ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di G.B. Cᴏɴᴛᴇ, E. Pɪᴀɴᴇᴢᴢᴏʟᴀ, 𝐿𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎. 1. 𝐿’𝑒𝑡𝑎̀ 𝑎𝑟𝑐𝑎𝑖𝑐𝑎 𝑒 𝑟𝑒𝑝𝑢𝑏𝑏𝑙𝑖𝑐𝑎𝑛𝑎, Milano 2010, 141; 35-39 (in Materiali per il docente).
A Catone risale anche il testo di prosa latina più antico che ci sia giunto per intero, il trattato De agri cultura. L’opera, formata da una prefazione e da centosettanta brevi capitoli, consiste, in gran parte, in una serie di precetti esposti in forma asciutta e schematica, anche se talora di grande efficacia, che non lascia spazio agli ornamenti letterari né alle riflessioni filosofiche sulla vita e il destino degli agricoltori, diffuse in tanta parte della successiva trattatistica agricola latina.
Nel De agri cultura Catone vuole dare una precettistica generale da applicarsi al comportamento del proprietario terriero. Questi, rappresentato secondo la tradizione nelle vesti del pater familias, deve dedicarsi all’agricoltura come all’attività più sicura e onesta, la più adatta, inoltre, a formare i buoni cittadini e i buoni soldati.
Vita rurale. Mosaico, III sec. d.C. Oudna, Villa dei Laberii. Tunis, Musée du Bardo.
Ma il tipo di proprietà che Catone descrive non è più il piccolo appezzamento di terra, la piccola tenuta a conduzione familiare che era la più diffusa forma di insediamento sul suolo in età antico-repubblicana, né ci troviamo di fronte a una bonaria civiltà agricola patriarcale. Da alcuni passi traspare la brutalità dello sfruttamento servile: Catone raccomanda di vendere come un ferrovecchio il servo anziano o malato, e perciò inabile al lavoro. L’attività agricola è ormai un’impresa su vasta scala: il proprietario dovrà avere grandi magazzini – raccomanda l’autore – in cui tenere depositata la merce in attesa del rialzo dei prezzi, dovrà acquistare il meno possibile e vendere il più possibile.
Si colgono qui, nelle loro elementari radici, i tratti salienti dell’etica catoniana, che sono più gli stessi che la riflessione tardo repubblicana indicherà come costitutivi del mos maiorum: virtù come parsimonia, duritia, industria, il disprezzo per le ricchezze e la resistenza alla seduzione dei piaceri mostrano come il rigore catoniano non sia la saggezza pratica del contadino incorrotto e ingenuo, ma rappresenti il risvolto ideologico di un’esistenza genuinamente pragmatica; insomma, trarre dall’agricoltura vantaggi economici, anzi accrescere la produttività del lavoro servile a essa applicato. Lo stile dell’opera è scarno, ma colorito da espressioni di saggezza popolare e campagnola che volentieri si esprimono in formulazioni proverbiali.
Vita campestre. Mosaico, IV sec. d.C. da Ostia. Detroit, Institute of Arts.
Catone, dunque, è passato alla storia come il paladino del mos maiorum e l’inflessibile difensore della tradizione, contro tutte le spinte al rinnovamento e all’ammorbidimento dei costumi presenti nella società romana a lui contemporanea (e incarnate principalmente da quegli intellettuali che facevano capo alla cerchia degli Scipiones). Se una visione eccessivamente rigida del suo conservatorismo rischia di travisare la corretta interpretazione del pensiero di Catone (nel quale una certa apertura, per esempio verso la cultura greca, fu indubbiamente presente), è comunque pur vero che la sua figura e la sua opera restano l’espressione massima della difesa dei valori morali tradizionali. Questo vale anche per il De agri cultura, nel quale, al di là dell’intento precettistico, emerge una visione ideologica dell’agricoltura (tradizionale e sana attività dell’uomo romano) come l’unica forma di guadagno degna e onesta, attraverso la quale l’aristocrazia romana può mantenersi fedele a quegli ideali etico-politici che costituiscono il fondamento stesso del suo potere. La praefatio rappresenta il manifesto ideologico del vir bonus colendi peritus, cioè del proprietario agricoltore, che per Catone è il cittadino esemplare e il principio di stabilità della res publica. L’utilità e la sicurezza economiche della produzione agricola diretta, contrapposta alle attività affaristiche, si fondono con l’utilità e la stabilità sociali della piccola e media proprietà rurale, fondamento dello Stato e garanzia di conservazione dei valori trasmetti dal mos maiorum.
[1] Est interdum praestare mercaturis rem quaerere, nisi tam periculosum sit, et item fenerari, si tam honestum sit. Maiores nostri sic habuerunt et ita in legibus posiuerunt, furem dupli condemnari, feneratorem quadrupli: quanto peiorem ciuem existimauerint feneratorem quam furem, hinc licet existimare. [2] Et uirum bonum cum laudabant, ita laudabant bonum agricolam bonumque colonum. Amplissime laudari existimabantur qui ita laudabantur. [3] Mercatorem autem strenuum studiosumque rei quaerendae existimo, uerum ut supra dixi, periculosum et calamitosum. At ex agricolis et uiri fortissimi et milites strenuissimi gignuntur, maximeque pius quaestus stabilissimusque consequitur minimeque inuidiosus, minimeque male cogitantes sunt qui in eo studio occupati sunt.
[1] Talora può essere preferibile cercare fortuna nei commerci, se non fosse tanto pericoloso, e anche prestare a usura, se la cosa fosse altrettanto onorevole. I nostri antenati così ritennero e così stabilirono le leggi, che il ladro fosse condannato al doppio, l’usuraio al quadruplo; da qui si può capire quanto peggiore cittadino considerassero l’usuraio rispetto al ladro. [2] E per lodare un uomo degno, lo lodavano così: buon agricoltore, buon colono; chi così veniva lodato, si pensava che avesse ricevuto la massima lode. [3] Il mercante, poi, io lo stimo un uomo attivo e teso alla ricerca del guadagno, anche se, come ho detto prima, è esposto al pericolo e alle disgrazie; [4] ma dagli agricoltori derivano gli uomini più forti e i soldati più valorosi, e nell’agricoltura si consegue un guadagno del tutto onesto, saldissimo e per niente esposto all’invidia, e coloro che sono occupati in questa attività sono il meno soggetti a pensar male.
Scena di mercato e di dissodamento del terreno. Rilievo, calcare, III sec. Arlon, Musée Luxembourgeois.
L’autore contrappone qui l’agricoltura a due altre possibili forme di guadagno, il commercio e l’usura; se nei confronti dell’usura la condanna, di carattere morale, è totale (egli, rifacendosi probabilmente alla legislazione delle XII Tavole ricorda come per l’usuraio fosse prevista una pena doppia rispetto a quella del ladro), Catone mostra invece una certa apertura nei confronti della mercatura (da intendere prevalentemente come commercio marittimo), un’attività che, con l’ampliarsi delle conquiste romane, stava prendendo sempre più piede e alla quale, probabilmente, lo stesso Catone si dedicò; egli definisce infatti il mercator strenuus studiosusque rei quaerendae, e la sua unica riserva sta nella pericolosità di tale forma di commercio, esposto continuamente ai rischi della sorte. Ma anche l’attività mercantile deve comunque, nell’ottica catoniana, cedere il passo all’agricoltura, il cui elogio è condotto dall’autore sia su basi economiche (essa è quaestus stabilissimus, la forma di guadagno più stabile e sicura), ma anche, e soprattutto, morali: la coltivazione dei campi è l’attività più onesta (nell’epiteto pius si coglie addirittura una sfumatura sacrale!) e meno esposta all’invidia, la base della potenza romana (in quanto è proprio dal ceto agricolo che provengono quei viri fortissimi e milites strenuissimi che hanno fondato il dominio dell’Urbe). Rifacendosi al giudizio dei maiores, Catone celebra l’agricoltura come l’unica attività in grado di formare a 360° il buon cittadino romano; nell’identificazione tout-court del vir bonus con il bonus agricola e bonus colonus (che richiama ovviamente la celebre massima vir bonus colendi peritus) sta il fulcro dell’ideologia catoniana.
La prefatio dell’opera, inoltre, è caratterizzata da una struttura retorica piuttosto elaborata. Certamente l’autore fa ricorso ai mezzi stilistici relativamente semplici della prosa arcaica, che ancora non ha raggiunto il livello di “maturità” dell’età cesariana e augustea. Fra i tratti stilistici arcaici, poi superati nel corso dello sviluppo della prosa latina, è qui particolarmente evidente la tendenza alla ripetizione, come risulta dai seguenti esempi: fenerari… feneratorem… feneratorem; existimarente… existimare… existimabatur… existimo; bonum… bonum… bonum; laudabant… laudabant… laudari… laudabatur; minime… minime.
La cura stilistica del passo si rivela nell’attenta costruzione in cola paralleli di alcune frasi (per esempio, nel periodo di apertura: mercaturis rem quaerere, nisi tam periculosum sit, et item fenerari, si tam honestum sit; oppure, al par. 4, la sequenza ternaria maximeque pius… stabilissimusque… minimeque invidiosus, con il superlativo al centro fra due aggettivi modificati dagli avverbi in antitesi, maxime e minime) e nella presenza di iterazioni sinonimiche (bonum agricolam bonumque colonum; strenuum studiosumque; periculosum et calamitosum; et viri fortissimi et milites strenuissimi, con omoteleuto). Molto efficace è anche il ricorso a effetti di suono e in particolare all’omoteleuto (cioè la coincidenza nei suoni finali di due parole o cola contigui), che costituisce la vera e propria marca stilistica del passo (sic habuerunt et ita… posiverunt; peiorem civem… feneratorem… furem; quom laudabant, ita laudabant; existimabatur qui ita laudabatur; male cogitantes sunt qui… occupati sunt).
Scena di vendita e trasporto delle merci. Rilievo, calcare, III sec. Arlon, Musée Luxembourgeois.
Dopo aver dispensato consigli sull’acquisto del podere, ecco l’insediamento del nuovo padrone: i compiti (officia) del pater familias, minutamente illustrati, lasciano trasparire, al di là della concretezza pratica, la loro portata ideologica (Agr. 2):
[1] Pater familias, ubi ad uillam uenit, ubi larem familiarem salutauit, fundum eodem die, si potest, circumeat; si non eodem die, at postridie. Ubi cognouit quo modo fundus cultus siet, opera quaeque facta infectaque sie‹n›t, postridie eius diei uilicum uocet, roget quid operis siet factum, quid restet, satisne temperi opera sient confecta, possitne quae reliqua sient conficere, et quid factum uini, frumenti aliarumque rerum omnium. [2] Ubi ea cognouit, rationem inire oportet operarum, dierum. Si ei opus non apparet, dicit uilicus sedulo se fecisse, seruos non ualuisse, tempestates malas fuisse, seruos aufugisse, opus publicum effecisse. Ubi eas aliasque causas multas dixit, ad rationem operum operarumque reuoca. [3] Cum tempestates pluuiae fuerint, quae opera per imbrem fieri potuerint: dolia lauari, picari, uillam purgari, frumentum transferri, stercus foras efferri, stercilinum fieri, semen purgari, funes sarciri, nouos fieri, centones, cuculiones familiam oportuisse sibi sarcire; [4] per ferias potuisse fossas ueteres tergeri, uiam publicam muniri, uepres recidi, hortum fodiri, pratum purgari, uirgas uinciri, spinas runcari, expinsi far, munditias fieri; cum serui ‹a›egrotarint, cibaria tanta dari non oportuisse. [5] Ubi cognita aequo animo sient qua[u]e reliqua opera sient, curari uti perficiantur. Rationes putare argentariam, frumentariam, pabuli causa quae parata sunt; rationem uinariam, oleariam, quid uenierit, quid exactum siet, quid reliquum siet, quid siet quod ueneat; quae satis accipiunda sient, satis accipiantur; [6] reliqua quae sient, uti compareant. Si quid desit in annum, uti paretur; quae supersint, uti ueneant; quae opus sient locato, locentur; quae opera fieri uelit et quae locari uelit, uti imperet et ea scripta relinquat. Pecus consideret. [7] Auctionem uti faciat: uendat oleum, si pretium habeat; uinum, frumentum quod supersit, uendat; boues uetulos, armenta delicula, oues deliculas, lanam, pelles, plostrum uetus, ferramenta uetera, seruum senem, seruum morbosum, et si quid aliud supersit, uendat. Patrem familias uendacem, non emacem esse oportet.
[1] Quando il padrone di casa si reca alla fattoria, dopo aver reso omaggio al lare familiare, faccia il giro del fondo il giorno stesso, se è possibile, altrimenti il giorno successivo. Dopo aver verificato in che modo il terreno sia stato coltivato e quali lavori siano stati compiuti e quali siano stati omessi, il giorno successivo convochi il fattore e chieda quanto lavoro sia stato fatto, quanto ne rimanga, se i lavori siano stati effettuati in tempo, se possano essere portati a termine quelli che restano, e quale quantità si sia raccolta di vino, di grano e di tutti gli altri prodotti. [2] Una volta appurato tutto ciò, deve fare il conto degli operai e delle giornate lavorative. Se il conto del lavoro non gli torna e il fattore sostiene di aver lavorato onestamente per la sua parte, ma che alcuni servi hanno avuto problemi di salute, che il tempo è stato inclemente, che alcuni servi sono scappati, che egli ha dovuto lavorare per conto dello Stato, quando dunque il fattore avrà addotto questi e molti altri motivi a giustificazione, riportarlo al conto dei lavori e degli operai. [3] Nel caso di tempo piovoso, nei momenti di pioggia avrebbe potuto compiersi i seguenti lavori: lavare le botti, spalmarle con la pece, far la pulizia della fattoria, cambiare di posto il grano, portar fuori il letame e ammucchiarlo, mondare le sementi, riparare le corde e farne di nuove; inoltre, sarebbe stato necessario che i servi si aggiustassero le coperte e i mantelli a cappuccio. [4] Nei giorni festivi si sarebbe potuto ripulire le vecchie fosse, provvedere alla manutenzione della strada pubblica, tagliare gli sterpi, zappare l’orto, ripulire il prato, legare le ramaglie, roncare le spine, pestare il farro, far le pulizie generali; in caso di malattia dei servi, non si sarebbe dovuto dar loro porzioni tanto abbondanti. [5] Quando si sarà esaminato con animo sereno quali lavori restino da fare, bisogna farli effettuare; fare il conto del denaro liquido, del grano, di ciò che è stato preparato per il foraggio; fare il conto del vino e dell’olio, che cosa si sia venduto, che cosa si sia riscosso e che cosa ci sia ancora da riscuotere, che cosa ci sia da vendere; se ci sono garanzie affidabili da accettare, le si accettino; si mettano in evidenza le rimanenze. [6] Se manca alcunché per completare l’annata, lo si compri; ciò che avanza, lo si venda; i lavori che è bene dare a cottimo, vengano dati a cottimo; il padrone dia ordine – e lo ponga per iscritto –, quali lavori voglia che si effettuino direttamente e quali voglia che si diano a cottimo. Esamini il bestiame. [7] Faccia una vendita all’asta: venda l’olio, se ha buon prezzo sul mercato; venda il vino e il grano che abbia in eccedenza; venda i buoi vecchi, i capi di bestiame malandati, le pecore malandate, la lana, le pelli, i carri vecchi, gli attrezzi ormai logori, i servi anziani e quelli ammalati, tutto ciò che c’è di superfluo. Il padrone di casa deve essere sempre pronto a vendere, non comprare.
Villa romana. Mosaico, IV sec. d.C. Villa di Julius. Tunis, Musée du Bardo.
Nel definire i compiti del proprietario, Catone traccia il profilo ideale del pater familias secondo i canoni etici della tradizione arcaica: sue prerogative sono la pietas, la devozione religiosa che lo spinge appena giunto alla fattoria a rendere omaggio al lare familiare; l’industria, la sollecita operosità manifestata nel recarsi personalmente (possibilmente il giorno stesso del suo arrivo) a controllare lo stato delle coltivazioni e dei lavori nella proprietà. Con cognizione di causa, il pater familias, amministratore oculato dei propri beni, potrà quindi procedere a esaminare nei dettagli il resoconto presentatogli dal fattore. Ogni giornata lavorativa deve corrispondere a un utile in termini di rendimento e di produttività. Quando le condizioni atmosferiche non consentono il lavoro nei campi, la manodopera deve comunque essere impiegata in attività alternative; così come tutta una serie di lavori di manutenzione può essere destinata ai giorni festivi. Il padrone darà a cottimo i lavori che non è possibile o vantaggioso svolgere direttamente; comprerà lo stretto necessario, venderà al miglior offerente i prodotti in eccedenza, nonché l’attrezzatura, il bestiame e i servi (che hanno statuto giuridico di res) malandati.
Pietas, industria e parsimonia appartengono al modello etico della società agraria arcaica, ma qui il pater familias non è più il padrone del piccolo podere che lavora con le proprie mani (come il dittatore Cincinnato, che abbandonò l’aratro per servire la res publica e all’aratro tornò dopo la guerra), ma un latifondista, un imprenditore a capo di un’efficiente azienda agricola. Il mos maiorum che Catone strenuamente difende mostra già evidenti segni di anacronismo rispetto alla realtà della società romana del suo tempo.
Dominus e servus. Bassorilievo, marmo, IV sec. d.C., dal sarcofago di Valerio Petroniano. Milano, Museo Archeologico.
Nell’elencare i doveri della fattoressa, moglie del contadino, Catone tratteggia l’ideale della matrona pudica e pia, riservata e parsimoniosa, completamente dedita al lavoro e alla cura della casa. Agr. 143 è un documento interessante sulla condizione femminile nell’antica Roma, che ci presenta l’immagine della donna arcaica e tradizionale, radicata nel mos maiorum e nella mentalità contadina della civiltà romana.
[1] Vilicae quae sunt officia curato faciat; si eam tibi dederit dominus uxorem, esto contentus; ea te metuat facito; ne nimium luxuriosa siet; vicinas aliasque mulieres quam minimum utatur neve domum neve ad sese recipiat; ad coenam ne quo eat neve ambulatrix siet; rem divinam ni faciat neve mandet qui pro ea faciat iniussu domini aut dominae: scito dominum pro tota familia rem divinam facere. [2] Munda siet: villam conversam mundeque habeat; focum purum circumversum cotidie, priusquam cubitum eat, habeat. Kal., Idibus, Nonis, festus dies cum erit, coronam in focum indat, per eosdemque dies lari familiari pro copia supplicet. Cibum tibi et familiae curet uti coctum habeat. Gallinas multas et ova uti habeat. Pira arida, sorba, ficos, uvas passas, sorba in sapa et piras et uvas in doliis et mala struthea, uvas in vinaciis et in urceis in terra obrutas et nuces Praenestinas recentes in urceo in terra obrutas habeat. Mala Scantiana in doliis et alia quae condi solent et silvatica, haec omnia quotannis diligenter uti condita habeat. Farinam bonam et far suptile sciat facere.
[1] Cura che la fattoressa attenda ai suoi doveri; se il padrone te l’ha data in moglie, sii contento di lei; fa’ sì che ella ti rispetti. Non sia troppo amante del lusso. Frequenti il meno possibile le vicine o altre donne e non le riceva in casa né presso di è; non vada a pranzo fuori da nessuna parte, non sia bighellona. Non faccia sacrifici agli dèi e non incarichi nessuno di farne in sua vece senz’ordine del padrone o della padrona; ricordi che i sacrifici, li fa il padrone a nome di tutti i suoi. [2] Sia pulita; tenga la fattoria ben spazzata e linda; tenga il focolare ben pulito spazzandolo tutto all’intorno ogni giorno prima di andare a dormire. Alle Calende, alle Idi, alle None, inoltre, nei giorni di festa collochi una corona sul focolare e negli stessi giorni faccia un’offerta al lare familiare, in proporzione alle disponibilità. Abbia cura di tener sempre pronto il cibo per te e per tutti i servi della casa. [3] Abbia molte galline e abbondanza di uova; abbia in dispensa pere secche, sorbe, fichi, uva passa, sorbe sotto sapa, pere, grappoli d’uva in giara, piccole cotogne, grappoli d’uva conservati in vinaccia e in orci, interrati, e noci prenestine fresche conservate in vaso, interrate; abbia, infine, diligentemente in provvista ogni anno mele scanziane in dogli e altre specie di mele adatte alla conservazione e anche specie selvatiche. Sappia preparare farina buona e semola fine.
Dea Madre con i frutti nella piega della veste. Statua, II sec. da Alesia. Alise-Sainte-Reine, Musée Alesia.
La virtù fondamentale della donna sposata era la pudicitia, a Roma divinizzata e resa oggetto del culto matronale: all’altare della dea Pudicitia in origine potevano accostarsi esclusivamente le univirae, «le matrone di specchiata castità e unite al primo e unico marito» (nulla nisi spectatae pudicitiae matrona et quae uni uiro nupta fuisset ius sacrificandi habebat, Liv. X 23, 9); un ideale di fedeltà sentita come vincolo oltre la morte. La matrona doveva essere pia (rispettosa dei propri doveri verso la famiglia e verso i suoi culti religiosi), domiseda (restava, cioè, a guardia della casa, affidata alle sue cure di economa parsimoniosa, senza andare in giro per feste e banchetti), lanifica (dedita alle opere del telaio: confezionava personalmente le vesti per sé e per gli altri membri della famiglia), votata a uno stile di vita semplice e sobrio, secondo quell’ideale di frugalitas che caratterizzava la società agraria arcaica in opposizione al lusso del modello urbano, già ampiamente diffuso ai tempi di Catone.
di BRIZZI G., in «Corriere della Sera – La Lettura» n. 377 (Domenica, 17 febbraio 2019), pp. 6-7.
Cominciano le celebrazioni per i 2.200 anni dalla fondazione della città che per un breve periodo fu insediamento celtico e subito dopo colonia latina. Un gruppo di Galli si era stabilito da queste parti perché aveva trovato la piana incolta e deserta, «inculta per solitudines», ma non aveva intenzioni bellicose. Roma, tuttavia, ancora spaventata dal ricordo di Annibale, li aveva cacciati. Da qui inizia la biografia entusiasmante di una realtà urbana.
Duemiladuecento anni. Tanti ne sono trascorsi da quando, nel 181 avanti Cristo, al centro della piana del Friuli, in vista delle Alpi Giulie, nacque Aquileia; ma la gestazione era cominciata cinque anni prima, ed era stata frutto del metus, della paura. Nel 186 avanti Cristo un gruppo di Galli, da oltralpe, passò nei territori dei Veneti con il proposito di insediarsi su quelle terre; e scelse, trovandola incolta e deserta (inculta per solitudines) l’area su cui sarebbe poi sorta Aquileia. Il fatto non piacque ai Romani, che, quando lo appresero, ne furono spaventati. Quel movimento pareva inserirsi in un quadro geostrategico globale: nel 188, nelle acque d’Asia Minore, era stata arsa, dopo il trattato di Apamea, l’ultima grande flotta mediterranea, quella del re di Siria, annullando la minaccia di una futura invasione via mare dell’Italia; e il 187 aveva visto nascere con la via Emilia, lungo il confine politico della penisola, l’Appennino, una linea difensiva — prefigurazione dei futuri limites dell’impero? — destinata entro pochi anni a collegare ben sei colonie militari, da Rimini a Piacenza. L’arrivo degli intrusi allarmò così un senato afflitto dalla paranoica paura postannibalica, che temette forse un pericolo più grave del reale; e, diffidando della smania revanscista del macedone Filippo V, che si diceva fosse pronto a muovere i barbari Bastarni dalle sedi balcaniche per scagliarli contro l’Italia, credette trattarsi di un’avanguardia dell’invasione.
L’area del Foro romano, Aquileia.
A dissipare l’incubo bastò un’ambasceria oltre le Alpi. Avendo appreso che il passaggio in Italia era stata una decisione spontanea dei nuovi venuti, il senato intimò loro di andarsene, e mosse le legioni (183 a.C.). Fu il console Marcello a distruggere il nascente insediamento celtico, etiam invito senatu secondo Plinio (Naturalis historia, III, 131). Dopo avere comunicato loro che la cerchia alpina doveva rimanere inviolata, verso i Galli si mostrò però una certa indulgenza; e li si ricondusse incolumi alle loro sedi. Si decise allora la deduzione di una nuova colonia latina; e a fondarla furono inviati i triumviriPublio Cornelio Scipione Nasica, Gaio Flaminio e Lucio Manlio Acidino, ricordato in un’iscrizione aquileiese di età repubblicana. Grazie alle condizioni della regione si poterono allettare i tremila coloni (per una popolazione forse di diecimila anime in tutto) offrendo loro cospicui lotti di terra: 50 iugeri per ogni colono, 100 per i centurioni, 140 per i cavalieri.
L’origine di Aquileia è interamente romana: le terre occupate dai Celti erano inculta per solitudines e del loro insediamento, impianto provvisorio e non città, nulla sembra essere rimasto, mentre l’unico luogo che il mito classico rivendichi al Friuli più antico non è una polis, come la troiana Padova, ma la sede di un culto naturale, lo sbocco del Timavo al mare. Non distante a sua volta dall’Adriatico, in una zona paludosa lungo il fiume Natisone, a dieci anni dalla fondazione Aquileia non aveva ancora completato il circuito delle mura; tanto che Marco Cornelio Cetego, cui si deve anche la bonifica del luogo, vi dedusse nel 169 a.C. un secondo nucleo di 1.500 coloni, portando gli abitanti al numero di circa 15 mila.
Rito di fondazione della città. Rilievo, calcare locale. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.
Avamposto oltre il territorio degli alleati Veneti, la città è, ancora per Ausonio (Ordo Urbium Nobilium, 7), nel IV secolo, «colonia latina posta di fronte ai monti d’Illiria». Sentinella avanzata, e dunque claustrum, o base per future conquiste, Aquileia rimase poi sempre un centro strategico vitale; e partecipò a tutte le guerre contro le popolazioni locali. Difensive, dapprima: già nel 178 a.C. scoppiò un conflitto contro gli Istri, sospetti di intesa con la Macedonia. Durante l’ultima guerra macedonica, avendo progettato di propria iniziativa una spedizione verso l’Istria e l’Illirico interno, Gaio Cassio Longino ricevette un rabbuffo da parte del senato, convinto che il console dovesse agire solo a protezione di Aquileia e preoccupato all’idea che la sua iniziativa «aprisse la via verso l’Italia a tanti popoli diversi» (Livio 43, 10, 1); timore condiviso dagli aquileiesi, che proprio allora lamentarono l’incompletezza delle mura. Più marcatamente offensive furono invece le guerre condotte da Sempronio Tuditano contro gli Istri (129 a.C.) e da Emilio Scauro contro i Carni (119 a.C.).
Un diverso carattere della città richiama la sfortunata campagna di Gneo Papirio Carbone contro i Cimbri (113 a.C.). Polibio (in Strabone 4, 6, 12) ricordava che già al tempo suo era stato scoperto l’oro nel territorio dei Taurisci Norici; e in quantità tale da provocare, sembra, da parte di imprenditori italici una vera «corsa» cui pose un freno l’azione dei reguli locali. In difesa di costoro, protetti da Roma, Carbone affrontò i Germani, e ne fu sconfitto a Noreia, centro del Norico. Nello stesso passo in cui dice Aquileia «fortificata a baluardo contro i soprastanti barbari», Strabone (5, 1, 8) ne sottolinea anche il carattere di emporion, centro propulsore per una politica di penetrazione commerciale verso le regioni d’oltralpe. Favorita sia dal porto-canale navigabile che giungeva nel cuore della città, sia dall’articolata rete di vie sorte in successione e raccordate con l’Emilia e la Postumia— l’Annia o la Iulia Augusta, la Gemina o la strada per il Norico, l’asse per Emona-Ljubljana o quello per Tarsatica — la città continuò a svilupparsi.
Municipium cittadino dopo la guerra sociale, iscritta alla tribù Velina, Aquileia entrò a far parte del territorio italico dopo Filippi; e divenne il centro della X regione augustea, chiamata Venetia et Histria. Nell’inverno 59-58 a.C. Cesare vi tenne tre legioni. Augusto vi soggiornò a più riprese, al tempo delle guerre in Germania e in Pannonia; e con lui la famiglia, Tiberio, la figlia Giulia (che vi perdette l’unico figlio nato dall’unione con Tiberio) e la moglie Livia (estimatrice del Pucinum, un vino locale cui si dice attribuisse la sua longevità).
Mosaico con fiocco, tralci di vite ed edera. Metà I sec. a.C. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.
Con la conquista delle terre fino al Danubio l’importanza militare della città parve scemare; ma non fu che un attimo. Di qui sarebbero passati imperatori legittimi, pretendenti al trono e orde di barbari; non senza danni. Nel 69 le legioni del Danubio toccarono più volte Aquileia, facendo anche preda in città. Di qui mossero, da e per la Dacia, Domiziano e Traiano; e vi soggiornarono Marco Aurelio e Lucio Vero (morto ad Altino) quando, secondo Ammiano (39, 6, 1) la città aveva già superato grazie alle difese riattate per tempo l’assedio di Quadi e Marcomanni (mentre venne distrutta Opitergium-Oderzo). Anche Aquileia fu colpita allora dalla pestis antonina, che avrebbe fatto strage nell’impero. Nel 193 d.C. gli aquileiesi, atterriti dal numero (e dall’aspetto…) dei soldati di Settimio Severo, se la cavarono invece accogliendoli coronati d’alloro.
Ancora durante il III secolo l’Italia restava malgrado tutto il centro simbolico del potere; e per impadronirsene (o per combattere barbari sempre più pericolosi, come Alamanni e Goti) passavano da Aquileia gli «imperatori soldati» , espressione delle terre del Danubio: Massimino «il Trace», che l’assediò invano e vi fu ucciso (238); Decio; Emiliano; Claudio II vincitore dei Goti, e suo fratello Quintillo (che vi perì suicida), Diocleziano e Massimiano, persecutori dei cristiani. Nel IV secolo proseguì la sequenza di lotte civili: vi si scontrarono Costante e Costantino II (340), poi Costanzo e Magnenzio (351), la assediò di nuovo Giuliano (361); la visitarono tra il 364 e il 386, Valentiniano I, Graziano e Valentiniano II. Nel 387, come ricorda Ausonio, vi morì, vinto da Teodosio, Magno Massimo.
Massimino il Trace. Sesterzio, Roma 235 d.C. Æ. 18, 4 gr. Recto: Providentia Aug(usta) – S(enatus) C(onsulto). Providentia, stante verso sinistra, cornucopia, scettro e globo.
Gran peso aveva assunto nel frattempo, ad Aquileia, la religione cristiana. Collegata tradizionalmente alla predicazione di Marco e al martirio del protovescovo Ermacora, la Chiesa aquileiese si sviluppò appieno dopo la metà del III secolo. Vettore del Cristianesimo nella regione e nei territori contermini fino alla Rezia, essa conobbe una straordinaria ripresa dopo la persecuzione tetrarchica. Partecipò al concilio di Arles (314) con il vescovo Teodoro; che edificò ad Aquileia la basilica e lo straordinario complesso di edifici di culto arricchiti da splendidi mosaici. Un suo esponente, Fortunaziano, apprezzato da Papa Liberio, si avvicinò in seguito agli Ariani; ma la presenza in città di Girolamo e Ambrogio portò, nel 381, a un nuovo concilio antiariano presieduto da Ambrogio proprio ad Aquileia.
Il V secolo segna la fine della città romana, poiché le reiterate devastazioni ad opera di Alarico nel 401, di Teodorico nel 439 e di Attila nel 452, con il depauperamento demografico e la conseguente mancata manutenzione di strutture essenziali come il porto e le opere di canalizzazione, produssero lo sviluppo esiziale della malaria. Con il 568 e l’invasione longobarda, la Venetia fu divisa in due parti, la terrestre dominata dai Longobardi; e la marittima (Grado, l’Istria e le isole) controllata dai Bizantini. Fu la decadenza: nel suo carme della fine dell’VIII secolo, Paolino definisce la città «speco di villici, tugurio di pezzenti». Aquileia rinacque però poco dopo ad opera del patriarca Massenzio, che di fatto, con l’aiuto di Carlo Magno, ricostruì la basilica.
Dedica al vescovo Teodoro. Mosaico, IV sec. d.C. Aquileia, Basilica patriarcale di S. Maria Assunta: Theodore felix, adiuvante Deo omnipotente et poemnio caelitus tibi traditum omnia baeate fecisti et gloriose dedicasti (“Felice te, Teodoro, che con l’aiuto di Dio Onnipotente e del gregge che ti ha concesso, hai costruito questa chiesa e gloriosamente l’hai consacrata”).
di A. LO MONACO, in AA.VV., I giorni di Roma. L’età della conquista, Ginevra-Milano 2010, 35-43 [link].
In poco più di ottant’anni il Senato di Roma si trovò in una situazione a dir poco singolare. Era il 229 a.C. quando i due consoli dell’anno, Cn. Fulvio Centumalo e L. Postumio Albino, furono inviati in Illiria a capo di un impressionante corpo militare (duecento vascelli, ventimila fanti e duemila cavalieri), incaricati della risoluzione di una questione spinosa, che venne poi festeggiata come un vero e proprio trionfo (ex Illurieis), sebbene non vi fossero state reali battaglie cruente e copioso spargimento di sangue, come prescritto dalla legge. Era questa la prima «traversata in armi» di Roma verso Est, come la definirà con tono solenne Polibio (II 2, 4). E già nel 146 a.C., a seguito della risoluzione del conflitto acheo con l’epocale vittoria di Lucio Mummio, Roma non aveva più alcun rivale, era ormai realmente l’unica vera potenza egemone.
Mappa con i popoli della futura provincia romana di Dalmazia.
Guerrieri illirici (III sec. a.C.) [link].Il fenomeno della simultanea espansione romana su tutto il bacino del Mediterraneo, dalla Spagna alle coste dell’Asia Minore, è stato oggetto di una moltitudine di studi. Furono quelli decenni di repentini cambiamenti, destinati, com’è noto, a influire profondamente sulla stessa formazione di un’identità «romana», e sulla nascita di un gusto e di uno stile artistico che solo d’ora in avanti saranno compiutamente «romani». Eppure, anche negli studi recenti, pressoché inevitabilmente, l’accento cade su termini quali «imperialismo» (nell’ottica romana) o «filoellenismo» (nell’ottica greca).
Nelle pagine che seguono vorrei soffermarmi piuttosto su altri interrogativi, legati al cambiamento che in questi decenni si produsse sulla «conoscenza dell’altro»: i presupposti culturali, gli stereotipi pregressi, il confronto, e, infine, l’acquisizione di una reale conoscenza reciproca.
Quale Grecia?
Per prima cosa occorre interrogarsi su «quale Grecia» fosse quella cui si riferiva immediatamente la nozione stessa di «grecità» agli occhi dei Romani, a partire dai secoli precedenti alla conquista vera e propria.
I primi rapporti diretti sembrano correlare il Senato di Roma a due specifici centri della Grecia: Delfi e Atene.
Il locus religiosus per eccellenza è naturalmente Delfi: a più riprese ambascerie viaggiano alla volta del venerando santuario nella speranza che le parole dell’oracolo possano contribuire alla risoluzione di gravi crisi o al debellamento delle frequente pestilenze. La prassi, frequente in età repubblicana, è riferita addirittura da Cicerone all’età dei Tarquini in due passaggi del De re publica, nei quali egli insiste sulla decisiva influenza greca che si sarebbe avuta a Roma già ai tempi di Tarquinio Prisco e sull’invio di dona a Delfi da parte di Tarquinio il Superbo. La reale frequentazione dei Tarquini a Delfi è tuttavia argomento spinoso, unicamente basato sul ricordo, narrato a molti secoli di distanza da Dionigi di Alicarnasso (IV 69) e Livio (I 56, 4-13), della consultazione dell’oracolo da parte dei figli del re, Lucio e Arrunte, accompagnati da L. Giunio Bruto, figlio della sorella di Tarquinio. Qualche incertezza permane anche sulla storicità del ricorso all’oracolo di Delfi in occasione della conquista di Veio: prima dell’inizio della guerra, un’ambasceria sarebbe stata inviata a consultare la Pizia, mentre nelle fasi convulse dell’assedio, Furio Camillo avrebbe promesso all’Apollo delfico la decima del bottino, poi effettivamente inviata nelle forme di un cratere d’oro, scortato da tre ambasciatori (L. Valerio, L. Sergio e A. Manlio) (Livio, V 21, 2; V 28; Diodoro Siculo, 14, 93; Valerio Massimo, I 1, 4). In effetti, la base bronzea del cratere era conservata all’interno del Thesauròs dei Romani e dei Massalioti ancora nel II secolo d.C., stando almeno alla testimonianza di Appiano (Sulle cose italiche, 8). In ogni modo, sembra che relazioni precise tra Roma e Delfi siano soltanto episodiche prima del 216 a.C.: in quell’occasione, dopo l’inattesa sconfitta di Canne, è lo storico Q. Fabio Pittore a ricevere dal Senato l’incarico di interrogare la Pizia su quali preci e suppliche (quibus precibus suppliciisque) avessero potuto contribuire a risolvere la più grave crisi della storia di Roma (Livio, XXII 57, 4-5): al suo ritorno in città, sarà sua cura tradurre in latino il responso in esametri, e riferirne accuratamente in Senato. Con Fabio Pittore arriva dunque per la prima volta a Roma quello che Gagè definì acutamente un parfum delphique authentique: la corona d’alloro indossata a Delfi è deposta all’ingresso in città sull’altare di Apollo (Livio, XXIII 11, 4-6), mentre in città risuonano sia le parole stesse della Pizia, sia, per la prima volta, ordini da adempiere per sancire il ritorno alla normalità.
Testa di marmo da una statua di Tito Quinzio Flaminino. II secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Delfi.
In materia di competenza giuridica si ricorre invece ad Atene. Non si può trascurare al riguardo la notizia, riferita ancora da Livio (III 31), dell’invio ad Atene nel corso del V secolo a.C. dei consoli Sp. Postumio Albo, A. Manlio e P. Sulpicio Camerino, incaricati di copiare le leggi di Solone. La notizia permette di osservare una dicotomia che diverrà abituale nella mentalità dell’epoca: se a Delfi si fa ricorso in materia di religione, il sapere giuridico è esclusiva di Atene, ove le inclitae leggi di Solone a distanza di secoli vengono ancora lette, discusse e copiate. Nel passo di Livio i consoli romani sembrerebbero addirittura lavorare con moderno metodo comparativo: copiato Solone, essi muovono tra aliarum Graeciae civitates (quali non è dato sapere) al fine di conoscere i singoli ordinamenti giuridici.
In città, frattanto, si iniziava addirittura a «vedere» alla greca. Il primo caso, che segnò una vera rivoluzione di gusto nella Roma alto-repubblicana, fu quello della decorazione fittile del tempio della triade aventina (Cerere, Libero e Libera), dedicato secondo la tradizione nel 493 alle pendici del colle, affidata a due artisti greci laudatissimi, come dirà più tardi Plinio (Naturalis Historia, XXXV 154). Pochi anni dopo, nel 484, fu eretto al centro del Foro Romano un edificio sacro in onore dei due fratelli gemelli di ascendenza spartana, i Dioscuri (o i Castori per dirlo alla romana), quale segno di gratitudine per il prezioso aiuto da essi offerto in occasione della violentissima battaglia al Lago Regillo. Cinquant’anni più tardi, a seguito di una pestilenza, sarà la volta di un tempio all’Apollo Alexìkakos («Stornatore dei mali»), dedicato solo due anni dopo, nel 431, dal console Gneo Giulio (Livio, IV 29, 7). Si tratta ancora di dediche isolate, legate ad episodi singoli, non valutabili all’interno di un più generale impatto sull’urbanistica e sull’aspetto della città a quei tempi: sono però i primi casi in cui fanno la loro comparsa templi legati al culto di divinità greche, fino a quel momento «straniere».
Frattanto, almeno dal V secolo a.C., in Grecia s’iniziava a riflettere compiutamente su Roma, giungendo persino all’elaborazione dell’origine troiana della città come conseguenza ultima della fuga di Enea da Ilio in fiamme e del suo arrivo sulle coste italiche: pare che questa idea, destinata a un successo di enorme portata e già presente probabilmente nei versi di Stesicoro, fosse poi più compiutamente elaborata negli scritti di Ellanico e di Damaste di Sigeo. Il tema è molto complesso, e non si vuole in questa sede entrare nel merito del dibattito.
Nel corso del IV e del III secolo a.C. le riflessioni su Roma si moltiplicano: è un Eraclide forse allievo di Aristotele, a noi noto nelle citazioni di Plinio (III 31) e Plutarco (Vita di Camillo, 27), a ricordare a proposito delle vicende del sacco gallico una «città greca, chiamata Roma, sita lì da qualche parte, presso il mare»: nozione in verità ancora geograficamente confusa, che sembra focalizzare l’interesse, piuttosto che sulla precisione della localizzazione nello spazio, sulla comune matrice culturale. Continuano le riflessioni sulle origini mitiche di Roma (Callia, in Dionigi, I 72, 5), sui tristi avvenimenti relativi al sacco gallico della città (Teopompo, Aristotele, Eraclide), e, addirittura, sulla Rōmaikḗ archaiología (Ieronimo di Cardi). Sarà Timeo di Tauromenio, cui si deve la «scoperta di Roma» secondo una felice definizione di Momigliano, a esercitare una duratura influenza sull’élite romana e sugli stessi annalisti di età repubblicana: le sue opere, forse alla base del lavoro di Fabio Pittore, erano ancora lette da Cicerone (Ad Atticum, VI 1, 18) e da Varrone (De re rustica, II 5, 3).
A fronte di questa pluralità di riflessioni su Roma, bisogna sottolineare come nessuna fonte letteraria latina a noi nota nomini invece direttamente la Grecia in generale o alcune sue città prima della metà del III secolo a.C. Si deve certo considerare quanto la nostra visione sia distorta dal numero esiguo di opere a noi pervenute: eppure, risalta l’assenza di qualsiasi accenno diretto a località della Grecia nelle fabulae di Livio Andronico, pure di soggetto greco, nei ridottissimi frammenti degli Annales di Fabio Pittore o di Cincio Alimento, e nemmeno (ma qui probabilmente non è frutto del caso) nelle fabulae di Gneo Nevio.
Mosaico dalla Casa delle Maschere. Scena teatrale, un poeta seduto e un attore che regge una maschera comica. Metà del III secolo d.C. Musée archéologique de Sousse.
Le prime testimonianze dirette sono contenute nelle fabulae di Plauto, in scena tra la seconda metà del III secolo e le due prime decadi del II secolo a.C. Poco importa in quest’ottica quanto i testi in questione siano una fedele traduzione delle commedie della Nea, o una versione più libera adattata alla cultura e alla mentalità romana: ciò che conta è che con le fabulae plautinae recitate in occasione dei ludi scaenici si inizi ad offrire alla folla di spettatori frammenti di una Grecia fino a quel momento ancora lontana e ideale. I riferimenti nei dialoghi delle fabulae sono così numerosi che si è addirittura parlato di una sorta di iper-ellenizzazione. Nella finzione della narrazione, i personaggi si muovono in uno spazio caratterizzato come greco: greci sono i nomi delle suppellettili potorie (kantharoi, kyathoi) e del mobilio, greche sono le città dove essi vivono e viaggiano, greci i loro stessi costumi di scena. Eppure è ancora una Grecia del tutto astratta: i luoghi citati non hanno mai una vera connotazione in senso geografico, utili ad ancorare le città al territorio, mentre appare sufficiente evocarne i nomi dal suono “straniero”: non è uno scenario descritto, ma semplicemente evocato alla memoria. Il procedimento è ben evidente in un passo del Mercator. Per ambientare un proprio viaggio immaginario, il protagonista Charinus finge di spostarsi da Cipro a Calcide, fino a giungere ad Atene, dove riesce infine a ritrovare la donna amata: le città sono nominate in una sequenza artificiosa, che chiaramente non è quella che avrebbe avuto un viaggio “reale”. Certo, a quest’operazione non dovette essere estranea la natura stessa dei testi, commedie che avevano bisogno solo di una cornice in cui svolgere l’azione, senza la necessità di dilungarsi in descrizioni particolareggiate. È stato osservato come si debba proprio a Plauto con ogni probabilità la coniazione di neologismi quali graecissare e, con note forse in senso peggiorativo, pergraecari e congraecari: termini che raggiungono il loro effetto comico solo a patto che il pubblico abbia giù un quadro di riferimento mentale che lo possa guidare intuitivamente alla comprensione di cosa comporti «fare il Greco». Nelle fabulae è naturalmente Atene, la nutrices Graeciae (Stico, 649), a essere capace di richiamare con il suo solo nome la “concezione” stessa di grecità (Rudens, 737). Essa è insomma «la più greca delle città greche», caratteristica che conserverà fino al tardo Impero (basti pensare alla definizione di Ateneo, che chiamava Atene «Mouseîon tēs Helládos» (Deipnosofisti, V 12, 7). E anzi, Plauto ci informa dell’esistenza della regola non scritta, quasi una consuetudine per gli autori, di piazzare la scena ad Atene, cosicché l’ambiente potesse sembrare “più greco” (Menecmi, prologo, 7). In tal senso si comprende l’intento, enunciato a chiare lettere dall’autore nel prologo del Truculentus, di «trasferire Atene a Roma, senza architetti». È forse utile richiamare che il luogo fisico in cui tali performances avevano luogo, in assenza di veri e propri teatri stabili, erano strutture effimere. Una commedia molto riuscita di Plauto, lo Pseudolus, fu messa in scena sul Palatino, dinanzi al tempio della Magna Mater, nel 191, in occasione della dedica dell’edificio sacro. Il pubblico, assiepato sulle gradinate del tempio e forse negli spazi laterali, non doveva essere però eterogeneo: in queste sue prime fasi, pare che il culto della dea, piuttosto “serrato”, fosse ancora prerogativa esclusiva della nobilitas senatoria. È certo curioso immaginare tali grecismi e richiami alla vita ateniese risuonare in cima al Palatino, in uno scenario che è stato di recente definito «l’Acropoli palatina», una delle aree più sacre dell’Urbe, ricco di memorie connesse alle stesse origini della città. Ogni anno, in occasione dei ludi scaenici previsti durante le feste in onore della dea, si svolgevano qui rappresentazioni teatrali (tra le quali numerose commedie di Terenzio), che consigliarono nel tempo la realizzazione di impianti scenici provvisori, verosimilmente su un margine della platea.
Mosaico dalla Casa del Fauno, a Pompei. Festoni con maschere, foglie e frutta. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Precisi riferimenti alla praeclara Atene si colgono anche nelle opere, pure molto diverse, di Ennio, Lucio Accio e Lucrezio. Se in Ennio il riferimento è puntuale ma troppo stringato per trarne considerazioni più generali, in Accio e in misura ancora più evidente in Lucrezio la città è ricordata in riferimento a un’aetas mitica. E anzi, Lucrezio sembra avere dinanzi agli occhi un’Atene “reale”, con l’Acropoli che svetta sul paesaggio urbano, e, visibile su di essa, il tempio di Atena e gli altari fumanti di offerte. Un riferimento reale a una Grecia conosciuta sembrerebbe adombrato nello stesso libro anche dal verso che narra dell’oracolo di Delfi. Nec res ulla magis quam Phoebi Delphica laurus terribili sonitu flamma crepitante crematur (6, 153): visione potente e completa, che non abbisogna, come nel caso ateniese, di precise notazioni descrittive. L’evocazione suggestiva di suono e fiamme è di per sé sufficiente a ricreare nella mente, per astratto il paesaggio delfico. In effetti il santuario di Delfi, pure oggetto di una frequentazione ormai da lunga data, non è mai descritto nelle fonti latine del periodo con reali notazioni in senso paesistico o accenni topografici: al più, si fa riferimento alla caratterizzazione delfica del dio, ma nulla di più. Analogo discorso per il santuario di Olimpia, presente solo in verso di Ennio con stringato riferimento a una vittoria negli agoni (citato in Cicerone, De senectute, 14). Qualche dettaglio maggiore si ottiene nel caso della città di Cnosso, che si dice (dicitur) di fondazione attribuibile alla stessa Vesta (citato in Lattanzio, Institutiones divinae, I 11, 45-46): lì, il sepolcro di Zeus è reso riconoscibile per mezzo dell’apposizione di un’iscrizione in un font greco ormai in disuso (antiquis litteris Graecis), che lo stesso Ennio si premura di tradurre in latino (ZAN KPONOI id est Latine Ippiter Saturni). In questo caso la descrizione sembrerebbe derivare da una conoscenza “reale” del monumento, anche considerato lo scarto nella modalità narrativa tra il dicitur della frase precedente e dell’uso verbale (est… est inscriptum) in questa.
Più in generale, la Grecia ricordata nelle opere di questi secoli è una Grecia ammantata dalla clara fama del suo passato o di alcuni avvenimenti esemplari: basi pensare al richiamo a Leonida pronunciato da Catone (citato in Aulo Gellio, Noctes Atticae, III 7, 19) , o alla Grecia ideale ricordata in un’orazione di Gaio Gracco (Orationes, 44, 17). Gli altri scritti sono purtroppo troppo frammentari per poterne trarre conclusioni di carattere generale: la voce Graecia ricorre solo nelle tragedie di Lucio Accio (Tragedie, 464, 560) e in locuzione aggettivale nelle Satire di Lucilio (9, 335; 27, 709; 29, 915), in cui si tenta di ottenere un effetto comico mediante l’impiego di suoni che dovevano risultare al pubblico sgraziati e “stranieri”.
La lingua dell’altro.
La traduzione di Livio Andronico dell’Odissea di Omero, intorno alla metà del III secolo a.C., fu una vera e propria rivoluzione culturale. Non si trattava di una mera trasposizione lessicale (tanto che non vi compaiono mai prestiti linguistici), quanto di una traduzione “artistica”: risultarono determinanti la scelta della resa degli eleganti esametri omerici in saturni, il metro dell’antica poesia oracolare latina, e una certa predilezione per l’utilizzo di espedienti retorici al fine di accentuare il páthos del modello originario. Il lavoro di Livio divenne così un vero e proprio libro di testo, utilizzato per più generazioni, e ancora letto da Cicerone e Orazio. È curioso ricordare come, alle orecchie di Cicerone, raffinato grecista, la traduzione di Livio avesse ormai l’aspetto, vetusto e un po’ rigido c’è da pensare, degli xóana dedalici (Brutus, 18, 17).
Talia, musa del teatro (dettaglio). Rilievo, marmo, II sec. d.C. ca. da un sarcofago romano con le Muse. Paris, Musée du Louvre.
La conoscenza del greco doveva essere a Roma a quel tempo già di lunga durata, forse diffusa anche grazie all’elevato numero di schiavi provenienti dalla Magna Grecia. Nel 282, a ridosso dell’arrivo di Pirro in Italia, Postumio Megello era stato oggetto dei sarcasmi dei Tarantini per il suo modo, considerato “barbaro”, di rivolgersi in greco alla folla riunita a teatro per ascoltarlo: notazione che riflette, in ogni modo, come il console non solo fosse già in grado di esprimersi in quella lingua, ma che scegliesse intenzionalmente di farlo (Dionigi di Alicarnasso, XIX 5,1; Appiano, Sanniti, VII 2). In questi decenni nell’Urbe si poteva leggere, scrivere, far di conto, imparare il greco, la giurisprudenza e la politica (Dionigi di Alicarnasso, XIX 5). Pare che la prima scuola pubblica, un grammatodidaskaleîon, sia stato aperto a Roma nel 235, e che vi abbia insegnato il liberto Spurio Carvilio (Plutarco, Quaestiones Romanae, 59); sappiamo inoltre che Livio ed Ennio (entrambi peraltro semi-graeci come li definì Svetonio) si dedicarono all’insegnamento anche del greco sia in privato sia in pubblico, in una scuola sull’Aventino, il collegium scribarium histrionumque annesso al tempio di Minerva (Svetonio, Grammatici retoresque, 1). Si leggevano in greco, ed erano evidentemente comprensibili, i titoli di alcune opere di Livio Andronico (Aiax mastigophorus), Nevio (Akontizomenos, Agrypnuntes, Astiologa, Colax) ed Ennio (Hedyphagetica). Non solo: gli intrecci di molte di queste tragedie sono legate ai miti del ciclo troiano (Achille, Aiace, Andromeda) con il quale il pubblico iniziava a familiarizzare.
Ma non è tutto. Gli incerti eventi del III secolo a.C. avevano consigliato l’introduzione, in città, di riti secondo il costume greco (Graeci riti): i ludi tarentini in onore di Dis Pater e Proserpina nel 249 (con un inno composto da Livio Andronico e cantato da un coro di ventisette fanciulle); i ludi apollinares nel 212, e un secondo inno, composto da un ormai anziano Livio Andronico nel 207 in onore di Giunone Regina. Talora, un cerimoniale “alla greca” fu prescritto entro le maglie di culti antichi: lo dimostra, in modo eclatante, il caso del culto di Cerere sull’Aventino, che vide l’introduzione di due sacerdotesse pubbliche di origine greca (o, per meglio dire magno-greca, considerata la loro provenienza da Velia e Napoli). Sappiamo molto poco di come questi riti dovessero essere integrati all’interno della religione romana e cosa essi comportassero nella realtà delle cose: in talune occasioni festive, certi settori della città, chiusi al normale traffico cittadino, potevano forse risuonare di processioni, danze o gare “alla maniera greca”. In ogni modo i vari rituali finirono ben presto con l’essere integrati e con il costituire, mescolati alla tradizione, un’unità inscindibile sentita come autenticamente “romana”.
Frattanto, si scrivevano in greco le prime storie di Roma: le Storie di Fabio Pittore, di Cincio Alimento, di Acilio Glabrione, di Postumio Albino. In una curiosa premessa, quest’ultimo giungerà persino a scusarsi della sua non perfetta padronanza della lingua greca, ammissione che scatenò la pungente ironia di Catone (Polibio, 39, 1; Plutarco, Vita di Catone, 12, 6). Nel tempo il greco divenne parte integrante della formazione scolastica dei fanciulli: Quintiliano (Institutio oratoria, I 1, 12) e Tacito (Annales, 29, 1) ci informano come ai loro tempi (e certo anche prima) fosse addirittura invalsa la consuetudine di far precedere l’apprendimento del greco rispetto al latino nell’età prescolare.
T. Quinzio Flaminino. Denario, Roma 126 a.C. Ar. 3,85 gr. Dritto: Testa di Roma elmata verso destra.
Ma il greco non era una lingua esclusivamente “letteraria”. Pare che negli uffici della questura fosse possibile far eseguire per conto del Senato tradizione di documenti ufficiali contenenti decisioni sulla Grecia. dovevano essere redatti in greco, ad esempio, scritti destinati alla comunicazione con i sovrani ellenistici: sembrerebbe questo il caso della lettera, scritta da Roma e indirizzata a un Seleuco intorno alla metà del III secolo a.C., con la quale si prometteva al re l’amicizia e l’alleanza del Senato, in cambio dell’immunità fiscale a vantaggio degli Iliei. Risalgono a questi anni accesi dibattiti che animavano la vita culturale cittadina sulla modalità delle più corrette traduzione dal greco al latino, e le prime tradizioni dei titoli delle cariche ufficiali, che portarono all’equiparazione di anthýpatos e proconsul, presbeutḕs e legatus, tamías e quaestor. Va infine ricordato come il primo “ambulatorio” medico, installato in una taberna acquistata con fondi pubblici presso il compitum Acilii (Plinio, XXIX 12), fosse stato aperto nel 219 a.C.: competenza che richiese, verosimilmente, l’impiego di personale specializzato, ovviamente di lingua greca.
La conoscenza del greco era dunque abbastanza radicata nella Roma del III secolo a.C. Come notò acutamente Momigliano, essa divenne ben presto un impareggiabile strumento di dominio: «Né Polibio né Posidonio si resero conto di quale superiorità i leader romani avevano acquisito grazie al semplice fatto di saper parlare e pensare in greco, mentre quelli greci avevano bisogno di interpreti per capire il latino». Alcuni dei consoli inviati a Taranto o in Grecia erano in effetti già in grado di sfoggiare un’ottima conoscenza del greco: Flaminino (Plutarco, Vita di Flaminino, 6), Tiberio Sempronio Gracco, il padre dei Gracchi (Cicerone, Brutus, 20, 79), Lutazio Catulo (Cicerone, De oratore, II 7, 28), o P. Licinio Crasso Dives, console nel 131 a.C., capace di rispondere in cinque diversi dialetti greci ai supplici che si erano rivolti a lui (Valerio Massimo, VIII 7, 6; Quintiliano, XI 2, 50). La loro fu, comunque, sempre una scelta “politica” e consapevole. Emilio Paolo, capace di passare senza problemi da una lingua all’altra (Livio, XLV 8, 8; XXIX 3), si rivolge in greco a un Perseo prigioniero e sconfitto, ma ricorre al latino (e ai servizi di tradizione del suo pretore Gneo Ottavio) nel comunicare, da vincitore, le decisioni del Senato alla folla riunita ad Anfipoli. Che si trattasse di scelte intenzionali è chiaro dall’episodio di Catone, intento ad Atene a parlare in latino (!) a una folla riunita per l’occasione, nonostante egli fosse perfettamente in grado di esprimersi in greco (Plutarco, Vita di Catone, 12, 5).
Busto di Carneade. Marmo, I secolo d.C. Museo dei Marmi di Firenze.
È di un qualche interesse sottolineare come, per parte loro, i Greci non abbiano mai utilizzato la lingua latina. Per l’intero corso dell’età repubblicana non è dato il caso di nessun greco incaricato di una missione diplomatica capace di esprimersi fluentemente in latino. Gli ambasciatori greci inviati al Senato ricorsero di norma ai servizi di traduttori. È forse il caso di Cinea, ambasciatore di Pirro nel 280 a.C. (Plutarco, Vita di Pirro, 18); lo è con certezza in quello dei tre filosofi del 155 a.C., Carneade, Diogene e Critolao, i cui interventi furono tradotti in latino per merito del senatore Gaio Acilio, versato nella conoscenza della lingua straniera, tanto da scrivere, in greco, una storia di Roma che doveva giungere al 184 a.C. (Aulo Gellio, Noctes Atticae, VI 14, 9; Macrobio, Saturnalia, I 5, 16). Per una concessione forse di Silla, sarà solo Molone di Rodi, maestro di Cicerone e di Cesare, il primo straniero ad avere il permesso di poter parlare in Senato senza avvalersi dell’uso di interpreti (Valerio Massimo, II 2, 3): ma i tempi erano ormai mutati, e la conoscenza della lingua greca a Roma doveva essere sentita ormai come basilare nella formazione letteraria della nobilitas senatoria.
In Grecia invece persino gli spazi pubblici, le agoraí, i santuari continuavano a essere affollati da donari le cui dediche rimanevano, senza eccezioni, in greco. Le rare dediche bilingui sono esclusivamente opera di consoli romani, che indirizzano agli dèi locali le loro dediche in latino, premurandosi di fornire in greco appropriate traduzioni. A Olimpia, la prima iscrizione in latino sarà opera soltanto di Agrippa, che fece ricorso alla “sua” lingua (forse addirittura non leggibile per i Greci dell’epoca!) per commemorare, in lettere bronzee dorate, i propri interventi di restauro nel pronao del tempio di Zeus.
Che la scelta e la gestione della lingua siano stati nel corso della conquista del Mediterraneo autentici strumenti di dominio lo dimostrano le riflessioni di Valerio Massimo (II 2), ormai agli inizi dell’età imperiale: «I Romani forzarono i Greci a parlare con loro mediante l’ausilio di un interprete, non solo nella nostra città, ma persino in Grecia e in Asia, cosicché il rispetto e la reverenza verso la lingua latina si diffusero attraverso i vari popoli».
La percezione dell’altro.
La reale conoscenza degli altri è talvolta anticipata, a livello di coscienza collettiva, dalla creazione di stereotipi o di astratti valori generici di riferimento.
Dal punto di vista dei Greci, i Romani furono inseriti, già intorno alla metà del IV secolo a.C., all’interno della categoria dei «barbari», classificazione che aveva origine in una visione binaria del mondo che risaliva già a Tucidide e che riuniva entro tale concetto ogni popolazione che non fosse di lingua o cultura ellenica: era un mondo di «altre genti» opposte agli Elleni. Non era una distinzione in chiave etnica, quanto legata a differenze “culturali” e a un lessico che alle orecchie dei Greci doveva risultare come il prodotto di suoni incomprensibili (bar-bar). Probabilmente Aristotele, nei suoi nómima barbariká, parlava già di Roma come di una città «barbara».
Filippo V. Didramma, Anfipoli 180 a.C. Ar. 8,46 gr. Dritto: Testa diademata verso destra.
Il ricorso a questo concetto, che diventerà un vero e proprio artificio retorico, è frequente nella gestione politica di conflitti e alleanze: è esemplare il caso dell’acarnano Licisco, che ricorre al concetto di «barbarie» opposto alla comune matrice «ellenica» nel tentativo di impedire l’alleanza di Sparta con l’Etolia (e quindi con Roma) nel corso del conflitto del 210 con Filippo V (Polibio, IX 37, 7-39; 44) e ancora, forse nel corso del medesimo scontro, l’analogo discorso pronunciato dal rodio Trasicrate (Polibio, XI 4-5), nel quale viene riservato ai pur antichi “soci in affari” l’epiteto di bárbaroi. A esso possono essere affiancati i termini, di nuova coniazione e piuttosto significativi, di allóphyloi («gente con un altro modo di sentire») o allogenḕs («gente nata altrove»): tra i numerosi casi, si segnala quello del concilio panetolico di Naupatto (primavera del 199), in cui sono gli ambasciatori di Filippo (Livio, XXXI 29) ad avvertire come siano un pericolo «quegli stranieri, separati da noi più che per la lingua, gli usi e le leggi, che non da distanza di mare o di terra». Il cliché della barbarie e dell’ignoranza dei Romani sarà molto difficile da sradicare, tanto che, ormai in età augustea, Dionigi di Alicarnasso a premessa della sua opera storica scriverà: «Tutti i Greci [dei suoi tempi] ignorano la storia di Roma, e immaginano che i primi abitanti di Roma fossero errabondi, barbari, e non uomini liberi».
Si tratta certo di giudizi sempre manipolati in chiave politica. prova ne sia il fatto che, già nel 200 a.C. nel corso della II Guerra macedonica, lamentando le pesante devastazioni cui Filippo V aveva sottoposto il territorio dell’Attica, Atene invoca i Romani come «secondi agli dèi» (Livio, XXXI 30, 4). E, pochi anni dopo, l’entusiasmo suscitato dall’atteggiamento di Flaminino, vincitore su Filippo V a nome dei Greci, porterà ad accostare al suo nome l’epiteto di sōtḗr («salvatore») e addirittura alla creazione di festival legati al suo nome: a partire da questa fase il ritornello della “barbarie” sembra perdere di smalto, a deciso vantaggio di un atteggiamento più ossequioso, che diviene ancora più smaccato subito dopo la vittoria di Emilio Paolo su Perseo e lo smembramento della Macedonia in quattro “distretti” non autonomi. L’assetto geopolitico è ormai mutato, e i Romani sono con ogni evidenza l’unica potenza egemone del Mediterraneo: abbandonata ogni remora, essi stessi sembrano in questa fase più inclini ad atteggiamenti arroganti e spavaldi, allontanandosi dal delicato sistema di equilibri cui si erano attenuti sinora (valga, tra tutti, l’episodio del “cerchio” di Popilio Lenate ad Antioco IV, su cui cfr. Polibio XXIX 27, e Livio, XLIV 19; XLV 12).
Pavel Glodek, Battaglia di Cinoscefale.
Parallelamente anche l’atteggiamento dei Greci subisce una virata: istruttiva al riguardo la visita di Prusia II di Bitinia a Roma, il quale, col capo rasato e abbigliato come un liberto, fermo sulla porta della Curia si sarebbe rivolto ai senatori riuniti all’interno invocandoli «dèi salvatori». È evidente come un simile atteggiamento di smaccata sottomissione suonasse eccessivo agli occhi di un Greco: e infatti Polibio descrive la visita del re con una nota di biasimo malcelato, in chiave quasi caricaturale (Polibio, XXX 18, 1-4). Può essere utile, a contrasto, confrontare la versione dello stesso avvenimento fornita da Livio, decisamente più sobrio (XLV 44, 4-20).
È un dato di fatto che la pressoché integrale scomparsa delle fonti di parte greca ci privi della possibilità di comprendere quali fossero gli elementi dello Stato o della società romana percepiti come “strani” o “sgraziati” agli occhi dei Greci. Riusciamo a recuperare appena qualche isolato frammento.
«Il Senato gli era apparso come un’assemblea di molti re»: con queste parole Plutarco racconta le impressioni del tessalo Cinea, ambasciatore nel 280 a.C. di Pirro, inviato al Senato per trattare la pace e il rilascio dei prigionieri (Plutarco, Vita di Pirro, 19, 6). Era costui un abile oratore, allievo di Demostene, di ottima memoria. E la sua in verità non dovette essere un’impressione superficiale, legata semplicemente alla sensazione di trovarsi al cospetto di una moltitudine di senes, abbigliati nelle candide toghe e riuniti in assemblea plenaria, anche se l’effetto scenografico della seduta dovette certo avere la sua parte. Pare piuttosto di essere alle prese con il resoconto di un’analisi attenta sulla qualità della forma di governo dei Romani, lucidamente esaminata, e sentita come “contrastante” rispetto alla forma di governo monarchico, incentrata sulla figura del basileús unico al quale erano demandati tutti i poteri (affari interni, affari esteri), al più affiancato da una commissione di consiglieri.
Pirro dell’Epiro. Busto, marmo, da un originale del 290 a.C. ca. Napoli, Museo Archeologico Nazionale
Si tratta evidentemente dello stesso atteggiamento di curiosità “scientifica” che, qualche tempo più in là, si legge nell’elogium di Roma contenuto in 1 Maccabei. Siamo nel 161 a.C., nelle fasi centrali della rivolta giudaica contro il re di Siria Antioco IV. L’aiuto di Roma viene invocato da Giuda Maccabeo con una lettera che è a tutti gli effetti una valutazione del sistema di governo romano, considerato superiore a quello degli Stati ellenistici: «Nessuno fra loro ha assunto il potere regio, con i simboli del diadema e della porpora per dominare. Esiste invece presso di loro un’assemblea di trecentoventi membri che si riunisce ogni giorno per deliberare nell’interesse del popolo e per mantenere l’ordine nello Stato. Essi conferiscono ogni anno il potere del comando su tutto il loro territorio a un solo personaggio al quale tutti obbediscono senza invidia e gelosia». Il complesso apparato cerimoniale e il fasto delle corti ellenistiche dovette fungere da vivido contrasto agli occhi degli ambasciatori orientali ammessi dinanzi ai senatori: e tuttavia, subito dopo la lode per il rifiuto di diadema e porpora (tipico dei re), anche in questo caso l’attenzione si sposta su aspetti più legati all’analisi costituzionale, sebbene con qualche imprecisione.
Basti ricordare, a contrasto, come l’accusa di ricercare regnum in Senatu, rivolta agli inizi del secolo (ma già dopo i successi contro Antioco III) a Scipione Africano e al fratello, avesse stigmatizzato il tentativo di ricercare una qualsiasi posizione di preminenza all’interno della compagine del sistema, non tollerabile e perciò sprezzantemente qualificata.
Qualche decennio più in là, la riflessione sugli ordinamenti e sulla costituzione romana occuperà un intero libro (il sesto) delle Storie scritte a Roma da uno storico greco, Polibio. E anche in questo caso, non mancano pagine di comparazione tra le forme di governo greche e quelle dei Romani, ormai signori del Nuovo Mondo: sono esaminati potere monarchico e forme dell’ordinamento costituzionale, con la proibizione dell’accentramento del potere nelle mani di un singolo e l’esaltazione dei pregi della divisione di poteri nella gestione collettiva della cosa pubblica (consoli, Senato e plebe).
Antioco IV. Tetradramma, Akko-Ptolemais 175-164 a.C. Ar. 17,0 gr. D – Testa diademata di Antioco verso destra.
Agli occhi dei Greci di quei tempi, tuttavia, la coralità della gestione collettiva dello Stato romano doveva risultare ancora non del tutto comprensibile: «Se per caso uno soggiorna a Roma quando il console non è presente, il regime politico gli appare senz’altro aristocratico. È per questo che molti Greci, anche dei re, finiscono per convincersi che quasi tutti gli affari sono di competenza del Senato» (Polibio, VI 13, 8-9).
Ma gli aspetti legati alle istituzioni politiche non erano i soli capaci di suscitare la curiosità e animare il dibattito.
Nella quarta decade di Livio è il racconto della rivalità tra i due figli di Filippo V (Livio, XL 5): Perseo, convinto assertore della possibilità di una qualche forma di indipendenza del regno macedone da Roma, e Demetrio, che, ostaggio per qualche anno nell’Urbe dopo la sconfitta di Cinoscefale, era adesso fautore di una linea politica più vicina ai Romani. Nel tentativo di indurre Filippo V a uno scontro con Roma e di rendere Demetrio inviso al padre, i cortigiani intavolarono allora una discussione su Roma, schernendone gli usi, le istituzioni, le imprese, persino alcuni dei più illustri cittadini. Poi, e qui si entra nel vivo della questione, essi giunsero a schernire l’aspetto della città, ai loro occhi “rea” di non essere ancora adorna di edifici pubblici e privati ([…] speciem ipsius urbis nondum exornatae neque publici neque privatis locis). La scena è ambientata nel 182 a.C., la pace di Apamea ha da qualche anno segnato la fine dei conflitti con Antioco III e sancito l’estensione del dominio di Roma al Mediterraneo orientale. Che senso ha dunque il biasimo agli occhi di un Greco di una città che si appresta a divenire la capitale del Mediterraneo? Bisogna considerare, ed è stato ripetuto molte volte, come in quegli anni Roma fosse ancora una città di legno e terracotta: il primo edificio templare in marmo, opera dell’architetto Ermodoro di Salamina, sarà dedicato solo dopo il 146 a.C. La moda dell’uso del marmo, anche policromo, nella costruzione degli edifici o nel loro arredo scultoreo sembra esplodere come conseguenza dell’espansione romana nel Mediterraneo proprio intorno alla metà del II secolo a.C.: arrivano allora a Roma gli splendidi marmi africani (giallo antico dalla Numidia, o porfido e basalto dall’Egitto), i rinomati marmi bianchi dalla Grecia (pentelico, imezio, pario, nassio, tasio), il pavonazzetto dalla Frigia. È impossibile dunque che all’inizio del secolo l’aspetto della città, a confronto con quello delle altre grandi capitali, fosse percepito ancora come misero.
Ma non dovette essere unicamente questione di materiali da costruzione. Sebbene aduse all’impiego del marmo ormai da secoli, alcune città greche in questa fase non dovevano infatti essere splendide né risplendenti ai dettami della moderna architettura ellenistica, almeno non come noi siamo indotti a ritenere. Il periegeta Eraclide critico, autore nel III secolo a.C. di un trattatello Sulle città dell’Ellade a noi pervenuto in frammenti, così descrive l’Atene dei suoi tempi: «[…] a causa della sua antichità, è mal distribuita in strade e quartieri; le strade sono strette e tortuose; la maggior parte delle case è a buon mercato, ma poche sono comode. Se uno straniero visitasse solo queste, ben difficilmente crederebbe che si tratti della famosa città degli Ateniesi» (FrGrHist. II, 264). Dunque, anche ad Atene nessuna regolare e ordinata pianificazione urbanistica, ma isolati e quartieri che si sovrappongono l’un l’altro tanto da suscitare una sorta di sgomento all’idea di trovarsi dinanzi alla “famosa” città di Pericle, di Platone e dei tragediografi. Neanche in questo caso la città ideale sembra riflettersi nella realtà dello spazio urbano a disposizione. Ma ecco che, imbattendosi negli edifici pubblici, lo straniero in visita ha modo di ricredersi: sono enumerati, in rapida sequenza, «un teatro degno di essere menzionato, grande e ammirevole, un magnifico santuario di Atena, visibile da lontano con il suo tempio […] che fa una grande impressione su chi lo contempli. Tre ginnasi: l’Accademia, il Liceo e il Cinosarge, tutti piantati ad alberi e con prati». Dunque, non è questione di “gusto”, né di assetto urbanistico, quanto dell’individuazione di alcuni elementi sentiti come imprescindibili nel delineare la fisionomia greca di una città: teatro, santuario, ginnasi. In tale prospettiva, sono perfettamente comprensibili le parole di scherno dei cortigiani di Filippo. Nella Roma degli inizi del II secolo a.C. non vi era infatti ancora alcuno di questi edifici: non un teatro né un ginnasio, gli stessi templi avevano ancora enormi tetti in terracotta, né vi era alcun edificio nel quale potere passeggiare al riparo dal sole o ammirare qualche bella opera d’arte, come tra i portici di un’agorà di qualsiasi cittadina greca.
Angus Mcbride, Antioco IV e Popilio Lenate.
Ma c’è un altro aspetto da considerare. Il dibattito sugli ornamenta urbis è a Roma di grande attualità nella seconda metà del I secolo a.C., fase in cui, ormai archiviata la questione della supremazia romana nel bacino del Mediterraneo, si discute di quanto fosse cambiata la città a seguito di quelle conquiste. I due termini ricorrono infatti nelle opere di Cicerone sempre in riferimento allo spoglio di città sconfitte da parte dei generali vincitori, il cui prezioso bottino giungerà di lì a poco nell’Urbe, trasformandone l’aspetto per sempre: Marcello a Siracusa (In Verrem, II 4, 121, 6), L. Calpurnio Pisone a Bisanzio (De provinciis consolaribus, IV 7), Emilio Lepido (Filippiche, XIII 4, 8). Di lì a breve, tale background porterà alle considerazioni di Strabone (un Greco!), sulla noncuranza dei “vecchi” Romani per la bellezza della città, cura alla quale, a suo giudizio, i Romani dei suoi tempi si dedicarono con grande dispendio di mezzi, riempiendo la città di molte e belle opere (Strabone, V 3, 7). È la stessa linea del famoso manifesto di Augusto, che si gloriava di aver «trovato una città di mattoni e averne lasciata una di marmo». Non si può del tutto escludere, dunque, che la ricostruzione di Livio e gli argomenti da lui attribuiti ai cortigiani di Filippo abbiano risentito in qualche misura di questo dibattito sulla trasformazione e l’abbellimento della città, di grande attualità ai suoi tempi.
Per parte romana, è di un qualche interesse rilevare come la visione del mondo non sia mai stata binaria (Romani/resto del mondo), e che anzi gli stereotipi coniati in “favore” di Greci e della Grecia siano molto più numerosi e dettagliati rispetto a quanto non sia avvenuto per gli altri paesi di recente conquista. Se per gli Africani è sufficiente ricordare la vanitas, per gli Iberi la feritas, per i Germani la fluxa fides o per i Parti la perfidia, per i Numidi una stupefacente attitudine al sesso (in venerem incredibile effusi), per i Greci ci si sbizzarrisce, con l’invenzione di nozioni come levitas, arrogantia, ineptia, volubilitaslinguae e molti altri ancora, il cui ambito semantico è in genere connesso con una loro maggiore dimestichezza nell’uso linguistico, parallela a una minore attitudine sul versante pragmatico o militare. Eppure, tali concetti, che ricorrono con una certa frequenza negli scritti di Sallustio, Cicerone, Livio, Orazio e Ovidio, sembrerebbero attestati solo a partire dalla metà del I secolo a.C.: non riflettono dunque una fase di esplorazione e primi contatti, ma un orizzonte in cui la Grecia si conosce ed è stata ormai ben integrata […].
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