Il potere militare presso i Germani: parentela e seguito

La ricerca storiografica moderna non si è occupata di nessun’altra coppia concettuale in modo tanto più intenso e incontrastato di quanto non abbia fatto con «dominio» (Herrschaft) e «seguito» (Gefolgschaft), stravolgendola con impegno ideologico e dilettantismo polemico. Un trattamento simile hanno conosciuto le categorie di «parentela» (Sippe) ed «esercito tribale» (Stammesheer). Nelle fonti letterarie, da Cesare a Wulfila, ai testi altomedievali del continente, delle isole britanniche e della Scandinavia, si parla piuttosto di «potere militare» e «seguito», ma questi concetti richiedono una spiegazione più esaustiva.

Che fra le popolazioni germaniche vigesse una monarchia o un’oligarchia, c’era pur sempre un’élite che deteneva il potere, o meglio un legittimo diritto sulle azioni altrui. Questa rivendicazione di potere si basava sulla maggiore ricchezza e coinvolgeva sia gli uomini liberi sia quelli non liberi e meno ricchi. Il potere era prima di tutto sulla casa, cioè l’autorità di comando sulla propria famiglia e sui propri dipendenti, ed era esercitato su un gruppo di persone libere da incombenze quotidiane che, come soldati addestrati, agivano in base agli ordini del loro signore. Quando Arminio assediò il suocero Segeste per liberare la moglie Thusnelda, due gruppi abbastanza numerosi di seguaci si affrontarono per espugnare la casa di Segeste, evidentemente ben fortificata; quando Arminio attaccò il re dei Marcomanni, egli era a capo di un esercito multietnico di seguaci che combattevano schiere di guerrieri strutturate in modo simile da Marobodo, alle quali si erano aggiunti anche lo zio di Arminio e il principe cherusco Inguiomero con il loro seguito (Tac. Ann. I 57-59).

Arminio. Illustrazione di A. Gagelmann.

I resoconti di Cesare e di Tacito, che si riferiscono in modo sistematico a un «seguito» germanico, non presentano vuote astrazioni, ma sono molto concreti: sono i resoconti della vita di una società arcaica, naturalmente, come mostrano i confronti fra le istituzioni germaniche e quelle non germaniche. Le fonti latine si riferiscono al «seguito» con il termine comitatus, un fenomeno sociale che si affermò pienamente durante l’epoca delle migrazioni (IV-V secolo), come mostrano le varie espressioni per indicarlo: þiudans in gotico, fylgja in norreno, þeod in sassone, Truste in franco e Gasindium in longobardico.

Ogni capo militare degno del suo rango aveva il suo «seguito», le dimensioni del quale variavano in proporzione alla fama, al prestigio e al carisma: disporre di un gran numero di seguaci era naturalmente motivo di vanto e la dimostrazione pratica della propria competenza militare. I guerrieri accompagnavano il loro condottiero in ogni occasione, sia in guerra sia nelle adunanze pubbliche, vivendo insieme a lui e per lui, quasi fosse la sua scorta armata personale. Tacito (Germ. 13, 3) lo spiega molto chiaramente: haec dignitas, hae vires: magno semper electorum iuvenum globo circumdari in pace decus, in bello praesidium. Nec solum in sua gente cuique, sed apud finitimas quoque civitates id nomen, ea gloria est, si numero ac virtute comitatus emineat; expetuntur enim legationibus et muneribus ornantur et ipsa plerumque fama bella profligant («Questa è la dignità, questa la manifestazione di forza: essere sempre seguiti da una folta schiera di giovani scelti, decoro in tempo di pace, difesa in tempo di guerra. Per ciascun capo militare è motivo di gloria e di onore, non soltanto presso la sua gente ma anche tra le tribù limitrofe, distinguersi per la consistenza e per il valore del proprio seguito; infatti, essi sono richiesti per incarichi diplomatici, sono gratificati con donativi e combattono vittoriosamente le guerre soprattutto grazie alla propria fama»).

Fondamentale era il rapporto di subordinazione del seguace al comandante, rapporto sancito da un solenne giuramento, che regolava i legami e i vincoli di fiducia fra il signore e gli uomini sotto il suo comando. Tacito (Germ. 14, 1), infatti, osserva che principes pro victoria pugnant, comites pro principe («I condottieri combattono per la vittoria, i seguaci combattono per i capi»). I meriti personali conseguiti dal membro del «seguito» sul campo e la considerazione goduta presso il proprio comandante consentivano ad alcuni di distinguersi dal resto del gruppo: questi gregari erano spesso investiti di importanti responsabilità, prove e missioni. A ciò va aggiunto che il condottiero precedeva i suoi in battaglia, ma anche che il suo «seguito» aveva l’obbligo morale di non sopravvivergli: Cum ventum in aciem, turpe principi virtute vinci, turpe comitatui virtutem principis non adaequare (Tac. Germ. 14, 1, «Non appena si viene alle armi, è vergognoso per un capo essere superato in valore e altrettanto turpe per il gruppo non emulare il proprio condottiero»). Il guerriero doveva al suo capo valore e coraggio, difesa e protezione: sopravvivergli in battaglia era motivo di infamia che poteva pesare sulla coscienza per il resto della vita.

Cavaliere germanico. Disco decorativo, bronzo, VI secolo, da una tomba alamannica a Bräunlingen. Karlsruhe, Badisches Landesmuseum.

Se i comites costituivano la milizia privata del condottiero, anche costui era tenuto a osservare alcuni obblighi, fra i quali garantire fama e ricchezza ai suoi uomini, condurli alla vittoria in guerra e consentire loro di vivere dignitosamente in pace (Tac. Germ. 14, 2): Exigunt enim principis sui liberalitate illum bellatorem equum, illam cruentam victricemque frameam; nam epulae et quamquam incompti, largi tamen apparatus pro stipendio cedunt («Infatti, dalla generosità del loro condottiero i gregari richiedono come ricompensa o quel particolare cavallo da guerra o quella speciale lancia insanguinata e vittoriosa, mentre i pasti e il vitto nel suo complesso, semplice seppur abbondante, costituiscono la loro paga»).

Il peso economico rappresentato dal «seguito» doveva essere ragguardevole, considerata la povertà dell’economia germanica, fondata sull’agricoltura; perciò, soltanto condottieri molto potenti potevano permettersi di supportare un «seguito». La munificenza dei condottieri, pertanto, derivava soprattutto dal bottino razziato ai vicini, che veniva spartito equamente tra i guerrieri in base all’onore riconosciuto a ciascuno (Germ. 15, 2): Mos est civitatibus ultro ac viritim conferre principibus vel armentorum vel frugum, quo pro honore acceptum etiam necessitatibus subvenit. Gaudent praecipue finitimarum gentium donis, quae non modo a singulis, sed et publice mittuntur, electi equi, magnifica arma, phalerae torquesque («È usanza delle tribù offrire spontaneamente e a titolo personale ai condottieri bestiame e prodotti agricoli, che, accolti come segno di distinzione, sopperiscono anche alle loro necessità. Si compiacciono particolarmente dei doni ricevuti dalle tribù vicine, inviate non solo da singole persone, ma anche a nome di tutta la comunità: cavalli di razza, splendide armi, decorazioni militari e monili»).

Guerriero franco. Pietra tombale, VII secolo, da Niederdollendorf (Königswinter). Bonn, Rheinisches Landesmuseum.jpg

D’altra parte, l’adesione al comitatus era volontaria, per il puro piacere di fare la guerra (Tac. Germ. 14, 2): Si civitas, in qua orti sunt longa pace et otio torpeat, plerique nobilium adulescentium petunt ultro eas nationes, quae tum bellum aliquod gerunt («Se la comunità in cui sono nati s’infiacchisce in un prolungato periodo di pace, molti giovani delle famiglie nobili si trasferiscono presso altre popolazioni, che in quel momento sono impegnate in qualche conflitto»). In una società arcaica come quella dei Germani la mera capacità di comando non assicurava di per sé il potere; chi intendeva detenerlo doveva disporre di qualcuno che lo precedesse o lo seguisse. Ogni individuo occupava un certo posto all’interno di un ordine gerarchico ed era tenuto a mantenerlo, persino migliorarlo, se non voleva rischiare di perdere la propria posizione (Germ. 13, 3): Gradus quin etiam ipse comitatus habet, iudicio eius quem sectantur; magnaque et comitum aemulatio, quibus primus apud principem suum locus («Il seguito ha dei gradi, secondo le disposizioni del capo; c’è una certa competizione tra coloro che ne fanno parte, per vedere a chi tocchi il primo posto nella considerazione del capo»).

Analogamente a questo senso di aemulatio, un giovane poteva diventare capo: secondo una concezione tipicamente germanica, l’età decideva di rado l’ordine gerarchico degli individui. L’esperienza militare non era un prerequisito necessario, mentre contavano di più insignis nobilitas aut magna patrum merita («la ragguardevole nobiltà o i grandi meriti dei padri»), che facevano risalire fino ai capostipiti divini il carisma personale e il «credito» che nasceva dal capo. Tra l’altro, i guerrieri più giovani ceteris robustioribus ac iam pridem probatis adgregantur, nec rubor inter comites aspici (Tac. Germ. 13, 2, «si aggregavano ai più forti e ai più esperti e non era motivo di vergogna mostrarsi parte di un seguito»).

La tecnica di combattimento della fanteria germanica, simile alla falange. Illustrazione di A. Gagelmann.

In origine, come per la maggior parte dei barbari, anche la disposizione in battaglia dei Germani era ordinata per famiglie, Sippen e gruppi tribali, ma le forme di organizzazione del seguito finirono per sconvolgere e modificare gli assetti tradizionali. La scelta dei membri del seguito era una decisione che naturalmente spettava a un capo carismatico: coloro che lo avrebbero accompagnato, percorrendo un tratto di strada insieme, costituivano la «compagnia» (das Gesinde < ant. norr. Sinni, «che partecipa a una spedizione, gregario»; a.a.t. sind, «strada, cammino, direzione»).

Senza tutte le premesse materiali, e soprattutto senza il successo in battaglia, il credito e il capitale avevano vita breve. La costituzione di un «seguito» attorno alla figura di un capo carismatico era un atto volontario che comportava, però, determinati obblighi di reciprocità. I guerrieri e il loro leader esercitavano l’uso delle armi, nella convinzione che facilius inter ancipitia clarescunt magnumque comitatum non nisi vi belloque tueare fosse più facile acquisire fama in mezzo ai pericoli dei conflitti e si potesse mantenere un seguito numeroso solo con la forza e per mezzo della guerra»).

Guerriero cherusco (I secolo d.C.). Illustrazione di Pablo Outeiral.

Presso gli antichi popoli germanici era consuetudine che i ragazzi non assumessero le armi fin quando non ne fossero stati degni: si trattava di un diritto ottenuto compiendo con successo una prova, un rito di passaggio, che consisteva generalmente nell’uccisione di una fiera e nel riportarne la carcassa al cospetto degli anziani per dimostrare l’effettivo superamento della prova. Non era raro che all’abbattimento di un animale feroce si sostituisse l’uccisione del primo uomo in combattimento. Per esempio, si può citare questa usanza presso i Chatti, verso le doti belliche dei quali Tacito mostra una certa ammirazione (Germ. 30, 3): Omne robur in pedite, quem super arma ferramentis quoque et copiis onerant: alios ad proelium ire videas, Chattos ad bellum («La loro forza militare risiede interamente nella fanteria, che oltre alle armi caricano anche di arnesi da lavoro e vettovaglie: gli altri li vedi andare in battaglia, i Chatti in campagna militare»). Da loro vigeva l’uso di lasciarsi crescere barba e capelli nel corso dell’adolescenza, per poi radersi al primo avversario ucciso in battaglia (Germ. 31, 1): Super sanguinem et spolia revelant frontem, seque tum demum pretia nascendi rettulisse dignosque patria ac parentibus ferunt («Sul cadavere insanguinato si radono il volto e solo allora ritengono di aver pagato il prezzo della loro nascita e si considerano degni della patria e dei genitori»). Parimenti, il giovane guerriero doveva ritenersi degno della nuova comunità e del nuovo padre (il princeps) solo dopo aver dimostrato il proprio valore sul campo. Sempre presso i Chatti Tacito informa dell’esistenza di una consorteria di guerrieri, un gruppo ristretto e a carattere iniziatico, che richiedeva ai suoi membri il superamento di una certa prova: Fortissimus quisque ferreum insuper anulum (ignominiosum id genti) velut vinculum gestat, donec se caede hostis absolvat. […] Haec prima semper acies, visu nova: nam ne in pace quidem vultu mitiore mansuescunt («Chiunque sia particolarmente forte tra loro indossa un anello di ferro – motivo di vergogna presso questa gente –, come se si trattasse di un simbolo di servitù, finché non se ne libera uccidendo un nemico […]. A costoro spetta l’inizio di ogni combattimento: la loro schiera è sempre la prima, terribile a vedersi; neppure in tempo di pace si addolciscono assumendo un aspetto più mansueto»).

Le battaglie erano situazioni nelle quali era particolarmente richiesto l’aiuto divino e per questo motivo si ricorreva a rituali di culto. Perciò, i membri di una consorteria guerriera dovevano assumere un aspetto spaventoso e terribile sia nei confronti dei nemici umani sia contro ostili forze soprannaturali. A tal proposito, Tacito (Germ. 43, 5) fornisce un’interessante descrizione dei guerrieri arii orientali, i quali truces insitae feritati arte ac tempore lenocinantur: nigra scuta, tincta corpora; atras ad proelia noctes legunt ipsaque formidine atque umbra feralis exercitus terrorem inferunt, nullo hostium sustinente novum ac velut infernum aspectum («truci d’aspetto, accrescono la loro naturale ferocia con l’arte e con la scelta del tempo: portano scudi neri e corpi tinti di scuro; per combattere scelgono le notti senza luna e il solo orrore e l’ombra di questo esercito di fantasmi bastano a seminare il panico, perché non esiste avversario capace di sostenere il loro aspetto insolito»). Il fatto che alcuni Arii si mascherassero come un esercito di fantasmi per la battaglia va visto come un gesto eminentemente sciamanico: se da una parte, come la maggior parte dei guerrieri germanici, non disponevano di proprietà personali, non curavano la propria casa, ma campavano sulle spalle degli altri, dall’altra la loro condizione garantiva loro il privilegio di una vita separata rispetto al resto del*þeuda («popolo»), e di ricevere un addestramento segreto, grazie al quale scendevano in battaglia in preda a un’estasi particolare. Certamente, il loro comportamento non era mera espressione di una ritualità ancestrale, ma il simbolo di un forte legame fra uomini che tendeva a rompere l’ordine gerarchico della Sippe.

Placche di Torslunda. Lamine con rilievi a sbalzo, bronzo, c. VI-VIII secolo, da Torslunda (Öland, Svezia). Stockholm, Historiska museet.

Quanto all’estasi del guerriero (ciò che i Romani chiamavano furor), presso i popoli germanici i casi emblematici furono quelli dei cosiddetti cosiddetti berserkir («vestiti da orsi») e ulfedhnar («teste di lupo») – divenuti assai popolari soprattutto in età vichinga (IX-X secolo). Con ogni probabilità, si trattava di varianti dei guerrieri d’élite arii e chatti: erano soliti andare in battaglia completamente nudi, difesi da uno scudo e coperti dalla pelliccia del loro animale totemico. Dopo essersi consacrati al dio *Wōdanaz (Wuoðan), prima della battaglia, questi guerrieri cadevano in uno stato mentale di furia (berserksgangr), ringhiando, ululando e perfino mordendo gli scudi; probabilmente, il rituale prevedeva l’assunzione di sostanze psicotrope, tali da renderli particolarmente feroci e insensibili al dolore e alla fatica e da convincerli di trasformarsi nella fiera di cui indossavano le pelli. Nella mischia i guerrieri invasati dimostravano una forza sovrumana, non avvertendo il dolore delle ferite subite e, incapaci di distinguere tra amici e nemici, massacravano chiunque capitasse loro a tiro.

Sulla panoplia del guerriero germanico, Tacito (Germ. 6) riferisce queste informazioni: Ne ferrum quidem superest, sicut ex genere telorum colligitur. rari gladiis aut maioribus lanceis utuntur: hastas vel ipsorum vocabulo frameas gerunt angusto et brevi ferro, sed ita acri et ad usum habili, ut eodem telo, prout ratio poscit, vel comminus vel eminus pugnent. et eques quidem scuto frameaque contentus est, pedites et missilia spargunt, pluraque singuli, atque in immensum vibrant, nudi aut sagulo leves. nulla cultus iactatio : scuta tantum lectissimis coloribus distinguunt. paucis loricae, vix uni alterive cassis aut galea. equi non forma, non velocitate conspicui. sed nec variare gyros in morem nostrum docentur: in rectum aut uno flexu dextro agunt, ita coniuncto orbe ut nemo posterior sit. in universum aestimanti plus penes peditem roboris; eoque mixti proeliantur, apta et congruente ad equestrem pugnam velocitate peditum, quos ex omni iuventute delectos ante aciem locant. definitur et numerus: centeni ex singulis pagis sunt, idque ipsum inter suos vocantur, et quod primo numerus fuit, iam nomen et honor est. acies per cuneos componitur. cedere loco, dummodo rursus instes, consilii quam formidinis arbitrantur. corpora suorum etiam in dubiis proeliis referunt. scutum reliquisse praecipuum flagitium, nec aut sacris adesse aut concilium inire ignominioso fas, multique superstites bellorum infamiam laqueo finierunt («Nemmeno il ferro abbonda in Germania, come si può dedurre dal tipo di armi. Pochi usano spade o lance abbastanza lunghe: portano piuttosto certe lance, che chiamano “framee”, dalla punta di ferro stretta e corta, così aguzza e adatta all’impiego che la stessa arma è utilizzata sia per combattere da vicino sia da lontano. Anche i cavalieri si accontentano del solo scudo e della framea; i fanti, nudi o coperti da una tunica leggera, scagliano proiettili (ogni guerriero ne lancia molti) a notevole distanza. Non hanno alcuna ricercatezza nell’ornamentazione, tutt’al più marcano gli scudi con i loro colori preferiti. Pochi indossano una corazza e ancor meno l’elmo, sia esso di metallo o di cuoio. I loro cavalli non si distinguono per bellezza né per velocità; non sono nemmeno addestrati a compiere evoluzioni com’è nostro uso: li conducono in linea retta oppure verso destra, con una rotazione estremamente compatta, in modo che nessuno resti indietro. Secondo una valutazione complessiva, la maggior forza d’urto sta nella fanteria: perciò, cavalieri e fanti combattono misti e i secondi mantengono una velocità di movimento adatta al combattimento equestre; i fanti, scelti tra tutta la gioventù, sono schierati in prima linea. Anche il numero di questi guerrieri è prestabilito: cento per ciascun villaggio e tra i Germani sono detti “i cento”, e quello che in origine era soltanto un numero, ora costituisce un titolo di distinzione. Lo schieramento della fanteria si compone di formazioni a cuneo. La ritirata strategica è considerata manifestazione di prudenza e non di viltà, purché poi si torni appunto all’attacco. Riportano dal campo di battaglia i corpi dei caduti anche in caso di scontri dall’esito incerto e considerano una colpa gravissima l’abbandono dello scudo sul campo: al disertore non è concesso di assistere ai sacrifici né di prendere parte alle assemblee, tanto che molti, sopravvissuti al combattimento, per porre fine alla loro infamante condizione si impiccano»).

Prigioniero germanico (forse suebico). Statuetta, bronzo, II secolo. Wien, Römermuseum.

Il passo è molto interessante: la maggior parte dei guerrieri era dotata principalmente della framea (forse da fram, «in avanti»), una lancia corta, dalla punta stretta e affusolata; doveva essere un’arma molto versatile e maneggevole, sia da lancio (eminus) sia per il combattimento corpo a corpo (comminus). Fra i proiettili (missilia), lanciati a grande distanza e con estrema precisione, probabilmente figuravano giavellotti, frecce e pietre. La spada era uno strumento bellico piuttosto raro tra i popoli germanici del I secolo: avrebbe trovato maggiore diffusione in seguito, ma all’epoca di Tacito costituiva un elemento di distinzione per i guerrieri scelti e i loro condottieri. Come arma di difesa, i guerrieri portavano lo scutum, cioè lo scudo rettangolare. Ogni tribù doveva avere i propri simboli e i propri colori araldici, per poter riconoscere in combattimento i propri compagni. Gli stessi simboli dipinti dovevano possedere proprietà magiche-apotropaiche. Come lo scudo, anche la framea era considerata un oggetto magico, data la sua capacità di togliere la vita. Percio, perdere, o abbandonare al nemico le proprie armi, costituiva il più grave dei disonori: Tacito riferisce che coloro che se ne macchiavano incorrevano nel biasimo generale e non erano più ammessi alle cerimonie sacre né alle assemblee della tribù. Chi commetteva un atto simile, non di rado, non sopportando l’onta si impiccava per la vergogna.

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I popoli germanici: il mito delle origini e il pantheon

Cesare non inventò il nome dei Germani, né fu il primo Romano a incontrarli di persona, ma furono le sue esperienze durante le guerre galliche ad aiutare quella che oggi chiameremmo «etnografia germanica» a far breccia presso i Romani: si manifestò infatti un immediato interesse per le leggende relative alla loro provenienza, per le loro «origini sacre» e per le loro divinità. Uno studioso che riporti queste leggende prendendone allo stesso tempo le distanze dal punto di vista storiografico non corre grandi rischi. È invece di gran lunga più difficile, se non addirittura impossibile, rispondere alle domande sulla «vera» origine e provenienza geografica dei Germani. Se si pensa alle discussioni degli studiosi e degli appassionati della materia, alla gravosa eredità delle ideologie, fino alle aberrazioni del razzismo che erano e sono state connesse a questo tema, si è tentati di non parlarne affatto; tuttavia, siccome l’obiettivo è offrire una conoscenza il più possibile certa (conoscenza che sull’argomento è davvero modesta), proveremo ugualmente a occuparcene.

Sebbene non vi sia alcuna certezza assoluta al riguardo, è molto accreditata l’ipotesi secondo la quale le prime attestazioni dei Germani sono rintracciabili intorno al 500 a.C., in un’area che può essere fatta coincidere, dal punto di vista archeologico ma, con l’aiuto dell’idronimia, anche filologico, con quella della “Cultura di Jastorf” dell’Età del Ferro. Jastorf, nei dintorni di Uelzen, si trova al margine orientale della Lüneburger Heide (Bassa Sassonia), quasi 40 km a sud di Lüneburg, ed è il luogo di ritrovamenti archeologici che dà il nome a una cultura il cui nucleo comprendeva in un primo momento solo l’Hannover orientale, lo Schleswig-Holstein, il Meclemburgo e le regioni limitrofe. All’incirca nella stessa zona ebbe probabilmente inizio quell’importante processo storico-linguistico che viene chiamato «mutazione consonantica germanica» (o Legge di Grimm). Per illustrarlo basteranno due esempi: la p del latino pater diventa f, come nell’inglese father; la c di centum diventa h, come nel tedesco hundert. Attraverso la mutazione fonetica delle consonanti velari e labiali il germanico comune si differenziò dalle altre lingue indoeuropee, quali il greco, il latino, il sanscrito, lo slavo e il celtico. Mentre si compiva questo processo linguistico, divenne germanica una regione che si estendeva dalla foce del Reno, a ovest, fino all’Oder, a est, e dalla barriera di Löss, a sud, fino alla Scandinavia meridionale, a nord. Inoltre, va ricordato che gli Sciri e i Bastarni dovevano già essersi messi in cammino verso l’Europa sudorientale prima della conclusione della mutazione fonetica germanica; mutazione che essi, in un’area in cui si parlava dacico, getico e greco, portarono a compimento autonomamente, cosicché rimasero, dal punto di vista linguistico, germanici.

Massima espansione della “Cultura di Jastorf” tra IV e II secolo a.C. Da Krüger 2003; Dąbrowska 1986; Grygiel 2013.

È vero, peraltro, che proprio i migliori specialisti del settore mettono in guardia dall’equiparare i reperti archeologici a quelli filologici. Non è quindi possibile porre sullo stesso piano la cultura di Jastorf, di per sé molto espansiva, con i suoi sottogruppi, e i confini del territorio linguistico germanico; pertanto, sebbene i risultati dell’archeologia e della linguistica siano considerevoli, i metodi di queste discipline non consentono di trarre alcuna conclusione sulle cause storiche dei fenomeni descritti. Uno di questi fenomeni è senz’altro il fatto che i Germani si diffusero su vasti territori dell’Europa centrale e settentrionale prima che la migrazione di popoli vera e propria avesse luogo.

Come la slavizzazione di mezza Europa tra la fine del V e l’inizio del VII secolo, avvenuta con incredibile velocità, anche l’espansione germanica si può a stento descrivere con le categorie storiche utilizzate di solito. Bisogna però ricordare che già Cesare, nella sua qualità di etnografo, aveva compreso che, per molte tribù della Gallia nordorientale e orientale, la provenienza germanica era elemento di grande prestigio. Ciò sembra trovare conferma nel fatto che nei territori dell’originario nucleo germanico vi erano popoli la cui importanza si basava sulla loro antichità. Plinio il Vecchio, per esempio, riferisce che gli Ingevoni sarebbero stati il primo popolo della Germania (Plin. NH IV 96), mentre Cesare menziona i Suebi, quibus ne dii quidem immortales pares esse possint (Caes. BG IV 7, 5, «ai quali neppure gli dèi immortali potevano stare alla pari»).

All’interno del popolo suebo si distingueva la tribù dei Semnones, stanziata tra il medio corso dell’Elba e dell’Oder; nel III secolo, con il nuovo nome di Alamanni, si sarebbero spostati in direzione sud-ovest in una regione delimitata dal Meno e dall’alto corso del Danubio. Questi Semnones, riferisce Tacito (Germ. 39), si consideravano i più antichi e i più nobili e la tesi di questa presunta superiorità troverebbe conferma in particolari riti religiosi (fides antiquitatis religione firmatur): tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre i rappresentanti di tutte le tribù della medesima stirpe si radunano in silvam sacram per espletare i riti dedicati agli antenati e per un ancestrale sentimento religioso (prisca formidine); durante queste cerimonie, tra l’altro, compiono anche sacrifici umani. Per questa ragione i Semnones possedevano uno speciale carisma ed esercitavano il proprio dominio su un territorio così esteso che essi poterono essere considerati la tribù principale della loro stirpe (Sueborum caput).

Un elemento caratteristico dell’abbigliamento tribale suebo, ripreso e conservato da molti altri popoli, fra i quali i Bastarni stanziati presso il Mar Nero, era l’artistico “nodo suebo” di capelli intrecciati, anch’esso segno di grande prestigio, che gruppi originariamente provenienti da altre tribù vollero far proprio. L’esempio della diffusione dei Suebi all’interno della Germania Magna, a causa della quale al tempo di Cesare gli stessi Suebi erano spesso identificati con tutti i popoli transrenani, potrebbe perciò offrire una spiegazione della precedente germanizzazione di gruppi celti, veneti e altri antichi popoli europei non ulteriormente definibili.

Una peculiarità etnica ben distinta, un senso comunitario gentilizio, si manifestava nel loro distinguersi dagli altri popoli, dagli “stranieri”. Per i Germani i popoli a sud-ovest erano Volcae (cfr. ted. Volk, engl. folk, lat. vulgus), il cui nome ancora oggi serve a definire i vicino celto-romani come Welsh, Welschen, Walschen e Walchen. In conseguenza di ciò, nacque la denominazione ancora vigente presso i Greci moderni, gli Slavi e gli Ungheresi delle popolazioni romanze come Vlahi, Vlasi, Walachen e Olàh. Il pendant orientale era rappresentato dai Veneti, emigrati dal Mar Baltico fino all’Adriatico, il cui nome, nelle forme Wenden, Winden e Windische, sopravvive ancora oggi come denominazione dei popoli balto-slavi. Gli Scandinavi, infine, avevano ancora dei vicini a nord, lo strano popolo dei Finni, dedito alla magia di tipo sciamanico.

Thor (dettaglio). Incisione su pietra, XI secolo, dalla Altunastenen. Altuna (Uppland, Svezia).

Particolare prestigio aveva, come sottolineato da Tacito, l’anzianità della tribù, costantemente rinnovata e ricordata da un preciso rituale religioso. Origini venerabili, ovviamente dovute agli dèi, e il culto degli dèi stessi, origo et religio costituivano il fulcro della vita di una gens: quanto più antiche erano le origini e quanto migliori erano gli dèi, tanto migliore, nel senso di «più rispettabile», era il popolo. I Semnones coltivavano le origini della gens Sueborum, gli initia gentis, presso la quale a governare era il supremo dio onnipotente (regnator omnium deus). I popoli che si sentivano di appartenere alla stessa comunità d’origine, eiusdem sanguinis populi, inviavano in determinati momenti presso i Semnones dei propri delegati, che dovevano prendere parte alle cerimonie. Che le osservazioni svolte da Tacito fossero considerate attuali anche molto tempo dopo la sua morte è confermato dal fatto che i Quadi suebi, sconfitti da Marco Aurelio, volevano abbandonare il territorio dov’erano stanziati, fra le odierne Slovenia e Moravia orientale, per trasferirsi presso i Semnones tra l’Elba e l’Havel, cosa che tuttavia, a quanto sembra, l’imperatore riuscì a impedire (DCass. LXXI 20, 2).

Sebbene la vita di una tribù fosse sottoposta a continui cambiamenti, o forse proprio per questo, la sua vetustà era fonte di particolare prestigio. Dagli inizi dell’etnografia antica (già Erodoto aveva indagato prima di tutto sull’antichità di una nazione) alla visione nazionalistica moderna, l’antichità di un popolo decide infatti della sua posizione gerarchica, fino a creare le basi per rivendicazioni territoriali. Tuttavia, ha osservato Wenskus (1961, 82), «ciò che distingue la visione nazionalistica dalla coscienza etnica è il suo spirito missionario rivolto al futuro, che può portare all’aggressività e all’imperialismo. Mentre l’orgoglio per i propri antenati e per l’antica fama dovrebbe solo rendere consapevoli della posizione privilegiata della propria coscienza etnica, la visione nazionalistica ne trae delle conclusioni per il comportamento del singolo che risultano estranee all’originario pensiero etnico. Non si può pensare di comprendere lo spirito missionario della visione nazionalistica senza le correnti universalistiche che dal Cristianesimo e dalle filosofie antiche si riversarono sul pensiero etnico: senza la concezione di un’umanità comune, che è oggetto dello spirito missionario e che manca alla coscienza etnica, la visione nazionalistica è impensabile. La coscienza etnica non ha alcuna tendenza missionaria in sé, cerca solo di salvaguardare e di legittimare la propria posizione privilegiata».

Le società cultuali vengono presentate dalle fonti antiche più importanti come comunità originarie, genera (Plin. NH IV 99; Tac. Germ. 2), un termine in contrasto con il loro costituirsi come associazioni di entità autonome in un culto comune, paragonabile all’incirca alla lega anfizionica greca; tale contraddizione si può sciogliere se consideriamo che le tradizioni etniche vivono sempre più a lungo delle entità politiche che le hanno principalmente sostenute. Così il ricordo di alcune società cultuali pre-germaniche (Ingevoni e Lugi) potrebbe essere sopravvissuto in età successiva e aver portato, in virtù della sua antichità, un «senso di appartenenza» nei popoli germanici; in questo senso va inteso, con ogni probabilità, il più importante mito d’origine germanico.

In Germania 2, 2, Tacito riferisce che negli antichi carmi (carminibus antiquis), la sola forma di tradizione storica in loro possesso, i Germani celebrano il dio Tuistone, «l’ermafrodito» nato dalla Terra, il cui nome doveva essere *Tiwaz (cfr. il Tyr norreno). Considerato il dio primigenio e il giudice celeste, garante del diritto e testimone dei giuramenti, era padre del mitico Mannus, considerato il capostipite della stirpe, primo ordinatore della società (originem gentis conditoremque). Il nome di Tuisto/Tiwaz deriva dalla radice i.e. *deiw-os, cioè «che splende come il Sole», o *djeus dalla quale, a loro volta, discenderebbero il grec. Ζεύς e le voci lat. divus, deus, «dio», e Iuppiter (< *Djus-piter, «dio padre»). Insomma, Tuisto era considerato il padre degli uomini e degli dèi. Sotto certi aspetti, però, questo nume ricorda da vicino il Mars Romanus, il padre della stirpe capitolina, proiezione ideale del Romano. Non è un caso, tra l’altro, che quando le popolazioni germaniche adattarono il proprio calendario a quello romano, identificando le due divinità, traducessero Martis dies con Zios dagaz (< ted. Dienstag, engl. Tuesday).

Divinità antropomorfica. Statuetta, legno di quercia, V secolo a.C., da Altfriesack. Berlin, Neues Museum.

Il progenitore Mann, secondo la leggenda, ebbe tre figli, dai nomi dei quali derivano rispettivamente quello degli Ingaevones, che al tempo di Tacito abitavano le coste dell’Oceano, quello degli Herminones, che vivevano nella Germania continentale, e quello degli Istaevones. È molto più verosimile che il processo si sia svolto in ordine inverso: dal nome di questi gruppi etnici si è ipotizzato quello dei mitici capostipiti Inguio, Hermin e Istwo (analogamente a quanto avvenuto in Grecia, dove i progenitori Ione, Doro ed Eolo derivano dal nome degli Ioni, dei Dori e degli Eoli). Plinio il Vecchio (Plin. NH IV 99) specifica che gli Ingaevones erano popolazioni stanziate lungo le coste del Mare del Nord e del Baltico (come Cimbri, Teutoni e Chauci); gli Herminones (NH IV 100) erano insediati a est del Reno (Suebi, Hermonduri, Chatti e Cherusci); più a ovest di loro, lungo il Reno, risiedevano gli Istaevones. Tuttavia, osserva Tacito, oltre al venerabile albero genealogico a tre rami esistevano anche «nomi autentici e antichi di popoli» che egualmente vantavano origini divine, fra i quali i già menzionati Suebi, ma anche i Marsi che difendevano il tempio di Tanfana e, infine, i Vandili (o Vandali). L’autore mostra dunque di essere a conoscenza di tradizioni differenti, che peraltro riporta non senza modificarle; il suo predecessore, Plinio il Vecchio, conosceva infatti cinque genealogie germaniche, cioè, oltre alle tre ricordate in seguito anche da Tacito e a quella dei Vandili, anche quella del gruppo celto-germanico dei Bastarni, stanziati sulle rive del baso Danubio e sul Mar Nero. La discussione sul significato di tali genealogie è oggi più che mai accesa. Come dato in una certa misura attestato può valore solo il fatto che queste antiche società di culto, all’epoca in cui i Romani penetrarono nell’interno della Germania, se non si stavano già sciogliendo, stavano comunque attraversando una fase di notevoli cambiamenti.

Plinio, per esempio, al pari di Tacito, nomina i Gutones (gli antenati dei Goti), come abitanti della Germania orientale. Ma mentre Tacito li annovera fra i Suebi, secondo Plinio i Gutones sarebbero stati un sottogruppo dei Vandili. Sia la leggenda sull’origine dei Goti, che pure fu messa per iscritto solo molto più tardi (da Giordane nel VI secolo), sia quella ancora più recente dei Longobardi (che nel I secolo erano ritenuti ugualmente Suebi) sull’Elba considerano la vittoria sui Vandali la prima azione determinante ai fini della creazione dell’identità del popolo. In simili storie probabilmente sopravviveva il ricordo del fatto che un tempo il proprio popolo non era che un sottogruppo che dipendeva da società cultuali e stirpi più grandi dalle quali ci si distaccò a forza, causando o accelerando con questo la loro rovina. Non di rado avvenimenti del genere sono legati ai nomi delle divinità e a fatti leggendari. Di conseguenza, per quanto possano essere stati importanti come causa di eventi storici, non possono essere pienamente oggetto di conoscenza storica.

Se non si tratta di uno scherzo della tradizione e se ci si può quindi fidare della cronologia relativa, furono in primo luogo le gentes, nel senso di popoli, tribù e gruppi tribali, che si richiamavano a un’origine divina a paragonarsi alle divinità stesse. La loro sconfitta costituì un trauma persino per i popoli vicini, perché l’aiuto divino, che per loro era scontato, non si era tradotto in concreto. Così dal dio Mannus discendevano non tre individui singoli, bensì tre popoli (Ingaevones, Herminones e Instaevones), con i quali erano in competizione altre «genti dai veri nomi antichi» (tribù o gruppi di tribù) come Suebi, Marsi e Vandili, con miti d’origine molto simili. Di contro, si pianse la caduta di Ariovisto e si celebrarono le gesta e la fine di Arminio senza che vi fosse alcun segno che i due fossero stati deificati (cfr. Tac. Germ. 8), e anche nel periodo effettivo della migrazione dei popoli (IV-VI secolo) nessun principe germanico fu oggetto di una venerazione paragonabile all’antico culto orientale del sovrano. Tuttavia, le dinastie reali più importanti riuscirono a trasferire su di sé l’origine divina del proprio popolo, in un certo senso monopolizzandola.

Così dai Vandali Hasdingi scaturì la dinastia regia degli Hasdingi («dalle lunghe chiome»), le cui tradizioni e istituzioni antiche risalgono con ogni probabilità all’età lugico-vandilica. Quelli che sono considerati i loro re più antichi conosciuti sono infatti coppie di dioscuri, i cui nomi, Ambri e Assi, o Raus e Rapt, significano all’incirca «ontano e frassino», o «trave e canna». Sono evidenti precise analogie con il nome dei Goti Amali, considerati, dal canto loro, «a(n)si», un termine che egualmente indica una «trave» o un «albero», dal quale si possono realizzare «idoli su pali»; e, in effetti, ci sono pervenute raffigurazioni di divinità del genere in legno, talvolta di dimensioni più grandi del naturale.

L’albero genealogico degli Amali inizia con Gaut, il padre divino della stirpe dei Gauti scandinavi; quando i genealogisti anglosassoni non si accontentarono più di far risalire l’origine della stirpe regia a Woðanaz/Odino (cfr. Beda, Hist. Angl. I 5), ricondussero le loro origini divino fino a quel dio dei Gauti. La famiglia reale degli Svedesi si chiamava Ynglingar: essi erano i discendenti di Yngvi/Freyr e ogni nuovo sovrano era considerato la reincarnazione di questo dio. Probabilmente, questa credenza fu anche alla base della decisione dei Goti di chiamare «a(n)si» (cioè «semidei») gli Amali vittoriosi: il successo su un nemico superiore rendeva evidente l’origine «necessariamente sovrumana» della famiglia reale. Ma anche la seconda stirpe dei Balti, predecessori dei Visigoti, aveva origine, come gli Amali, da «semidei ed eroi» (Jord. Get. 78 ss.; Merob. Carm. IV 16 ss.). In questa forma attenuata, la stessa esegesi cristiana poteva accogliere antiche tradizioni di culto senza per questo fare proprio il politeismo pagano; un vescovo gallico, per esempio, sosteneva che il salico merovingio Clodoveo, che discendeva da un dio-toro, avrebbe dovuto rinunciare a rivendicare la divinità, ma non l’evidente rango dei suoi predecessori.

Dal tempo di Cesare fino all’anno Mille il tema delle divinità germaniche fu sempre attuale, quindi bisogna operare una distinzione fra le notizie che risalgono agli autori classici e all’epoca delle migrazioni dei popoli e quelle degli scrittori scandinavi che cercarono di dare organicità all’argomento: le figure di Odino, Frigg e Baldr, Freyr e Freya, Thor e Loki e tutti gli altri, che, dopo la grande battaglia dei Vani, abitano riuniti più o meno liberamente nel Walhalla o vengono evocate durante la festa di Bayreuth dalla musica di Wagner, hanno un valore limitato per la comprensione della religione germanica continentale. Tuttavia, l’idea della bipartizione del pantheon germanico che il Nord scandinavo tramanda nel racconto della battaglia fra gli Asi e i Vani, cui segue la conciliazione finale, si affermò con ogni probabilità anche nell’Europa continentale (questo scontro tra esseri divini, tra l’altro, sembra richiamare da vicino la Titanomachia della mitologia ellenica con l’affermazione degli dèi olimpici).

Secondo questa concezione da un lato c’erano i Vani, più antichi e stanziali, dispensatori di fertilità che conoscevano i matrimoni tra fratelli e, palesemente, anche le strutture matriarcali, ma che contavano fra loro anche divinità gemellari benigne; dall’altro c’erano gli Asi, più giovani e bellicosi, che rifiutavano i costumi della generazione precedente. Alla loro testa c’era Woðan/Odino, il dio intorno al quale si raccoglieva il seguito organizzato su base patriarcale. Gli Amali veneravano il loro predecessore Gaut e passarono agli Asi solo nel corso della loro storia continentale. Gli svedesi Ynglingar si consideravano discendenti del dio dei Vani Yngvi/Freyr. Prima che i Longobardi divenissero seguaci di Odino, si facevano chiamare Winnili ed erano associati alla divinità vanica Frea/Freya, sorella di Freyr.

Woðan. Bratteato, oro, c. fine VI secolo, da Vadstena (Östergötland). Stockholm, Statens historiska museum.

Queste storie furono trascritte molto tardi. Vi si può discernere una cronologia relativa, una successione di fenomeni e di processi, ma esse non trasmettono alcuna informazione su avvenimenti precisi e sui loro protagonisti: simili racconti non hanno una storicità databile e spazialmente definibile. Su un altro versante, Cesare, Plinio il Vecchio, Tacito e altri autori antichi descrivono la religione dei Germani a loro contemporanei, o almeno vicini nel tempo. Ovviamente, i loro interessi influenzavano la loro capacità di osservazione e di comprensione, vagliando la realtà germanica attraverso la pratica dell’interpretatio. Cesare, d’altronde, voleva raffigurare i Germani come selvaggi il più possibile primitivi e poco capaci di evolversi, affinché risultassero particolarmente temibili all’opinione pubblica romana e sentiti come una vera minaccia; sul piano cultuale, perciò, egli attribuì una religione naturale di tipo animistico che oltre al Sole, alla Luna e al fuoco non conosceva alcuna divinità né alcuna forma organizzata di venerazione. Dal canto suo, Tacito, nella sua interpretatio Romana, formulò un’equivalenza fra gli dèi che con variazioni minime sopravvive ancora oggi nel nome di quattro dei sette giorni della settimana, anche se raramente si è consapevoli della loro origine: Martis dies – Tuesday, Mercuris dies – Wednesday; Iovis dies – Thursday; Veneris dies – Friday.

Sulla scorta della descrizione cesariana del pantheon celtico (Caes. BG VI 17), Tacito (Germ. 9, 1) afferma che i Germani deorum maxime Mercurium colunt, cui certis diebus humanis quoque hostis litare fas habent («tra gli dèi tributano particolare venerazione a Mercurio, al quale ritengono sia lecito immolare anche vittime umane in giorni stabiliti»). L’autore equiparava Woðan/Odinoal romano Mercurius, per la sua funzione di guida delle anime (psicopompo): i guerrieri, infatti, prima di scendere in battaglia lo invocavano per offrirgli le proprie prodezze e nell’eventualità della morte lo pregavano affinché concedesse loro un’esistenza ultraterrena fra gli antichi eroi. Allo stesso modo, nell’Historia Langobardorum (VII secolo) Paolo Diacono identificò Odino (Goðan, «il re degli dèi») al Mercurio romano. Il teologo Abramo di Brema (XI secolo) ricondusse l’etimo del nome divino alla radice *wud- («furia»), mentre Agrippa di Nettesheim (1486-1535) alla radice * guð-, da cui il lang. Goðan e il norr. Óðr, che come aggettivo vuol dire «matto», «pazzo», «furioso», mentre come sostantivo significa «anima», ma anche «poesia». Il legame tra Woðan/Odino e Mercurio ritorna nell’identificazione del Mercurii dies al Woðanas dagaz (< engl. Wednesday, o.engl. wodnesdæg, ted. Mittwoch).

Stele votiva a Hercules Magusanus (AE 1971, 282). Pietra calcarea, c. 226. Bonn, Rheinisches Landesmuseum.

Mentre, dunque, Woðanaz era il dio della regalità, della magia e della guerra – tutte prerogative dell’élite guerriera – Þunaraz o Þonar (cfr. norr. Þórr) era un’entità elementale, connessa alla pioggia, al tuono e al fulmine. La maggior parte delle testimonianze pervenute dimostrano il forte legame tra la nazione germanica e questo dio: secondo la mitologia, Þonar era in costante lotta contro i Giganti (emanazione delle forze ostili della natura), raffigurato come un eroe solare e civilizzatore, paladino della giustizia e ordinatore del cosmo. Il suo legame con il popolo, che spesso era depositario della metallurgia, dimostra l’attributo del maglio (attrezzo che nella tradizione scandinava aveva persino un nome, Mjöllnir, «Il frantumatore»). Mentre Cesare riconduceva il dio Þonar al romano Vulcanus, sia per l’aspetto di artefice sia per quello di nume del fuoco e della luce, Tacito lo interpretò, in quanto uccisore di mostri e dotato di uno strumento simile alla clava, come Hercules. Per certi versi, entrambi gli autori avevano ragione. Ma, a proposito dell’interpretatio tacitiana si può aggiungere un’ulteriore spiegazione: gli antichi ritenevano che la clava di Ercole fosse stata ricavata dal tronco di una quercia, albero sacro a Giove, perché capace di attirare i fulmini. Per questo motivo la pianta era sacra, sia perché vista come oggetto di chiara manifestazione divina (Iuppiter tonans) sia perché luogo in cui l’umanità preistorica poteva reperire più facilmente la fonte principale della sua tecnologia e del suo sostentamento. Inoltre, tuoni e fulmini (e, per esteso, i temporali) erano forieri di pioggia, necessaria alla vita e alla produttività del suolo. Così, il semi-dio doveva essere un re sacro, che grazie alla clava di legno di quercia adunava le nuvole e attirava sul suo popolo le piogge benefiche; allo stesso modo, questo potere sovrannaturale di controllo degli elementi poteva essere usato per uccidere e incenerire i nemici. In pratica, presso i Germani, dalla clava in semplice legno (forse usata anche per i lavori manuali) fu gradualmente sostituita ed evoluta nel martello, che conservava ancora i poteri della quercia. In seguito, constatando che Hercules era Iovis filius – anch’egli assimilabile al germanico Þonar –, lo Iovis dies latino fu adattato al Þonaras dagaz (< ted. Donnerstag, engl. Thursday).

La Venere romana fu equiparata alla Frigg germanica, perciò, il Veneris dies fu interpretato come Frigu dagaz (< ted. Freitag; o.engl. Frigedæg > engl. Friday). Non è impossibile che vi sia quest’ultima dietro il culto di Iside che Tacito attribuisce a un sottogruppo dei Suebi (Germ. 9, 1): si spiegherebbe così la sua importanza presso i Longobardi, che provenivano anch’essi da quella stirpe.

Nella Abrenuntiatio Diaboli (formula battesimale) sassone vengono rinnegate le tre divinità principali Uuoðen, Þunaer e Seaxneat (quest’ultimo al posto di Tiu/Tuisto); presso gli Svedesi, a Uppsala, il terzo nome della lista è naturalmente Freyr. È significativo che Tacito conoscesse una dea tellurica di nome Nerthus, venerata dagli Ingaevones, tra i cui vicini scandinavi la figura del dio maschile Njörd svolgeva il ruolo di padre dei fratelli Freyr e Freya. Che intrattenesse oppure no un simile rapporto con Njörd, considerato tutto ciò che Tacito riferisce sul suo conto, Nerthus va inclusa nella cerchia delle divinità vaniche; ne facevano parte anche i numi Alci, oggetto di venerazione da parte delle tribù orientali in quanto salvatori e fratelli divini, che l’autore latino identificò con gli antichi dioscuri, Castore e Polluce (Tac. Germ. 43, 3).

André-Charles Voillemot, Veleda. Olio su tela, 1869.jpg

Al contrario di quanto racconta Cesare, le fonti riferiscono di sacerdoti in abiti femminili e soprattutto di sacerdotesse, che si mettono in evidenza non da ultimo in qualità di veggenti e indovine. Tacito (Germ. 8, 2) afferma che i Germani inesse quin etiam sanctum aliquid et providum putant, nec aut consilia earum aspernantur aut responsa neglegunt («ritengono anche che nelle donne vi sia qualcosa di sacro e profetico, e non disprezzano i loro consigli né trascurano i loro responsi»). Un passo di Cassio Dione dagli Excerpta Ursiniana riferisce dell’arrivo a Roma, sotto Domiziano, nel 91/2, della sacerdotessa Ganna insieme a Masio, re dei Semnones (DCass. LXVII 5, 3 = Exc. U 45, p. 400 = Suid. s.v. θειάζουσα): Μάσυος ὁ Σεμνόνων βασιλεὺς καὶ Γάννα (παρθένος ἦν μετὰ τὴν Οὐελήδαν ἐν τῇ Κελτικῇ θειάζουσα) ἦλθον πρὸς τὸν Δομιτιανόν, καὶ τιμῆς παρ’ αὐτοῦ τυχόντες ἀνεκομίσθησαν («Masio, re dei Semnones, e Ganna – era una vergine sacerdotessa che in Germania era succeduta a Veleda –, si presentarono da Domiziano e, dopo essere stati ospitati da lui con onore, ripartirono»).

Un’iscrizione su ostrakon del II secolo dall’egiziana Elefantina (SB III 6221), contenente una lista di persone appartenenti al seguito del praefectus Aegypti, menziona una veggente semnonica di nome Baluburg o Waluburg: Βαλουβουργ Σήνονι σιβύλλᾳ.

Nel 9 a.C., il figliastro di Augusto, il console Nerone Claudio Druso Maggiore, aveva condotto delle campagne militari in territorio suebico. Secondo Svetonio (Claud. 1), quando Druso volle attraversare il fiume Elba, indietreggiò spaventato alla vista di una barbara mulier straordinariamente grande, forse una semnona, che gli intimò sermone latino di non avanzare oltre. Anche Cassio Dione (LV 1, 3) riferisce che, come giunse in prossimità del fiume, Druso incontrò una donna dalle dimensioni sovrumane, che gli disse: ποῖ δῆτα ἐπείγῃ, Δροῦσε ἀκόρεστε; οὐ πάντα σοι ταῦτα ἰδεῖν πέπρωται. ἀλλ’ ἄπιθι· καὶ γάρ σοι καὶ τῶν ἔργων καὶ τοῦ βίου τελευτὴ ἤδη πάρεστι («Fin dove vuoi arrivare, insaziabile Druso? Non è nel tuo destino che tu veda tutti questi territori; torna indietro piuttosto, poiché la fine delle tue imprese è ormai prossima!»). Nonostante l’avvertimento, Druso aveva comunque tentato di attraversare la corrente, ma senza successo. Piuttosto si era accontentato di far erigere un monumento alle recenti vittorie. Quindi, decise di tornare indietro e, lungo la via, rimase ferito per una caduta da cavallo che gli aveva procurato la rottura di un femore e un’infezione tale da condurlo alla morte prima di raggiungere il Reno (DCass. LV 1, 4; Liv. Per. 142, 2; Val. Max. V 5, 3; Plin. NH VII 19, 20; 84; Tac. Ann. III 5, 2). Probabilmente la mulier barbarica di cui parlano Svetonio e Cassio Dione potrebbe essere identificata con quella Albruna menzionata da Tacito (Germ. 8, 2).

La barbara mulier ferma Druso. Illustrazione da Ward and Lock’s Illustrated History of the World, London 1882.

Tra le veggenti germaniche, una delle più celebri è senz’altro Veleda, virgo nationis Bructerae (Tac. Hist. IV 61): la sua vicenda, narrata da Tacito nei libri IV e V delle sue Historiae, è legata alla rivolta di Giulio Civile nel 69, apparentemente a favore di Vespasiano contro Vitellio.  Com’è noto, Civile apparteneva a un nobile casato dei Batavi, un popolo germanico che abitava un’isola (insula Batavorum) circondata dalle due ramificazioni del Reno, presso il Mare del Nord. Civile si era romanizzato servendo nell’esercito imperiale come praefectus di una coorte di suoi connazionali. A quanto si dice, fu la profetessa Veleda a ispirare la sua sollevazione, predicendo al principe batavo le vittorie che in seguito avrebbe conseguito contro le forze imperiali. La donna esercitava un fortissimo ascendente su diverse tribù germaniche (late imperitabat), proprio grazie alle sue conclamate capacità profetiche. Nel corso della ribellione, spesso ella fu chiamata insieme allo stesso Civile a presenziare negli arbitrati per la ricomposizione di rivalità e contese. Si dice che Veleda vivesse isolata all’interno di una torre e mantenesse i contatti con l’esterno soltanto grazie ai propri familiari. La sua dimora, verosimilmente, doveva trovarsi presso il corso del Lippe, dato che proprio su questo fiume i seguaci di Civile vittoriosi le portarono in dono la nave ammiraglia romana, bottino di guerra. Quando la ribellione fu repressa, anche Veleda finì fra i prigionieri dei Romani

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