La «religio» a Roma nel I secolo a.C.

di G. SFAMENI GASPARRO, Introduzione alla storia delle religioni, Roma-Bari 2011, pp. 28-45.

 

[…] Quando Lattanzio nelle Divinae institutiones, con esplicita intenzione polemica oppone all’etimologia ciceroniana del termine religio da relegere quella che invece lo fa derivare da religare non si apre certo un dibattito su un problema filologico quanto piuttosto un confronto/scontro su due diverse maniere di porsi dinnanzi a quel livello «altro» dell’uomo che – dati i contesti culturali che utilizzano il termine deus/dii per designare le «potenze» efficaci che popolano il livello in questione – legittimamente definiremo del «divino». Cicerone (106-43 a.C.) infatti, in un famoso passo di quel trattato – De natura deorum, composto nel 45 a.C. – in cui si affrontano e si misurano criticamente alcune fra le più autorevoli espressioni del pensiero filosofico del tempo interessato al tema enunciato, aveva definito i religiosi ex relegendo, essendo costoro qui autem omnia, quae ad cultum deorum pertinerent, diligenter retractarent et tamquam relegerent («coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere», De nat. deor. II 28, 72). In conformità ai numerosi luoghi dell’opera in cui, secondo un uso ampiamente attestato nelle fonti anteriori e contemporanee, religio interviene quale termine alternativo di cultus deorum (cfr. De nat. deor. I 41, 11542, 118; II 2, 5 e II 3, 8: […] religione id est cultu deorum) e, spesso nella forma del plurale ([…] caerimonias religionesque publicas sanctissime tuendas arbitror, «ritengo che si debbano osservare scrupolosamente le cerimonie e il culto pubblico», I 22, 61), designa le varie pratiche rituali che scandivano la vita della comunità cittadina nella Roma repubblicana, Cicerone spiega l’attributo di religiosus in rapporto all’individuo che assuma un atteggiamento di accurato esame di tutto quel complesso di azioni umane che hanno come oggetto quegli esseri sovrumani, dotati di potenza e di capacità di intervento nel mondo, che nel suo ambiente culturale sono gli dèi. La derivazione proposta dal verbo relegere dell’aggettivo religiosus e, indirettamente, dell’etimo religio illumina pertanto l’aspetto preminente e qualificante dell’orizzonte religioso dell’antica Roma, ossia quello delle osservanze rituali che l’articolazione annuale del calendario festivo rende chiaramente manifesto.

scena di attività pubblica, con sacrificio e census. bassorilievo, marmo, ii sec. a.c., dall_ara di domizio enobarbo (campo marzio, roma). musée du louvre
Scena di sacrificio. Particolare del bassorilievo dell’Altare di Domizio Enobabo (detto ‘Fregio del censo’, marmo, II sec. a.C., dal Campo Marzio (Roma). Paris, Musée du Louvre.

Nel passo citato del De natura deorum (II 28, 72) si propone anche l’opposizione tra superstitiosus e religiosus, quindi la contrapposizione tra le nozioni di superstitio e di religio alle quali i due aggettivi rimandano. Esso si situa in un’ampia argomentazione elaborata dallo stoico Balbo a illustrazione e difesa delle posizioni della propria scuola, tra cui fondamentale quella efficacemente sintetizzata nella formula secondo cui «il mondo è dio e tutta la massa del mondo è preservata dalla natura divina» ([…] deum esse mundum omnemque vim mundi natura divina contineri, II 11, 30), ossia la nozione del cosmo come totalità dell’essere, insieme razionale («il principio guida che i Greci chiamano hegemonikón», II 11, 30) e materiale, e dell’universale Provvidenza divina come principio di preservazione dell’ordine cosmico. Se dunque per lo stoico Balbo l’assunto razionalmente fondato è quello che ammette la divinità del mondo, al cui riconoscimento l’uomo perviene attraverso la contemplazione dei moti celesti, egli non manca di giustificare anche le tradizioni religiose del proprio ambiente culturale, ricorrendo a varie teorie interpretative correnti all’epoca, come quella della «divinizzazione» degli elementi naturali in quanto apportatori di benefici benefattori dell’umanità (II 23, 60). Segue quindi l’enumerazione di alcune fra le grandi divinità del pantheon romano, quali Cerere e Libero, come esempi di questo processo di identificazione fra elementi benefici della natura (le messi, il vino) e i personaggi oggetto del culto tradizionale romano. Un’altra categoria di divinità appare poi quella che, secondo i presupposti della teoria elaborata da Evemero di Messina nel III secolo a.C. – definita appunto evemerismo –, sarebbe derivata dalla «divinizzazione» di antichi uomini, autori di invenzioni benefiche per la vita umana (II 24, 62). Se, tuttavia, il personaggio mostra di ritenere giustificate e accettabili queste forme di «creazione» che sono alla base della tradizione religiosa pubblica di Roma, assai duro è il suo giudizio su una terza forma di «invenzione» che, pur fondata su un’interpretazione di carattere fisico, ossia pertinente a fenomeni naturali, è tuttavia caratterizzata da un incontrollato sviluppo mitico, opera delle fabulae dei poeti. «Da un’altra teoria, di carattere fisico, derivò una grande moltitudine di dèi; essi, rivestiti di sembianze e forme umane, fornirono materia alle leggende dei poeti, ma hanno riempito la vita umana di ogni forma di superstizione» (II 24, 63). La superstitio, dunque, si propone come conseguenza di un’errata concezione del divino, in questo caso connessa con una falsa interpretazione della natura e attività di quegli elementi cosmici che pure sono espressione, funzionalmente determinata, della divinità del grande Tutto. «Vedete dunque – conclude Balbo dopo un’ampia esemplificazione del tema – come da fenomeni naturali scoperti felicemente e utilmente si sia pervenuti a dèi immaginari e falsi. E questo ha generato false credenze ed errori, causa di confusione e superstizione degne quasi delle vecchiette (…superstitiones paene aniles)» (II 28, 70).

Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico
Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico.

 

Da questa netta condanna degli dèi commentici e ficti creati dalla fantasia dei poeti, peraltro, non si deduce un rifiuto della tradizionale impalcatura del mondo divino oggetto della pratica religiosa romana. Al contrario, essa è salvaguardata proprio dall’eliminazione dell’apparato mitico e restituita alla sua integrità e al suo corretto significato, con la conseguente riaffermazione dell’obbligo, per il cittadino romano, dell’osservanza corretta di tale pratica, secondo la tradizione fissata dagli antenati: «Una volta disprezzate e rifiutate queste leggende – dichiara Balbo –, si potranno comprendere l’individualità, la natura e il nome tradizionale degli dèi che pervadono ciascun elemento: Cerere la terra, Nettuno il mare, altri dèi altri elementi. Questi sono gli dèi che dobbiamo venerare e onorare». E conclude: «Ma il culto migliore degli dèi e anche il più casto, il più santo, il più devoto, consiste nel venerare sempre gli dèi con mente e con voce pure, integre e incorrotte. Non solo i filosofi ma anche i nostri antenati hanno distinto la superstizione dalla religione. Quelli che tutti i giorni pregavano gli dèi e facevano sacrifici perché i loro figli sopravvivessero a loro stessi, furono chiamati superstiziosi, parola che in seguito assunse un significato più ampio; invece coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere, come elegante deriva da eligere (scegliere), diligente da diligere (prendersi cura di), intelligente da intellegere (comprendere); in tutti questi termini c’è lo stesso senso di legere che è in religiosus. Così superstizioso e religioso diventarono rispettivamente titolo di biasimo e di lode» (II 28, 7172).

Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C., dal Vespasianeum di Pompei.
Scena di sacrificio. Bassorilievo, marmo, ante 79 d.C., dal Vespasianeum di Pompei.

 

I superstiziosi sono definiti tali in quanto caratterizzati dall’atteggiamento tipico di coloro che non fanno altro che immolare vittime agli dèi e sacrificare per aver garantita la sopravvivenza dei propri figli. Il termine superstitiosus è dunque connesso etimologicamente con superstes (plur. superstites) e definirebbe quanti sono continuamente assillati dallo scrupolo religioso, quindi dalla superstitio, e si affannano a pregare gli dèi e a compiere continui sacrifici perché temono per la salvezza dei figli. È sottolineato dunque in primo luogo il timore che è alla base di questo atteggiamento: non il corretto culto degli dèi ispira questi individui ma il timore di ricevere dei danni. Al contrario i religiosi sono detti tali dal verbo relegere, qui inteso nel senso di «riconsiderare», «considerare attentamente», ritornare con cura su quanto già si è osservato (legere): essi sono pertanto coloro che praticano in maniera diligente a accurata tutti gli atti che riguardano il culto degli dèi. Ne risulta che religio è in primo luogo un dato soggettivo, nel senso che esprime un atteggiamento dell’uomo, che da numerose attestazioni risulta essere quello della reverenza, del rispetto nei confronti delle potenze divine, e talora anche dello «scrupolo» ovvero del timore.

Scena di sacrificio. Illustrazione di G. Rava.
Scena di sacrificio. Illustrazione di G. Rava.

Di fatto lo stesso termine religio presenta un’intrinseca ambivalenza, soprattutto nelle fasi più antiche del suo uso, di cui si dimostra consapevole, ad esempio, un autore romano del II secolo d.C., Aulo Gellio (ca. 130-158 d.C.). Nell’opera miscellanea dal titolo Le notti attiche, l’autore registra l’accezione derogatoria del termine religiosus quale sarebbe stato usato in un verso di Nigidio Figulo, esponente dei circoli colti romani del I secolo a.C. e amico di Cicerone. L’autore, definito da Aulo Gellio «fra i più dotti accanto a Marco Varrone», nell’opera Commenti grammaticali aveva citato un verso ex antiquo carmine («da un antico poema»), che recitava: religentem esse oportet, religiosus ne fuas («devi essere accurato osservante, per non essere bigotto»). A commento Nigidio Figulo avrebbe affermato: «Il suffisso –osus in tal genere di vocaboli, come vinosus, mulierosus, religiosus, sta a significare una smodata abbondanza della qualità di cui si tratta. Perciò religiosus veniva detto chi professava una religiosità eccessiva e superstiziosa (qui nimia et superstitiosa religione sese alligauerat), ed era insisto nel vocabolo un concetto di disapprovazione» (IV 9).

Orante con offerte. Bronzetto etrusco, 480 a.C., dalla stipe votiva di Monte Acuto. Museo Civico Archeologico di Bologna.
Orante con offerte. Bronzetto etrusco, 480 a.C., dalla stipe votiva di Monte Acuto. Museo Civico Archeologico di Bologna.

Ne risulta che le due nozioni di superstitio e religio potevano addirittura convergere a definire l’atteggiamento dell’uomo che eccede nella pratica e nel sentimento del rapporto con il divino. Si configura quello che agli occhi dell’osservatore moderno appare come un ossimoro, ovvero la possibilità di una superstitiosa religio. Tuttavia, la «contraddizione in termini» non sussiste nella prospettiva storica in questione, in cui religiosus presenta una complessa e ambivalente accezione. Di fatto Aulo Gellio oppone al discorso di Nigidio «un diverso significato di religiosus: irreprensibile e rispettoso e che regola la propria condotta su leggi e scopi ben definiti». Sottolinea peraltro l’ambivalenza dell’aggettivo, adducendo l’opposto significato che esso assume nella designazione di religiosus dies e religiosa delubra e afferma: «Si dicono infatti dies religiosi i giorni che un triste presagio rende di mala fama o di vietato impiego, nei quali non si possono offrire sacrifici o iniziare nuovi affari». Aggiunge subito che «lo stesso Marco Tullio [Cicerone] nell’orazione Sulla scelta dell’accusatore parla di religiosa delubra (santuari sacri), non intendendo templi tristi per cattivo presagio, ma che ispirano rispetto per la loro maestà e santità». Quindi appella all’autorità di Masurio Sabino, famoso giurista di età augustea, per ribadire la valenza positiva dell’aggettivo: «Religiosus è qualcosa che per suo carattere sacro è lontano e separato da noi, e il vocabolo deriva da relinquo (separare) così come caerimonia (venerazione) da careo, astenersi».

Si conferma come già nell’antico contesto romano si proponevano delle etimologie di religio/religiosus in funzione dell’una o dell’altra accezione del termine che si intendeva spiegare. Lo stesso Aulo Gellio procede in questa direzione concludendo: «Secondo questa interpretazione di Sabino, i templi e i santuari sono chiamati religiosa perché ad essi si accede non come folla indifferente e distratta, ma dopo una purificazione e nella dovuta forma, e devono essere più riveriti e temuti (et reverenda et reformidanda) che non aperti al volgo». Si ripropongono pertanto i due convergenti aspetti del rispetto e del timore peculiari della nozione in discussione, entrambi qui assunti in accezione positiva.

giovane in atteggiamento votivo. bronzetto, 400-350 a.c. london, british museum
Giovane in atteggiamento votivo. Bronzetto, 400-350 a.C. London, British Museum.

 

Anche nel passo ciceroniano in esame essi appaiono valutati nel loro significato positivo, in quanto mantenuti entro i limiti di un equilibrato rapporto fra l’uomo e la divinità. Infatti si pone una stretta connessione tra l’atteggiamento dell’uomo religiosus e l’osservanza di atti rituali che hanno come oggetto gli dèi, figure di un livello «altro», superiore rispetto all’uomo, gravido di potenza. In conformità con la prospettiva romana di tipo politeistico, sono evocati molti dèi, sicché si parla di un cultus deorum, ossia di un’osservanza che si manifesta nella prassi rituale diligentemente osservata, ma senza quell’eccesso di scrupolo timoroso che invece caratterizza il superstizioso e che lo porta a invocare gli dèi e a sacrificare loro quotidianamente, in deroga della tradizione. Infatti a Roma sia le pratiche del culto privato, familiare, sia quelle del culto pubblico non si compiono per iniziativa e scelta dei singoli, ma secondo un preciso ordine calendariale stabilito e sorvegliato dallo Stato.

Per meglio chiarire tale accezione della religio romana, è opportuno illustrare il contesto generale in cui si situa una netta affermazione di Cotta relativa alla sua posizione nel dibattito filosofico in quanto pontefice. Egli infatti era stato chiamato a fare da arbitro tra le opposte teorie, stoica ed epicurea, che sostanzialmente divergevano sul tema della provvidenza divina, tema di rilevanza fondamentale per la pratica religiosa. Se infatti sotto il profilo ideologico le due posizioni erano componibili, in quanto anche gli epicurei ammettevano l’esistenza degli dèi come gli stoici, rimaneva una differenza sostanziale tra i postulati delle due scuole filosofiche, poiché la dottrina epicurea negava che gli dèi si preoccupino delle cose umane e intervengano dunque nella vita del cosmo e dell’umanità. La posizione epicurea, pertanto, rendeva vana la dimensione che per l’uomo romano era fondamentale, ossia la pratica cultuale, intesa a mettere in comunicazione uomini e dèi, rendendo omaggio a questi ultimi nell’attesa dei loro benefici. Per gli stoici, invece, gli dèi sono inseriti in un ordine universale, retto dalla legge della ragione (lógos/ratio) e dalla provvidenza (pronoia/providentia). Sebbene gli dèi delle tradizioni politeistiche comuni risultassero in qualche modo superati nella generale prospettiva provvidenzialistica postulata dagli stoici, e quindi a livello filosofico potessero essere considerati scarsamente rilevanti, nella vita pratica essi mantenevano un ruolo importante. Gli stoici infatti – come si è visto – ammettevano la legittimità, anzi l’opportunità del mantenimento delle pratiche cultuali tradizionali di diversi popoli.

Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).
Filosofo. Affresco, I sec. d.C., dalle Terme dei Sette Sapienti (Ostia).

L’importanza di questo tema nella visione di Cicerone è chiaramente sottolineata ad apertura dell’opera, risultando anzi la motivazione fondamentale della sua composizione, presentata come fedele riproduzione della «discussione assai accurata e approfondita sugli dèi immortali» (De nat. deor. I 6, 15) che l’autore dichiara svoltasi nella casa di Cotta, appunto tra quest’ultimo, il senatore Caio Velleio e Quinto Lucilio Balbo, discussione cui egli stesso avrebbe assistito in un periodo non precisato, ma che sembra situabile nel 76 a.C. È chiaro comunque che, al di là di un eventuale riferimento a una circostanza storica, Cicerone intende esemplificare, con la messa in scena di tre autorevoli protagonisti della vita politica e culturale di Roma, il dibattito sulla natura del divino in corso nei circoli colti cittadini. Infatti l’autore, preso atto della grande differenza di opinioni dei filosofi sul tema teologico, nota l’importanza decisiva in tale dibattito del riconoscimento o meno della capacità di intervento degli dèi nella vita cosmica e umana. Se è esatta l’opinione di coloro che, come gli epicurei, negano la provvidenza, si chiede Cicerone, «quale devozione può esistere, quale rispetto [per il culto], quale religione?» (Quae potest esse pietas quae sanctitas quae religio?, I 2, 3).

Pietas, sanctitas e religio sono dunque i tre fondamentali atteggiamenti umani che caratterizzano la comunicazione con il livello divino, ritenuta possibile solo quando da parte di quest’ultimo sia dato «rispondere» efficacemente all’interlocutore umano. «Tutti questi sono tributi – dichiara egli infatti – che dobbiamo rendere alla maestà degli dèi in purezza e castità, solo se essi sono avvertiti dagli dèi e se vi è qualcosa che gli dèi hanno accordato al genere umano; se, al contrario, gli dèi non possono né vogliono aiutarci, se non si curano affatto di noi né badano alle nostre azioni e non vi è nulla che possa giungere alla vita umana da loro, per quale ragione dovremmo venerare, onorare, pregare gli dèi immortali?». Il discorso si collega direttamente alla domanda iniziale, definendo natura e significato delle qualità umane sopra evocate: «La pietà, d’altra parte, come le altre virtù, non può esistere sotto l’apparenza di una falsa simulazione; e assieme alla pietà inevitabilmente scompaiono la riverenza e la religione; una volta eliminati questi valori, si verificano uno sconvolgimento della vita e una grande confusione; e sono propenso a credere – conclude – che, una volta eliminata la pietà verso gli dèi, vengano soppressi anche la lealtà e i rapporti sociali del genere umano e la giustizia, la virtù per eccellenza» (I 2, 34).

Pietas, sanctitas e religio, tipiche virtutes che definiscono il rapporto uomini-dèi, risultano essere anche i fondamenti imprescindibili dell’intera vita sociale: la loro eliminazione, infatti, si traduce agli occhi di un Romano nell’eliminazione della fides e della iustitia che sono alla base dell’ordinata convivenza umana. Ciò accade quando, negata la provvidenza divina, si rende inutile praticare quella via di comunicazione con gli dèi che è rappresentata dalla concreta attività cultuale: cultus, honores, preces sono infatti i termini essenziali in cui si realizzano pietas, sanctitas e religio, quali attributi dell’uomo in quanto cittadino, membro di una comunità socialmente organizzata.

Sacerdote di Saturno. Statua, III sec. d.C. ca., da Thugga (Dougga). Tunis, Musée National du Bardo.
Sacerdote di Saturno. Statua, III sec. d.C. ca., da Thugga (Dougga). Tunis, Musée National du Bardo.

Tenuto conto di questa sorta di «manifesto» iniziale delle intenzioni di Cicerone e della sua profonda convinzione del carattere civico del complesso dei comportamenti e delle credenze dell’uomo religiosus, appare perfettamente coerente con tale visione l’argomentazione che il pontefice Cotta premette a quella che sarà l’enunciazione dei suoi convincimenti filosofici. Egli, chiamato a prendere posizione nel dibattito, è invitato da Lucilio Balbo in maniera decisa a tenere in considerazione il fatto di essere «un cittadino autorevole e un pontefice» (II 67, 168). Egli non si sottrae a questo invito e dichiara: «Ma prima di trattare l’argomento, premetterò poche riflessioni su di me. Sono non poco influenzato dalla tua autorevolezza, Balbo, e dal tuo discorso che nella conclusione mi esortava a ricordare che sono Cotta e un pontefice: il che penso volesse dire che io devo difendere le credenze sugli dèi immortali che ci sono state tramandate dagli antenati, i riti, le cerimonie, le pratiche religiose (religiones)» (III 2, 5).

Dunque Cotta entra nel suo ruolo di rappresentante autorevole dello Stato. Se nel dibattito filosofico tra le varie scuole egli è intervenuto manifestando delle notevoli riserve su alcuni aspetti delle credenze tradizionali, ad esempio proprio nei confronti della validità delle pratiche divinatorie, quando si tratta di esprimere la propria opzione in quanto esponente ufficiale del culto di Stato, non può sottrarsi agli obblighi inerenti alla propria funzione. Come pontefice, quindi, egli deve prendere posizione netta nei confronti delle credenze tradizionali (opiniones, quas a maioribus accepimus de dis immortalibus) e soprattutto difendere la pratica del culto (sacra, caerimoniae, religiones).

Appare il plurale (religiones) secondo un uso molto frequente per indicare, all’interno della stessa tradizione romana, il complesso dei sacri riti compiuti secondo le norme stabilite dai maiores. Nel linguaggio romano il plurale religiones non si oppone al singolare religio, nel senso moderno di una molteplicità e diversità di complessi autonomi e autosufficienti, di credenze e di pratiche religiose. Infatti, il termine religio non indicava ciò che comunemente si intende oggi nella tradizione occidentale di matrice cristiana, ossia un complesso autonomo e articolato in cui rientri un elemento di «credenza» e un elemento di «culto», ovvero una dimensione pratico-operativa. Come già constatato, religio è un atteggiamento interiore e un’osservanza religiosa, quindi sostanzialmente attiene alla pratica cultuale. Sebbene religio sia spesso connessa con le nozioni di pietas e di iustitia (cfr. De nat. deor. I 2, 34; I 41, 116), oltre che con una certa opinione o sapienza sugli dèi, non si identifica con nessuna di queste prerogative né le ingloba in sé. La circostanza stessa che nel linguaggio ciceroniano, sia nel De natura deorum sia nel De divinatione e in altre opere, sia stabilito un rapporto, spesso molto stretto, tra religio e pietas, tra religio e iustitia e si parli anche di opiniones, ossia di una certa maniera di considerare gli dèi, ovvero di una saggezza in riferimento alla religio, conferma che tali nozioni, pur connesse, non sono inglobate nella nozione di religio.

Statua di Augusto in veste di Pontifex Maximus (detta 'l'Augusto di Via Labicana'). Marmo greco e italico, 90-100 d.C. Roma, Museo Nazionale di P.zzo Massimo alle Terme.
Statua di Augusto in veste di Pontifex Maximus (detta ‘l’Augusto di Via Labicana’). Marmo greco e italico, 90-100 d.C. Roma, Museo Nazionale di P.zzo Massimo alle Terme.

Anticipando la conclusione del nostro discorso, diremo che religio ha una connessione primaria e qualificata con la pratica religiosa, cioè con il culto, indicando per i Romani sostanzialmente la trama articolata di rapporti fra l’uomo e gli dèi quale si realizza nella pratica rituale. In altri termini, la religio non era una questione di «fede», non implicava da parte dell’uomo l’accettazione di un corpus di dottrine in cui credere. L’individuo poteva avere opinioni anche diverse sul tema della natura degli dèi e delle loro funzioni, ma per essere homo religiosus e civis Romanus a tutti gli effetti doveva compiere certi riti, quelli appunto prescritti dalle usanze tradizionali della città. Ciò che definisce il religiosus è la pratica di quanto attiene al culto degli dèi: egli deve considerare con estrema attenzione, con diligenza, e ovviamente poi praticare, il complesso dei riti comunitari. L’homo religiosus romano, dunque, non è colui che «crede», ma colui che celebra, nelle forme dovute, i riti tradizionali. Su questa nozione si rivelerà netta la differenza con la posizione cristiana, quale risulterà espressa in Lattanzio e in Agostino.

Tornando al testo ciceroniano vediamo come Cotta prosegua la sua argomentazione sulle religiones, ovvero le «pratiche religiose» tradizionali affermando: «Io le difenderò sempre e sempre le ho difese e il discorso di nessuno, sia egli colto o ignorante, mi smuoverà dalle credenze sul culto degli dèi immortali che ho ricevuto dai nostri antenati. Ma quando si tratta di religio io seguo i pontefici massimi Tiberio Coruncanio, Publio Scipione, Publio Scevola, non Zenone o Cleante o Crisippo, ed ho Gaio Lelio, augure e per di più sapiente, da ascoltare quando parla della religione (…dicentem de religione) nel suo famoso discorso piuttosto che qualunque caposcuola dello stoicismo. Tutta la religione del popolo romano (omnis populi Romani religio) è divisa in riti e auspici, a cui è aggiunta una terza suddivisione: le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici, basate sui portenti e sui prodigi: io non ho mai pensato che si dovesse trascurare alcuna di queste pratiche religiose (…harum … religionum) e mi sono persuaso che Romolo con gli auspici, Numa con l’istituzione del rituale abbiano gettato le fondamenta della nostra città, che certamente non avrebbe mai potuto essere così grande se gli dèi immortali non fossero stati sommamente propizi. Ecco, Balbo, l’opinione di Cotta in quanto pontefice. Ora fammi capire la tua; da te che sei un filosofo devo ricevere una giustificazione razionale della religione, mentre devo credere ai nostri antenati anche senza nessuna prova (…a te enim philosopho rationem accipere debeo religionis, maioribus autem nostris etiam nulla ratione reddita credere)» (III 2, 56).

Questo passo ciceroniano chiarisce quanto altri mai l’accezione che la nozione di religio ha nell’ambito della cultura romana. Omnis populi Romani religio è un complesso di pratiche tradizionali, tramandate nei secoli attraverso le successive generazioni, in cui gli elementi fondamentali sono i riti e gli auspici, cioè la prassi sacrificale, consistente soprattutto nel sacrificio cruento, e l’osservazione dei segni attraverso i quali si manifestava la volontà degli dèi affinché, correttamente interpretati da un collegio sacerdotale a ciò preposto – quello degli augures di cui lo stesso Cicerone fece parte dal 53 a.C. –, guidassero il comportamento degli uomini a livello sociale, ovvero regolassero l’azione dello Stato e non del singolo individuo nei confronti dei propri dèi.

Statua di un giovane orante, realizzata da maestranza rodia. Bronzo, 300 a.C. ca. Altes Museum.jpg
Statua di un giovane orante, realizzata da maestranza rodia. Bronzo, 300 a.C. ca. Berlin, Altes Museum.

 

L’autore che in più luoghi, e soprattutto nel De divinatione, si fa portavoce di un atteggiamento di critica e rifiuto nei confronti della divinazione privata, era rappresentante ufficiale della divinazione pubblica e quindi affermava con decisione, per il tramite del pontefice Cotta, la necessità del corretto mantenimento della pratica degli auspicia: solo interpretando correttamente i segni della volontà divina, attraverso i suoi qualificati rappresentanti, la comunità può agire in conformità a tale volontà, da cui dipende la propria sussistenza. Le forme di auspicio pubblico romano, infatti, non implicavano previsione degli eventi futuri bensì la conoscenza della volontà divina già stabilita: l’uomo deve inserirsi in un piano già definito, mentre un’iniziativa autonoma sarebbe disastrosa per il destino della comunità. L’auspicium era pertanto un elemento essenziale della vita cittadina sicché non si intraprendeva alcuna impresa di rilevanza sociale e militare se prima gli auguri non avessero interpretato, attraverso i segni relativi, la volontà divina per sapere se la divinità approvava o meno quella iniziativa. Si trattava in concreto di decidere se in quel particolare momento bisognava compiere una certa impresa perché gli dèi erano favorevoli o meno. La pratica augurale è dunque un elemento essenziale della religio romana in conformità alla tipica accezione pratico-rituale di tale nozione.

Il sacrificio è l’atto di omaggio che l’uomo compie nei confronti della divinità per riconoscerne il potere, per magnificarlo, cioè per rinsaldarlo e renderlo ancora più forte; l’auspicio è la tecnica che permette all’uomo membro di una comunità di inserirsi nel piano divino preordinato, che deve conoscere per mantenere integro quel rapporto armonico tra i due livelli che si definisce pax deorum.

Il terzo elemento evocato nel discorso di Cotta è anch’esso molto importante nell’ambito della tradizione romana, ossia le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici. La scienza dell’aruspicina era la scienza divinatoria tipicamente etrusca assunta dai Romani e i Libri Sibyllini erano quel complesso di scritti, custoditi prima nel Campidoglio e più tardi trasferiti da Augusto nel tempio di Apollo, contenenti gli oracoli divini che solo i magistrati a ciò deputati, i Decemviri (divenuti poi Quindecemviri), potevano interpretare. Si trattava dunque di un corpo di testi attinenti alla pratica rituale pubblica, ufficiale, sulla base dei quali – nei momenti di crisi della vita cittadina – si cercava di comprendere e di interpretare la volontà degli dèi ai fini di una corretta conduzione della vita intera della società.

Cotta chiede al filosofo una spiegazione razionale della religio, ossia una dimostrazione logica dell’esistenza e natura degli dèi, mentre alle tradizioni dei padri non richiede alcuna spiegazione; ad esse egli dà un pieno assenso, espresso nella pratica, conforme a queste tradizioni, di tutto il complesso rituale. È qui illustrata la posizione tipica dell’intellettuale romano nel I secolo a.C., cioè di un individuo che può cercare la verità, la risposta a certe domande essenziali sui principi della realtà, nei vari sistemi filosofici di origine greca ma ormai solidamente impiantati nel suo ambiente culturale, lasciandosi convincere da quello fra tutti che metta in opera gli strumenti razionali più adatti a tale scopo. Per tale via egli sa crearsi una certa immagine dell’universo conforme a specifiche premesse razionali, in base ai postulati filosofici dell’una o dell’altra scuola contemporanea. Dunque sarà lo stoicismo, l’epicureismo o il platonismo la filosofia che potrà dare all’uomo colto del tempo una risposta razionale alle sue esigenze intellettuali, ma il civis Romanus in tanto sarà religiosus in quanto osserverà le norme sopra enunciate. La religio dunque è una realtà che ingloba in sé tutto un patrimonio tradizionale di culti e delle connesse credenze. Esso comunque non parrebbe risultare dalle affermazioni finali del discorso di Cotta. Tra le posizioni dell’homo religiosus e del filosofo sussiste di fatto una certa armonia, una possibilità di conciliazione, almeno nei circoli colti romani del I secolo a.C., quali si riflettono nel trattato ciceroniano, in quanto proprio in questo contesto fu tentata un’interpretazione di tipo filosofico delle tradizioni ancestrali. Una tale interpretazione è proposta in un passo del De divinatione, trattato composto successivamente al De natura deorum, nell’anno 44 a.C., e dedicato al problema della possibilità o meno di conoscere la volontà divina attraverso vari segni, a loro volta interpretati in base alla scienza augurale o ad altre tecniche divinatorie. In questo testo si propone un’opposizione tra una forma inaccettabile di divinatio, identificata con la superstitio, e la religio. A differenza del passo del De natura deorum già esaminato, è stabilita un’opposizione diretta non più tra gli aggettivi che qualificano le contrapposte posizioni dell’uomo, rispettivamente il superstitiosus e il religiosus, ma tra le due realtà della superstitio e della religio. La definizione qui proposta  di religio è estremamente interessante per comprendere sia la mentalità di Cicerone sia quella del suo ambiente. L’autore sta discutendo di varie pratiche divinatorie come espressione di superstitio, ossia di quell’eccessivo timore da parte dell’uomo che lo induce a stabilire dei rapporti non corretti con il livello divino. In questo contesto, infatti, anche la superstitio riguarda il mondo divino, come del resto lo riguardano le pratiche divinatorie.

altare votivo dedicato ai lares augusti, con l_immagine centrale di augusto. rilievo, marmo, i sec. d.c. firenze, galleria degli uffizi.
Altare votivo in onore dei Lares Augusti. Marmo, 7 a.C. ca., da Roma. Frankfurt-am-Main Liebieghaus.

Poiché tali pratiche sono caricate di connotazioni piuttosto negative, l’accezione peggiorativa del termine superstitiosus deriva in primo luogo dal suo riferirsi ad un individuo che ricorre a profeti e a indovini per sollecitare una risposta degli dèi su attività e comportamenti personali. In particolare, una critica serrata è mossa alle varie tecniche di interpretazione dei sogni, ritenuti in tutto l’ambiente contemporaneo, sulla base di una lunga tradizione di cui partecipavano in varia misura tutte le popolazioni di ambito mediterraneo, come una delle più importanti forme di comunicazione con il mondo divino, poiché capace di mettere in diretto rapporto l’uomo con la divinità. Cicerone quindi, in risposta al fratello Quinto che, sulle orme degli stoici, era un convinto assertore della validità di tutte le tecniche divinatorie e quindi anche dell’importanza dei sogni e della loro interpretazione, conclude la propria requisitoria esclamando: «Si cacci via anche la divinazione basata sui sogni, al pari delle altre. Ché, per parlare veracemente, la superstizione, diffusa tra gli uomini, ha oppresso gli animi di quasi tutti e ha tratto profitto dalla debolezza umana» (De div. II 148).

Ne risulta pertanto una connessione dialettica tra credenza e pratica della divinatio somniorum e più ampiamente di tutte le forme di consultazione privata di indovini, oracoli e profeti, e la superstitio configurata come una forma universalmente diffusa di mistificazione, fondata su quell’insopprimibile desiderio umano di rassicurazione e di conoscenza del proprio futuro che più tardi Luciano condannerà altrettanto decisamente nel trattato diretto contro Alessandro, il falso profeta.

L’autore romano rimanda al proprio trattato Sulla natura degli dèi, in cui ha pure affrontato il tema della certezza – sottolinea – «che avrei arrecato grande giovamento a me stesso e ai miei concittadini se avessi distrutto dalle fondamenta la superstizione». E prosegue affermando: «Né, d’altra parte (questo voglio che sia compreso e ben ponderato), con l’eliminare la superstizione si elimina la religione. Innanzitutto è doveroso per chiunque sia saggio difendere le istituzioni dei nostri antenati mantenendo in vigore i riti e le cerimonie; inoltre, la bellezza dell’universo e la regolarità dei fenomeni celesti ci obbliga a riconoscere che vi è una possente ed eterna natura, e che il genere umano deve alzare a essa lo sguardo con venerazione e ammirazione» (II 148).

Il discorso ciceroniano sottolinea dunque con forza che eliminare la superstitio non significa distruggere la religio, poiché è espressione di saggezza custodire le istituzioni degli antenati mantenendo in vita i riti sacri e le cerimonie tradizionali. È poi evocato un altro elemento del quadro: la bellezza del mondo, l’ordine dei corpi celesti costringe quasi a riconoscere (confiteri) che esiste una qualche natura preminente ed eterna, e che questa natura deve essere ricercata e fatta oggetto di rispetto e ammirazione da parte dell’uomo. In queste espressioni si riflette tutta una facies religiosa che nel I secolo a.C. ha già una lunga storia dietro di sé e che caratterizza proprio gli ultimi secoli dell’ellenismo e i primi secoli dell’impero. Si tratta della «religione cosmica», implicante un atteggiamento di religiosa ammirazione della natura, scaturente dalla contemplazione dell’ordine cosmico, atteggiamento già presente in Platone: la regolarità dei movimenti dei corpi celesti induce l’uomo ad ammirare il grande Tutto e a venerare la potenza divina che in esso si manifesta. Tale religiosità impregna di sé tutta la tradizione stoica in cui, a differenza del platonismo che implica la trascendenza del mondo delle idee rispetto al mondo materiale, si afferma la nozione dell’immanenza del Lógos divino del cosmo. Sotto il profilo di quello che è stato chiamato il «misticismo cosmico», peraltro, le due tendenze, quella platonica e quella stoica, convergono. Del resto è ben noto il fenomeno, che ha in Posidonio di Apamea (135-51 a.C. circa) uno dei suoi maggiori rappresentanti, dell’assunzione nello stoicismo di numerosi e importanti elementi platonici. Lo stoicismo dell’epoca di Cicerone è di fatto profondamente imbevuto di platonismo, mentre a sua volta il platonismo ha recepito anche molti elementi stoici. Comunque un tratto significativo della religiosità del periodo ellenistico, sia nei circoli colti sia anche in ampi strati delle masse popolari, è dato dal sentimento profondo della bellezza del cosmo, la cui contemplazione si rivela tramite di conoscenza della divinità. Cicerone afferma appunto che l’ordine che regola gli elementi cosmici induce l’uomo ad ammettere l’esistenza di una natura superiore, potente, nei confronti della quale è preso da ammirazione. Egli deve ricercare questa natura divina che è al di là dello stesso ordine cosmico: si manifesta nel cosmo ma in qualche modo lo trascende. Si percepiscono così nette le radici platoniche del pensiero ciceroniano, nell’ammissione della trascendenza del divino rispetto alla realtà visibile: l’ordine cosmico induce l’uomo a ricercare, e quindi ad ammirare, quella superiore natura che in tale ordine si riflette.

augure. statuetta, bronzo, 500-480 a.c. ca. paris, musée du louvre
Augure. Statuetta, bronzo, 500-480 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

 

L’augure Cicerone, tuttavia, coniuga questa nozione di ascendenza filosofica con la nozione tradizionale di religio, consistente nel custodire accuratamente gli instituta maiorum, nella corretta osservanza dei sacra e delle caerimoniae. Egli pertanto ribadisce che «come bisogna addirittura adoprarsi per diffondere la religione che è connessa con la conoscenza della natura, così bisogna svellere tutte le radici della superstizione» (II 149).

Si constata pertanto nel I secolo a.C. un’articolazione e trasformazione della prospettiva tradizionale romana all’interno dei circoli filosofici, in cui per un verso si mantiene tutta l’autorità della religione tradizionale, affermandosi il prevalente contenuto pratico-rituale della religio; ma in essa cominciano ad emergere altre valenze. La prospettiva si allarga. Il mos maiorum, l’osservanza dei sacra e delle cerimonie rimane in primo piano, anzi è indicata come ciò che distingue la religio dalla superstitio sicché la religio conserva il suo carattere ufficiale, tradizionale. Tuttavia questa nozione, oltre ad accompagnarsi a quelle di pietas e di iustitia, sottolineate in tanti altri contesti ciceroniani, acquista una maggiore pregnanza, collegandosi con la nozione di «credenza» in una o più potenze superiori.

Nel testo esaminato si parla di una praestans aliqua aeterna natura, ma sappiamo bene come per un Romano dell’epoca di Cicerone questa «natura» eterna e preminente si manifesti in una molteplicità di potenze divine. Non c’è infatti qui alcuna tensione di tipo monoteistico; piuttosto si tratta di un linguaggio a carattere filosofico che con la nozione di natura praestans allude al fondamento stesso di tutte le personalità divine, una sorta di qualitas di cui partecipano gli dèi tradizionali, secondo quanto era stato affermato dallo stoico Balbo nel De natura deorum. Solitamente questa concezione si esprime in una visione del mondo di tipo «piramidale», ossia implicante un sommo principio divino e una gerarchia graduata di potenze inferiori, tra cui si situano i molti dèi dei politeismi tradizionali. Questi dèi, oggetto della religio in quanto destinatari del culto che la religio primariamente esprime, sono così inseriti in una prospettiva cosmica che non appella più soltanto ed esclusivamente alla tradizione degli antenati, alla tradizione romana in quanto tale, differenziata dalle tradizioni nazionali degli altri popoli, ma assume un carattere più ampio proprio perché si tratta della natura divina universale che si manifesta nell’ordine del grande Tutto.

In questa prospettiva più vasta, universalistica o meglio cosmosofica, vengono inglobate le numerose divinità dei politeismi tradizionali secondo un processo in cui profonda è stata l’azione esercitata dall’esegesi allegorica dei miti e delle figure divine dei vari popoli proposta dagli stoici. Le divinità dei diversi contesti non vengono negate ma piuttosto recuperate in una visione di ampio respiro universalistico a fondamento cosmico. Anche le diversità tra le tradizioni dei vari popoli sono in qualche modo superate, non nel senso che sono rinnegate ma piuttosto assorbite in questa forma di religiosità cosmica. Ai nostri fini interessa sottolineare come la nozione di religio di Cicerone poteva inglobare anche una componente a carattere «intellettualistico-concettuale», sicché in questo periodo e in questo contesto tale nozione non appare limitata solo all’aspetto rituale, pur essendo questo aspetto preminente e tipico della tradizione romana.

giudice e indovino (dettaglio). affresco etrusco, 540-530 a.c. ca., dalla tomba degli auguri (parete destra, necropoli di monterozzi, tarquinia)
Giudice e indovino (dettaglio). Affresco etrusco, 540-530 a.C. ca., dalla Tomba degli Auguri (parete destra, Necropoli di Monterozzi, Tarquinia).

 

Altri passi dell’opera di Cicerone illustrano ulteriormente la prospettiva, confermando come la nozione di religio nel I secolo a.C. mantenesse quello che è uno dei suoi significati essenziale, cioè il senso di osservanza, culto prestato agli dèi, ma nello stesso tempo si arricchisce di più ampi significati accogliendo in una certa misura anche una concezione cosmica del divino e degli dèi tradizionali. La salda convinzione che la dottrina epicurea di fatto distrugga omnem funditus religionem, come nell’argomentazione elaborata da Cicerone ad apertura del trattato, è da Cotta espressa in una serie di interrogazioni retoriche rivolte allo stesso Epicuro, in cui si ribadisce come la religio presuppone la possibilità di un rapporto tra potenze divine capaci di intervenire nella vita cosmica e umana e l’uomo che, riconoscendo la loro superiore natura e la benevolenza nei propri confronti, presta ad essi riverenza e omaggi cultuali.

Dopo una serie di affermazioni che offrono anche delle precise definizioni di ciò che per un Romano erano due elementi peculiari della sfera pertinente al divino, quali la pietas («giustizia nei confronti degli dèi»: est enim pietas iustitia adversum deos) e la sanctitas («scienza del culto degli dèi»: sanctitas autem est scientia colendorum deorum), Cicerone per bocca di Cotta ritorna sulla contrapposizione fra superstitio e religio, proponendo una definizione significativa delle rispettive nozioni: «È facile liberare dalla superstizione (merito di cui voi vi vantate) – dichiara rivolto agli Epicurei – se si è eliminata la potenza degli dèi. A meno che per caso tu ritenga che Diagora o Teodoro, che negavano del tutto l’esistenza degli dèi, potessero essere superstiziosi; io non affermerei questo neanche di Protagora, che era incerto se gli dèi esistessero o no. La dottrina di tutti costoro elimina non solo la superstizione, che comporta un vano timore degli dèi, ma anche la religione, che consiste in una pia venerazione degli dèi (non modo superstitionem tollunt, in qua inest timor inanis deorum, sed etiam religionem, quae deorum cultu pio continetur)» (De nat. deor. I 41, 11442, 117). Le opinioni degli epicurei, eliminando la nozione dell’intervento divino negli affari umani, aboliscono non soltanto la superstitio, ma anche la religio, consistente proprio nel rapporto rituale ispirato dalla pietas che sancisce la differenza dei piani, umano e divino, ma anche la vitale comunicazione fra di essi.

Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Epicuro. Busto, bronzo, copia da originale greco del 250 a.C., dalla Villa dei Papiri (Ercolano). Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

La nozione della potenza divina che regola e governa la vita cosmica e umana, e quindi richiede all’uomo le regolari manifestazioni di culto, è riaffermata in un altro contesto ciceroniano del De haruspicum responsis, trattato composto nel 56 a.C. per affermare con forza la necessità della corretta osservanza delle prescrizioni degli aruspici, al fine di garantire il benessere dello Stato fondato sul rispetto della volontà degli dèi. Il trattato, composto in un momento di grave crisi politica determinata dai contrasti tra le fazioni che facevano capo a Cesare e a Pompeo, è diretto contro l’avversario di Cicerone, Clodio, accusato di gravi trasgressioni religiose, quali la profanazione dei riti segreti della Bona Dea, riservati alle donne. Ma la colpa più grave del personaggio, agli occhi di Cicerone, è quella di aver trascurato le prescrizioni degli aruspici che, dall’osservazione dei prodigi verificatisi nel corso dell’anno, avevano indicato la necessità di compiere le necessarie «espiazioni», ossia i riti tradizionali intesi a placare l’ira divina e rendersi propizi di dèi, pena la rovina stessa della repubblica.

Cicerone innanzitutto dichiara di essere stato fortemente turbato da «la grandezza del prodigio, la solennità della risposta, la parola una e immutabile degli aruspici». Quindi, in piena coerenza con le parole poste in bocca a Cotta, continua: «E, se pure sembra che io mi sia dedicato più di altri che pure sono occupati come me, allo studio delle lettere, non sono uomo tale da apprezzare o a praticare quelle lettere che allontanano o distolgono i nostri animi dalla religione. Io invero considero innanzitutto i nostri antenati come gli ispiratori e i maestri nell’esercizio del culto» (De har. resp. IX 18). Si afferma pertanto la necessità, da parte del cittadino romano, anche il più esperto di studi letterari e filosofici, di rifiutare quelle posizioni che possano allontanarlo dalla religio tradizionale, nella certezza irremovibile che solo i propri maiores sono auctores ac magistri religionum colendarum, ossia delle osservanze cultuali. Queste sono subito definite in relazione ai quattro pilastri della religio dei Romani, ossia le caerimoniae celebrate dai pontefici, le prescrizioni del comportamento pubblico fornite dagli auguri, le prescrizioni dei Libri Sibyllini e le espiazioni dei prodigi effettuate secondo la Etrusca disciplina, ossia appunto i rituali prescritti dagli aruspici.

Ribadita la propria conoscenza di «numerosi scritti sulla potenza degli dèi immortali» redatti da uomini «istruiti e sapienti», ancora una volta esprime la professione di lealismo civico dichiarando: «E sebbene io veda in queste opere un’ispirazione divina, esse mi sembrano tuttavia tali da fare credere che i nostri antenati sono stati i maestri e non i discepoli di questi autori. Infatti, chi è tanto sprovvisto di ragione, dopo aver contemplato il cielo, da non sentire che esistono degli dèi e da attribuire al caso quanto risulta da un’intelligenza tale che si fa fatica a trovare il modo di seguire l’ordine e la necessità delle cose, ovvero, quando ha compreso che esistono gli dèi, da non comprendere che la loro potenza ha causato la nascita, lo sviluppo e la conservazione di un impero tanto grande come il nostro? Possiamo bene, o padri coscritti, compiacerci a nostro piacere di noi stessi, tuttavia non è per il numero che abbiamo superato gli Spagnoli, né per la forza i Galli, né per l’abilità i Cartaginesi, né per le arti i Greci, né infine per quel buon senso naturale e innato proprio a questa stirpe e a questa terra gli Italici stessi e i Latini; ma è proprio per la pietà e la religione, e anche per questa eccezionale saggezza che ci ha fatto comprendere che la potenza degli dèi regola e governa tutte le cose che abbiamo superato tutti i popoli e tutte le nazioni (… sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnes gentes nationesque superavimus)» (IX 19). Pietas, religio e sapientia sono quindi le prerogative peculiari dei Romani, che fondano la loro superiorità su tutti gli altri popoli e, garantendo loro la speciale protezione degli dèi, costituiscono la motivazione e il fondamento stessi dell’imperium che essi esercitano sulle altre nazioni.

 

q. cecilio metello pio. denario, italia settentrionale, 81 a.c. ar 3, 54 gr. r – brocca e lituo con leggenda imper(atori) iscritti in una corona d_alloro
Q. Cecilio Metello Pio. Denario, Italia settentrionale, 81 a.C. AR 3, 54 gr. Rovescio: Brocca, lituus e leggenda [imper(atori)], iscritti in una corona d’alloro.

Un passo parallelo del De natura deorum conferma questa nozione ciceroniana, quando Balbo dichiara che «se vogliamo confrontare la nostra cultura con quella delle popolazioni straniere, risulterà che siamo uguali o anche inferiori sotto ogni altro aspetto, ma che siamo molto superiori per quello che concerne la religione, cioè il culto degli dèi» (II 3, 8). Se in questo luogo la religio si definisce come cultus deorum secondo la fondamentale accezione del termine nella prospettiva romana, la sua associazione frequente, ribadita nel contesto esaminato del De haruspicum responsis, con pietas e sapientia conferma la ricchezza di valenze che si aggregano alla nozione di osservanza rituale che essa esprime. Ne risulta confermata soprattutto la disponibilità del termine, già manifestata al tempo di Cicerone, ad allargare il proprio campo semantico in direzione di un valore comprensivo dell’ampio ventaglio di nozioni ad essa aggregate, fino a designare l’intero spettro delle credenze e delle pratiche del popolo romano pertinenti al livello divino. Questo «valore comprensivo» emerge in qualche misura dalle parole conclusive dell’autore quando dichiara: Sed haec oratio omnis fuit non auctoritati meae, sed publicae religionis («Ma tutto questo discorso non si fonda sulla mia autorità bensì sulla religione dello Stato», XXVIII 61), una volta che la religio publica si pone come l’ambito conchiuso in cui rientrano, con la pietas e la sapientia che hanno fatto grande l’imperium dei Romani, tutte le pratiche rituali che ne scandiscono la vita quotidiana.

Diodoro e gli Etruschi

I. Bekker, L. Dindorf, F. Vogel (edd.), Diodori Bibliotheca Historica, voll. 1-2, Teubner, Leipzig 1888-90 (testo greco). Tr. it. D.P. Orsi (in Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libri I-V (a cura di L. Canfora), Palermo 1988, pp. 271 s.).

Coppia di danzatori (dettaglio di un affresco murale), dalla Tomba del Triclinium, Necropoli di Monterozzi (Tarquinia). 470 a.C. ca. Museo Nazionale Etrusco di Tarquinia.

Λείπεται δ᾽ ἡμῖν εἰπεῖν περὶ τῶν Τυρρηνῶν. οὗτοι γὰρ τὸ μὲν παλαιὸν ἀνδρείᾳ διενεγκόντες χώραν πολλὴν κατεκτήσαντο καὶ πόλεις ἀξιολόγους καὶ πολλὰς ἔκτισαν. ὁμοίως δὲ καὶ ναυτικαῖς δυνάμεσιν ἰσχύσαντες καὶ πολλοὺς χρόνους θαλαττοκρατήσαντες τὸ μὲν παρὰ τὴν Ἰταλίαν πέλαγος ἀφ᾽ ἑαυτῶν ἐποίησαν Τυρρηνικὸν προσαγορευθῆναι, τὰ δὲ κατὰ τὰς πεζὰς δυνάμεις ἐκπονήσαντες τήν τε σάλπιγγα λεγομένην ἐξεῦρον, εὐχρηστοτάτην μὲν εἰς τοὺς πολέμους, ἀπ᾽ ἐκείνων δ᾽ ὀνομασθεῖσαν Τυρρηνήν, τό τε περὶ τοὺς ἡγουμένους στρατηγοὺς ἀξίωμα κατεσκεύασαν, περιθέντες τοῖς ἡγουμένοις ῥαβδούχους καὶ δίφρον ἐλεφάντινον καὶ περιπόρφυρον τήβενναν, ἔν τε ταῖς οἰκίαις τὰ περίστῳα πρὸς τὰς τῶν θεραπευόντων ὄχλων ταραχὰς ἐξεῦρον εὐχρηστίαν· ὧν τὰ πλεῖστα Ῥωμαῖοι μιμησάμενοι καὶ πρὸς τὸ κάλλιον αὐξήσαντες μετήνεγκαν ἐπὶ τὴν ἰδίαν πολιτείαν. [2] γράμματα δὲ καὶ φυσιολογίαν καὶ θεολογίαν ἐξεπόνησαν ἐπὶ πλέον, καὶ τὰ περὶ τὴν κεραυνοσκοπίαν μάλιστα πάντων ἀνθρώπων ἐξειργάσαντο· διὸ καὶ μέχρι τῶν νῦν χρόνων οἱ τῆς οἰκουμένης σχεδὸν ὅλης ἡγούμενοι θαυμάζουσί τε τοὺς ἄνδρας καὶ κατὰ τὰς ἐν τοῖς κεραυνοῖς διοσημείας τούτοις ἐξηγηταῖς χρῶνται. [3] χώραν δὲ νεμόμενοι πάμφορον, καὶ ταύτην ἐξεργαζόμενοι, καρπῶν ἀφθονίαν ἔχουσιν οὐ μόνον πρὸς τὴν ἀρκοῦσαν διατροφήν, ἀλλὰ καὶ πρὸς ἀπόλαυσιν δαψιλῆ καὶ τρυφὴν ἀνήκουσαν. παρατίθενται γὰρ δὶς τῆς ἡμέρας τραπέζας πολυτελεῖς καὶ τἄλλα τὰ πρὸς τὴν ὑπερβάλλουσαν τρυφὴν οἰκεῖα, στρωμνὰς μὲν ἀνθεινὰς κατασκευάζοντες, ἐκπωμάτων δ᾽ ἀργυρῶν παντοδαπῶν πλῆθος καὶ τῶν διακονούντων οἰκετῶν οὐκ ὀλίγον ἀριθμὸν ἡτοιμακότες· καὶ τούτων οἱ μὲν εὐπρεπείᾳ διαφέροντές εἰσιν, οἱ δ᾽ ἐσθῆσι πολυτελεστέραις ἢ κατὰ δουλικὴν ἀξίαν κεκόσμηνται. [4] οἰκήσεις τε παντοδαπὰς ἰδιαζούσας ἔχουσι παρ᾽ αὐτοῖς οὐ μόνον οἱ θεράποντες, ἀλλὰ καὶ τῶν ἐλευθέρων οἱ πλείους. καθόλου δὲ τὴν μὲν ἐκ παλαιῶν χρόνων παρ᾽ αὐτοῖς ζηλουμένην ἀλκὴν ἀποβεβλήκασιν, ἐν πότοις δὲ καὶ ῥᾳθυμίαις ἀνάνδροις βιοῦντες οὐκ ἀλόγως τὴν τῶν πατέρων δόξαν ἐν τοῖς πολέμοις ἀποβεβλήκασι. [5] συνεβάλετο δ᾽ αὐτοῖς πρὸς τὴν τρυφὴν οὐκ ἐλάχιστον καὶ ἡ τῆς χώρας ἀρετή· πάμφορον γὰρ καὶ παντελῶς εὔγειον νεμόμενοι παντὸς καρποῦ πλῆθος ἀποθησαυρίζουσιν. καθόλου γὰρ ἡ Τυρρηνία παντελῶς εὔγειος οὖσα πεδίοις ἀναπεπταμένοις ἐγκάθηται καὶ βουνοειδέσιν ἀναστήμασι τόπων διείληπται γεωργησίμοις· ὑγρὰ δὲ μετρίως ἐστὶν οὐ μόνον κατὰ τὴν χειμερινὴν ὥραν, ἀλλὰ καὶ κατὰ τὸν τοῦ θέρους καιρόν.

Giudice e indovino (dettaglio sulla parete destra), dalla Tomba degli Auguri, Necropoli di Monterozzi (Tarquinia).

Ci rimane da parlare degli Etruschi. Costoro anticamente, distinguendosi per coraggio, conquistarono molte terre e fondarono molte e importanti città. Parimenti, possedendo una potente flotta ed esercitando il dominio sul mare per lungo tempo, ottennero che il mare che bagna l’Italia prendesse da loro il nome di Tirreno; perfezionarono l’armamento delle forze di terra e inventarono lo strumento che si chiama salpinx, utilissimo in guerra, che da loro prese il nome di “tromba tirrena”; crearono i simboli del potere per i condottieri insigniti del comando, assegnando loro littori, il seggio d’avorio e la toga orlata di porpora; nelle abitazioni inventarono il peristilio, una comodità contro gli schiamazzi delle turbe dei servi. I Romani adottarono la maggior parte di questi ritrovati e, dopo averli perfezionati, li introdussero nella loro società civile. [2] Gli Etruschi elaborarono ulteriormente le lettere, la scienza della natura e quella divina e, più di tutti gli altri uomini, praticarono l’osservazione del fulmine; perciò, anche ai nostri giorni, coloro che comando su quasi tutta la terra (= i Romani) ammirano questi uomini e se ne servono come interpreti dei segni forniti dai fulmini. [3] Gli Etruschi abitano una terra che produce tutto e la coltivano con cura: hanno, perciò, prodotti agricoli in abbondanza, non solo sufficienti per il sostentamento ma tanti da permettere un ricco godimento e una vita lussuosa. Imbandiscono infatti due volte al giorno mense sontuose e fornite di tutto quanto ben s’addica ad un lusso smodato; preparano letti ornati con coperte ricamate, tengono a loro disposizione coppe d’argento in grande quantità e di ogni tipo, nonché un numero non piccolo di schiavi addetti al servizio, dei quali gli uni spiccano per bellezza, gli altri sono adorni di vesti troppo preziose per essere adatte a chi sia di condizione servile. [4] Presso gli Etruschi non solo gli therapontes ma anche la maggior parte dei liberi possiede abitazioni private di ogni tipo. Per dirla in breve: gli Etruschi hanno rinunciato all’ardimento che era oggetto di emulazione presso di loro sin dai tempi antichi e, vivendo dediti al bere e ad un’oziosità indegna di uomini, hanno con giusta ragione perduto la fama che gli avi si erano acquistati in guerra. Soprattutto la fertilità della terra è responsabile della loro vita lussuosa: abitando una regione che produce tutto ed è fertilissima, essi accumulano grandi quantità di ciascun prodotto. In conclusione, l’Etruria, che è fertilissima, si estende su aperte pianure ed è disseminata di alture collinari coltivabili; è poi moderatamente umida non solo nella stagione invernale ma anche nel periodo estivo.

Antefissa in terracotta policroma raffigurante un sileno e una menade danzanti. Antefissa etrusca. Inizi del V secolo a.C. Jean Paul Getty Museum.

Il massacro nel foro di Tarquinia

di M. Di Fazio, Sacrifici umani e uccisioni rituali nel mondo etrusco, Rendiconti 21/3 (2001), pp. 445-448.

Lastra fittile di rivestimento raffigurante una coppia di cavalli alati, dallo spazio frontonale del Santuario dell'Ara della Regina (Tarquinia). IV secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia.
Coppia di cavalli alati. Lastra fittile di rivestimento, IV sec. a.C. ca., dallo spazio frontonale del Santuario dell’Ara della Regina (Tarquinia). Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.

 

Un episodio chiave […] è il noto massacro che nel 358 a.C. i Tarquiniesi compiono di trecentosette prigionieri romani catturati dopo una vittoria in uno dei primissimi scontri della guerra che opporrà le due città per alcuni anni. Il racconto liviano permette di stabilire pochi punti, ma interessanti[1]. Quattro anni dopo, sono i Romani ad aver la meglio e catturare molti prigionieri tarquiniesi; di questi, trecentocinquantotto (i più nobili) vengono trasferiti a Roma, il resto viene trucidato sul posto. Coloro che arrivano a Roma vengono fustigati e decapitati nel Foro, «pro immolatis in foro Tarquiniensium Romanis poenae hostibus redditum»[2]. In entrambe le occasioni è il Foro della città vittoriosa ad ospitare l’esecuzione. Ma i Tarquiniesi immolarunt i prigionieri, mentre a Roma il popolo decise che gli Etruschi venissero virgis caesi ac securi percussi. Questa differenza terminologica è stata considerata in vario modo. Per Pfiffig, il termine immolare usato da Livio non è particolarmente significativo: un semplice equivalente di occidere o obtruncare[3]. Per Briquel, invece, la scelta del termine ha un chiaro significato religioso[4]. Livio usa immolare sempre con connotazione religiosa, mentre, per descrivere le decisioni dei Romani quattro anni dopo, adotta i termini della procedura normale del delitto capitale (virgis caesi ac securi percussi), che è all’incirca l’espressione impiegata nel caso della messa a morte dei figli di Bruto (II 5, 8), esempio fondante del delitto capitale[5].

Le ricerche di Eva Cantarella hanno portato alla conclusione che, nel mondo romano, la decapitazione con la scure non ha un connotato religioso, come ritenuto invece da parecchi studiosi, Mommsen in testa[6]: non c’è affinità tra il sacrificio religioso e questa forma di esecuzione capitale che è la securi percussio. Prima del Principato la decapitazione è molto rara, e riservata ad insubordinati, ribelli, prigionieri di guerra[7]. Sembrano rimanere nelle fonti relative al mondo romano solo pochi casi di massacro di prigionieri ammantato di ritualità […].

 

Il grande affresco iliadico, che rappresenta Achille (Aχle) in atto di sgozzare un prigioniero troiano (truial), in onore dell’ombra di Patroclo (hinθial Patrucles), al cospetto di Xarun e Vanθ, assistito dagli eroi Agamennone (Aχmenrun), Aiace Telamonio (Aivas Tlamunus) e Aiace Oileo (Aivas Vilatas). Pannello della parete sinistra della Tomba François, Necropoli di Tarquinia. IV secolo a.C. ca.
Il grande affresco iliadico, che rappresenta Achille (Aχle) in atto di sgozzare un prigioniero troiano (truial), in onore dell’ombra di Patroclo (hinθial Patrucles), al cospetto di Xarun e Vanθ, assistito dagli eroi Agamennone (Aχmenrun), Aiace Telamonio (Aivas Tlamunus) e Aiace Oileo (Aivas Vilatas). Pannello della parete sinistra della Tomba François, Necropoli di Tarquinia. IV secolo a.C. ca.

 

Nella sua analisi dell’episodio, Briquel sottolinea come altri casi simili nell’annalistica romana compaiano solo per sottolineare la crudeltà etrusca[8]. Perciò molte indicazioni e molti dati possono essere stati falsati nelle fonti, per esempio in Livio, e di conseguenza alcune supposizioni rischiano di rivelarsi azzardate. Briquel, sostenendo l’eccezionalità dell’episodio, riprende la lettura dell’affresco della Tomba François come illustrazione della messa a morte dei Romani a Tarquinia: anche se lo sfondo del ciclo pittorico è Vulci, i temi rappresentati conserverebbero memoria di questo avvenimento. Se Torelli vedeva nella strage un atto espiatorio in onore di un defunto di rango[9], lo studioso francese avanza un’ipotesi. Dai pochi lacerti ricavabili dalle fonti riguardo all’Etrusca disciplina, sappiamo di un tipo di sacrificio etrusco particolare: quello delle hostiae animales, la cui immolazione con versamento di sangue permette all’anima del defunto di giungere alla condizione di dii animales, «immortali»[10]. Allora i fatti del 358 si spiegherebbero in funzione delle hostiae animales, come una grandiosa offerta di sangue umano ad una divinità, senza la normale ripartizione alimentare, che appunto in questi casi non era richiesta: si sarebbe trattato quindi di un vero sacrificio umano[11]. Date le circostanze belliche, e dato il clima di ostilità di cui abbiamo traccia nelle pitture della Tomba François, non si sarebbe esitato a sacrificare veramente uomini in sostituzione di animali. Il modello dell’Iliade[12], con l’episodio dei funerali di Patroclo ben presente nell’immaginario etrusco, sovrapposto al rito delle hostiae, avrebbe condotto a questa esecuzione di massa[13].

C’è da dire però che le hostiae non paiono sempre collegate a funerali[14]: forse potevano aver luogo anche presso i templi di alcune divinità. Quali? Il passo è troppo breve per permettere considerazioni più approfondite, ma va ancora considerato il luogo in cui dal testo si deduce siano stati effettuati questi massacri. La localizzazione nel foro di Tarquinia (o meglio in quello che il romano Livio indica come forum), quindi vicino il santuario dell’Ara della Regina, non può non far pensare alle testimonianze del culto di Artume/Artemide rinvenute nei pressi del santuario: quell’Artemide sorella di Apollo, assimilato ad una divinità indigena con caratteri oracolari e inferi, al quale bene si potrebbero riferire sacrifici umani[15]. Ma anche se tempio e “foro” sono prossimi, come nel caso di Tarquinia, dobbiamo ricordare che la fonte ambienta l’episodio nel “foro”, non vicino al tempio o in prossimità di altari e sacelli. Meglio, con Torelli, sottolineare proprio questo dato: il sacrificio […] dei prigionieri non avviene fuori città, presso il tumulo gentilizio, come nel caso dei Focei a Caere, ma all’interno della città, a ribadire una nuova dimensione del politico e del sociale[16].

Ricostruzione del Tempio del Santuario dell'Ara della Regina, dedicato al culto di Artume e Aplu, a Tarquinia.
Ricostruzione del Tempio del cosiddetto Santuario dell’Ara della Regina, dedicato al culto di Artume e Aplu, a Tarquinia.

Dobbiamo comunque ricordare come, a partire da Karl Julius Beloch, il passo sia stato tutt’altro che esente da critiche. In particolare, è stata sottolineata l’esatta e sospetta coincidenza di numero fra i Romani uccisi nel foro di Tarquinia e i Fabii sterminati al Cremera dai Veienti nel corso della loro guerra personale nel 477 a.C.[17]; inoltre, nella guerra con Tarquinia, lo sfortunato comandante era proprio un Fabio, Q. Fabio Ambusto: non è da escludere la volontà delle fonti di far ricadere queste colpe sulla gens Fabia. L’episodio ha la parvenza di una delle tante duplicazioni che troviamo in particolare nell’opera di Livio. Torelli, per dare credito all’episodio, si appoggia su due labili constatazioni: l’elogium degli Spurinna, da cui veniamo a sapere che in effetti le prime fasi del conflitto romano-tarquiniese furono a favore degli Etruschi, e le pitture della Tomba François che serberebbero memoria di questi fatti[18]. Ma, com’è stato osservato, se solo quattro anni dopo i Romani riuscivano a vendicarsi nella maniera che abbiamo visto, vi sarebbero stati ben pochi motivi di rievocare un episodio che aveva avuto tale seguito[19].

Va invece sottolineata l’esistenza di almeno un altro caso analogo, oltre a quello dei Fabii, che è narrato da Polibio: nel 271 a.C. i Romani cingono d’assedio Reggio, in cui un presidio romano chiesto dagli stessi Reggini si era ribellato. Alla fine, riconquistata la città, dei quattromila soldati del presidio alcuni vengono condotti a Roma e, nel foro, fustigati e decapitati «secondo il costume romano». Il numero di questi prigionieri, secondo Polibio, è più di trecento; ancora una volta abbiamo a che fare con analogie che suonano sospette[20].

Ma un piccolo “colpo di scena” lo troviamo in Svetonio: durante le guerre civili, Ottaviano assedia Perugia nell’inverno del 41/40 a.C. Espugnata la città, il futuro Augusto sacrifica un certo numero di notabili ai Mani degli Iulii, forse (è stato osservato) applicando ai nemici i loro stessi riti[21]. Anche in questo caso, è facile indovinare il numero: trecento. Non abbiamo sufficienti informazioni sull’avvenimento: ma è facile immaginare la difficoltà e l’imbarazzo degli storiografi vicini all’ambiente augusteo (Livio in particolare[22]) verso un episodio non certo lusinghiero per Augusto; e forse qui possiamo trovare una chiave interpretativa per gli episodi citati.

 

Bronzetto di oplita etrusco, da Siena. 600 a.C. Museo Archeologico di Siena.
Oplita etrusco. Statuetta, bronzo, 600 a.C. ca., da Siena. Siena, Museo Archeologico.

Note:

 

[1] Liv. VII 15, 10.

[2] Id. VII 19, 13.

[3] A.J. Pfiffig, Religio Etrusca, Graz 1975, p.110.

[4] D. Briquel, Sur un épisode sanglant des relations entre Rome et les cités étrusques: les massacres de prisonniers au cours de la guerre de 358/351, in R. Bloch (éd.), La Rome des Premiérs Siécles. Legende et Histoire, actes t.r. (Paris 1990), Firenze 1992, pp. 37-46. Già J. Gagé, De Tarquinies à Vulci, MEFRA 74 (1962), p. 95 aveva sostenuto che il termine immolare non era utilizzato a caso da Livio.

[5] Cfr. Liv. V 21, 8; VIII 9, 1; XXII 5, 19; XLII 30, 8.

[6] E. Cantarella, I supplizi in Grecia e a Roma, Milano 1991, p. 154.

[7] Ibid., p. 386, n. 28. Dobbiamo comunque eliminare dall’elenco dei prigionieri decapitati il povero Vitruvio Vacco, che, dopo essere stato imprigionato, verberatum necari (Liv. VIII 20, 7).

[8] D. Briquel, op. cit., p. 42.

[9] M. Torelli, Delitto religioso. Qualche indizio sulla situazione in Etruria, in Le délit relgieux dans la cité antique, atti conv. (Roma 1978), Roma 1981, p. 5.

[10] Libri Acheruntici (Nigidio Figulo, attraverso Cornelio Labeone). Cfr. A.J. Pfiffig, op. cit., pp.178-181; D. Briquel, Regards étrusques sur l’au-delà, in F. Hinard (éd.), La mort, les morts et l’au-delà, Actes coll. (Caen 1985), Caen 1987, pp. 263-277; Id., I riti di fondazione, in M. Bonghi Jovino – C. Chiaramonte Treré (a cura di), Tarquinia: ricerche, scavi e prospettive, atti conv. (Milano 1986), Milano-Roma 1987, pp. 171-190.

[11] D. Briquel, op. cit., Firenze 1992, pp. 44-46.

[12] Cfr. Il. XXIII, 175-176: «δώδεκα δὲ Τρώων μεγαθύμων υἱέας ἐσθλοὺς / χαλκῷ δηϊόων» («e dodici splendidi figli dei Troiani animosi / passandoli per le armi»). Cfr. Il. XXIII, 181-182: «δώδεκα μὲν Τρώων μεγαθύμων υἱέας ἐσθλοὺς / τοὺς ἅμα σοὶ πάντας πῦρ ἐσθίει» («Dodici splendidi figli dei Troiani animosi il fuoco / tutti con te li divora»).

[13] D. Briquel, op. cit., p. 46.

[14] Arnob. adv. nat. II 62.

[15] Cfr. G. Colonna, Apollon, les Etrusques et Lipara, MEFRA 96 (1984), pp. 571-572; Id., Divinitiés peu connues du panthéon étrusque, in P. Gaultier – D. Briquel (éd.), Les plus religieux des hommes, atti conv. (Paris 1992), Paris 1997, p. 167.

[16] M. Torelli, op. cit., p. 6.

[17] K.J. Beloch, in M. Torelli, op. cit., p. 3; cfr. G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, Torino 1964, p. 255. Cfr. Liv. II 50, 11.

[18] M. Torelli, op. cit., pp. 3-4.

[19] F. Zevi, Prigionieri troiani, in Studi in memoria di L. Guerrini, Roma 1996, p. 123, n. 41: il massacro fu ampiamente vendicato quattro anni dopo (e non l’anno seguente come per Zevi), per cui non c’era motivo di rievocare l’episodio.

[20] Polyb. I 7, 12. Non è il caso qui di addentrarci in analisi testuali per cercare di stabilire eventuali priorità fra i testi; ma può essere interessante ricordare che il nome “Fabio”, presente nei Fasti nei sette anni fra il 485 e il 479, manca per i successivi undici anni (H.H. Scullard, A History of the Roman World, London 1983 [= tr.it. Storia del mondo romano, Milano 1992, vol. I, p. 146, n. 10]), e questa può essere una prova della preminenza del racconto relativo allo sterminio dei Fabii.

[21] Suet. Aug. XV 1. Cfr. J. Heurgon, La vie quotidienne chez les Étrusques, Paris 1962 (= tr.it. La vita quotidiana degli Etruschi, Milano 1992, p. 285). Perugia conservava ancora una sua identità etrusca; perugino era M. Perperna, uno dei capi mariani più in vista, che nel 78 a.C. è al fianco di Lepido con l’Etruria tutta per una rivolta non fortunata (Sall. Hist., I 67). Sull’assedio di Perugia, cfr. P. Wallmann, Untersuchungen zu militärische Problemen des Perusinischen Krieges, Talanta 6 (1974), pp. 58-91.

[22] Cfr. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II, 2, Bari 1966, pp. 40 sgg.

Il volto dell’indicibile

di J.-P. VERNANT, La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, Bologna 1987, 39-62.

La maschera di Medusa

Pittore della Gorgone. Testa di Gorgone circondata da animali. Pittura vascolare da un piatto attico a figure nere. 600 a.C. ca. Baltimora, Walters Art Museum.

Il modello iconografico della Gorgone, nella sua doppia forma di γοργόνειον da una parte (la sola maschera), di personaggio femminile dalla faccia gorgonica dall’altra, non è rappresentato soltanto nella serie dei vasi dipinti. Figura anche, fin dall’epoca arcaica, sul frontone dei templi, ed anche quale acroterio o antefissa. Lo si trova ancora sugli scudi, quale ἐπίσημα, a decorazione di utensili domestici, appeso nei laboratori degli artigiani, fissato sui loro forni, collocato nelle case private, figurato su monete. Apparso agli inizi del VII secolo a.C., questo modello vede costituirsi i suoi tipi canonici nei loro tratti essenziali verso il secondo quarto di tale secolo. Al di là delle varianti che ne presenta l’iconografia corinzia, attica, laconica, si possono delineare, in prima analisi, due caratteristiche fondamentali della rappresentazione di Medusa. Innanzitutto la frontalità. Contrariamente alle convenzioni figurative che regolano lo spazio pittorico greco in epoca arcaica, la Gorgone è sempre, senza alcuna eccezione, rappresentata di faccia. Pura maschera o persona intera, il viso della Gorgone è ogni volta frontale rispetto all’osservatore. In secondo luogo la «mostruosità». Di qualunque tipo siano le modalità adottate nella distorsione espressiva, la figura si avvale sistematicamente delle interferenze tra l’umano e il bestiale, associate e commiste in maniera diversa. La testa, slargata, arrotondata, ricorda un muso leonino, gli occhi sono sbarrati, lo sguardo è fisso e penetrante, la chioma trattata come una criniera animalesca o irta di serpenti, le orecchie ingrandite, deformate, simili talora ad orecchie bovine; il cranio può presentare corna; la bocca, ghignante, si allarga fino ad occupare tutta l’ampiezza del volto, scoprendo le file dei denti, con zanne ferine o di cinghiale, e con la lingua che fuoriesce, protesa in avanti; il mento è peloso o barbuto, la pelle solcata talvolta da rughe profonde. Questo volto si presenta più come orribile ghigno che come viso. Nello sconvolgimento dei tratti tipici della faccia umana, esso esprime, per un effetto di inquietante estraneità, un mostruoso che oscilla tra due poli: l’orrore del terrifico, il ridicolo del grottesco. Allo stesso modo, tra la Gorgone che è dalla parte del terrifico, e i Sileni o Satiri che, nel registro del mostruoso, si situano dalla parte del grottesco, si possono rilevare, insieme a evidenti contrasti, significative convergenze. Queste due categorie di personaggi hanno del resto chiare affinità con la rappresentazione cruda e brutale del sesso, femminile o maschile – rappresentazione che, come il volto mostruoso di cui essa è per certi aspetti l’equivalente, può provocare sia il terrore di un’angoscia sacra sia lo scoppio del riso liberatore.

Baubò/Iambe. Statuetta, terracotta policroma, V sec. a.C. da Priene.

Per precisare questo gioco d’interferenze tra la faccia di Medusa e l’immagine del sesso femminile – come tra il φαλλός e i personaggi tipo Satiri o Sileni, la cui mostruosità, pur prestandosi al riso, non manca di inquietare –, bisogna spendere una parola sulla singolare figura di Baubo, personaggio dal duplice aspetto: spettro notturno, sorta di orchessa, avvicinata, al pari di Medusa, Mormo o Empusa, a Ecate infernale, ma anche buona vecchia le cui allegre facezie e i cui gesti indecenti riescono a rompere il digiuno di Demetra afflitta per la figlia, provocandone il riso. Il confronto dei testi che riferiscono questo episodio con le statuette di Priene raffiguranti un personaggio femminile ridotto a un semplice volto, che è al tempo stesso un bassoventre, conferisce al gesto di Baubo che alza la veste per ostentare la sua intimità un significato inequivocabile: quel che Baubo fa vedere a Demetra è un sesso che ha preso le sembianze di un volto, un volto in forma di sesso; si potrebbe dire: il sesso fatto maschera.
Nel ghigno, questa figura del sesso si fa risata, uno scoppio di riso al quale risponde il riso della dea, come al ghigno d’orrore che solca il viso di Medusa risponde il terrore di chi la guarda. Il φαλλός, del quale uno dei nomi con cui è indicato, βαυβών, sottolinea il rapporto con Baubo, assume al polo opposto del mostruoso una funzione simmetrica. Normalmente esso accresce il ridicolo, denuncia il grottesco di quei mostri piacevoli che sono i Satiri, ma nelle iniziazioni provoca un effetto di terrore sacro, di spavento affascinato espresso dal gestire di certi personaggi femminili che indietreggiano davanti al φαλλός scoperto.
Esistono del resto due versioni del riso di Demetra mentre è alla disperata ricerca della figlia; e in ognuna di esse la protagonista, per creare l’effetto di choc liberatore rispetto alla tristezza, utilizza l’elemento scandaloso in un diverso registro. Secondo la prima versione, Iambe, γραῖα Ιάμβη, la vecchia Iambe come la chiama Apollodoro, deride Demetra e rompe la sua afflizione con battute licenziose, con l’αἰσχρολογία, come si faceva durante le Tesmoforie o nel γεφυρισμός della processione eleusina. Iambe può essere considerata il femminile di Iambos, il giambo, nel suo aspetto musicale di canto satirico, di poesia di invettiva e di derisione. L’effetto liberatore di una sessualità sfrenata, prossima al mostruoso per il suo carattere anomico, opera del linguaggio e per mezzo del linguaggio: frizzi ingiuriosi, scherzi osceni, battute scatologiche, tutto ciò che il greco comprende nel termine σκόπτειν o nella locuzione παρασκόπτειν πολλά. Nella seconda versione Baubo, sostituendo Iambe, mette in atto le stesse procedure sul piano visivo; ella sostituisce lo spettacolo alle parole, mostra la cosa invece di nominarla. Quando esibisce crudamente il proprio sesso imprimendogli una sorta di movimento, Baubo vi fa apparire il volto ilare di un giovane, il piccolo Bacco (Ἴακχος), il cui nome evoca il grido degli iniziati (ἰάχω, ἰαχή) ma è pure ravvicinato a χοῖρος, porcellino ed anche, certamente, sesso femminile.

Pittore di Anagiro. Gorgone. Pittura vascolare da un piatto attico a figure nere, da Atene. 600-575 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Frontalità, mostruosità: queste due caratteristiche pongono il problema delle origini dello schema figurativo di Medusa. Sono stati ricercati antecedenti nel Vicino Oriente, nel mondo cretese-miceneo, in quello sumerico-accadico. Sono stati proposti agganci con la figura di Bes egiziano e soprattutto con quella del demone Hambaba, così come è rappresentato nell’arte assira. Nonostante l’interesse di questi studi, essi non toccano ciò che ai nostri occhi costituisce il fatto essenziale: la specificità di una figura che, quali che possano essere state le derivazioni o le trasposizioni, si profila come una creazione nuova, assai diversa dagli antecedenti invocati. La sua originalità non può essere colta al di fuori delle relazioni che, in seno all’arcaismo greco, la legano a pratiche rituali, a temi mitici, ad una Potenza soprannaturale, infine, che emerge e si afferma nello stesso tempo in cui si costruisce e si fissa il modello simbolico che la rappresenta nella forma particolare della maschera gorgonica.
A questo riguardo i tentativi di Jane Harrison di basarsi su alcune analogie figurative tra Arpie, Erinni, Gorgoni per ascriverle tutte ad un medesimo fondo religioso «primitivo», e per farne specie diverse di Kῆρες, spiriti nefasti, spettri, brutture, sembrano assolutamente inutili. Non è buona metodologia fondere insieme in un’unica, vaga categoria figure diverse, ignorando le divergenze che, distinguendole chiaramente, conferiscono a ciascuna di esse il loro significato e il loro posto particolare nel sistema delle Potenze divine. Le Erinni non hanno né ali né maschera; le Arpie hanno ali, ma non maschera; le sole Gorgoni, oltre alle ali, presentano la facies di una maschera. Le affinità, sottolineate specialmente da Th.G. Karagiorgia, tra Medusa e la Signora degli Animali, la Πότνια, sono più suggestive. Tra questi due personaggi esistono punti di contatto così come esistono somiglianze o almeno parallelismi nella loro iconografia. Bisognerà tenerne conto. Per alcuni aspetti Medusa si presenta come la faccia cupa, il sinistro rovescio della Grande Dea di cui Artemide in modo particolare raccoglierà l’eredità. La presenza di divergenze, di stacchi tra i due modelli deve tuttavia metterci in guardia da una pura e semplice assimilazione. Essenziale rimane comprendere perché e come i Greci abbiano elaborato una figura simbolica che, combinando in una forma singolare faccialità e mostruosità, si distingue abbastanza nettamente da tutte le altre per farsi subito riconoscere per quel che è: la faccia di Medusa.

Frontone del tempio di Artemide. La Gorgone (dettaglio), da Corfù. Museo Archeologico di Corfù.

Al fine di illustrare questi punti di vista un po’ astratti faremo un esempio. Sul Vaso François (verso il 570 a.C.) tutti gli dèi sono rappresentati come in un repertorio: sono tutti di profilo, ad eccezione di tre personaggi: la Gorgone, raffigurata sulla faccia interna delle due anse, Dioniso, che regge un’anfora sulle spalle, e Calliope, una delle Muse. Nei casi della Gorgone e di Dioniso, il cui volto è reso come una maschera, la frontalità non ci sorprende: si potrebbe dire che va da sé. Nel caso di Calliope costituirebbe un problema se la Musa non fosse rappresentata, nel corteo divino, intenta a suonare la zampogna, lo strumento campestre detto anche “flauto di Pan”. E noi mostreremo, ampliando le osservazioni di Paul M. Laporte su questo argomento, che soffiare nel flauto equivale, per molteplici ragioni, a farsi la faccia di Medusa. Alle Gorgoni dipinte internamente alle anse corrispondono, all’esterno, le figurazioni della Signora degli Animali. I due tipi di Potenza si trovano dunque praticamente associati e, al tempo stesso, contrapposti. Il contrasto si realizza su vari piani. In primo luogo, e soprattutto, le Gorgoni sono di prospetto, le Signore degli Animali di profilo, come tutti gli altri dèi o eroi che figurano sul vaso. Inoltre le Gorgoni sono in corsa, con le ginocchia flesse; le Signore sono immobili, in piedi, ritte, in atteggiamento ieratico. Le Gorgoni hanno un chitone corto, le Signore una lunga tunica che le avvolge fino ai piedi. La chioma delle prime, irta, si contrappone a quella delle seconde, portata normalmente all’indietro sulle spalle mediante una fascia. Il valore di maschera del volto gorgonico si accompagna dunque, nell’iconografia, a tutta una serie di indizi che contrassegnano senza ambiguità la differenza rispetto al modello della Πότνια, la Signora degli Animali.
Uno studio iconografico dovrà tendere ad esplorare tutta la rete di questi segni e a delineare il quadro degli elementi significativi dell’immagine, del loro ruolo all’interno di diverse serie omogenee, stabilite in funzione del luogo d’origine, della natura degli oggetti, dei temi figurati. […]

Sigillo in sardonico con la rappresentazione di una «Potnia thḗrōn», da Cnosso (Creta). Periodo Neopalaziale (1600-1400 a.C.). Museo Archeologico di Herakleion.

Nelle rappresentazioni figurate il cavallo – o i cavalli quando sono due in posizione simmetrica – si associa alla Gorgone talora come una parte di lei, un suo prolungamento o una sua emanazione, talora come il piccolo che ella nutre e protegge, talora come la prole che ella partorisce o anche la cavalcatura che ella cavalca, talora infine, sulla linea del mito di Perseo, come il cavallo Pegaso che balza, mentre ella muore, dal suo collo troncato. Riguardo alle varie possibilità di associazione tra la Gorgone e il cavallo c’è dunque nell’iconografia, quando la si confronti con la leggenda, un surplus e quasi un’esuberanza di significati.

Una faccia del terrore

Ma passiamo ai testi per chiarire – attraverso le indicazioni che ci forniscono sui miti e sugli elementi del rituale legati alla Gorgone – la personalità, i modi d’azione, i campi d’intervento, le forme di manifestazione della Potenza fatta maschera.
Fin da Omero è già innalzato il teatro sul quale Medusa fa la sua apparizione e interpreta i suoi differenti ruoli. Nell’Iliade la scena è guerresca. Medusa figura sull’egida di Atena e sullo scudo di Agamennone; sull’altro fronte, quando Ettore, portando la morte nella mischia, fa girare in tutti i sensi i cavalli, «i suoi occhi hanno lo sguardo della Gorgone». In questo contesto di scontro senza remissione, Gorgone è una Potenza di Terrore, associata a «Spavento, Rotta, Inseguimento che gelano i cuori». Ma questo terrore di cui incarna la presenza, che in qualche maniera mobilita, non è «normale»; non dipende dalla situazione particolare di pericolo in cui ci si può trovare. È il terrore allo stato puro, il Terrore come dimensione del soprannaturale. In effetti, questa paura non è né seconda né motivata, come quella che provocherebbe la coscienza di un pericolo. È prima. Di primo acchito e di per se stessa Medusa produce un effetto di spavento perché appare sul campo di battaglia come un prodigio (τέρας), un mostro (πέλωρ), in forma di testa (κεφαλή), terribile e spaventosa (a guardarsi e a udirsi, δεινή τε σμερδή τε), con il volto dall’occhio terribile (βλοσυρῶπις), con lo sguardo terrificante (δεινόν δερκομένη). Maschera e occhio gorgonici, se ci si attiene all’Iliade, operano in un contesto ben definito; essi appaiono integrati all’attrezzatura bellica, alla mimica, alla smorfia stessa del guerriero (uomo o dio) posseduto dal μένος, il furore guerresco; concentrano in qualche modo la potenza di morte che irradia dalla persona del combattente ricoperto dell’armatura e pronto a manifestare la straordinaria vigoria nella battaglia, la forza (ἀλκή) di cui è dotato. La folgorazione dello sguardo di Medusa agisce congiuntamente allo splendore del bronzo rilucente i cui barbagli, dall’armatura e dall’elmo, salgono fino al cielo e diffondono il panico. La bocca del mostro, spalancata, evoca il terrificante grido di guerra che Achille, risplendente della fiamma che Atena gli fa sprigionare dal capo, lancia a tre riprese prima del combattimento. «Si direbbe che si tratta della voce sonora della tromba che squilla» e questa «voce di bronzo», nella bocca dell’Eacide, basta a far tremare di terrore le file nemiche.

Gorgone alata in corsa. Statua acroteriale, terracotta policroma, VII sec. a.C. da un tempio dorico (Siracusa). Siracusa, Museo Archeologico Regionale.

Non è necessario accettare la tesi di Thalia Phillies Howes, che collega Γοργώ, γοργός, γοργοῦμαι al sanscrito garġ, per riconoscere le connotazioni sonore della maschera della Gorgone. Thalia Phillies Howes scrive: «È chiaro che un qualche suono terrificante era la forza che in origine stava dietro la Gorgone: un suono gutturale, un urlo animale, che usciva dalla gola con un possente respiro, e che richiudeva una bocca spalancata». I nostri rilievi saranno più limitati e più precisi. Sappiamo da Pindaro che dalle mascelle vorticose delle Gorgoni lanciate all’inseguimento di Perseo si alza uno strepito lamentoso (ἐρικλάγταν γόον) e che queste grida escono ad un tempo dalle loro bocche di fanciulle e da quelle degli orribili serpi loro associati. Questo grido acuto, inumano (κλάζω, κλαγγή) è quello che nell’oltretomba urlano i morti nell’Ade (κλαγγή νεκύων). […] Per sottolineare, sul doppio registro visivo e sonoro, i legami della maschera di Medusa con la mimica facciale del combattente in preda alla frenesia bellica, insisteremo tuttavia su un particolare significativo. Tra gli elementi che rendono terrificante il personaggio del guerriero, accanto al grido formidabile, al bagliore del bronzo, alle fiamme che si sprigionano dalla sua testa e dai suoi occhi, il testo dell’Iliade aggiunge, nel caso di Achille, una notazione che attirò già l’attenzione di Aristarco: lo stridore dei denti (ὀδόντων καναχή). François Bader ha spiegato il senso di questo rictus sonoro collegandolo, attraverso i suoi paralleli nella letteratura irlandese, all’immagine del guerriero indoeuropeo che Georges Dumézil ha saputo ricostruire. Ebbene, nello Scudo, menzionando «le teste di terribili serpenti» che gettavano il terrore (φοβέεσκον) fra le tribù degli uomini, Esiodo riprende al v. 164 l’espressione omerica: «risuonava lo stridore dei loro denti» (ὀδόντων καναχή πέλεν); e al v.234, riferendosi questa volta ai serpenti delle Gorgoni in corsa sulla scia di Perseo, scrive che questi mostri «dardeggiavano la lingua, digrignavano i denti dal furore (μένει δ᾽ ἐχάρασσον ὀδόντας), lanciando sguardi selvaggi». Quando, le armi rilucenti, un raggio di fuoco negli occhi, Achille stravolge il volto in una smorfia terribile, batte le mascelle, lancia un grido inumano di guerra al pari di Atena Egioca, l’eroe, infuriato, posseduto dal μένος, presenta un volto da maschera gorgonica.

Exekias. Achille e Pentesilea. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere. 540-530 a.C. London, British Museum.

Bagliore folgorante delle armi, sfavillio insostenibile della testa e degli occhi, violento grido di guerra, rictus e stridore di denti – un altro aspetto ancora avvicina la faccia mostruosa di Medusa al guerriero posseduto dal μένος, il furore della carneficina. Lo si potrebbe situare nella rubrica «effetti della chioma». Quando sarà necessario precisare il posto del cavallo nel bestiario strettamente associato a Medusa e notare le affinità cavalline della stessa, dovremo segnalare i valori dell’aggettivo γοργός applicato al cavallo. È lo stesso termine usato da Senofonte per caratterizzare l’aspetto che i lunghi capelli conferiscono ai giovani guerrieri spartani. Per i giovani che escono dall’efebia il non tagliarsi i capelli non dipende da civetteria o da una scelta individuale; è, per tutta una classe d’età, un obbligo stretto, il segno e quasi la consacrazione del loro stato: «A coloro che uscivano dall’efebia Licurgo ingiunse di portare i capelli lunghi, ritenendo che sembrassero più grandi, più nobili, più terribili (γοργοτέρους)». Plutarco conferma e precisa Senofonte: allora «allentavano anche ai giovani la rigidezza della disciplina (ἀγωγή): permettevano loro di abbellire la chioma, adornare le armi e le vesti, godendo che scalpitassero e sbuffassero come cavalli prima della corsa. All’uscire dall’adolescenza si lasciavano crescere i capelli, e specialmente in tempo di pericolo curavano che fossero scriminati e lucidi, ricordandosi di un detto di Licurgo: “I capelli rendono i belli più affascinanti e i brutti più orribili (φοβεροτέρους)”».
Una glossa ci indica il nome di questa operazione che mirava a far brillare la lunga chioma: «ξανθίζεσθαι: a Sparta “curarsi i capelli”; in Attica “tingersi i capelli”». Ξανθός significa «biondo» nel senso di «dorato», in un’accezione di splendore, come per l’oro e per il fuoco. Ξανθός è diverso da χλωρός, giallastro, con una sfumatura di pallore, addirittura di debolezza: la paura, δέος, è detta anche χλωρόν. Xanthos è anche un nome di cavallo, il cavallo guerriero e divino. Uno dei cavalli di Achille, nato da Zefiro e da Podarge, si chiama Xanthos. E Xanthos è anche il nome del cavallo di Castore, quello dei due Dioscuri che rappresenta il giovane e il cavaliere. Presso i Macedoni il termine designa le cerimonie rituali di purificazione della cavalleria, le Ξανθικὰ, nel corso delle quali si sacrificava al dio Xanthos. C’è un rapporto tra le fulve criniere dei cavalli da guerra e il biondo ramato dei capelli che il giovane guerriero, all’uscir dall’efebia, fa agitare come una criniera.

Metopa. Perseo decapita Medusa, assistito da Atena, dal Tempio C (Selinunte). VI secolo a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

Nella Vita di Lisandro Plutarco segnala, per respingerla, un’altra interpretazione di cui si era fatto eco Erodoto e che collegava il costume spartano di mantenere i capelli lunghi alla battaglia in cui si affrontarono, per la Tireaide, due corpi scelti di trecento combattenti che rappresentavano per Argo e Sparta, le due città in lotta, il fior fiore della gioventù guerriera. Alla fine gli Argivi furono vinti. «Si rasero allora gli Argivi la testa – mentre prima portavano d’obbligo i capelli lunghi – […] Mentre i Lacedemoni istituirono una legge opposta: decidendo, con opposto costume a quello solito, di portare i capelli lunghi». Plutarco respinge invece la spiegazione che riallaccia l’usanza spartana alla volontà dei vincitori di distinguersi dai vinti: «Non è vero ciò che dicono alcuni, e cioè che gli Argivi, dopo aver subito una grave sconfitta, si facevano tagliare i capelli in segno di lutto, e viceversa gli Spartani, per aver combattuto bene, se li lasciarono crescere in segno di esultanza […]. Anche quest’usanza si deve a Licurgo. Egli, raccontano, disse della chioma lunga che rende i belli più affascinanti all’aspetto, e i brutti più orribili».
Tuttavia, se del racconto erodoteo si considera meno il fondamento «storico» che l’autore pretende di dare alla regola spartana e si sottolinea maggiormente il rapporto di opposizione che vi si esprime tra capelli rasati, onta della sconfitta, lutto e dolore, e capelli lunghi, vittoria, celebrazione, si potrà concludere che le due spiegazioni dell’antica usanza non sono contraddittorie. La bellezza virile del guerriero, enfatizzata da una capigliatura lunga e ondeggiante, comporta un aspetto «terrificante» il cui effetto sul campo di battaglia è, nel senso attivo del termine, «segno» di vittoria, così come i capelli rasati sono, con le altre manifestazioni del lutto, uno dei mezzi rituali che, oltraggiando e imbruttendo il volto dei viventi, consente di avvicinarli, nel corso dei funerali, a quel mondo di fantasmi senza forza e senza smalto, dove si dirige il defunto di cui si piange la scomparsa.
Il contrasto capelli lunghi/capelli corti chiarisce forse un’altra usanza spartana. A Sparta si conservò la tradizione di sposarsi con il rapimento della donna: «Rapita, la sposa veniva presa in consegna dalla madrina (νυμφεύτρια), così era chiamata, che le rasava il capo, le faceva indossare un mantello e dei calzari virili…».
Nessuno negherà che si tratta di un rito di passaggio, con mascheramento e inversione dello statuto sessuale. Ma questo non è tutto, e forse non è nemmeno l’essenziale, nella misura in cui il giovane, divenuto uomo compiuto all’uscire dall’efebia – come la giovane diventa donna completa entrando nello stato matrimoniale –, conserva i suoi capelli lunghi proprio in segno della sua piena virilità, una virilità che fin nella formazione oplitica conserva il ricordo e quasi la traccia di quel «furore» che, in tempi eroici, doveva abitare l’anima del giovane guerriero perché questi portasse il terrore nel campo nemico. Rasando il capo della giovane sposa, si estirpa da lei ciò che ancora poteva restare di mascolino e di guerresco nella sua femminilità, di selvaggio nel suo nuovo stato matrimoniale. Si evita di introdurre in casa, sotto la maschera della sposa, la faccia di Medusa.
Esichio nota che a Sparta è detto πόλος il giovane, o la giovane, non civilizzato, non integrato. Πόλος è il giovane cavallo, puledro o puledra. Nella Lisistrata Aristofane evoca le κόραι, le giovani vergini di Sparta: «Simili a puledre lungo l’Eurota scherzano le fanciulle fitta polvere levando coi piedi, le chiome agitando come fossero Baccanti che sfrenate brandiscono il tirso».

Pittore Macrone. Una menade invasata. Pittura vascolare a una kylix attica a figure rosse, 490-480 a.C. c. da Vulci. Berlin, Antikensammlung.

La selvatichezza del guerriero maschio si esprime attraverso la sua capigliatura lunga e fluttuante, simile alla criniera di un cavallo. La selvatichezza della giovane si manifesta nei suoi capelli sciolti che l’assimilano ad una puledra in libertà. Il rituale della testa rasata, per la giovane sposa, gioca su questi due simbolismi contrastanti che nella loro opposizione si rafforzano, dato che la sposa, se deve distinguersi dalla παρθένος per entrare nello stato coniugale, deve anche distinguersi nettamente dal marito.
Tagliando i capelli delle donne appena sposate, non soltanto si addomesticavano queste puledre non ammansite, ma si esorcizza in esse quell’inquietante elemento di selvatichezza che Atena e Artemide, le due vergini escluse dal matrimonio, detengono ciascuna a suo modo, Atena la guerriera mediante il volto di Medusa che tiene sul petto, Artemide la nutrice, la giovane selvaggia, con il lato gorgonico del suo personaggio e con le maschere che intervengono nei riti di iniziazioni dei giovani cui ella presiede.
Con l’Odissea, cambiamento di scena. Da guerresca, questa si fa infernale. I luoghi sotterranei, il regno della Notte, non sono tuttavia un mondo di silenzio. Nel libro XI Odisseo racconta il suo arrivo nell’Ade; la folla dei morti, ivi radunata, solleva «terribili grida» (ἠχῇ θεσπεσίῃ). «E verde orrore mi prese che il capo della Gorgone, il mostro tremendo, dall’Ade mandasse la lucente Persefone» (ἐμὲ δὲ χλωρὸν δέος ᾕρει,/μή μοι Γοργείην κεφαλὴν δεινοῖο πελώρου/ἐξ Ἀίδεω πέμψειεν ἀγαυὴ Περσεφόνεια). Subito Odisseo retrocede. Medusa è a casa propria nel paese dei morti di cui vieta l’entrata a ogni uomo vivente. Il suo ruolo è simmetrico a quello di Cerbero: lei impedisce al vivo di penetrare nel regno dei morti, Cerbero impedisce al morto di ritornare nel mondo dei vivi. Al pari di Omero, Aristofane colloca nell’Ade, accanto a Cerbero, Stige ed Echidna, le Gorgoni; Apollodoro racconta, anche lui, che davanti ad Eracle disceso negli Inferi tutte le ψυχαί fuggirono, eccetto Meleagro e Medusa. Dal fondo dell’Ade dove dimora, la testa di Medusa sorveglia, custodisce, vigila i confini del regno di Persefone. La sua maschera esprime e conserve l’alterità radicale del mondo dei morti cui nessun vivente può avvicinarsi. Per valicarne la soglia bisognerebbe aver affrontato la faccia di terrore ed essersi trasformati, secondo l’immagine di Medusa, in quello che sono i morti: teste, teste vuote, prive di forza, di ardore, i νεκύων ἀμενηνὰ κάρηνα secondo le parole di Omero.
Il volto del vivo, nella singolarità dei suoi tratti, è uno degli elementi della persona. Ma, nella morte, quella testa alla quale ci si trova ridotti, quella testa ormai inconsistente e senza più forza, pari all’ombra di un uomo o al suo riflesso in uno specchio, è annegata nell’oscurità, incappucciata di tenebre. È una testa vestita di notte, simile, nel regno dell’ombra, a quei volti che alla luce del sole alcuni eroi, come Perseo, ricoprono dell’elmo di Ade per rendersi così invisibili agli occhi dei viventi. L’Ἄιδος κυνέη, l’elmo in pelle di cane, copricapo di Ade, «contiene le tenebre lugubri della Notte» secondo le parole di Esiodo. Esso avvolge come una nube tenebrosa tutta la testa, la maschera, rendendo chi la porta invisibile a tutti gli sguardi, alla pari di un morto.

Uomo mascherato (Phersu) in fuga. Affresco, 540-530 a.C. c. dalla Tomba degli Auguri, Tarquinia, Necropoli di Monterozzi.

Le affinità infernali di Medusa orientano la ricerca in una duplice direzione. In primo luogo, ci portano a fare una digressione in ambito etrusco e ad aprire una parentesi circa la tesi di Altheim, ripresa e modificata in particolare da Agnello Baldi e da J.H. Croon. Richiamando la derivazione del latino persona (maschera, ruolo, persona) dall’etrusco Phersu, Altheim istituiva un’equivalenza tra Phersipnai e Περσεφόνη. Phersu figura in due affreschi della tomba detta degli Auguri, a Tarquinia (verso il 530 a.C.). Su una delle pareti laterali della camera mortuaria si affrontano due personaggi. L’uno porta una maschera tenebrosa che gli nasconde il volto e presenta una barba bianca che sembrerebbe posticcia. Un’iscrizione lo designa come Phersu, che dunque significherebbe «uomo mascherato», «portatore di maschera». Questo personaggio mascherato tiene con le due mani una lunga corda che si attorciglia alle gambe e alle braccia del suo avversario. Un’estremità di questa corda è fissata al collare di un cane che morde la gamba sinistra del secondo lottatore che impugna nella destra una clava e la cui testa è avvolta da un drappo bianco. Dalle ferite il sangue cola copioso. Lo stesso gruppo di due personaggi è rappresentato sulla parete di fronte. L’uomo mascherato non ha più né laccio né cane. Fugge a gambe levate, inseguito dall’avversario verso il quale gira la testa protendendo il braccio destro con la mano levata. L’interpretazione delle due scene è difficile e nessuna spiegazione sembra del tutto soddisfacente. Per Altheim si tratterebbe di una lotta rituale all’ultimo sangue in un gioco funebre in onore del defunto. Il termine Phersu designerebbe il Portatore di maschera officiante nel corso della cerimonia. Per J.H. Croon, la maschera costituisce nei giochi funebri un modo di figurare lo spirito del morto; nel corso di una danza rituale il Portatore di maschera mima e attualizza la Potenza d’Oltretomba, come Persefone, attraverso la maschera di Medusa posta sotto la sua autorità, presiede di persona al mondo infernale. Per R.B. Onians le scene hanno un significato diverso: il lottatore, armato di clava e attaccato dal cane, sarebbe Eracle disceso agli Inferi; Phersu andrebbe allora interpretato come Ade, alla fine vinto e messo in fuga. Per Agnello Baldi, Phersu, Περσεύς, Ade sono una sola e identica divinità. Comunque stiano le cose, nelle pitture murali etrusche di Orvieto e di Tarquinia, Ade è figurato con un elmo di pelle di lupo o di cane, che evoca sia la κυνέη indossata da Perseo sia la maschera di Phersu.

Rito del Phersu. Affresco, 540-530 a.C. c. dalla Tomba degli Auguri, Tarquinia, Necropoli di Monterozzi.

La seconda via offre un terreno più sicuro. Si tratta di seguire Esiodo in quei confini del mondo dove la Teogonia localizza le Gorgoni e le associa a tutta la stirpe dei mostri loro apparentati. Le Gorgoni appartengono alla discendenza di Forco e Ceto, il cui nome evoca al tempo stesso un’enormità mostruosa e, nel più profondo del mare e della terra, cavernose voragini. In effetti, tutti i figli della coppia hanno in comune, accanto alla mostruosità, il fatto di abitare «lontano dal dio e dagli uomini», nelle regioni sotterranee, al di là dell’Oceano, alla frontiera della Notte, spesso per svolgervi il ruolo di guardiani, addirittura di spauracchi, che sbarrano l’accesso a luoghi proibiti. Nati dall’unione di Ponto e Gea, Forco e Ceto generano prima le Graie, le vergini canute della nascita, che uniscono in sé il giovane e il vecchio, la freschezza della bellezza e le rughe di una pelle paragonabile a quella pellicola ruvida che si forma sulla superficie del latte raffreddato e che ha per l’appunto il loro nome: γραῦς, pelle rugosa. La prima delle Graie esiodee si chiama Πεμφρηδώ; πεμφρηδών è una sorta di vespa vorace che scava cavità sotterranee. La seconda si chiama Ἐνυώ, nome che evoca la signora dei combattimenti e il violento grido di guerra, l’invocazione squillante (ἀλαλή), che si alza in onore di Enialo. Sorelle delle Graie, le tre Gorgoni, che uniscono nel loro gruppo il mortale e l’immortale, abitano al di là delle frontiere del mondo, dalla parte della Notte, nel paese delle Esperidi dalla voce canora (λιγύφωνοι). La Gorgone mortale, di nome Medusa, si unisce a Poseidone in una tenera prateria fiorita di fiori primaverili, paragonabile a quella dove Ade rapisce la giovane Kore per portarla sottoterra e farne Persefone. Quando Perseo ebbe reciso la testa di Medusa, le uscirono dal collo Crisaore e il cavallo Pegaso che si slanciò verso il cielo. Crisaore generò Gerione tricefalo, colui che fa risuonare la sua voce (γηρύω), che fa esplodere un γήρυμα come l’ὑπέρτονον γήρυμα, il grido acutissimo della tromba d’Etruria.

Dea assisa in trono (forse Persefone?). Statua, marmo, 460 a.C. ca. da Taranto. Berlin, Pergamonmuseum.

A Gerione è associata una dei nati dalla terza nidiata di Forco e Ceto, l’atroce Echidna, metà ragazza metà serpente, che abita nelle segrete profondità della terra, lontano dagli dèi e dagli uomini. Tra altri mostri, questa Echidna dà a sua volta la vita ai due cani ringhiosi, stizzosi e latranti, ai due cani simmetrici Orto, cane di Gerione, e Cerbero, cane di Ade, la bestia dalle cinquanta teste, «dalla voce di bronzo», che custodisce le dimore piene di frastuono (δόμοι ἠχήεντες) del suo padrone e di Persefone, la Temibile. In questi stessi luoghi dell’Averno, regno della Tenebra e del Terrore, goccia l’acqua dello Stige (Στύξ), il solenne testimone dei giuramenti degli dèi. Alle divinità colpevoli di spergiuro questa acqua primordiale (ὕδωρ ὠγύγιον) porta ciò che corrisponde alla morte per gli Immortali che ad essa non sono sottoposti: un κῶμα temporaneo che li avvolge, privati di respiro e di voce, per un anno buono, così come la morte avvolge per sempre di tenebre la testa degli uomini. In questo senso Stige rappresenta per gli dèi ciò che è Medusa per le creature umane: un oggetto di orrore e di terrore. Come Stige è στυγερή ἀθανάτοισι, orrore degli Immortali, così le Gorgoni, che nessun essere umano può guardare senza spirare all’istante, sono βροτοστυγεῖς, l’orrore dei mortali. Styx è anche il barbagianni, doppio sinistro della civetta, uccello infausto, caratterizzato dalla grossa testa, dall’occhio malvagio, dal grido notturno della sua bocca.

Persefone. Pinax, terracotta, V sec. a.C. da Mannella (Locri). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.

Nelle zone infernali Tenebre, Spavento, figure e grida mostruose si assommano per esprimere l’«alterità» di Potenze estranee al dominio delle divinità celesti come pure al mondo degli uomini, lo statuto interamente separato di esseri ai quali, come dice Eschilo a proposito delle γραῖαι παλαιαὶ παῖδες, le vecchie fanciulle ancestrali, non si mescolano né dio, né uomo, né bestia.
Le sonorità inquietanti fanno a tal punto parte dell’universo al quale si collegano le Gorgoni che nel passo dello Scudo dove si parla della loro corsa, Esiodo aggiunge alle indicazioni puramente visive, di cui si è servito fino a quel momento per descrivere la scenda dello scudo di Eracle, notazioni auditive: sotto i loro piedi lo scudo risuonava con un grande clamore stridente e sonoro (ἰάχεσκε σάκος μεγάλῳ ὀρυμαγδῷ /ὀξέα καὶ λιγέως). Le uniche ulteriori indicazioni sonore del testo riguardano, l’abbiamo visto, il battito delle mascelle dei serpenti che terrorizzano gli esseri umani o di quelli che si attorcigliano intorno alle cinture delle Gorgoni.
Nella schiatta dei mostri nati da Forco e Ceto i serpenti hanno il posto d’onore. I suoni stridenti emessi dalla strozza delle Gorgoni o che vanno modulando le loro mascelle vorticose sono anche quelli dei serpenti che, di concerto, digrignano e battono i denti. Con il serpente, sono il cane e il cavallo a costituire le tre specie animali la cui forma e la cui voce entrano più specificamente nella composizione del «mostruoso». Se la «voce di bronzo» di Cerbero (χαλκεόφωνος) echeggia nelle dimore dell’Ade, le Erinni, quando Eschilo le paragona a Gorgoni, fanno sentire grugniti, ringhi stridenti; gemono, come «geme» negli Inferi il lungo lamento degli uomini suppliziati; esse «latrano come cani», dice il tragediografo, ed il termine impiegato, κλαγγαίνω, richiama la κλαγγή dei morti nell’Odissea e il lamento stridente e sonoro delle Gorgoni e dei loro serpenti.

Gruppo del pittore Leagro. Gorgoneion. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure nere, 520 a.C. ca. da Cerveteri. Paris, Cabinet des médailles.

Anche il cavallo, per come agisce e per le sonorità che gli sono proprie, può tradurre la presenza inquietante di una Potenza degli Inferi che si manifesta in forma animale. Alla sua nervosità, alla sua tendenza ad imbizzarrirsi di colpo per effetto di un improvviso terrore come quello causato dalla potenza demoniaca di Tαράξιππος, il Terrore dei cavalli (τὸ τῶν ἵππων δεῖμα), che lo porta a diventare frenetico e selvaggio fino a divorare la carne umana, a fremere, a sbavare, a coprirsi di schiuma bianca, bisogna aggiungere il nitrito, il fragore degli zoccoli che martellano la terra, il sordo digrignare dei denti (βρυγμός) e infine, tra le mascelle, il rumore sinistro del morso che provoca terrore, facendo risuonare l’omicidio. Nel lessico riferito al cavallo, γοργός assume un significato quasi tecnico. Riferito a tale animale, infatti, γοργοῦμαι significa «scalpitare». Senofonte nota, nell’Equitazione, che il cavallo nervoso e impetuoso è terribile a vedersi (γοργὸν ἰδεῖν), che le sue nari spalancate lo rendono γοργότερον, che i cavalli, quando si uniscono in torme, con il battito degli zoccoli, i nitriti, gli sbuffi moltiplicati dal numero, sembrano più ardenti e focosi (γοργότατοι).

Caere: una potente alleata

di F.Chiesa – G.M. Facchetti, s.v. Caere, in Guida insolita ai luoghi, ai monumenti e alle curiosità degli Etruschi, Bergamo 2011, pp. 81-90.

Il geografo greco Strabone (5.2.23; 8) attribuiva la nascita di Cere ai mitici Pelasgi, i quali avrebbero fondato altre città su suolo italico proprio lungo la fascia costiera etrusca e nell’immediato entroterra tirrenico. Il nome etrusco originario della città era Kaiseri- (neoetr. Caisri-, Ceisri-), trascritto anche sulla lamina aurea in punico di Pyrgi come K(a)jš(e)rj; in latino avvenne il passaggio Kaiseri>*Cairere>Caere (indeclinabile), da cui l’attuale denominazione di Cere o Cerveteri (Caere Vetus). Le fonti greche (già Erodoto) designavano Cere col nome di Àgylla, che ritenevano la denominazione primitiva, “pelasgica”.

Strabone (5.2.3) esplicita: «Prima, infatti, Cere era chiamata “Agylla” e si dice fosse fondazione dei Pelasgi venuti dalla Tessaglia; quando i Lidi, che poi furono chiamati “Tirreni”, attaccarono gli Agillei, si dice che un tale, giunto alle mura, chiedesse il nome della città. Una delle sentinelle tessale, invece di rispondere alla domanda lo salutò dicendo “chaìre!” e, avendo accolto ciò come presagio, i Tirreni cambiarono così il nome della città conquistata». Questa breve leggenda cercava ingenuamente di dar conto dal latino Caere. Esiste anche un gentilizio etrusco, Che(i)ritna, che sembra formato sull’etnico latino Caerit– «abitante di Caere»; in questo caso l’etrusco Che(i)ri– riprodurrebbe la forma latina con una ch– (χ-) aspirata iniziale, derivante forse dalla grecizzazione del nome sulla base della leggendaria associazione con il gr. χαῖρε.

È da reputare molto verosimilmente che il cognomen Caesar” sia stato tratto dal nome etrusco di Cere. La città sorgeva su un pianoro tufaceo di natura erosiva a circa sei chilometri dal litorale marino, laddove confluiscono i corsi d’acqua del Manganello e della Mola. Nei periodi di apogeo, la città crebbe a tal punto in floridezza culturale e potenza che il suo territorio stesso era notevolmente esteso, considerando che gravitava su Cere una serie di centri minori distribuiti lungo la fascia costiera, la quale oltrepassava il confine settentrionale di Civitavecchia: esso difatti si estendeva dalla foce del Mignone (l’antico Minio) sino a quella dell’Arrone, lambendo verso l’interno da un lato la valle tiberina, sul versante meridionale, dall’altro il lago di Bracciano su quello settentrionale, ivi compresi i Monti della Tolfa con i ricchi giacimenti metalliferi. Fu l’unica città etrusca a possedere un thesaurós («piccolo sacello») nel santuario greco a Delfi dedicato ad Apollo, a ratificare la sua potenza e lo stretto legame con il mondo ellenico che la città istituì, abbondantemente testimoniato dalle numerosissime importazioni greche di materiali e suppellettili ceramiche.

Virgilio fornisce velati riferimenti al periodo regio di Cere, proiettando la figura di un feroce re Mezenzio addirittura fino ai tempi del presunto arrivo di Enea (inizio del XII secolo a.C.). In effetti, le notizie semi-leggendarie dell’Eneide sulla rivolta dei Ceriti contro il crudele Mezenzio, che fu deposto e costretto all’esilio, potrebbero celare un nucleo di verità (anche se la cronologia degli avvenimenti andrebbe drasticamente abbassata, forse al VII secolo a.C.), dato che recentemente su un vaso ceretano del 700-650 a.C. si è riusciti a leggere l’epigrafe mi Laucies Mezenties («io di Laucie Mezenties»).

 

Iscrizione da un vaso ceretano del 700-650 a.C. mi Laucies Mezenties.
Iscrizione da un vaso ceretano del 700-650 a.C.: mi Laucies Mezenties.

 

Ciò dimostra, come minimo, l’esistenza di un’importante gens Mezenties (lat. Mezentius) a Cere in pieno VII secolo a.C. Dalle lamine di Pyrgi sappiamo che verso il 500 a.C. Cere era retta da Thefarie Velianas, che, nonostante sia titolato «re di Cere» nella traduzione fenicia, doveva probabilmente ricoprire una magistratura suprema più simile a una dittatura, che a una monarchia.

Lo stesso riferimento nel testo etrusco, zilacseleita-, è per varie ragioni plausibilmente avvicinabile al praetor maximus romano dei primi decenni della Repubblica. A Roma il rapporto tra praetor maximus e praetor minor (in seguito la praetura maxima fu raddoppiata e i titolari furono chiamati consules, mentre il praetor minor fu detto semplicemente praetor) era direttamente proporzionale a quello intercorrente tra le cariche militari del dictator e del magister equitum. Dunque sembra che il magistrato supremo municipale di Cere dell’età romana (i dati ci provengono dall’epigrafia), nella sua unicità e nella sua titolatura (dictator, appunto), possa aver in qualche misura riprodotto l’antico ordinamento istituzionale repubblicano etrusco. D’altronde sappiamo che il periodo repubblicano a Cere fu interrotto almeno dal “regno” di Orgolnius Velthurne[nsis], che fu cacciato dall’intervento di Aulo Spurinna, zilath di Tarquinia e probabile comandante dell’esercito tarquiniese durante la guerra con Roma del 358-351 a.C. Si può arguire che dal re Orgolino (etr. *Urχlnie– o simili) di Cere sia discesa la nobile famiglia etrusca cui appartenne quell’Urgulania, che Tacito ricorda come legata da strettissima amicizia con Livia Augusta. Plautia Urgulanilla, una nipote di Urgulania, fu terza moglie dell’imperatore “etruscologo” Claudio.

La grandezza di Cere trova peraltro ampio riscontro negli scritti degli antichi storici, dal momento che essa viene più volte nominata in merito alle vicende che fra il periodo arcaico e la romanizzazione interessarono lo scenario storico, politico e culturale del Mediterraneo. Si può a tal proposito ricordare che nel 540 a.C. gli Etruschi di Cere alleati dei Cartaginesi sconfissero i Greci di Focea nella battaglia di Alalia (Aleria, Corsica), a essi sostituendosi nell’occupazione commerciale dell’isola. Le fonti non mancano di accennare alla metropoli tirrenica anche nella più tarda fase della conquista romana, quando Cere, a differenza delle altre città etrusche, sembrò a tratta palesare un atteggiamento più consenziente nei confronti della nuova potenza.

Lastra fittile in terracotta, raffigurante un oplita cerite, da Cerveteri. Museo Archeologico Nazionale di Cerveteri.
Oplita etrusco. Lastra fittile dipinta, IV-III sec. a.C. ca. Cerveteri, Museo Archeologico Nazionale.

Neppure la guerra fra Roma e Veio, conclusasi nel 396 a.C. con la sconfitta di quest’ultima, non parve nell’immediato guastare i rapporti amichevoli che intercorrevano tra Cere e Roma, tanto che, quando nel 390 a.C. irruppero i Galli, i Romani scelsero di riparare le loro sacre reliquie proprio nella metropoli etrusca. In quell’occasione le fu conferita la civitas sine suffragio, ossia la cittadinanza romana senza diritto di voto. Ma un nuovo episodio era in procinto di minacciare la potenza cerite: nel 384 a.C. Dionigi di Siracusa guidò un’incursione devastante ai danni dei porti della città, perpetrando il saccheggio del santuario di Pyrgi. Nel 352 a.C., tuttavia, i rapporti con Roma subirono un’incrinatura, in seguito al favore accordato dai Ceriti a Tarquiniesi e Falisci nella guerra contro Roma. In nome delle antiche alleanze lo scontro fu scongiurato e la potenza egemone accettò di garantire una tregua di cent’anni, secondo quanto raccontato dagli storici Tito Livio e Cassio Dione, forse in cambio di una porzione cospicua del suo vasto territorio. Nel 273, infatti, Roma si arrogò il diritto di fondare a scopo strategico una serie di colonie sul litorale ceretano (Pyrgi dopo il 264 a.C., Castrum Novum, nel 264 a.C. e Alsium nel 247 a.C.). Assorbita nell’orbita romana, con la creazione della colonia nel 264 a.C. Cere perse ogni velleità di autonomia. Cere possedeva tre porti sul mar Tirreno: Pyrgi (Santa Severa), Alsium (Palo: poche tombe etrusche ne indiziano il minor portato insediamentale rispetto a Pyrgi) e Punicum (Santa Marinella).

All’abitato antico, che copriva un’area di circa centocinquanta ettari, si è parzialmente sovrapposta la città moderna. Le ricerche condotte negli ultimi decenni a Vigna Parrocchiale hanno permesso di meglio delineare le fasi di occupazione dell’abitato, per le quali i materiali raccolti sul pianoro sembrerebbero indicare la prima Età del Ferro. Sarà tuttavia nel pieno arcaismo (VI secolo a.C.) che la zona conoscerà una vera monumentalizzazione, con una serie di edifici decorati gravitanti intorno a uno spazio triangolare, nel quale è forse da riconoscere un quartiere residenziale riservato a rappresentanti di un’alta classe sociale. Sul finire del VI secolo a.C. o al principio del successivo, l’intera zona appare rasa al suolo e i materiali relativi agli alzati degli edifici scaricati entro una cavità. In luogo delle strutture arcaiche fu costruito un tempio tripartito, arricchito di un sistema di copertura con terrecotte architettoniche, destinato a godere di un lungo periodo di vita. Un’area sacra sorgeva anche in località Sant’Antonio e comprendeva due templi a pianta rettangolare di tipo “tuscanico”, racchiusi da un recinto (témenos) e affacciati su una sorta di terrazza, alla base della quale si sviluppava una via cava che conduceva in città. Il santuario, che fu frequentato soprattutto in epoca arcaica, doveva essere titolato a Hercle (Eracle) e forse a una divinità femminile (Menerva/Minerva). Esso insisteva su un’area che, al pari di Vigna Parrocchiale, fu frequenta sin dalla prima Età del Ferro, come documentano i resti di capanne ovali individuate nel piazzale antistante ai templi stessi. In precedenza erano già stati rinvenuti i resti di almeno otto edifici templari con relativa decorazione in terracotta, ivi compresa un’importante stipe votiva del tempio del Manganello, ubicato nell’area meridionale della città.

Planimetria dell'antica area urbana di Caere (Cerveteri).
Planimetria dell’antica area urbana di Caere (Cerveteri).

Le necropoli, distribuite ad anello tutt’intorno al centro antico, coprono un arco cronologico assai vasto: le più antiche, con tombe a incinerazione in pozzetto e inumazioni in fossa, si trovano in località Cava della Pozzolana e al Sorbo, a sud-ovest della città, tra i fossi della Mola e del Manganello, e appartengono alla prima Età del Ferro (IX-VIII secolo a.C.). L’area cimiteriale del Sorbo consta soprattutto di tombe a tumulo riferibili alla piena epoca Orientalizzante (VII secolo a.C.), fra le quali si annovera la celebre Tomba Regolini-Galassi, che ha restituito un sontuoso corredo di vasellame e suppellettili, conservato al Museo Gregoriano Etrusco in Vaticano. Particolarmente suggestiva appare anche la necropoli nord-occidentale della Banditaccia, costituita da numerose e grandi tombe a tumulo con basamento a tamburo tufaceo talora di cospicue dimensioni, come pure quelle di Monte Abatone, con un minor numero di tombe visibili ma egualmente importanti, e della Bufolareccia. In tempi recenti due tombe a tumulo orientalizzanti (intorno alla metà del VII secolo a.C.), simili per struttura alla Regolini-Galassi e ricche di ceramiche d’importazione greca, sono venute in luce lungo la via di percorrenza che collegava la città di Cere al suo porto di Alsium. I corredi delle necropoli ceretane, al pari delle decorazioni fittili e delle terrecotte dipinte dai templi, sono per la maggior parte conservate al Museo di Villa Giulia, mentre singoli nuclei di materiali si trovano al Museo Gregoriano Etrusco in Vaticano, al Museo dei Conservatori, al Louvre e al British Museum. E a Cerveteri presso il Palazzo Ruspoli, dove nel 1967 è stata allestita un’altra raccolta archeologica.

Urna funeraria in terracotta policroma, detta «Sarcofago degli Sposi», dalla Necropoli della Banditaccia (Cerveteri). Tardo VI secolo a.C. Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma.
Urna funeraria in terracotta policroma, detta «Sarcofago degli Sposi», dalla Necropoli della Banditaccia (Cerveteri). Tardo VI secolo a.C. Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma.

Le più antiche tombe a tumulo dai caratteri monumentali (con diametro pari ad almeno trenta metri) risalgono alla prima fase del periodo Orientalizzante (inizi del VII secolo a.C.) e si trovano nella necropoli della Banditaccia. Si tratta del Tumulo del Colonnello (tomba 1) e della cosiddetta Tomba della Capanna, nel Tumulo II. La riproduzione dell’architettura domestica interessa soprattutto l’andamento interno delle pareti della camera, che aggettano direttamente da terra o dai bassissimi muri laterali, come falde di un tetto che si congiungono alla sommità. Lungo le pareti, in corrispondenza della porzione di pavimento che in epoca successiva sarà destinata a essere occupata dalle banchine in pietra sulle quali venivano adagiati i defunti, corre a ferro di cavallo una striscia di ciottoli di fiume. Le camere sono preferibilmente situate a nord-ovest, che nella mappa celeste degli Etruschi era la zona riservata agli dèi Inferi.

L’apparizione improvvisa di queste grandi espressioni dell’architettura funeraria nella prima metà del VII secolo a.C. dopo il periodo villanoviano è da intendersi come legata a un fenomeno storico di più complessa e articolata portata: soluzione architettonica ignota al suolo italico e greco, essa trova convincenti paralleli in una precisa area dell’Asia Minore (Lidia), con il suo retroterra assiro e ittita, cui rimandano le modanature del tamburo, e nella vicina ed eclettica Cipro, in quest’epoca sottoposta a particolari legami con quella regione.

La componente orientale microasiatica, del resto, appartiene già all’immagine dell’origine degli Etruschi, che lo storico greco Erodoto (I, 94) tramandava fossero giunti da una regione dell’Asia Minore guidati dal loro re Tirreno, figlio di Ati, sovrano della Lidia.

La cura rivolta dagli architetti ceretani all’allestimento interno di queste dimore funebri escavate nel tufo, che riproducono l’ambiente domestico e le sue partizioni, si avverte in una serie di tumuli assai caratteristici specialmente per il rilievo conferito alla carpenteria del tetto: gli esempi più notevoli e particolari sono per quest’epoca rappresentati dalla camera laterale sinistra della Tomba della Nave e della Tomba dei Leoni Dipinti, il cui soffitto termina nella falda anteriore con una sorta di ventaglio, ossia in una raggiera dei travetti (cantherii, templa) che si dipartono dalla terminazione a disco della trave portante del tetto (columen).

Patera fenicia in argento dorato, decorato a sbalzo, dalla Tomba Regolini-Galassi, Necropoli del Sorbo (Cerveteri). Metà del VII secolo a.C. ca. Museo Gregoriano Etrusco in Città del Vaticano.
Patera fenicia in argento dorato, decorato a sbalzo, dalla Tomba Regolini-Galassi, Necropoli del Sorbo (Cerveteri). Metà del VII secolo a.C. ca. Museo Gregoriano Etrusco in Città del Vaticano.

In questi monumenti il legame con le abitazioni protostoriche, che conosciamo anche attraverso il modello delle urne cinerarie a capanna, è ancora piuttosto evidente. In altre tombe compaiono invece soluzioni più semplici, salvo i casi, come nella Tomba delle Cinque Sedie, nei quali il significato dello spazio funebre è affidato anche agli arredi interni: fra questi spiccano i cinque seggi collocati all’ingresso del sepolcro su cui erano in origine adagiate cinque statuine di terracotta, sia maschili sia femminili, che molto probabilmente rappresentavano gli antenati dei proprietari del sepolcro, cui era dovuto una sorta di culto domestico in qualità di capostipiti della famiglia. Con la fase più recente del periodo Orientalizzante (ultimo trentennio del VII secolo a.C.- inizi del VI) le tombe assumono una pianta più articolata rispetto ai decenni precedenti: nasce il tipo cosiddetto “a vestibolo”, ovvero un ambiente che si distende in larghezza rispetto all’entrata e sulla cui parete di fondo sono state ricavate tre porte che immettono in altrettanti piccoli ambiti tra loro allineati e talora provvisti di finestre.

A Cere splendidi esempi sono costituiti dalle Tombe dei Capitelli, della Cornice e Giuseppe Moretti, con possenti colonne divisorie, mentre la solida influenza emanata dalla metropoli costiera sul versante delle originali innovazioni architettoniche trova ampia ricezione, seppur con ritardo, anche nell’entroterra viterbese in varie località, fra le quali San Giuliano, Castel d’Asso e Tuscania. Nella seconda metà del VII secolo a.C. Cerveteri esperisce inoltre la megalografia tombale, attraverso le pur poche tombe con ornati pittorici: nella necropoli della Banditaccia spiccano la Tomba degli Animali Dipinti, con bestie in movimento o colte in scene di lotta, la già ricordata Tomba dei Leoni Dipinti, con un personaggio maschile tra leoni bianchi e rossi, entrambe influenzate dai bestiari della ceramica greca di Corinto esportata in Etruria; e la Tomba della Nave, a cinque camere, con insolita scena di naviglio e anch’essa con sarcofago come quella degli Animali Dipinti. In questo periodo il colore viene ancora steso direttamente sulle pareti rocciose.

Iscrizione dalla patera fenicia, dalla Tomba Regolini-Galassi, Necropoli del Sorbo (Cerveteri). Metà del VII secolo a.C. ca. Museo Gregoriano Etrusco in Città del Vaticano.
Iscrizione dalla patera fenicia, dalla Tomba Regolini-Galassi, Necropoli del Sorbo (Cerveteri). Metà del VII secolo a.C. ca. Museo Gregoriano Etrusco in Città del Vaticano.

Tuttavia nella prima metà del VI secolo a.C. la secolare tradizione che aveva visto il tumulo protagonista del paesaggio ceretano, specie nelle necropoli del Sorbo e della Banditaccia, si viene progressivamente rompendo: la necessità di regimentare gli spazi all’interno delle aree cimiteriali richiede una pianificazione degli stessi secondo regole simili a quelle dell’urbanistica vera e propria, contro di cui cozzano l’inconfondibile sagoma tondeggiante e il corridoio d’accesso esterno (dromos). Dalla metà del secolo le necropoli della Banditaccia e del Sorbo sono solcate da vie sepolcrali sulle quali affacciano i nuovi dadi costruiti, con porte corniciate a contrasto cromatico facendo ricorso alla pietra locale (peperino o macco).

La pianta interna che in precedenza vedeva la suddivisione spaziale in due corpi (uno anteriore e uno posteriore ripartito in tre celle) sembra ora semplificarsi, come pure i letti funebri scolpiti e decorati della fase precedente vengono sostituiti da analoghi ma più disadorni giacigli che preludono alle semplici banchine. In alcuni casi le pareti potevano essere ornate da lastre di terracotta dipinte, anche con soggetto figurato, giustapposte a formare un fregio continuo (le cosiddette «lastre Boccanera» e «lastre Campana», con sfingi affrontate, soggetti mitologici, processione di personaggi e scene di sacrificio ecc.

Lastre di terracotta dipinte, dette «Lastre Boccanera», raffiguranti «Il Giudizio di Paride», dalla Necropoli della Banditaccia (Cerveteri). 560-550 a.C. British Museum di Londra.
Lastre di terracotta dipinte, dette «Lastre Boccanera», raffiguranti «Il Giudizio di Paride», dalla Necropoli della Banditaccia (Cerveteri). 560-550 a.C. British Museum di Londra.

Il nome deriva rispettivamente dai fratelli Boccanera, i quali nel 1873 circa intrapresero ricerche alla Banditaccia e dal marchese Campana, che intorno al 1845 fu autore d’importanti scoperte nella stessa necropoli). Analoghi esemplari sono stati rinvenuti anche nell’area urbana. Appartiene a quest’epoca il celeberrimo Sarcofago degli Sposi, in terracotta, che riproduce la coppia di coniugi a banchetto sdraiati sulla klinḗ secondo il costume etrusco. Con l’epoca tardo-arcaica si preferisce scavare una sola camera, via via più grande, talora con pilastro centrale: rientra in questa categoria la Tomba delle Colonne Doriche, con una coppia di colonne a fusto scanalato e capitello riportato (verso il 500 a.C.). In questo periodo subisce invece una brusca contrazione il numero di camere funerarie dipinte: un raro caso è rappresentato dalla Tomba dell’Argilla, nella necropoli della Banditaccia, con danzatori, musici, cavalli e centauri. In epoca ellenistico-romana (IV-III secolo a.C.), infine, l’evoluzione sembra indirizzata a maggiorare le dimensioni degli ambienti funerari, forniti di banchina continua o comunque sui tre lati ove adagiare i defunti, come mostrano le cosiddette tombe del Comune alla Banditaccia: a ciò si vanno aggiungendo nel tempo i loculi ricavati nelle pareti. Ancora in epoca tarda a Cerveteri, benché in misura decisamente minore rispetto a Tarquinia, non si è perduto l’uso di affrescare le camere funerarie, anche solo con apporti pittorici che ne sottolineano le componenti architettoniche: proprio nella zona delle Tombe del Comune sorge la Tomba delle Iscrizioni, detta anche Tomba dei Tarquini, dal nome dei titolari del grandioso ipogeo, la famiglia Tarchnas, rami della quale sono documentati in altre importanti zone dell’Etruria meridionale e centrale. Nella stessa area era anche la Tomba del Triclinio, della fine del IV secolo, caratteristica per il ciclo pittorico con banchettanti, che ricorda altri celebri ipogei di Tarquinia (Tomba degli Scudi) e Orvieto (Tomba Golini).

Lastra di terracotta dipinta (tipo «Lastre Boccanera»), raffigurante due uomini seduti, dalla Necropoli della Banditaccia (Cerveteri). Metà del VI secolo a.C. Musée du Louvre di Parigi.
Lastra di terracotta dipinta (tipo «Lastre Boccanera»), raffigurante due uomini seduti, dalla Necropoli della Banditaccia (Cerveteri). Metà del VI secolo a.C. Musée du Louvre di Parigi.

Tuttavia l’esempio più originale e maestoso, nel quale pittura e bassorilievo si fondono mirabilmente, è però costituito dalla celebre Tomba dei Rilievi, che apparteneva alla gens dei Matunas. Sul fondo è stata ricavata l’alcova con letto dai piedi sagomati e doppi cuscini (klinḗ) fra colonne eoliche. La straordinaria unicità dell’ambiente deriva soprattutto dalla gran copia di oggetti disposti a bassorilievo sui muri e lungo il fusto stesso delle colonne, come fossero appesi, in origine valorizzati dal colore. L’alto tenore sociale dei proprietari di questi ipogei ellenistici è confermato anche dalla vicina Tomba dei Sarcofagi, della famiglia Apucus, ornata da un fregio di animali in lotta d’ispirazione magno-greca (in particolare tarentina) e così detta per la presenza di sarcofagi in calcare. Anche un altro complesso funerario scoperto in tempi relativamente recenti in località Greppe Sant’Angelo accoglie nella peculiare struttura architettonica echi dalla Grecia ellenistica: su una corte si affaccia in posizione dominante un doppio monumento tombale, il cui prospetto era in origine decorato con sculture (Charun/Caronte). La soluzione prescelta per il soffitto della tomba di sinistra – la volta a botte – destinata a fecondi sviluppi nell’Etruria centro-settentrionale, è facilmente riconducibile ai modelli allora in voga in Macedonia, patria di Filippo e di Alessandro il Grande e sede della dinastia regale.

Lastra di terracotta dipinta, detta «Lastre Boccanera», raffigurante una sfinge, dalla Necropoli della Banditaccia (Cerveteri). 560-550 a.C. British Museum di Londra.
Lastra di terracotta dipinta, detta «Lastre Boccanera», raffigurante una sfinge, dalla Necropoli della Banditaccia (Cerveteri). 560-550 a.C. British Museum di Londra.

Il 1836 fu un anno particolarmente fecondo per la ricerca archeologica in Etruria poiché, nella necropoli del Sorbo, venne in luce uno dei complessi più fastosi del periodo Orientalizzante, peculiare dal punto di vista dell’architettura e opulentissimo per quel che concerne qualità e assortimento del corredo funebre, recuperato ancora intatto. Il tumulo, esplorato congiuntamente dall’arciprete Regolini e dal generale Galassi, nascondeva una curiosa tomba in parte scavata e in parte dispendiosamente costruita in grossi blocchi di tufo, composta di uno stretto corridoio a volta ogivale ai lati del quale si aprivano due piccole celle di sagoma grossomodo ovale, l’una di fronte all’altra, in origine destinate ad accogliere ciascuna una sepoltura. La struttura interna con camera e corridoio è simile a quella di un altro celebre tumulo, quello che sorge a Montetosto, sulla via che da Cere conduceva al porto di Pyrgi. La descrizione tracciata al momento della scoperta fu di grande aiuto quando si trattò di ricostruire l’esatta posizione dei ricchi materiali di accompagnamento, soprattutto in relazione agli occupanti della camera. Oltre a una cremazione deposta in una delle due nicchie, la tomba accoglieva, infatti, due inumati eccellenti, un uomo e una donna, cui sono da connettersi in massima parte gli arredi rinvenuti. La sepoltura femminile era sistemata nell’ambiente al fondo del corridoio, mentre l’individuo di sesso maschile, probabilmente l’ultimo in ordine di tempo a esservi stato collocato, aveva trovato posto nel tratto verso l’ingresso. Alla donna, raffinatamente abbigliata con vesti sulle quali erano appuntate lamine, pettorali e collane d’oro, era stato affiancato pregevole vasellame da tavola in metallo prezioso, oltre a una coppia di calderoni di bronzo, nonché un vasetto con iscrizione di dono, dove anche la scrittura che in questi complessi appare precocemente s’inserisce tra i segni di distinzione sociale. Alcuni oggetti del corredo della donna recano iscrizioni marcanti l’appartenenza (larθia, «di Larth», e mi larθia, «io di Larth»); in passato si è creduto erroneamente che nelle epigrafi fosse riscontrabile un prenome femminile Larthia, ma, data l’epoca (VII secolo a.C.), non c’è il minimo dubbio che larθ-ia rappresenti il genitivo arcaico del diffuso prenome maschile Larth. La possibilità di un riferimento a doni nuziali è solo una delle diverse ipotesi formulabili. L’uomo, per contro, era stato adagiato su di un letto funebre pure in bronzo e alla dimora tombale era giunto trasportato da un carro di bronzo e legno; accanto, sulle pareti, erano stati appesi alcuni scudi bronzei, per caratterizzare enfaticamente lo status sociale dell’inumato.

Pettorale in oro, dalla Tomba Regolini-Galassi, Necropoli del Sorbo (Cerveteri). Metà del VII secolo a.C. ca. Museo Gregoriano Etrusco in Città del Vaticano.
Pettorale in oro, dalla Tomba Regolini-Galassi, Necropoli del Sorbo (Cerveteri). Metà del VII secolo a.C. ca. Museo Gregoriano Etrusco in Città del Vaticano.

La Regolini-Galassi resta uno dei capisaldi per lo studio del fenomeno culturale dell’Orientalizzazione in Etruria, qui esemplificato nella sua fase matura (secondo venticinquennio del VII secolo a.C.): essa s’inserisce a pieno diritto nel novero delle cosiddette «tombe principesche», nelle quali confluirono gli esiti più alti, preziosi ed esclusivi, talora addirittura proto-tipici, dell’ormai avviata circolazione di materie prime, materiali, modelli e ideologie che aveva posto in risalto il legame tra le due sponde del Mediterraneo, quella occidentale tirrenica e quella che dall’isola di Cipro volgeva verso gli antichi regni della prospiciente fascia costiera e dell’entroterra che alle sue spalle si distendeva. Lo indicano forma e stile delle suppellettili dei due aristocratici: le brocchette del servizio da vino in argento e in oro, che rimandano alla zona settentrionale della Siria, le coppe auree istoriate suggestivamente con motivi egizi o tratti dal

Brattea aurea con testa hathorica tra «cup-spirals», dalla Tomba Regolini-Galassi, Necropoli del Sorbo (Cerveteri). Metà del VII secolo a.C. ca. Museo Gregoriano Etrusco in Città del Vaticano.
Brattea aurea con testa hathorica tra «cup-spirals», dalla Tomba Regolini-Galassi, Necropoli del Sorbo (Cerveteri). Metà del VII secolo a.C. ca. Museo Gregoriano Etrusco in Città del Vaticano.

repertorio fenicio e assiro (nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. il re assiro Sargon II aveva assoggettato Siria e Fenicia), le quali si sposano con tipi della tradizione più propriamente etrusca, cui sono senz’altro da riferire le oreficerie sbalzate a figure animali o cariche di minuti granuli aurei fittamente accostati a formare disegni finissimi (granulazione). Questi straordinari corredi sono attualmente conservati presso il Museo Gregoriano Etrusco, istituzione annessa ai Musei Vaticani e fondata nel 1937, durante il pontificato di Gregorio XVI, mentre la tomba è stata purtroppo coperta da un edificio moderno.