel III secolo a.C. – definita appunto evemerismo –, sarebbe derivata dalla «divinizzazione» di antichi uomini, autori di invenzioni benefiche per la vita umana (II 24, 62). Se, tuttavia, il personaggio mostra di ritenere giustificate e accettabili queste forme di «creazione» che sono alla base della tradizione religiosa pubblica di Roma, assai duro è il suo giudizio su una terza forma di «invenzione» che, pur fondata su un’interpretazione di carattere fisico, ossia pertinente a fenomeni naturali, è tuttavia caratterizzata da un incontrollato sviluppo mitico, opera delle fabulae dei poeti. «Da un’altra teoria, di carattere fisico, derivò una grande moltitudine di dèi; essi, rivestiti di sembianze e forme umane, fornirono materia alle leggende dei poeti, ma hanno riempito la vita umana di ogni forma di superstizione» (II 24, 63). La superstitio, dunque, si propone come conseguenza di un’errata concezione del divino, in questo caso connessa con una falsa interpretazione della natura e attività di quegli elementi cosmici che pure sono espressione, funzionalmente determinata, della divinità del grande Tutto. «Vedete dunque – conclude Balbo dopo un’ampia esemplificazione del tema – come da fenomeni naturali scoperti felicemente e utilmente si sia pervenuti a dèi immaginari e falsi. E questo ha generato false credenze ed errori, causa di confusione e superstizione degne quasi delle vecchiette (…superstitiones paene aniles)» (II 28, 70).
Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico.
Da questa netta condanna degli dèi commentici e ficti creati dalla fantasia dei poeti, peraltro, non si deduce un rifiuto della tradizionale impalcatura del mondo divino oggetto della pratica religiosa romana. Al contrario, essa è salvaguardata proprio dall’eliminazione dell’apparato mitico e restituita alla sua integrità e al suo corretto significato, con la conseguente riaffermazione dell’obbligo, per il cittadino romano, dell’osservanza corretta di tale pratica, secondo la tradizione fissata dagli antenati: «Una volta disprezzate e rifiutate queste leggende – dichiara Balbo –, si potranno comprendere l’individualità, la natura e il nome tradizionale degli dèi che pervadono ciascun elemento: Cerere la terra, Nettuno il mare, altri dèi altri elementi. Questi sono gli dèi che dobbiamo venerare e onorare». E conclude: «Ma il culto migliore degli dèi e anche il più casto, il più santo, il più devoto, consiste nel venerare sempre gli dèi con mente e con voce pure, integre e incorrotte. Non solo i filosofi ma anche i nostri antenati hanno distinto la superstizione dalla religione. Quelli che tutti i giorni pregavano gli dèi e facevano sacrifici perché i loro figli sopravvivessero a loro stessi, furono chiamati superstiziosi, parola che in seguito assunse un significato più ampio; invece coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere, come elegante deriva da eligere (scegliere), diligente da diligere (prendersi cura di), intelligente da intellegere (comprendere); in tutti questi termini c’è lo stesso senso di legere che è in religiosus. Così superstizioso e religioso diventarono rispettivamente titolo di biasimo e di lode» (II 28, 71–72).
Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C., dal Vespasianeum di Pompei.
I superstiziosi sono definiti tali in quanto caratterizzati dall’atteggiamento tipico di coloro che non fanno altro che immolare vittime agli dèi e sacrificare per aver garantita la sopravvivenza dei propri figli. Il termine superstitiosus è dunque connesso etimologicamente con superstes (plur. superstites) e definirebbe quanti sono continuamente assillati dallo scrupolo religioso, quindi dalla superstitio, e si affannano a pregare gli dèi e a compiere continui sacrifici perché temono per la salvezza dei figli. È sottolineato dunque in primo luogo il timore che è alla base di questo atteggiamento: non il corretto culto degli dèi ispira questi individui ma il timore di ricevere dei danni. Al contrario i religiosi sono detti tali dal verbo relegere, qui inteso nel senso di «riconsiderare», «considerare attentamente», ritornare con cura su quanto già si è osservato (legere): essi sono pertanto coloro che praticano in maniera diligente a accurata tutti gli atti che riguardano il culto degli dèi. Ne risulta che religio è in primo luogo un dato soggettivo, nel senso che esprime un atteggiamento dell’uomo, che da numerose attestazioni risulta essere quello della reverenza, del rispetto nei confronti delle potenze divine, e talora anche dello «scrupolo» ovvero del timore.
Scena di sacrificio. Illustrazione di G. Rava.
Di fatto lo stesso termine religio presenta un’intrinseca ambivalenza, soprattutto nelle fasi più antiche del suo uso, di cui si dimostra consapevole, ad esempio, un autore romano del II secolo d.C., Aulo Gellio (ca. 130-158 d.C.). Nell’opera miscellanea dal titolo Le notti attiche, l’autore registra l’accezione derogatoria del termine religiosus quale sarebbe stato usato in un verso di Nigidio Figulo, esponente dei circoli colti romani del I secolo a.C. e amico di Cicerone. L’autore, definito da Aulo Gellio «fra i più dotti accanto a Marco Varrone», nell’opera Commenti grammaticali aveva citato un verso ex antiquo carmine («da un antico poema»), che recitava: religentem esse oportet, religiosus ne fuas («devi essere accurato osservante, per non essere bigotto»). A commento Nigidio Figulo avrebbe affermato: «Il suffisso –osus in tal genere di vocaboli, come vinosus, mulierosus, religiosus, sta a significare una smodata abbondanza della qualità di cui si tratta. Perciò religiosus veniva detto chi professava una religiosità eccessiva e superstiziosa (qui nimia et superstitiosa religione sese alligauerat), ed era insisto nel vocabolo un concetto di disapprovazione» (IV 9).
Orante con offerte. Bronzetto etrusco, 480 a.C., dalla stipe votiva di Monte Acuto. Museo Civico Archeologico di Bologna.
Ne risulta che le due nozioni di superstitio e religio potevano addirittura convergere a definire l’atteggiamento dell’uomo che eccede nella pratica e nel sentimento del rapporto con il divino. Si configura quello che agli occhi dell’osservatore moderno appare come un ossimoro, ovvero la possibilità di una superstitiosa religio. Tuttavia, la «contraddizione in termini» non sussiste nella prospettiva storica in questione, in cui religiosus presenta una complessa e ambivalente accezione. Di fatto Aulo Gellio oppone al discorso di Nigidio «un diverso significato di religiosus: irreprensibile e rispettoso e che regola la propria condotta su leggi e scopi ben definiti». Sottolinea peraltro l’ambivalenza dell’aggettivo, adducendo l’opposto significato che esso assume nella designazione di religiosus dies e religiosa delubra e afferma: «Si dicono infatti dies religiosi i giorni che un triste presagio rende di mala fama o di vietato impiego, nei quali non si possono offrire sacrifici o iniziare nuovi affari». Aggiunge subito che «lo stesso Marco Tullio [Cicerone] nell’orazione Sulla scelta dell’accusatore parla di religiosa delubra (santuari sacri), non intendendo templi tristi per cattivo presagio, ma che ispirano rispetto per la loro maestà e santità». Quindi appella all’autorità di Masurio Sabino, famoso giurista di età augustea, per ribadire la valenza positiva dell’aggettivo: «Religiosus è qualcosa che per suo carattere sacro è lontano e separato da noi, e il vocabolo deriva da relinquo (separare) così come caerimonia (venerazione) da careo, astenersi».
Si conferma come già nell’antico contesto romano si proponevano delle etimologie di religio/religiosus in funzione dell’una o dell’altra accezione del termine che si intendeva spiegare. Lo stesso Aulo Gellio procede in questa direzione concludendo: «Secondo questa interpretazione di Sabino, i templi e i santuari sono chiamati religiosa perché ad essi si accede non come folla indifferente e distratta, ma dopo una purificazione e nella dovuta forma, e devono essere più riveriti e temuti (et reverenda et reformidanda) che non aperti al volgo». Si ripropongono pertanto i due convergenti aspetti del rispetto e del timore peculiari della nozione in discussione, entrambi qui assunti in accezione positiva.
Giovane in atteggiamento votivo. Bronzetto, 400-350 a.C. London, British Museum.
Anche nel passo ciceroniano in esame essi appaiono valutati nel loro significato positivo, in quanto mantenuti entro i limiti di un equilibrato rapporto fra l’uomo e la divinità. Infatti si pone una stretta connessione tra l’atteggiamento dell’uomo religiosus e l’osservanza di atti rituali che hanno come oggetto gli dèi, figure di un livello «altro», superiore rispetto all’uomo, gravido di potenza. In conformità con la prospettiva romana di tipo politeistico, sono evocati molti dèi, sicché si parla di un cultus deorum, ossia di un’osservanza che si manifesta nella prassi rituale diligentemente osservata, ma senza quell’eccesso di scrupolo timoroso che invece caratterizza il superstizioso e che lo porta a invocare gli dèi e a sacrificare loro quotidianamente, in deroga della tradizione. Infatti a Roma sia le pratiche del culto privato, familiare, sia quelle del culto pubblico non si compiono per iniziativa e scelta dei singoli, ma secondo un preciso ordine calendariale stabilito e sorvegliato dallo Stato.
Per meglio chiarire tale accezione della religio romana, è opportuno illustrare il contesto generale in cui si situa una netta affermazione di Cotta relativa alla sua posizione nel dibattito filosofico in quanto pontefice. Egli infatti era stato chiamato a fare da arbitro tra le opposte teorie, stoica ed epicurea, che sostanzialmente divergevano sul tema della provvidenza divina, tema di rilevanza fondamentale per la pratica religiosa. Se infatti sotto il profilo ideologico le due posizioni erano componibili, in quanto anche gli epicurei ammettevano l’esistenza degli dèi come gli stoici, rimaneva una differenza sostanziale tra i postulati delle due scuole filosofiche, poiché la dottrina epicurea negava che gli dèi si preoccupino delle cose umane e intervengano dunque nella vita del cosmo e dell’umanità. La posizione epicurea, pertanto, rendeva vana la dimensione che per l’uomo romano era fondamentale, ossia la pratica cultuale, intesa a mettere in comunicazione uomini e dèi, rendendo omaggio a questi ultimi nell’attesa dei loro benefici. Per gli stoici, invece, gli dèi sono inseriti in un ordine universale, retto dalla legge della ragione (lógos/ratio) e dalla provvidenza (pronoia/providentia). Sebbene gli dèi delle tradizioni politeistiche comuni risultassero in qualche modo superati nella generale prospettiva provvidenzialistica postulata dagli stoici, e quindi a livello filosofico potessero essere considerati scarsamente rilevanti, nella vita pratica essi mantenevano un ruolo importante. Gli stoici infatti – come si è visto – ammettevano la legittimità, anzi l’opportunità del mantenimento delle pratiche cultuali tradizionali di diversi popoli.
Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).
L’importanza di questo tema nella visione di Cicerone è chiaramente sottolineata ad apertura dell’opera, risultando anzi la motivazione fondamentale della sua composizione, presentata come fedele riproduzione della «discussione assai accurata e approfondita sugli dèi immortali» (De nat. deor. I 6, 15) che l’autore dichiara svoltasi nella casa di Cotta, appunto tra quest’ultimo, il senatore Caio Velleio e Quinto Lucilio Balbo, discussione cui egli stesso avrebbe assistito in un periodo non precisato, ma che sembra situabile nel 76 a.C. È chiaro comunque che, al di là di un eventuale riferimento a una circostanza storica, Cicerone intende esemplificare, con la messa in scena di tre autorevoli protagonisti della vita politica e culturale di Roma, il dibattito sulla natura del divino in corso nei circoli colti cittadini. Infatti l’autore, preso atto della grande differenza di opinioni dei filosofi sul tema teologico, nota l’importanza decisiva in tale dibattito del riconoscimento o meno della capacità di intervento degli dèi nella vita cosmica e umana. Se è esatta l’opinione di coloro che, come gli epicurei, negano la provvidenza, si chiede Cicerone, «quale devozione può esistere, quale rispetto [per il culto], quale religione?» (Quae potest esse pietas quae sanctitas quae religio?, I 2, 3).
Pietas, sanctitas e religio sono dunque i tre fondamentali atteggiamenti umani che caratterizzano la comunicazione con il livello divino, ritenuta possibile solo quando da parte di quest’ultimo sia dato «rispondere» efficacemente all’interlocutore umano. «Tutti questi sono tributi – dichiara egli infatti – che dobbiamo rendere alla maestà degli dèi in purezza e castità, solo se essi sono avvertiti dagli dèi e se vi è qualcosa che gli dèi hanno accordato al genere umano; se, al contrario, gli dèi non possono né vogliono aiutarci, se non si curano affatto di noi né badano alle nostre azioni e non vi è nulla che possa giungere alla vita umana da loro, per quale ragione dovremmo venerare, onorare, pregare gli dèi immortali?». Il discorso si collega direttamente alla domanda iniziale, definendo natura e significato delle qualità umane sopra evocate: «La pietà, d’altra parte, come le altre virtù, non può esistere sotto l’apparenza di una falsa simulazione; e assieme alla pietà inevitabilmente scompaiono la riverenza e la religione; una volta eliminati questi valori, si verificano uno sconvolgimento della vita e una grande confusione; e sono propenso a credere – conclude – che, una volta eliminata la pietà verso gli dèi, vengano soppressi anche la lealtà e i rapporti sociali del genere umano e la giustizia, la virtù per eccellenza» (I 2, 3–4).
Pietas, sanctitas e religio, tipiche virtutes che definiscono il rapporto uomini-dèi, risultano essere anche i fondamenti imprescindibili dell’intera vita sociale: la loro eliminazione, infatti, si traduce agli occhi di un Romano nell’eliminazione della fides e della iustitia che sono alla base dell’ordinata convivenza umana. Ciò accade quando, negata la provvidenza divina, si rende inutile praticare quella via di comunicazione con gli dèi che è rappresentata dalla concreta attività cultuale: cultus, honores, preces sono infatti i termini essenziali in cui si realizzano pietas, sanctitas e religio, quali attributi dell’uomo in quanto cittadino, membro di una comunità socialmente organizzata.
Sacerdote di Saturno. Statua, III sec. d.C. ca., da Thugga (Dougga). Tunis, Musée National du Bardo.
Tenuto conto di questa sorta di «manifesto» iniziale delle intenzioni di Cicerone e della sua profonda convinzione del carattere civico del complesso dei comportamenti e delle credenze dell’uomo religiosus, appare perfettamente coerente con tale visione l’argomentazione che il pontefice Cotta premette a quella che sarà l’enunciazione dei suoi convincimenti filosofici. Egli, chiamato a prendere posizione nel dibattito, è invitato da Lucilio Balbo in maniera decisa a tenere in considerazione il fatto di essere «un cittadino autorevole e un pontefice» (II 67, 168). Egli non si sottrae a questo invito e dichiara: «Ma prima di trattare l’argomento, premetterò poche riflessioni su di me. Sono non poco influenzato dalla tua autorevolezza, Balbo, e dal tuo discorso che nella conclusione mi esortava a ricordare che sono Cotta e un pontefice: il che penso volesse dire che io devo difendere le credenze sugli dèi immortali che ci sono state tramandate dagli antenati, i riti, le cerimonie, le pratiche religiose (religiones)» (III 2, 5).
Dunque Cotta entra nel suo ruolo di rappresentante autorevole dello Stato. Se nel dibattito filosofico tra le varie scuole egli è intervenuto manifestando delle notevoli riserve su alcuni aspetti delle credenze tradizionali, ad esempio proprio nei confronti della validità delle pratiche divinatorie, quando si tratta di esprimere la propria opzione in quanto esponente ufficiale del culto di Stato, non può sottrarsi agli obblighi inerenti alla propria funzione. Come pontefice, quindi, egli deve prendere posizione netta nei confronti delle credenze tradizionali (opiniones, quas a maioribus accepimus de dis immortalibus) e soprattutto difendere la pratica del culto (sacra, caerimoniae, religiones).
Appare il plurale (religiones) secondo un uso molto frequente per indicare, all’interno della stessa tradizione romana, il complesso dei sacri riti compiuti secondo le norme stabilite dai maiores. Nel linguaggio romano il plurale religiones non si oppone al singolare religio, nel senso moderno di una molteplicità e diversità di complessi autonomi e autosufficienti, di credenze e di pratiche religiose. Infatti, il termine religio non indicava ciò che comunemente si intende oggi nella tradizione occidentale di matrice cristiana, ossia un complesso autonomo e articolato in cui rientri un elemento di «credenza» e un elemento di «culto», ovvero una dimensione pratico-operativa. Come già constatato, religio è un atteggiamento interiore e un’osservanza religiosa, quindi sostanzialmente attiene alla pratica cultuale. Sebbene religio sia spesso connessa con le nozioni di pietas e di iustitia (cfr. De nat. deor. I 2, 3–4; I 41, 116), oltre che con una certa opinione o sapienza sugli dèi, non si identifica con nessuna di queste prerogative né le ingloba in sé. La circostanza stessa che nel linguaggio ciceroniano, sia nel De natura deorum sia nel De divinatione e in altre opere, sia stabilito un rapporto, spesso molto stretto, tra religio e pietas, tra religio e iustitia e si parli anche di opiniones, ossia di una certa maniera di considerare gli dèi, ovvero di una saggezza in riferimento alla religio, conferma che tali nozioni, pur connesse, non sono inglobate nella nozione di religio.
Statua di Augusto in veste di Pontifex Maximus (detta ‘l’Augusto di Via Labicana’). Marmo greco e italico, 90-100 d.C. Roma, Museo Nazionale di P.zzo Massimo alle Terme.
Anticipando la conclusione del nostro discorso, diremo che religio ha una connessione primaria e qualificata con la pratica religiosa, cioè con il culto, indicando per i Romani sostanzialmente la trama articolata di rapporti fra l’uomo e gli dèi quale si realizza nella pratica rituale. In altri termini, la religio non era una questione di «fede», non implicava da parte dell’uomo l’accettazione di un corpus di dottrine in cui credere. L’individuo poteva avere opinioni anche diverse sul tema della natura degli dèi e delle loro funzioni, ma per essere homo religiosus e civis Romanus a tutti gli effetti doveva compiere certi riti, quelli appunto prescritti dalle usanze tradizionali della città. Ciò che definisce il religiosus è la pratica di quanto attiene al culto degli dèi: egli deve considerare con estrema attenzione, con diligenza, e ovviamente poi praticare, il complesso dei riti comunitari. L’homo religiosus romano, dunque, non è colui che «crede», ma colui che celebra, nelle forme dovute, i riti tradizionali. Su questa nozione si rivelerà netta la differenza con la posizione cristiana, quale risulterà espressa in Lattanzio e in Agostino.
Tornando al testo ciceroniano vediamo come Cotta prosegua la sua argomentazione sulle religiones, ovvero le «pratiche religiose» tradizionali affermando: «Io le difenderò sempre e sempre le ho difese e il discorso di nessuno, sia egli colto o ignorante, mi smuoverà dalle credenze sul culto degli dèi immortali che ho ricevuto dai nostri antenati. Ma quando si tratta di religio io seguo i pontefici massimi Tiberio Coruncanio, Publio Scipione, Publio Scevola, non Zenone o Cleante o Crisippo, ed ho Gaio Lelio, augure e per di più sapiente, da ascoltare quando parla della religione (…dicentem de religione) nel suo famoso discorso piuttosto che qualunque caposcuola dello stoicismo. Tutta la religione del popolo romano (omnis populi Romani religio) è divisa in riti e auspici, a cui è aggiunta una terza suddivisione: le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici, basate sui portenti e sui prodigi: io non ho mai pensato che si dovesse trascurare alcuna di queste pratiche religiose (…harum … religionum) e mi sono persuaso che Romolo con gli auspici, Numa con l’istituzione del rituale abbiano gettato le fondamenta della nostra città, che certamente non avrebbe mai potuto essere così grande se gli dèi immortali non fossero stati sommamente propizi. Ecco, Balbo, l’opinione di Cotta in quanto pontefice. Ora fammi capire la tua; da te che sei un filosofo devo ricevere una giustificazione razionale della religione, mentre devo credere ai nostri antenati anche senza nessuna prova (…a te enim philosopho rationem accipere debeo religionis, maioribus autem nostris etiam nulla ratione reddita credere)» (III 2, 5–6).
Questo passo ciceroniano chiarisce quanto altri mai l’accezione che la nozione di religio ha nell’ambito della cultura romana. Omnis populi Romani religio è un complesso di pratiche tradizionali, tramandate nei secoli attraverso le successive generazioni, in cui gli elementi fondamentali sono i riti e gli auspici, cioè la prassi sacrificale, consistente soprattutto nel sacrificio cruento, e l’osservazione dei segni attraverso i quali si manifestava la volontà degli dèi affinché, correttamente interpretati da un collegio sacerdotale a ciò preposto – quello degli augures di cui lo stesso Cicerone fece parte dal 53 a.C. –, guidassero il comportamento degli uomini a livello sociale, ovvero regolassero l’azione dello Stato e non del singolo individuo nei confronti dei propri dèi.
Statua di un giovane orante, realizzata da maestranza rodia. Bronzo, 300 a.C. ca. Berlin, Altes Museum.
L’autore che in più luoghi, e soprattutto nel De divinatione, si fa portavoce di un atteggiamento di critica e rifiuto nei confronti della divinazione privata, era rappresentante ufficiale della divinazione pubblica e quindi affermava con decisione, per il tramite del pontefice Cotta, la necessità del corretto mantenimento della pratica degli auspicia: solo interpretando correttamente i segni della volontà divina, attraverso i suoi qualificati rappresentanti, la comunità può agire in conformità a tale volontà, da cui dipende la propria sussistenza. Le forme di auspicio pubblico romano, infatti, non implicavano previsione degli eventi futuri bensì la conoscenza della volontà divina già stabilita: l’uomo deve inserirsi in un piano già definito, mentre un’iniziativa autonoma sarebbe disastrosa per il destino della comunità. L’auspicium era pertanto un elemento essenziale della vita cittadina sicché non si intraprendeva alcuna impresa di rilevanza sociale e militare se prima gli auguri non avessero interpretato, attraverso i segni relativi, la volontà divina per sapere se la divinità approvava o meno quella iniziativa. Si trattava in concreto di decidere se in quel particolare momento bisognava compiere una certa impresa perché gli dèi erano favorevoli o meno. La pratica augurale è dunque un elemento essenziale della religio romana in conformità alla tipica accezione pratico-rituale di tale nozione.
Il sacrificio è l’atto di omaggio che l’uomo compie nei confronti della divinità per riconoscerne il potere, per magnificarlo, cioè per rinsaldarlo e renderlo ancora più forte; l’auspicio è la tecnica che permette all’uomo membro di una comunità di inserirsi nel piano divino preordinato, che deve conoscere per mantenere integro quel rapporto armonico tra i due livelli che si definisce pax deorum.
Il terzo elemento evocato nel discorso di Cotta è anch’esso molto importante nell’ambito della tradizione romana, ossia le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici. La scienza dell’aruspicina era la scienza divinatoria tipicamente etrusca assunta dai Romani e i Libri Sibyllini erano quel complesso di scritti, custoditi prima nel Campidoglio e più tardi trasferiti da Augusto nel tempio di Apollo, contenenti gli oracoli divini che solo i magistrati a ciò deputati, i Decemviri (divenuti poi Quindecemviri), potevano interpretare. Si trattava dunque di un corpo di testi attinenti alla pratica rituale pubblica, ufficiale, sulla base dei quali – nei momenti di crisi della vita cittadina – si cercava di comprendere e di interpretare la volontà degli dèi ai fini di una corretta conduzione della vita intera della società.
Cotta chiede al filosofo una spiegazione razionale della religio, ossia una dimostrazione logica dell’esistenza e natura degli dèi, mentre alle tradizioni dei padri non richiede alcuna spiegazione; ad esse egli dà un pieno assenso, espresso nella pratica, conforme a queste tradizioni, di tutto il complesso rituale. È qui illustrata la posizione tipica dell’intellettuale romano nel I secolo a.C., cioè di un individuo che può cercare la verità, la risposta a certe domande essenziali sui principi della realtà, nei vari sistemi filosofici di origine greca ma ormai solidamente impiantati nel suo ambiente culturale, lasciandosi convincere da quello fra tutti che metta in opera gli strumenti razionali più adatti a tale scopo. Per tale via egli sa crearsi una certa immagine dell’universo conforme a specifiche premesse razionali, in base ai postulati filosofici dell’una o dell’altra scuola contemporanea. Dunque sarà lo stoicismo, l’epicureismo o il platonismo la filosofia che potrà dare all’uomo colto del tempo una risposta razionale alle sue esigenze intellettuali, ma il civis Romanus in tanto sarà religiosus in quanto osserverà le norme sopra enunciate. La religio dunque è una realtà che ingloba in sé tutto un patrimonio tradizionale di culti e delle connesse credenze. Esso comunque non parrebbe risultare dalle affermazioni finali del discorso di Cotta. Tra le posizioni dell’homo religiosus e del filosofo sussiste di fatto una certa armonia, una possibilità di conciliazione, almeno nei circoli colti romani del I secolo a.C., quali si riflettono nel trattato ciceroniano, in quanto proprio in questo contesto fu tentata un’interpretazione di tipo filosofico delle tradizioni ancestrali. Una tale interpretazione è proposta in un passo del De divinatione, trattato composto successivamente al De natura deorum, nell’anno 44 a.C., e dedicato al problema della possibilità o meno di conoscere la volontà divina attraverso vari segni, a loro volta interpretati in base alla scienza augurale o ad altre tecniche divinatorie. In questo testo si propone un’opposizione tra una forma inaccettabile di divinatio, identificata con la superstitio, e la religio. A differenza del passo del De natura deorum già esaminato, è stabilita un’opposizione diretta non più tra gli aggettivi che qualificano le contrapposte posizioni dell’uomo, rispettivamente il superstitiosus e il religiosus, ma tra le due realtà della superstitio e della religio. La definizione qui proposta di religio è estremamente interessante per comprendere sia la mentalità di Cicerone sia quella del suo ambiente. L’autore sta discutendo di varie pratiche divinatorie come espressione di superstitio, ossia di quell’eccessivo timore da parte dell’uomo che lo induce a stabilire dei rapporti non corretti con il livello divino. In questo contesto, infatti, anche la superstitio riguarda il mondo divino, come del resto lo riguardano le pratiche divinatorie.
Altare votivo in onore dei Lares Augusti. Marmo, 7 a.C. ca., da Roma. Frankfurt-am-Main Liebieghaus.
Poiché tali pratiche sono caricate di connotazioni piuttosto negative, l’accezione peggiorativa del termine superstitiosus deriva in primo luogo dal suo riferirsi ad un individuo che ricorre a profeti e a indovini per sollecitare una risposta degli dèi su attività e comportamenti personali. In particolare, una critica serrata è mossa alle varie tecniche di interpretazione dei sogni, ritenuti in tutto l’ambiente contemporaneo, sulla base di una lunga tradizione di cui partecipavano in varia misura tutte le popolazioni di ambito mediterraneo, come una delle più importanti forme di comunicazione con il mondo divino, poiché capace di mettere in diretto rapporto l’uomo con la divinità. Cicerone quindi, in risposta al fratello Quinto che, sulle orme degli stoici, era un convinto assertore della validità di tutte le tecniche divinatorie e quindi anche dell’importanza dei sogni e della loro interpretazione, conclude la propria requisitoria esclamando: «Si cacci via anche la divinazione basata sui sogni, al pari delle altre. Ché, per parlare veracemente, la superstizione, diffusa tra gli uomini, ha oppresso gli animi di quasi tutti e ha tratto profitto dalla debolezza umana» (De div. II 148).
Ne risulta pertanto una connessione dialettica tra credenza e pratica della divinatio somniorum e più ampiamente di tutte le forme di consultazione privata di indovini, oracoli e profeti, e la superstitio configurata come una forma universalmente diffusa di mistificazione, fondata su quell’insopprimibile desiderio umano di rassicurazione e di conoscenza del proprio futuro che più tardi Luciano condannerà altrettanto decisamente nel trattato diretto contro Alessandro, il falso profeta.
L’autore romano rimanda al proprio trattato Sulla natura degli dèi, in cui ha pure affrontato il tema della certezza – sottolinea – «che avrei arrecato grande giovamento a me stesso e ai miei concittadini se avessi distrutto dalle fondamenta la superstizione». E prosegue affermando: «Né, d’altra parte (questo voglio che sia compreso e ben ponderato), con l’eliminare la superstizione si elimina la religione. Innanzitutto è doveroso per chiunque sia saggio difendere le istituzioni dei nostri antenati mantenendo in vigore i riti e le cerimonie; inoltre, la bellezza dell’universo e la regolarità dei fenomeni celesti ci obbliga a riconoscere che vi è una possente ed eterna natura, e che il genere umano deve alzare a essa lo sguardo con venerazione e ammirazione» (II 148).
Il discorso ciceroniano sottolinea dunque con forza che eliminare la superstitio non significa distruggere la religio, poiché è espressione di saggezza custodire le istituzioni degli antenati mantenendo in vita i riti sacri e le cerimonie tradizionali. È poi evocato un altro elemento del quadro: la bellezza del mondo, l’ordine dei corpi celesti costringe quasi a riconoscere (confiteri) che esiste una qualche natura preminente ed eterna, e che questa natura deve essere ricercata e fatta oggetto di rispetto e ammirazione da parte dell’uomo. In queste espressioni si riflette tutta una facies religiosa che nel I secolo a.C. ha già una lunga storia dietro di sé e che caratterizza proprio gli ultimi secoli dell’ellenismo e i primi secoli dell’impero. Si tratta della «religione cosmica», implicante un atteggiamento di religiosa ammirazione della natura, scaturente dalla contemplazione dell’ordine cosmico, atteggiamento già presente in Platone: la regolarità dei movimenti dei corpi celesti induce l’uomo ad ammirare il grande Tutto e a venerare la potenza divina che in esso si manifesta. Tale religiosità impregna di sé tutta la tradizione stoica in cui, a differenza del platonismo che implica la trascendenza del mondo delle idee rispetto al mondo materiale, si afferma la nozione dell’immanenza del Lógos divino del cosmo. Sotto il profilo di quello che è stato chiamato il «misticismo cosmico», peraltro, le due tendenze, quella platonica e quella stoica, convergono. Del resto è ben noto il fenomeno, che ha in Posidonio di Apamea (135-51 a.C. circa) uno dei suoi maggiori rappresentanti, dell’assunzione nello stoicismo di numerosi e importanti elementi platonici. Lo stoicismo dell’epoca di Cicerone è di fatto profondamente imbevuto di platonismo, mentre a sua volta il platonismo ha recepito anche molti elementi stoici. Comunque un tratto significativo della religiosità del periodo ellenistico, sia nei circoli colti sia anche in ampi strati delle masse popolari, è dato dal sentimento profondo della bellezza del cosmo, la cui contemplazione si rivela tramite di conoscenza della divinità. Cicerone afferma appunto che l’ordine che regola gli elementi cosmici induce l’uomo ad ammettere l’esistenza di una natura superiore, potente, nei confronti della quale è preso da ammirazione. Egli deve ricercare questa natura divina che è al di là dello stesso ordine cosmico: si manifesta nel cosmo ma in qualche modo lo trascende. Si percepiscono così nette le radici platoniche del pensiero ciceroniano, nell’ammissione della trascendenza del divino rispetto alla realtà visibile: l’ordine cosmico induce l’uomo a ricercare, e quindi ad ammirare, quella superiore natura che in tale ordine si riflette.
Augure. Statuetta, bronzo, 500-480 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
L’augure Cicerone, tuttavia, coniuga questa nozione di ascendenza filosofica con la nozione tradizionale di religio, consistente nel custodire accuratamente gli instituta maiorum, nella corretta osservanza dei sacra e delle caerimoniae. Egli pertanto ribadisce che «come bisogna addirittura adoprarsi per diffondere la religione che è connessa con la conoscenza della natura, così bisogna svellere tutte le radici della superstizione» (II 149).
Si constata pertanto nel I secolo a.C. un’articolazione e trasformazione della prospettiva tradizionale romana all’interno dei circoli filosofici, in cui per un verso si mantiene tutta l’autorità della religione tradizionale, affermandosi il prevalente contenuto pratico-rituale della religio; ma in essa cominciano ad emergere altre valenze. La prospettiva si allarga. Il mos maiorum, l’osservanza dei sacra e delle cerimonie rimane in primo piano, anzi è indicata come ciò che distingue la religio dalla superstitio sicché la religio conserva il suo carattere ufficiale, tradizionale. Tuttavia questa nozione, oltre ad accompagnarsi a quelle di pietas e di iustitia, sottolineate in tanti altri contesti ciceroniani, acquista una maggiore pregnanza, collegandosi con la nozione di «credenza» in una o più potenze superiori.
Nel testo esaminato si parla di una praestans aliqua aeterna natura, ma sappiamo bene come per un Romano dell’epoca di Cicerone questa «natura» eterna e preminente si manifesti in una molteplicità di potenze divine. Non c’è infatti qui alcuna tensione di tipo monoteistico; piuttosto si tratta di un linguaggio a carattere filosofico che con la nozione di natura praestans allude al fondamento stesso di tutte le personalità divine, una sorta di qualitas di cui partecipano gli dèi tradizionali, secondo quanto era stato affermato dallo stoico Balbo nel De natura deorum. Solitamente questa concezione si esprime in una visione del mondo di tipo «piramidale», ossia implicante un sommo principio divino e una gerarchia graduata di potenze inferiori, tra cui si situano i molti dèi dei politeismi tradizionali. Questi dèi, oggetto della religio in quanto destinatari del culto che la religio primariamente esprime, sono così inseriti in una prospettiva cosmica che non appella più soltanto ed esclusivamente alla tradizione degli antenati, alla tradizione romana in quanto tale, differenziata dalle tradizioni nazionali degli altri popoli, ma assume un carattere più ampio proprio perché si tratta della natura divina universale che si manifesta nell’ordine del grande Tutto.
In questa prospettiva più vasta, universalistica o meglio cosmosofica, vengono inglobate le numerose divinità dei politeismi tradizionali secondo un processo in cui profonda è stata l’azione esercitata dall’esegesi allegorica dei miti e delle figure divine dei vari popoli proposta dagli stoici. Le divinità dei diversi contesti non vengono negate ma piuttosto recuperate in una visione di ampio respiro universalistico a fondamento cosmico. Anche le diversità tra le tradizioni dei vari popoli sono in qualche modo superate, non nel senso che sono rinnegate ma piuttosto assorbite in questa forma di religiosità cosmica. Ai nostri fini interessa sottolineare come la nozione di religio di Cicerone poteva inglobare anche una componente a carattere «intellettualistico-concettuale», sicché in questo periodo e in questo contesto tale nozione non appare limitata solo all’aspetto rituale, pur essendo questo aspetto preminente e tipico della tradizione romana.
Giudice e indovino (dettaglio). Affresco etrusco, 540-530 a.C. ca., dalla Tomba degli Auguri (parete destra, Necropoli di Monterozzi, Tarquinia).
Altri passi dell’opera di Cicerone illustrano ulteriormente la prospettiva, confermando come la nozione di religio nel I secolo a.C. mantenesse quello che è uno dei suoi significati essenziale, cioè il senso di osservanza, culto prestato agli dèi, ma nello stesso tempo si arricchisce di più ampi significati accogliendo in una certa misura anche una concezione cosmica del divino e degli dèi tradizionali. La salda convinzione che la dottrina epicurea di fatto distrugga omnem funditusreligionem, come nell’argomentazione elaborata da Cicerone ad apertura del trattato, è da Cotta espressa in una serie di interrogazioni retoriche rivolte allo stesso Epicuro, in cui si ribadisce come la religio presuppone la possibilità di un rapporto tra potenze divine capaci di intervenire nella vita cosmica e umana e l’uomo che, riconoscendo la loro superiore natura e la benevolenza nei propri confronti, presta ad essi riverenza e omaggi cultuali.
Dopo una serie di affermazioni che offrono anche delle precise definizioni di ciò che per un Romano erano due elementi peculiari della sfera pertinente al divino, quali la pietas («giustizia nei confronti degli dèi»: est enim pietas iustitia adversum deos) e la sanctitas («scienza del culto degli dèi»: sanctitas autem est scientia colendorum deorum), Cicerone per bocca di Cotta ritorna sulla contrapposizione fra superstitio e religio, proponendo una definizione significativa delle rispettive nozioni: «È facile liberare dalla superstizione (merito di cui voi vi vantate) – dichiara rivolto agli Epicurei – se si è eliminata la potenza degli dèi. A meno che per caso tu ritenga che Diagora o Teodoro, che negavano del tutto l’esistenza degli dèi, potessero essere superstiziosi; io non affermerei questo neanche di Protagora, che era incerto se gli dèi esistessero o no. La dottrina di tutti costoro elimina non solo la superstizione, che comporta un vano timore degli dèi, ma anche la religione, che consiste in una pia venerazione degli dèi (non modo superstitionem tollunt, in qua inest timor inanis deorum, sed etiam religionem, quae deorum cultu pio continetur)» (De nat. deor. I 41, 114–42, 117). Le opinioni degli epicurei, eliminando la nozione dell’intervento divino negli affari umani, aboliscono non soltanto la superstitio, ma anche la religio, consistente proprio nel rapporto rituale ispirato dalla pietas che sancisce la differenza dei piani, umano e divino, ma anche la vitale comunicazione fra di essi.
Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
La nozione della potenza divina che regola e governa la vita cosmica e umana, e quindi richiede all’uomo le regolari manifestazioni di culto, è riaffermata in un altro contesto ciceroniano del De haruspicum responsis, trattato composto nel 56 a.C. per affermare con forza la necessità della corretta osservanza delle prescrizioni degli aruspici, al fine di garantire il benessere dello Stato fondato sul rispetto della volontà degli dèi. Il trattato, composto in un momento di grave crisi politica determinata dai contrasti tra le fazioni che facevano capo a Cesare e a Pompeo, è diretto contro l’avversario di Cicerone, Clodio, accusato di gravi trasgressioni religiose, quali la profanazione dei riti segreti della Bona Dea, riservati alle donne. Ma la colpa più grave del personaggio, agli occhi di Cicerone, è quella di aver trascurato le prescrizioni degli aruspici che, dall’osservazione dei prodigi verificatisi nel corso dell’anno, avevano indicato la necessità di compiere le necessarie «espiazioni», ossia i riti tradizionali intesi a placare l’ira divina e rendersi propizi di dèi, pena la rovina stessa della repubblica.
Cicerone innanzitutto dichiara di essere stato fortemente turbato da «la grandezza del prodigio, la solennità della risposta, la parola una e immutabile degli aruspici». Quindi, in piena coerenza con le parole poste in bocca a Cotta, continua: «E, se pure sembra che io mi sia dedicato più di altri che pure sono occupati come me, allo studio delle lettere, non sono uomo tale da apprezzare o a praticare quelle lettere che allontanano o distolgono i nostri animi dalla religione. Io invero considero innanzitutto i nostri antenati come gli ispiratori e i maestri nell’esercizio del culto» (De har. resp. IX 18). Si afferma pertanto la necessità, da parte del cittadino romano, anche il più esperto di studi letterari e filosofici, di rifiutare quelle posizioni che possano allontanarlo dalla religio tradizionale, nella certezza irremovibile che solo i propri maiores sono auctores ac magistri religionum colendarum, ossia delle osservanze cultuali. Queste sono subito definite in relazione ai quattro pilastri della religio dei Romani, ossia le caerimoniae celebrate dai pontefici, le prescrizioni del comportamento pubblico fornite dagli auguri, le prescrizioni dei Libri Sibyllini e le espiazioni dei prodigi effettuate secondo la Etrusca disciplina, ossia appunto i rituali prescritti dagli aruspici.
Ribadita la propria conoscenza di «numerosi scritti sulla potenza degli dèi immortali» redatti da uomini «istruiti e sapienti», ancora una volta esprime la professione di lealismo civico dichiarando: «E sebbene io veda in queste opere un’ispirazione divina, esse mi sembrano tuttavia tali da fare credere che i nostri antenati sono stati i maestri e non i discepoli di questi autori. Infatti, chi è tanto sprovvisto di ragione, dopo aver contemplato il cielo, da non sentire che esistono degli dèi e da attribuire al caso quanto risulta da un’intelligenza tale che si fa fatica a trovare il modo di seguire l’ordine e la necessità delle cose, ovvero, quando ha compreso che esistono gli dèi, da non comprendere che la loro potenza ha causato la nascita, lo sviluppo e la conservazione di un impero tanto grande come il nostro? Possiamo bene, o padri coscritti, compiacerci a nostro piacere di noi stessi, tuttavia non è per il numero che abbiamo superato gli Spagnoli, né per la forza i Galli, né per l’abilità i Cartaginesi, né per le arti i Greci, né infine per quel buon senso naturale e innato proprio a questa stirpe e a questa terra gli Italici stessi e i Latini; ma è proprio per la pietà e la religione, e anche per questa eccezionale saggezza che ci ha fatto comprendere che la potenza degli dèi regola e governa tutte le cose che abbiamo superato tutti i popoli e tutte le nazioni (… sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnes gentes nationesque superavimus)» (IX 19). Pietas, religio e sapientia sono quindi le prerogative peculiari dei Romani, che fondano la loro superiorità su tutti gli altri popoli e, garantendo loro la speciale protezione degli dèi, costituiscono la motivazione e il fondamento stessi dell’imperium che essi esercitano sulle altre nazioni.
Q. Cecilio Metello Pio. Denario, Italia settentrionale, 81 a.C. AR 3, 54 gr. Rovescio: Brocca, lituus e leggenda [imper(atori)], iscritti in una corona d’alloro.
Un passo parallelo del De natura deorum conferma questa nozione ciceroniana, quando Balbo dichiara che «se vogliamo confrontare la nostra cultura con quella delle popolazioni straniere, risulterà che siamo uguali o anche inferiori sotto ogni altro aspetto, ma che siamo molto superiori per quello che concerne la religione, cioè il culto degli dèi» (II 3, 8). Se in questo luogo la religio si definisce come cultus deorum secondo la fondamentale accezione del termine nella prospettiva romana, la sua associazione frequente, ribadita nel contesto esaminato del De haruspicum responsis, con pietas e sapientia conferma la ricchezza di valenze che si aggregano alla nozione di osservanza rituale che essa esprime. Ne risulta confermata soprattutto la disponibilità del termine, già manifestata al tempo di Cicerone, ad allargare il proprio campo semantico in direzione di un valore comprensivo dell’ampio ventaglio di nozioni ad essa aggregate, fino a designare l’intero spettro delle credenze e delle pratiche del popolo romano pertinenti al livello divino. Questo «valore comprensivo» emerge in qualche misura dalle parole conclusive dell’autore quando dichiara: Sed haec oratio omnis fuit non auctoritati meae, sed publicae religionis («Ma tutto questo discorso non si fonda sulla mia autorità bensì sulla religione dello Stato», XXVIII 61), una volta che la religio publica si pone come l’ambito conchiuso in cui rientrano, con la pietas e la sapientia che hanno fatto grande l’imperium dei Romani, tutte le pratiche rituali che ne scandiscono la vita quotidiana.
I. Bekker, L. Dindorf, F. Vogel (edd.), Diodori Bibliotheca Historica, voll. 1-2, Teubner, Leipzig 1888-90 (testo greco). Tr. it., lievemente modificata, di D.P. Orsi (in Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libri I-V (a cura di L. Canfora), Palermo 1988, pp. 262 s.).
24. [1] […] Nei tempi antichi regnava nella Celtica[1] – così si racconta – un uomo famoso che aveva una figlia di statura eccezionale e molto più bella delle altre. Ella, orgogliosa della sua forza fisica e della sua ammirata bellezza, respingeva tutti coloro che aspiravano a sposarla, ritenendo che nessuno fosse degno di lei. [2] Al tempo della sua spedizione contro Gerione, Eracle venne nella terra dei Celti dove fondò la città di Alesia; la fanciulla lo vide e ne ammirò il valore e l’eccellenza fisica, accettò con grande entusiasmo di unirsi a lui e anche i genitori furono d’accordo. [3] Dall’unione con Eracle nacque un figlio di nome Galate che superava di molto gli appartenenti alla sua stessa tribù per virtù d’animo e forza fisica. Diventato adulto e avendo ereditato il regno avito, egli conquistò molte terre confinanti e compì grandi imprese militari. Ormai famoso per il suo coraggio, Galate chiamò i suoi sudditi “Galati” con il proprio nome: da questi poi prese nome tutta la “Galatia”.
Statua di divinità guerriera. Lamina di bronzo sbalzato e occhi di pasta vitrea, I secolo a.C. da Beauvais. Musée Départmental de l’Oise.
Testa (forse di un dio). Argilla, 150 a.C. da Keltské Nálezy (Rep. Ceca).
25. [1] Dopo aver parlato del nome dei Galati, bisogna dire qualcosa anche sul loro territorio. La Galatia è abitata da molte tribù di diversa grandezza: quelle più grandi contano circa 200.000 uomini, mentre le più piccole 50.000; una di queste ultime è legata ai Romani da antica parentela e amicizia che si è conservata fino ai nostri tempi. [2] La regione, situata prevalentemente a settentrione, gode di un clima invernale ed è straordinariamente fredda; durante l’inverno, infatti, nei giorni nuvolosi, cade non pioggia bensì neve abbondante, mentre nei giorni di sereno v’è molto ghiaccio e gelo intenso, a causa del quale i fiumi, ghiacciati, si trasformano da soli in ponti: non soltanto i viandanti occasionali, in piccoli gruppi, li attraversano camminando sulla superficie gelata, ma anche interi eserciti con decine di migliaia di uomini, accompagnati da bestie da soma e da carri ricolmi, vi passano sopra indenni. [3] Attraverso la Galatia scorrono numerosi e ampi fiumi che tagliano variamente la pianura con i loro corsi; gli uni scorrono alimentati da laghi estesissimi, gli altri traggono origine e alimentazione dai monti; gli uni sboccano nell’oceano, gli altri nel nostro mare. [4] Il più grande fra quelli che scorrono fino al nostro mare è il Rodano, il quale nasce dalle Alpi e si getta in mare attraverso cinque bocche. Di quelli che scorrono verso l’oceano, i maggiori sembrano essere il Danubio e il Reno, sul quale, ai nostri tempi, Cesare, detto “il Divo”, gettò con meraviglia di tutti un ponte, vi fece passare a piedi l’esercito e assoggettò i Galati che abitavano oltre il fiume. [5] Nella terra dei Celti vi sono anche molti altri fiumi navigabili ma occorrerebbe troppo tempo per descriverli. Quasi tutti, però, solidificati dal gelo, trasformano i loro letti in ponti ma, poiché il ghiaccio, a causa della sua levigatezza, fa scivolare coloro che li attraversano, i locali vi spargono sopra della paglia e si rendono sicuro il passaggio.
Cernumno assiso in trono fra Apollo e Mercurio. Bassorilievo, calcare, I sec. d.C., da Reims.
26. [1] In gran parte della Galatia si verifica un fenomeno particolare e strano che non ci è sembrato opportuno trascurare. Dalla regione dove il sole tramonta e da settentrione, in estate, soffiano abitualmente dei venti di tale impetuosità e violenza da sollevare in alto da terra pietre grosse tanto da empire una mano e una fitta nube di pietrisco: insomma, questi venti, infuriando con veemenza, strappano agli uomini armi e vesti, strappano ai cavalli i cavalieri. Poiché il clima è vessato dal freddo eccessivo, la Galatia non produce né vino né olio. [2] Perciò, tra i Galati quanti sono sprovvisti di tali prodotti, ricavano dall’orzo una bevanda che si chiama zythos e fanno uso dell’acqua con cui lavano i favi di miele. [3] Ma, amando smodatamente il vino, bevono a sazietà e senza diluirlo quello importato dai mercanti; poiché ne fanno dunque un uso selvaggio, spinti dalla loro passione, si ubriacano e cedono al sonno o a stati di furore. Per questo molti mercanti italici, avidi come sempre, ritengono un dono di Ermes la passione dei Galati per il vino. Essi lo trasportano su barche, attraverso i fiumi navigabili, o su carri, attraverso la pianura, e ne ricevono in cambio un utile incredibilmente elevato: cedono un’anfora di vino e ricevono un ragazzino, scambiando, dunque, la bevanda con un servo.
27. [1] In Galatia manca totalmente l’argento, ma c’è molto oro che la natura fornisce agli abitanti senza bisogno di miniere e patimenti. Infatti, la corrente dei fiumi, che attraversa anse tortuose e, urtando con violenza contro i fianchi dei monti adiacenti e strappando grossi massi, si riempie d’oro. [2] Gli addetti a tale attività lo raccolgono, frantumano le zolle che lo contengono, eliminano la terra con la forza dell’acqua e consegnano l’oro perché sia fuso nelle fornaci. [3] In questo modo accumulano una grande quantità d’oro e se ne servono come ornamento non solo le donne, ma anche gli uomini. Portano, infatti, intorno al collo, anelli di grande valore e persino corazze d’oro. [4] Presso i Celti del Nord accade un fenomeno particolare e strano riguardo ai recinti dedicati agli dèi: nei templi e nei santuari che si trovano sul territorio, giace abbandonato molto oro che è stato offerto agli dèi; nessuno degli abitanti lo tocca, impediti da timore religioso, per quanto i Celti siano persino troppo avidi di ricchezza.
Torque gallico. Bronzo e oro, 480 a.C. ca. da Vix (Francia). Historisches Museum Bern.
28. [1] I Galati sono alti di statura, muscoli flaccidi, pelle bianca, capelli naturalmente biondi ed essi, anche con artifici, sogliono accentuare la particolarità naturale del colore. [2] Lavano, infatti, frequentemente le chiome con acqua di calce e li tirano indietro dalla fronte alla sommità della testa e già fino alla nuca, così da sembrare simili nell’aspetto ai Satiri o a Pan: a seguito di questo trattamento, i capelli diventano tanto pesanti da non differire in nulla dalla criniera dei cavalli. [3] Alcuni radono la barba, altri la fanno un po’ crescere; i nobili radono le guance, lasciando crescere i baffi in modo tale da nascondere la bocca. Perciò quando mangiano, i baffi si riempiono di cibo, quando bevono, la bevanda passa come attraverso un filtro. [4] Tutti mangiano seduti non su sedili, ma per terra, adoperando come tappeti pelli di lupo o di cane. Sono serviti dai più giovani, maschi e femmine, che abbiano l’età adatta. Vicino a loro vi sono camini traboccanti di fuoco, con calderoni e spiedi pieni di pezzi di carne. Ricompensano gli uomini valorosi, donando loro i pezzi di carne migliori: e così il Poeta presenta Aiace, onorato dai capi quando riuscì vincitore nel duello con Ettore: «il filetto allungato lo donò in premio ad Aiace»[2]. [5] Invitano anche gli stranieri ai banchetti e dopo il pranzo chiedono loro chi siano e di che cosa abbiano bisogno. Anche durante il convito, venuti a diverbio per motivi occasionali, sono soliti sfidarsi e affrontarsi in duello, senza dare alcuna importanza alla morte. Presso di loro, infatti, si è imposta la dottrina pitagorica, [6] secondo la quale, le anime degli uomini sono immortali e, dopo un certo numero di anni, l’anima penetra in un altro corpo e torna a vivere. Perciò alcuni, in occasione di esequie funebri, gettano sul rogo le lettere che hanno scritto ai loro parenti morti, convinti che i defunti un giorno potranno leggerle.
29. [1] Nei viaggi e in battaglia essi si servono di cocchi a due cavalli, sui quali viaggiano un auriga e un guerriero. Quando in guerra s’imbattono in cavalieri nemici, lanciano contro di loro il giavellotto e, poi, scesi dal carro, li affrontano con la spada. [2] Alcuni di loro disprezzano a tal punto la morte da farsi incontro al pericolo nudi con addosso soltanto una fascia. Si fanno accompagnare anche da assistenti di nascita libera, scelti fra i poveri, dei quali si servono in combattimento come aurighi e scudieri. In occasione delle battaglie campali, sono soliti spingersi oltre la prima linea dello schieramento e sfidare a duello i più valorosi fra i nemici, scuotendo le armi per spaventare gli avversari. [3] Quando qualcuno accetta di combattere, celebrano con canti il coraggio degli avi e vantano il proprio valore; ingiuriano e umiliano l’avversario e, in generale, cercano di fargli perdere le staffe con insulti prima del combattimento. [4] Tagliano le teste dei nemici caduti in battaglia e le appendono ai finimenti del cavallo; consegnano ai servi le armi insanguinate e le portano via come bottino, innalzando un peana e un canto di vittoria; appendono con chiodi in casa queste prede di guerra, come quelli che hanno ucciso delle belve feroci a caccia. [5] Imbalsamano con olio di cedro le teste dei nemici più illustri e le custodiscono con cura in casse, mostrandole agli ospiti e vantandosi se qualcuno degli avi o i padri o loro stessi non vollero accettare il lauto riscatto offerto per la testa: dicono che alcuni di loro vadano orgogliosi per non aver accettato una quantità d’oro pari al peso della testa, mostrando così una certa barbarica magnitudo animi. Eppure, se è atto nobile non vendere la prova tangibile del proprio valore guerriero, è parimenti da belve continuare a far guerra a un morto che appartenga alla propria stirpe.
Illustrazione ricostruttiva di un tipico carro da guerra celta. A. McBride.
30. [1] Fanno uso di vestiti terrificanti: tuniche tinte e ricamate con vari colori, pantaloni che essi chiamano brachæ; sulle spalle assicurano con fibbie dei mantelli a righe, pesanti d’inverno e leggeri d’estate, sui quali alternano fittamente quadrati di diversi colori. [2] Usano come armi scudi alti quanto un uomo, ornati in modo vario e particolare; alcuni di essi presentano figure bronzee di animali ben lavorate a sbalzo, non a scopo ornamentale, ma al fine di proteggere. Indossano sul capo elmi di bronzo, ornati con grandi figure a sbalzo, che danno un aspetto di grande imponenza a chi li usi: ad alcuni elmi sono applicate, in modo da formare un tutt’uno, delle corna, mentre su altri sono rappresentate teste d’uccello o di quadrupede. [3] Hanno trombe di tipo particolare e barbarico: soffiandovi dentro, emettono un suono aspro, adatto alla mischia di guerra. Gli uni portano corazze lavorate a maglia di ferro, altri ritengono sufficiente quanto hanno ricevuto dalla natura e vanno nudi in battaglia. Hanno spade non corte, ma lunghe, legate con catene di ferro o di bronzo e portate a destra. Alcuni hanno sulle tuniche cinture dorate o argentate. [4] Impugnano delle aste (loro le chiamano lanciæ), che hanno punte di ferro lunghe anche più di un cubito e larghe poco meno di due palmi. Le loro spade non sono più piccole dei giavellotti usati da altri popoli, i loro hanno la punta più larga di quella delle spade; alcuni giavellotti sono stati fabbricati con la punta dritta, altri presentano una ripiegatura tortuosa su tutta la punta, affinché non solo taglino per effetto del colpo, ma persino lacerino le carni e, tirando indietro l’asta, squarcino la ferita.
Spade hallstattiane. Disegno ricostruttivo di J.G. Ramsauer.
31. [1] Essi sono terrificanti nell’aspetto e hanno una voce sorda e molto aspra; sono di poche parole e oscuri nelle conversazioni [e alludono prevalentemente per sineddoche], chiacchieroni ed esagerati quando si tratti di aumentare i propri meriti e di sminuire quelli degli altri; sono spavaldi, minacciosi e teatrali, acuti nel pensare, disposti naturalmente ad apprendere. [2] Presso di loro vi sono anche poeti lirici, che chiamano “bardi”. Costoro, cantando con strumenti simili alle lire, celebrano alcuni personaggi e vituperano altri. Vi sono poi filosofi e teologi che godono di straordinario onore e si chiamano “druidi”. [3] Si servono anche d’indovini che ritengono degni di grande rispetto: questi predicono il futuro osservando il volo degli uccelli e sacrificando vittime; tutto il popolo è loro soggetto. Osservano un’usanza strana e terrificante, soprattutto quando devono indagare su qualche importante decisione: offrono in sacrificio un uomo e lo colpiscono con un coltello poco sopra il diaframma; l’uomo, colpito, cade a terra: osservando come cade, come le membra si contraggono, come scorra il sangue, gli indovini comprendono il futuro, mantenendosi fedeli in ciò a un modo di indagare antico e da molto tempo praticato. [4] È invalso l’uso presso di loro di non offrire sacrifici in assenza di un filosofo: a loro avviso, infatti, bisogna offrire primizie in ringraziamento agli dèi per mezzo di persone esperte della natura divina e che parlano – per così dire – la stessa lingua degli dèi; ritengono pure che occorra chiedere i favori con l’aiuto di tali esperti. [5] Non solo in pace, ma anche in tempo di guerra obbediscono ciecamente ai filosofi e ai poeti lirici, e obbediscono non solo agli amici ma anche ai nemici. Spesso, in occasione di battaglie campali, quando le armate si stanno avvicinando con le spade sguainate e le lance protese, essi avanzano nel mezzo e li fermano, come se stessero incantando delle belve. Così, anche fra i barbari più selvaggi, il furore cede alla sapienza e Ares ha rispetto delle Muse.
Carnyx. Bronzo, II-I sec. a.C. dal santuario di Tintignac (Francia).
32. [1] È utile fare una distinzione ignorata da molti. Si chiamano Celti quelli che abitano nella regione interna a nord di Marsiglia, lungo le Alpi e sopra i Pirenei; si chiamano invece Galatai, quelli che sono stanziati al di sopra della «zona celtica», verso le terre settentrionali, sia lungo l’Oceano, sia lungo il monte Ercinio, e tutti gli altri di seguito fino alla Scizia. I Romani, invece, comprendono insieme sotto un’unica denominazione tutti questi gruppi etnici e li chiamano complessivamente Galli. [2] Le donne dei Galati non solo sono simili agli uomini nell’imponenza fisica ma possono competere con loro anche in coraggio. I loro bambini, quando nascono, sono per lo più di carnagione chiara; con il passare degli anni mutano colore fino ad assumere quello dei padri. [3] Essendo particolarmente selvaggi quelli di loro che abitano nel Nord e quelli che confinano con la Scizia, che alcuni di loro – si dice – mangino uomini, come i Britanni che popolano l’isola chiamata Iris[3]. [4] Ovunque sono rinomati il loro coraggio e la loro ferocia e, infatti, secondo alcuni, i popoli chiamati «Cimmeri», che in tempi antichi scorrazzarono per l’Asia intera, erano proprio i Galati, poiché la denominazione «Cimmeri» si corruppe presto in quella di «Cimbri», nome con il quale sono chiamati ancor oggi. Fin da tempi remoti essi amano assalire, depredare i territori altrui e disprezzare tutti. [5] Sono proprio loro, infatti, che presero Roma, saccheggiarono il santuario di Delfi, imposero tributi a gran parte dell’Europa e, persino, a non piccola parte dell’Asia, che si stanziarono sul territorio degli sconfitti e furono chiamati «Ellenogalli», per i loro stretti rapporti con i Greci, che infine distrussero molti e grandi eserciti dei Romani. [6] Proprio perché così selvaggi, essi si macchiano di rara empietà anche quando compiono sacrifici: dopo aver tenuto in prigionia i delinquenti per cinque anni, infatti, li impalano in onore degli dèi; alcuni di costoro vengono uccisi insieme con gli animali catturati in guerra, oppure li bruciano, o li sopprimono con qualche altro supplizio. [7] Pur avendo donne di gradevole aspetto, non se ne curano per niente ma vanno pazzi – oltre ogni dire – per le relazioni omosessuali. Hanno l’abitudine di dormire per terra o su pelli di animali e di voltolarsi con due compagni, uno per parte. La cosa più strana di tutte è la seguente: incuranti del decoro, concedono facilmente ad altri il proprio corpo nel fiore dell’età né ritengono turpe un simile atto, considerando piuttosto disonorevole che qualcuno non accetti il favore concesso quando essi siano disposti a compiacerlo.
*****
Note:
[1] Κελτική sta per Γαλατία; con questo termine l’autore si riferisce alla regione chiamata Gallia dai Romani. I Γαλάται sono dunque i Galli.
I. Bekker, L. Dindorf, F. Vogel (edd.), Diodori Bibliotheca Historica, voll. 1-2, Teubner, Leipzig 1888-90 (testo greco). Tr. it. D.P. Orsi (in Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libri I-V (a cura di L. Canfora), Palermo 1988, pp. 271 s.).
Coppia di danzatori (dettaglio di un affresco murale), dalla Tomba del Triclinium, Necropoli di Monterozzi (Tarquinia). 470 a.C. ca. Museo Nazionale Etrusco di Tarquinia.
Giudice e indovino (dettaglio sulla parete destra), dalla Tomba degli Auguri, Necropoli di Monterozzi (Tarquinia).
Ci rimane da parlare degli Etruschi. Costoro anticamente, distinguendosi per coraggio, conquistarono molte terre e fondarono molte e importanti città. Parimenti, possedendo una potente flotta ed esercitando il dominio sul mare per lungo tempo, ottennero che il mare che bagna l’Italia prendesse da loro il nome di Tirreno; perfezionarono l’armamento delle forze di terra e inventarono lo strumento che si chiama salpinx, utilissimo in guerra, che da loro prese il nome di “tromba tirrena”; crearono i simboli del potere per i condottieri insigniti del comando, assegnando loro littori, il seggio d’avorio e la toga orlata di porpora; nelle abitazioni inventarono il peristilio, una comodità contro gli schiamazzi delle turbe dei servi. I Romani adottarono la maggior parte di questi ritrovati e, dopo averli perfezionati, li introdussero nella loro società civile. [2] Gli Etruschi elaborarono ulteriormente le lettere, la scienza della natura e quella divina e, più di tutti gli altri uomini, praticarono l’osservazione del fulmine; perciò, anche ai nostri giorni, coloro che comando su quasi tutta la terra (= i Romani) ammirano questi uomini e se ne servono come interpreti dei segni forniti dai fulmini. [3] Gli Etruschi abitano una terra che produce tutto e la coltivano con cura: hanno, perciò, prodotti agricoli in abbondanza, non solo sufficienti per il sostentamento ma tanti da permettere un ricco godimento e una vita lussuosa. Imbandiscono infatti due volte al giorno mense sontuose e fornite di tutto quanto ben s’addica ad un lusso smodato; preparano letti ornati con coperte ricamate, tengono a loro disposizione coppe d’argento in grande quantità e di ogni tipo, nonché un numero non piccolo di schiavi addetti al servizio, dei quali gli uni spiccano per bellezza, gli altri sono adorni di vesti troppo preziose per essere adatte a chi sia di condizione servile. [4] Presso gli Etruschi non solo gli therapontes ma anche la maggior parte dei liberi possiede abitazioni private di ogni tipo. Per dirla in breve: gli Etruschi hanno rinunciato all’ardimento che era oggetto di emulazione presso di loro sin dai tempi antichi e, vivendo dediti al bere e ad un’oziosità indegna di uomini, hanno con giusta ragione perduto la fama che gli avi si erano acquistati in guerra. Soprattutto la fertilità della terra è responsabile della loro vita lussuosa: abitando una regione che produce tutto ed è fertilissima, essi accumulano grandi quantità di ciascun prodotto. In conclusione, l’Etruria, che è fertilissima, si estende su aperte pianure ed è disseminata di alture collinari coltivabili; è poi moderatamente umida non solo nella stagione invernale ma anche nel periodo estivo.
Antefissa in terracotta policroma raffigurante un sileno e una menade danzanti. Antefissa etrusca. Inizi del V secolo a.C. Jean Paul Getty Museum.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.