Filippo l’Arabo: un effimero ritorno alla tradizione

Il principato di Filippo l’Arabo (244-249) desta particolare interesse, nel cinquantennio dell’«anarchia militare», sotto almeno due aspetti: innanzitutto, toccò a lui celebrare il millenario di Roma; in secondo luogo, durante il suo governo, lungo il basso Danubio iniziarono le prime grandi incursioni di genti esterne (PIR² I 461).

Marco Giulio Filippo, noto già agli antichi come Filippo l’Arabo per la sua origine, nacque presumibilmente intorno al 204 in un piccolo villaggio chiamato Trachontis dell’Auranitis (od. oasi di Chahba in Ḥawrān, Siria meridionale). Entrato nell’esercito imperiale, Filippo seguì una brillante carriera militare finché, nel 243, non ottenne la carica di praefectus praetorio, il cui prestigio era stato rinvigorito in quegli anni dall’azione di Timesiteo, suocero di Gordiano III. Secondo le fonti storiografiche – decisamente poco favorevoli –, Filippo era un uomo di umili origini e di modesta cultura, superbo e desideroso di raggiungere il potere (cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, is Philippus humillimo ortus loco fuit). I mezzi di cui si servì nella sua irresistibile ascesa sarebbero stati di ogni tipo: dalla trama alla corruzione, all’assassinio. Assurto a capo del Pretorio, succeduto al defunto Timesiteo, Filippo partecipò alla campagna persiana di Gordiano III. La documentazione storiografica tramanda diverse versioni sulle convulse vicende che portarono alla fine di Gordiano: le fonti ufficiali riportano che il giovane imperatore sarebbe caduto in battaglia contro i Sasanidi nei pressi di Mesiché, in Mesopotamia, e sul luogo sarebbe stato eretto un memoriale (cfr. RSDS ll. 7-8; Zon. XII 17 D); gli autori ostili a Filippo, invece, riferiscono che l’ambizioso praefectus avrebbe iniziato a sobillare i soldati, impegnati sul fronte orientale, contro il loro stesso sovrano e a compiere vere e proprie azioni di sabotaggio: per creare una situazione di grande difficoltà e avere quindi il massimo spazio di manovra, cavalcando lo scontento, Filippo avrebbe insinuato la preferenza accordata da Gordiano verso i foederati gotici dell’esercito e avrebbe ostacolato l’arrivo delle navi cariche di rifornimenti, creando difficoltà di approvvigionamento. A questo punto, Filippo avrebbe ordinato l’assassinio di Gordiano III e si sarebbe fatto proclamare imperatore dai soldati, che a quel punto l’avrebbero visto come loro salvatore (Aur. Vict. Caes. 27, 7-8; Amm. Marc. XXIII 5, 7; 17; SHA Gord. 30, 8-9; Zos. I 18, 3; 19, 1; Zon. XII 18 D).

Šāpur I trionfa su Filippo Arabo e Valeriano. Rilievo, roccia calcarea, c. 241-272. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Gli storici contemporanei valutano i resoconti antichi con grande cautela e tendono a ritenere che molte delle informazioni tràdite siano viziate da forti pregiudizi nei confronti di Filippo l’Arabo, che non apparteneva all’establishment romano e veniva, perciò, considerato un outsider. Indubbiamente egli agì con una buona dose di spregiudicatezza, ma è probabile che Filippo non sia stato il mandante dell’assassinio del giovane predecessore.

D’altronde, il suo avvento all’Impero, tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo 244, consolidò il potere della componente militare di rango equestre sull’ordine senatorio: era la terza volta in meno di trent’anni che saliva al governo un membro esterno all’aristocrazia (cfr. Cod. Iust. III 42, 6).

Il primo atto ufficiale del nuovo Augustus fu concludere al più presto possibile l’ormai annosa guerra contro i Persiani, stipulando con re Shāpūr un trattato di pace, che alcuni detrattori definirono poco onorevole: secondo i termini dell’accordo, i Romani, pur rinunciando al protettorato sull’Armenia, conservavano le province di Mesopotamia e Syria al prezzo di un gravoso indennizzo di 500.000 aurei (RSDS ll. 8-9; IGR III 1202; Zos. I 19, 1; Zon. XII 19 D.; Syncell. I 683 B.). Nondimeno, questa pacificazione fu celebrata come un successo dalla propaganda imperiale, anche se con prudenza: una serie monetale battuta per l’occasione reca la legenda Pax fundata cum Persis (cfr. RIC IV 3, 69 []).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Antiochia c. 244-249. AR 4,55 g. Obverso: Pax fundata cum Persis. Pax stante voltata a sinistra con ramo d’ulivo nella destra e lungo scettro nella sinistra.

In secondo luogo, Filippo rinverdì la vecchia usanza, già adottata dai predecessori fin dai tempi di Antonino Pio, di cooptare al trono un proprio familiare, in modo tale da assicurare la successione e instaurare una dinastia. Così il princeps si associò nell’Impero il figlioletto di appena sette anni, Marco Giulio Severo Filippo, attribuendogli il rango di Caesar (RIC IV 3, 216a []). Poi, per conferire maggiore legittimità al proprio regime, l’imperatore celebrò l’apoteosi di suo padre, Giulio Marino, malgrado questi non fosse mai asceso alla porpora: a conferma di ciò concorrono alcuni monetali bronzei con la legenda θεῷ Μαρίνῳ («al divo Marino») e il busto del genitore sorretto in volo da un’aquila (RPC VIII 2243; IGR III 1199-1200; cfr. [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 4, … patre nobilissimo latronum ductore).

Conclusa l’onerosa pace con i Persiani, Filippo rimase in Oriente fino all’inizio dell’estate. Avviando una tendenza, che in seguito sarebbe diventata una prassi, di decentrare il potere e delegare responsabilità ad altri, si apprende da Zosimo (I 19, 2) che l’imperatore investì il fratello maggiore, Gaio Giulio Prisco, del comando delle legioni siriane: la decisione non era casuale, ma rientrava perfettamente nel solco del progetto dinastico di Filippo. Prisco, che tuttavia non venne associato al trono, era stato praefectus praetorio sotto Gordiano III, prima come collega di Timesiteo e poi dell’Augusto fratello. Nel 244 egli conservò l’incarico di comandante del Pretorio e il titolo di vir eminentissimus (ἐξοχώτατος), ma fu insignito anche della praefectura Mesopotamiae, retta cum imperio pro consule (ἔπαρχος Μεσοποταμίας), e del ruolo di rector totius Orientis (cfr. IGR III 1201-1202; P. Euphr. 1; CIL III 14149 = ILS 9005). Tra le incombenze ricevute, a quanto sembra, Prisco si vide assegnare l’improbo compito di riscuotere le somme necessarie per pagare l’indennizzo persiano, impresa resa ancor più ardua dal fatto che la corresponsione dovesse essere in oro.

Quanto a Filippo, egli si adoperò per una riorganizzazione amministrativa delle province orientali, conferendo a diverse comunità lo statuto giuridico di colonia (richiamandosi alla politica dei Severi), e compì una serie di restauri nelle città più colpite dalla recente guerra in Syria e in Palaestina: si hanno tracce del suo passaggio a Nisibis e Singara, entrambe elevate al rango di coloniae; la chiusura della zecca di re Abgar X a Edessa, in Mesopotamia; gli interventi a Flavia Neapolis (od. Nāblus) e a Bostra (od. Buṣrā), dichiarata città metropolitana, quartier generale della Legio III Cyrenaica.

Un esattore delle imposte. Rilievo, calcare, c. II-III secolo, da Saintes.

Proprio a soli dodici miglia di distanza da Bostra, nell’Auranitis, sorgeva il villaggio che aveva visto i natali dell’imperatore. Egli lo rifondò con il nome di colonia Philippopolis (Aur. Vict. Caes. 28). I resti dell’abitato, con il suo impianto quadrangolare cinto da mura e con le porte collocate ai limiti di cardo e decumanus, conservano ancora oggi gran parte degli edifici realizzati sotto Filippo. Intorno all’incrocio tra i due principali assi viari furono disposti gli edifici più rappresentativi: il teatro, la basilica, il tetrapylon, il palazzo imperiale, il tempio esastilo dedicato alla domus divina (il Philippeion) e il sacello del Divo Marino (IGR III, 1200). Tutt’intorno furono costruiti le insulae, l’acquedotto, gli impianti termali, la necropoli e alcune residenze dalle quali provengono composizioni musive di notevole bellezza e valore artistico. La città, dopo la morte dell’imperatore, non sarebbe stata completata, rimanendo così, per certi versi, chiusa storicamente nella sua breve parentesi architettonica (si è ipotizzato che fosse stata edificata dal sovrano e per il sovrano!); Philippopolis può essere a ragione considerata l’ultima delle città romane fondate nel Levante (cfr. IGR III, 1195-1202).

Vale la pena di soffermarsi su uno dei numerosi mosaici che Philippopolis ha restituito nel 1952, opera nella quale è possibile ravvisare alcuni spunti circa la mutata concezione religiosa sotto Filippo l’Arabo. Conservato al Museo di Damasco, il reperto (337 cm x 276 cm), che ha subito qualche rimaneggiamento nelle epoche successive, è bordato da quadrati intorno ai quali si snoda il motivo della greca. Al centro si trova la figura di Gea, circondata da quattro puttini identificabili con le personificazioni romane delle Stagioni (Horae). Alle spalle della dea, sempre in posizione centrale, sono rappresentati Trittolemo, il genio benefico delle terre coltivate, a cui Demetra insegnò l’uso degli strumenti per lavorare la terra, e la personificazione dell’Agricoltura, nota col nome di Gheorghia. Sulla destra compare Prometeo, intento a modellare la prima figura umana con accanto Afrodite e, sul registro superiore, Hermes fiancheggiato da due figure femminili, fra le quali è stata individuata l’immagine di Psiche. Sulla sinistra, invece, sta seduta la figura di Aion, nel cui volto si è tentato di riconoscere l’effige dell’imperatore. Aion, il tempo assoluto, la divinità solare suprema e primordiale, opposta a Cronos proprio perché quest’ultimo rappresenta il tempo nella sua quantità e relatività, ha alle spalle le quattro Stagioni. Completa la composizione, in alto, la raffigurazione dei quattro venti principali, due per parte, con al centro due Geni che fanno sgorgare acqua sulla terra da due contenitori. Il carattere fortemente simbolico di tutta la rappresentazione si discosta dalle tradizionali scene mitologiche in cui compaiono cicli epici o divinità a sé stanti, come era d’uso nel panorama iconografico ellenistico-romano.

Allegoria del Saeculum Aureum. Mosaico, III secolo, da Philippopolis (od. Chahba, Siria). Damasco, National Museum (foto da Charboennaux 1960).

Qui, al contrario, il principale soggetto a cui alludono tutte le figure, divinità comprese, è il ciclo naturale della vita, nelle sue continue e periodiche mutazioni e rinnovamenti. Si è quindi di fronte alla celebrazione del “Buon Governo” e del Saeculum Aureum, in cui Aion (con il volto di Filippo) permette e favorisce tutte le attività. Tale visione si inserisce bene in quell’atmosfera di unificazione e pacificazione tra tutte le genti e le religioni che si stabilì in questi anni di principato. Anzi, proprio la politica religiosa di Filippo può considerarsi il coronamento delle tendenze sincretistiche degli ultimi Severi. E questo, in special modo, per quanto riguardava il rapporto con il Cristianesimo.

È infatti curioso che la tradizione patristica – Eusebio di Cesarea (HE VI 34), Giovanni Crisostomo (De sanct. Babyl. in Iulian. 6) – e più tarda – Zonara (XII 19 D) –, abbia considerato Filippo l’Arabo addirittura un seguace della nuova religione: tra i vari episodi, forse il più eclatante è quello che avrebbe visto l’imperatore presentarsi a una funzione religiosa ad Antiochia, in occasione della Pasqua, e che il vescovo Babila gli avrebbe impedito l’accesso se prima non si fosse confessato e pubblicamente pentito. D’altra parte, Eusebio riferisce che, già agli inizi del III secolo, l’Auranitis, sotto l’episcopato di Berillo di Bostra, era sede di una fiorente comunità cristiana con tanto di scuola teologica, le cui deviazioni dottrinali, sia in materia cristologica sia sull’immortalità dell’anima, avevano indotto i vescovi orientali a riunire un sinodo e ad appellarsi al prestigio di Origene di Alessandria (Euseb. HE VI 20; 33; 37); tra l’altro, lo stesso Origene fu in contatto epistolare con Filippo e l’imperatrice Marcia Otacilia Severa (Euseb. HE VI 36, 3).

Non è dato di sapere con certezza se il princeps sia stato realmente un cristiano (cfr. Oros. VII 20, 2) o se, come più prudentemente ritengono alcuni studiosi, egli abbia solo manifestato particolare simpatia verso il Cristianesimo, come aveva già fatto a suo tempo Severo Alessandro. Comunque, è curioso osservare come una simile tradizione sia stata sviluppata proprio da quei Padri della Chiesa che fino a qualche decennio prima avevano ritenuto assurdo che un imperatore romano potesse farsi cristiano! Altre fonti, successivamente, ricordano le proteste dei gentiles contro il governo di Filippo, che non perseguitava più i Cristiani (Orig. contra Cels. 3, 15), e le preoccupazioni della comunità alessandrina dopo la scomparsa dell’imperatore (Dionig. Alex. ap. Euseb. HE VI 41, 9).

Il presunto Cristianesimo di Filippo, tuttavia, non è confermato dagli autori non cristiani. Dai dati esteriori emerge, invece, che il princeps arabo fu uno strenuo propagatore dei valori tradizionali della romanità e dell’Impero, come si evince dall’apoteosi del padre e dalla forte aspirazioni a celebrare il millenario dell’Urbe. Sarebbe più prudente, perciò, considerare Filippo non solo tollerante verso ogni credo religioso, ma soprattutto desideroso di portare unità e pace nell’Impero, sotto la sovranità di una nuova dinastia, accogliendo benevolmente tutte le forze e le energie disponibili, secondo quel ciclo naturale della vita così ben espresso nel mosaico di Philippopolis.

Marcia Otacilia Severa. Busto, marmo, c. 244-249. New York, Metropolitan Museum of Art.

Completata la risistemazione dell’Oriente e lasciate istruzioni al fratello, Filippo si affrettò a raggiungere Roma come Persicus Maximus (cfr. CIL VI 1097). L’atteggiamento assunto dal nuovo uomo forte fu di continuità con il predecessore Gordiano III, nel segno di un recupero della centralità dell’Urbe: i Romani ricordavano fin troppo bene l’assenza di Massimino il Trace dalla città per tutta la durata del suo principato, mentre, da parte sua, Filippo doveva aver fatto tesoro della tragica fine del «barbaro», colpevole di aver trascurato Roma e le sue istituzioni. Oppure, più semplicemente, il nuovo sovrano sapeva perfettamente che ottenere la sanzione del Senato, del Pretorio e del Popolo romano gli avrebbe garantito la massima legittimazione al potere – una conferma che l’appellatio imperatoria delle truppe non bastava. La dedica di un altare votivo alla Victoria Redux di Filippo e Otacilia, curata da un certo Pomponio Giuliano per conto della Legio II Parthica di stanza sui Colli Albani, testimonia che l’imperatore e il suo seguito erano nell’Urbe non oltre il 23 luglio 244 (ILS 505). La permanenza in città dell’imperatore è ulteriormente confermata dall’assunzione, l’anno successivo, del consolato ordinario. Il princeps concesse ai pretoriani gli attesi donativa e al popolino i consueti congiaria del valore di 350 denarii (Chron. a. CCCLIIII 147 M); quindi, cercò di intrattenere buoni rapporti con il Senato, nonostante egli appartenesse alla classe equestre e provenisse da una lontana provincia. Si dedicò all’urbanistica della città, realizzando anche nuove costruzioni, tra le quali una fontana monumentale trans Tiberim e una residenza sul Celio (Aur. Vict. Caes. 28, 1).

Nel resto dell’Impero, comunque, l’opera di Filippo, inserendosi nella linea dei predecessori, fu quella di provvedere alla sistemazione e al rinnovamento del complesso sistema viario, lavori che solitamente erano di competenza delle amministrazioni locali: il gran numero di cippi miliari, recanti il nome di Filippo, attesta una febbrile attività nell’ambito delle infrastrutture (cfr. A. Stein, s.v. Iulius 386, RE 10, 1918, 766 []).

M. Giulio Filippo Arabo. Busto, marmo, c. 244-249. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Da ogni parte, l’ascesa al potere di Filippo fu salutata come un periodo di ritrovata pace – tema piuttosto ricorrente nella monetazione coeva (cfr., p. es., RIC IV 3, 69; 72; 99-100). Ma le difficoltà c’erano ancora e soprattutto sui fronti esterni: dalle province danubiane della Moesia e dalla Dacia giungevano notizie poco rassicuranti. Si apprende, infatti, da Zosimo (I 20, 1-2), unica fonte al riguardo, che i Carpi, una popolazione vagamente associata alla stirpe germanica, a partire forse dallo stesso 244, compirono razzie al di qua del Danubio e che invano furono contrastati, agli inizi del 245, da Messalino e da Severiano: il primo era governatore della Moesia Inferior, il secondo era cognato dell’imperatore ed era stato posto al comando delle legioni illiriche (cfr. Cod. Iust. II 26, 3). Le incursioni e i saccheggi compiuti dai barbari costrinsero Filippo ad assumere personalmente il comando delle operazioni di guerra già nello stesso 245. La presenza dell’imperatore al fronte sarebbe confermata da due documenti: una constitutio (FIRA 2, 657) promulgata il 12 novembre ad Aquae in Dacia (od. Cioroiul Nou, Romania) e trasmessa dall’Epitome Codicum Gregoriani et Hermogeniani Wisigothica; e un’iscrizione (CIL III 14191 = OGIS 519 = IGR IV 598 = FIRA 1, 107 = MAMA X 114 = AE 1898, 102+128 []) riportante il rescritto in favore degli abitanti di Aragua in Phrygia (od. Yapılcan, Turchia). Vale la pena di soffermarsi su questa epigrafe, che testimonia la disponibilità di Filippo l’Arabo nei confronti dei più deboli. L’imperatore fu interpellato da un miles centenarius frumentarius di nome Didimo, che gli sottopose la richiesta di soccorso per conto del κοινόν τῶν Ἀραγουηνῶν, vittima di abusi ed estorsioni dei funzionari imperiali. Il fatto che sia stato proprio un soldato, anziché un magistrato o un retore di professione, a recare la petizione rivela decisive trasformazioni sia nel ruolo di intermediari, assunto dai soldati, sia nelle modalità di comunicazione fra sudditi e principe. Dal momento che l’imperatore si trovava impegnato nella guerra carpica, perché non ricorrere all’intercessione di un uomo d’armi, anziché un declamatore? Come si legge nel rescritto, Filippo e suo figlio delegarono al governatore d’Asia, il proconsole Marco Aurelio Egletto, l’incarico di dirimere la questione.

Quanto alla guerra carpica, Zosimo informa che per tutto il 246 Filippo l’Arabo fu impegnato sul limes, dapprima in Moesia e poi in Dacia, dove era già nell’estate di quell’anno: egli concesse alla provincia il diritto di battere moneta. Nel quadro di un’estesa offensiva volta ad arginare le infiltrazioni di  externae gentes, Filippo riportò importanti successi anche sui Germani (presumibilmente Quadi), ricevendo il titolo onorifico di Germanicus Maximus (IGR IV 635 []; P. London 3, 951). Comunque, solo nel 247 riuscì dopo ripetuti scontri a riportare una vittoria decisiva sui Carpi, costringendoli a chiedere la pace. Il successo ottenuto fu dal principe celebrato in Roma con grande pompa e con l’attribuzione a sé stesso del cognome onorifico di Carpicus Maximus (RIC IV 3, 66, Victoria Carpica). Proprio in questa occasione il figlio di Filippo fu innalzato al rango di Augustus (CIL XI 6325; Zos. I 22, 2; Zon. XII 19 D; Oros. VII 20, 1) e alla consorte dell’imperatore, Otacilia Severa, venne conferito il pomposo appellativo di mater Augusti et castrorum et Senatus et patriae (PIR² I 462).

M. Giulio Filippo Augusto Arabo. Antoninianus, Roma c. 248. AR 4,77 g. Obverso: Co(n)sul III – Saeculares Aug(ustorum). Cippo commemorativo iscritto.

Difficilmente, nei precedenti decenni, si era giunti, come con Filippo, a un così grande consenso verso l’imperatore da parte non solo di Roma, ma anche di molte delle provincie romane. Numerose iscrizioni, provenienti da ogni parte dell’Impero, testimoniano il favore riscosso da Filippo: dediche onorifiche, altari votivi e basi di statua recano formule in honorem o d’invocazione agli dèi pro salute del principe, del Genius / Numen Augusti e della domus divina; i militari celebrano le vittorie, vere e presunte, del loro imperatore. Quale migliore premessa, quindi, a quel primo Millennio di Roma che stava per celebrarsi e per il quale fervevano imponenti preparativi. Le fonti si soffermano molto su questi festeggiamenti, avvenuti tra il 21 e il 23 aprile del 248: tre giorni e tre notti di feste ininterrotte, svolte in tutte le città dell’Impero e, naturalmente, nell’Urbe, dove si susseguirono spettacoli nei teatri, nel Colosseo e nel Circo Massimo, a cui il princeps, al suo terzo consolato, assistette dalla residenza sul Palatino (CIL VI 488; S.H.A. Gord. 33, 1; Zos. II 1-7; Aur. Vict. Caes. 28, 1; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 3; Eutrop. IX 3; Oros. VII 20, 2; Hieron. Chron. s. a. CCXLVICCXLVII; Chron. a. CCCLIIII 147, 33 M). Le monete di questo periodo ricordano ampiamente i festeggiamenti: sui coni, corredati dalla legenda Saeculares Augustorum, sono raffigurati gli animali esotici dei ludi o sono riproposti il cippo o la colonna commemorativa dell’evento (cfr., p. es., RIC IV 3, 24c; 161; 200; 265c). La suggestione dei festeggiamenti pare abbia avuto anche riflessi letterari: forse in quell’occasione un senatore, Gaio Asinio Quadrato, pubblicò una storia di Roma in quindici libri (Χιλιετηρίς), che abbracciava appunto circa un millennio dalla fondazione dell’Urbe al principato di Severo Alessandro (Suda κ 1905, s.v. Κοδράτος = Asin. FGrHist. 97).

Per un brevissimo momento, con la celebrazione del millenario, Roma parve tornare ai fasti del passato, recuperando una tradizione viva ormai solo nella memoria. Nonostante il clima di giubileo suscitato dai ricchi apparati e dagli splendidi giochi nell’Urbe, la situazione generale nella compagine imperiale non era assolutamente delle più rosee. L’analisi documenti papiracei provenienti dall’Egitto (P. Oxy. 1, 78; 6, 970; 33, 2854; 42, 3046-3050; 3178; P. Leit. 16 = SB 8, 10208; P. Mil. Vogl. 2, 97) ha permesso di ricostruire, almeno in parte, le linee della politica economico-fiscale di Filippo l’Arabo, soprattutto per quanto concerne l’apparato amministrativo provinciale, e i tentativi di riforma del sistema tributario: questioni altrimenti oscure, a causa della grave lacuna della storiografia contemporanea. I testi pervenuti restituiscono una vera e propria crisi agraria che colpì l’Aegyptus nei primi anni di governo di Filippo (cfr. anche Or. Sibyll. XIII, 42-49; 50-51): la situazione era aggravata dalle mancate piene del Nilo, che avevano come effetti quelli di rendere meno produttivi i campi, rallentando e impoverendo le attività rurali; di conseguenza, all’abbandono dei terreni inutilizzabili (e, quindi, non tassabili) le autorità provinciali cercarono di rispondere con una revisione delle proprietà fondiarie, ridefinendone i confini. I periodi di magra e le malannate provocavano forti ripercussioni sul sistema d’imposizione fiscale, costringendo i proprietari a richiedere possibili sgravi e a cedere forzatamente i terreni. Effetti altrettanto disastrosi si ebbero sulla politica annonaria, dovuti alla difficoltà di reperimento e trasporto delle derrate alimentari provenienti dall’Egitto. Perciò, sia i funzionari pubblici sia lo stesso imperatore tentarono di introdurre innovazioni nel sistema delle prestazioni liturgiche in modo da evitare la paralisi dei rifornimenti granari. Il settore annonario era, dunque, quello più colpito proprio a causa della particolare onerosità che, in una situazione simile, comportava il servizio di rifornimento: la responsabilità era normalmente detenuta dai membri delle βουλαί cittadine, magistrati con compiti amministrativi, che, in onore al proprio ruolo, si assumevano l’incombenza di investire a fondo perduto le proprie rendite fondiarie per le liturgie (λειτουργίαι). La crisi agraria, però, costrinse molti membri della classe buleutica a rinunciare a ogni incarico pubblico: sono testimoniati casi di cessio bonorum per funzionari sfiniti dall’aggravio liturgico. Se la tassazione diretta gravava pesantemente sull’attività agricola, le liturgie allontanavano dal lavoro, a volte per anni, persone che per garantire servizi non potevano badare ai propri interessi, abbandonando la propria attività e la terra. Verificandosi simili congiunture, coloro che erano incaricati di queste prestazioni, specie quelle della riscossione dei tributi, si vedevano costretti a indebitarsi per far fronte alla responsabilità di una sfortunata esazione. Probabilmente verso la fine del suo principato (c. 248/9 ?), Filippo tentò di affrontare la crisi egiziana allargando l’onere liturgico anche ai privati cittadini (ἰδιῶται), cercando nuovi soggetti che potessero farsi carico delle prestazioni (P. Oxy. 33, 2664): molto probabilmente le persone individuate per tali incombenze furono i coloni (κωμῆται; cfr. SB 5, 7696). Inoltre, complice la spirale inflazionistica che da tempo vessava l’Impero, proprio sotto Filippo l’Arabo, il rapporto di valore tra la moneta d’oro e quella d’argento mutò considerevolmente, a scapito della seconda, al punto che per avere un aureus occorreva scambiare tra i 60 e i 65 denarii d’argento. L’aumento del prezzo dell’oro fu provocato dalla scarsità in circolazione del numerario prezioso (cfr. IGR I, 5 1330, 5008 []; 5010 []). Insomma, la “macchina” dell’Impero, già vacillante e instabile sul piano economico, sembrava precipitare verso più profonde crisi e fratture.

Oxford, Bodleian Library MS. Gr. class. g. 58 (P). P. Oxy. 6, 970, c. 244-245. Denuncia di terreni non inondati dalla piena del Nilo [].

Nuove e pressanti difficoltà militari incombevano di nuovo dal settore danubiano: pur con alcune imprecisioni, un passo di Giordane (Get. 89) tramanda che i Goti, che fino ad allora erano rimasti tranquilli, avevano ricevuto un regolare tributo e, durante l’ultima campagna persiana (242-244), avevano militato al soldo di Gordiano III, si videro togliere lo stipendium da Filippo, trasformandosi da amici a nemici di Roma (Gothi… subtracta sibi stipendia sua aegre ferentes, de amicis effecti sunt inimici). Perciò, nel corso del 248, dalle loro sedi settentrionali, sotto la guida di re Ostrogota e dei condottieri Argaito e Gunterico, cominciarono a premere e a varcare i confini della Moesia, mostrando chiaramente che la questione danubiana era tutt’altro che risolta: all’invasione si unirono anche Bastarni, Carpi, Vandali Asdingi e Taifali e l’orda, raggiunta Marcianopolis (od. Devnya, Bulgaria), la capitale della provincia, la posero sotto assedio. L’irruzione dei barbari nelle province balcaniche rivelò la debolezza della frontiera danubiana: forse per la negligenza dell’imperatore nel rispondere all’offensiva, forse per le sue politiche fiscali, il disagio e il malcontento nei confronti della dinastia orientale dilagarono tra le legioni stanziate sul limes; non sono chiari i motivi che portarono alla loro rivolta, ma, presa probabilmente coscienza di essere l’ago della bilancia in un settore così delicato e sentendosi forse poco rappresentati, i soldati della Pannonia e della Moesia acclamarono imperatore il loro comandante (ταξιάρχης), Tiberio Claudio Marino Pacaziano, di famiglia senatoria, che era subentrato a Severiano (Zos. I 21, 2; Zon. XII 19 D.; CIL III 94; AE 1965, 21; PIR² II 929-930). La ribellione di Pacaziano può essere datata grazie alle sue emissioni monetali, che offrono gli stessi identici temi di propaganda dell’imperatore in carica: un antoninianus (RIC IV 3, 6) porta sul dritto il busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore e la sua sequenza onomastica (Imp. Ti. Cl. Mar. Pacatianus Aug.), mentre sul rovescio reca la tradizionale personificazione di Roma assisa in trono con la legenda Romae Aetern(ae) an(no) mill(esimo) et primo. L’anti-imperatore, evidentemente, prese possesso della zecca di Viminacium, capitale della Moesia Superior, perché non sono state trovate monete di Filippo ivi coniate nell’anno X dell’era locale, cioè nel 248/9. Da lì Pacaziano emise coni che celebravano la concordia tra i soldati e la fedeltà delle truppe (Concordia militum, Fides militum), la prosperità e la pace eterna (Felicitas publica, Pax aeterna) e il ritorno dell’imperatore (Fortuna Redux).

Tib. Claudio Marino Pacaziano. Antoninianus, Viminacium c. 248-249. AR 4,33 g. Recto. Imp(erator) Ti(berius) Cl(audius) Mar(inus) Pacatianus Aug(ustus). Busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’usurpatore, voltato a destra.

Simili agitazioni si ebbero, a quanto sembra, anche in Germania Superior, dove i militari acclamarono Augustus un certo Marco Silbannaco, personaggio noto solo da un antoninianus rinvenuto nell’odierna Lorena (RIC IV 3, 105, 1; cfr. Eutrop. IX 4), e in Dacia, dove prese il potere Sponsiano, figura non altrimenti nota se non grazie a una coppia di aurei (RIC IV 3, 106, 1), scoperti nel 1713 in Transilvania e riconosciuti autentici solo nel 2022 []. Ancora più pericolose furono le sollevazioni avvenute in Oriente: il regime fiscale instaurato da Prisco era diventato in poco tempo tanto insostenibile quanto oppressivo, al punto tale da far scoppiare dei disordini. Probabilmente l’abrasione del nome di Prisco da un’iscrizione palmirena, databile ad alcuni anni prima, è indice dell’impopolarità raggiunta dal fratello dell’imperatore (cfr. IGR III 1033). A ogni modo, nella confusione più totale, si fece proclamare Augustus un certo Marco Furio Rufo Iotapiano, esponente dell’élite di Emesa, che vantava legami di parentela con Severo Alessandro o addirittura di discendere da Alessandro Magno (PIR² IV 49). Con ogni probabilità, il rector Orientis cercò di reagire ed eliminare il pretendente, ma le fonti non chiariscono la conclusione della vicenda (cfr. Aur. Vict. Caes. 29, 2; Pol. Silv. Later. 38, in Chron. min. I, MGH AA. IX, 521; Zos. I 20, 2; I 21, 2; Or. Sibyll. XIII 89-102).

Con la presenza di ben quattro usurpatori, portati alla porpora dalle legioni sempre più affamate di bottino e di gloria, pronte a schierarsi con il primo disposto ad accontentarle, Filippo si vide sfumare il sogno di aver avviato una nuova epoca in cui l’Impero fosse felicemente unito sotto la sua guida. Una tradizione confluita in Zosimo (I 21, 1) e in Zonara (XII 19 D.), apparentemente in contraddizione con l’immagine dell’uomo duro e spietato, riporta un evento mai accaduto prima di allora nella storia di Roma: il princeps, turbato dalle circostanze, si presentò in Senato per rassegnare le sue dimissioni. La procedura, assai singolare per i costumi romani, suscitò l’immediata reazione dei patres che respinsero la proposta. Nel consesso si distinse il praefectus Urbi, Gaio Messio Quinto Decio, «uomo in vista per famiglia e dignità, stimato e dotato inoltre di ogni virtù» (γένει προέχων καὶ ἀξιώματι, προσέτι δὲ καὶ πάσαις διαπρέπων ταῖς ἀρεταῖς): egli, dimostrando la propria lealtà, affermava che le preoccupazioni del principe erano infondate e che i rivali di Filippo, indegni del titolo usurpato, sarebbero stati presto eliminati dai loro stessi fautori. Seppur sfiduciato, l’imperatore tornò sui suoi passi, riprendendo il controllo della situazione: decise di inviare proprio Decio a fronteggiare le invasioni lungo le sponde del Danubio e a ristabilire la disciplina tra i soldati Illyriciani. Il nuovo plenipotenziario, nativo di Budalia (od. Martinci, Serbia), una cittadina che sorgeva nei pressi di Sirmium, nella Pannonia Inferior, si distinse subito per abilità e rapidità d’intervento. Egli, assunto il comando delle legioni, respinse i Goti e i loro alleati, quindi, punì severamente i fautori di Pacaziano: vedendo che il generale perseguiva i colpevoli con particolare diligenza e scorgendo in lui una figura che eccelleva per capacità politica ed esperienza militare, nel giugno 249, i soldati Illyriciani decisero di fargli indossare la porpora. Stando alle fonti (Zos. I 22, 1; Zon. XII 20 D.), inizialmente riluttante a mettersi contro Filippo, considerati i rapporti con lui, successivamente Decio si decise ad affrontare in armi il suo avversario. Filippo, informato dell’appellatio imperatoria di Decio, riunite le legioni a lui fedeli, si era messo in marcia verso le province danubiane.

M. Giulio Severo Filippo II. Busto, marmo, c. ante 249. Venezia, Museo Archeologico Nazionale.

Nel settembre del 249 d.C. i due imperatori-soldati si scontrarono a Verona (Aur. Vict. Caes. 28, 10; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 28, 2; Eutrop. IX 3) e Filippo trovò la morte, come era d’uso, per mano amica, nella sua tenda (Or. Sibyll. XIII 79-80). Secondo un’altra tradizione, invece, risalente a Giovanni Antiocheno (FGrHist 4 F 148 = FHG IV 597 M), non ci sarebbe stata alcuna battaglia a Verona: l’imperatore sarebbe stato ucciso a tradimento negli accampamenti di Beroea (od. Veroia, Grecia settentrionale), di ritorno da una campagna vittoriosa sui barbari. Comunque sia, giunta a Roma la notizia della caduta di Filippo, suo figlio dodicenne fu barbaramente trucidato dai pretoriani (Aur. Vict. Caes. 28, 11; Eutrop. l.c.; Oros. VII 20, 4).

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Appio Claudio Cieco: gli albori dell’oratoria latina

Prima della decisiva grecizzazione che la cultura romana conobbe nel secolo tra la guerra di Taranto (280-272 a.C.) e l’invasione della Grecia, la scrittura era considerata una tecnica senz’altro utile, ma il saper parlare era ben più importante: l’abilità oratoria, a Roma, fu sempre considerata come una forma di potere e una sicura fonte di successo, un’attività intellettualmente elevata[1]. Mentre la poesia, la filosofia e la storiografia – cioè la vera e propria letteratura – rientravano negli otia, nel “tempo libero” voluttuario e individuale, attività improduttive non particolarmente utili alla collettività, la retorica (o ars loquendi) era ben congeniale alla mentalità pragmatica dei Romani ed era ritenuta uno strumento indispensabile della vita attiva (negotium)[2]. Del resto, sino all’età scipionica, l’oratoria fu considerata l’unica attività culturale veramente degna di essere esercitata da un civis di elevata condizione: mentre i primi poeti, infatti, furono per lungo tempo dei liberti, oppure degli italici di moderata estrazione, l’oratoria fu, fin dal principio, appannaggio dei patricii e dei nobiles. In particolare, la capacità di convincere era prerequisito obbligatorio nella carriera politica (cursus honorum) e fondamentale strumento per riscuotere consensi in seno alla comunità. Proprio per i suoi risvolti pratici, dunque, i Romani non avevano nessun bisogno di “importare” la retorica dall’estero, come avevano fatto con le altre arti; invero, in seguito, essi si limitarono ad affinare alla scuola dei rhetores greci le loro naturali attitudini di oratores[3].

Al confine, dunque, fra due epoche, fra la cultura delle origini e la nuova letteratura ellenizzante, si colloca la figura emblematica e semileggendaria di un uomo particolarmente eloquente, mitico “iniziatore” dell’oratoria latina e politico di primo piano: Appio Claudio Cieco[4], di nobilissima stirpe sabina, fu censore nel 312 a.C. e console per due volte, nel 307[5] e nel 296; durante la sua censura, promosse molte opere pubbliche, fra le quali l’aqua Appia (il primo acquedotto dell’Urbe) e la via Appia (che, una volta completata, avrebbe collegato Roma a Brindisi)[6]. Gli antichi ne accostavano il nome a molteplici e importanti imprese, sia in guerra sia in pace: egli, da magistrato della res publica, combatté contro Etruschi[7] e Sabini e fu l’eroe della Terza guerra sannitica; in politica interna, fu strenuo avversario dell’aristocrazia e sostenitore dell’ingresso nel Senato di elementi plebei[8]. Grazie alla sua efficacia oratoria e all’ampia auctoritas di cui godette, Appio Claudio appare, per certi versi, come un predecessore di Catone[9]. Con una famosa orazione tenuta nel 280 a.C. egli si oppose alle proposte di pace di Pirro, e Cicerone vi allude come al primo discorso ufficiale mai pubblicato a Roma – discorso che, evidentemente, suscitando grande impressione fra i senatori, permise ai Romani di sconfiggere definitivamente il re epirota, impadronendosi di quasi tutta la Magna Grecia[10]. Ora, non è possibile determinare se il testo, che ancora ne circolava in età tardorepubblicana, fosse genuino, ma la notizia è comunque interessante, perché documenta, già in quell’epoca, un vivo interesse per il saper parlare.

Il cosiddetto Arringatore. Statua, bronzo, fine II-inizi I sec. a.C., da Perugia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

 

La multiforme attività di Appio Claudio lasciò tracce durature in diversi campi. Nell’ambito del diritto, di cui fu grande conoscitore, egli si prodigò per dare maggiore trasparenza all’operato dei giudici. Secondo Pomponio, avrebbe scritto un trattato di cui è rimasto solo il titolo, De usurpationibus, nel quale avrebbe raccolto e spiegato le formule abbreviate delle legis actiones[11].

Tra l’altro, Appio si occupò, a quanto pare, anche di questioni linguistiche ed erudite, meritandosi l’appellativo di “legislatore linguistico”: a lui, infatti, si attribuisce un riordino dell’alfabeto latino, ancora non perfettamente stabilizzatosi, e la soluzione, per mezzo di una “riforma ortografica”, di un problema che si era venuto a creare in seguito all’evoluzione fonetica nota con il nome di “rotacismo”: la -s-, in posizione intervocalica (ad esempio, *hono-s-is, genitivo di honos) era diventata sonora, assumendo un suono a metà fra la z e la r. Appio Claudio introdusse con successo l’uso della r, eliminando dall’alfabeto la z (reintrodotta più tardi per la traslitterazione di voci greche): pare che egli detestasse la z per motivi superstiziosi, perché nel pronunciarla la bocca “imitava i denti di un morto” – notizia che costituisce una spia del valore magico-religioso attribuito all’alfabeto.

A suo nome circolava un’altra opera di carattere più spiccatamente letterario, e cioè una raccolta di massime (Sententiae), forse in metro saturnio; era considerata come un ricettacolo di saggezza popolare, tipica della cultura orale di Roma arcaica, moraleggiante e filosofeggiante: anche sotto questo aspetto, Appio Claudio sembra preannunciare la personalità di Catone. Non si sa se le sue capacità espressive, come, in verità, sarà il caso del Censore, fossero già nutrite da rapporti con la cultura ellenistica, per quanto certe sue massime morali possano far sospettare fonti greco-pitagoriche[12]. Di tre delle sententiae conservatesi[13], una esorta all’equilibrio interiore, un’altra a dominare con determinazione il proprio destino:

 

‹ae›qui animi compotem esse, ne quid fraudis stuprique ferocia parlat.

 

Essere padrone di un animo equilibrato, affinché la tracotanza non provochi danno e disonore[14].

 

Sed res docuit id uerum esse quod in carminibus Appius ait, fabrum esse sua quemque fortunae.

 

Ma l’esperienza ha mostrato che è vero ciò che afferma Appio nei carmina, e cioè che ognuno è artefice della propria sorte[15].

Elogium di Ap. Claudio Cieco. Iscrizione onorifica su tabula (CIL XI 1827 = ILS 54 = Iscr.It. XIII 3, 79), marmo, 2 a.C.-14 d.C. ca. da Arezzo. Firenze, Museo Archeologico Nazionale: Appius Claudius
C(ai) f(ilius) Caecus
censor co(n)s(ul) bis dict(ator) interrex III
pr(aetor) II aed(ilis) cur(ulis) II q(uaestor) tr(ibunus) mil(itum) III com=
plura oppida de Samnitibus cepit
Sabinorum et Tuscorum exerci=
tum fudit pacem fieri cum [P]yrrho
rege prohibuit in censura viam
Appiam stravit et aquam in
urbem adduxit aedem Bellonae
fecit.
 

È significativo che di Appio Claudio, considerato il progenitore della “prosa” a Roma, Cicerone citi (Tusc. IV 4, 7) l’esistenza di un carmen (mihi quidem etiam Appii Caeci carmen, quod ualde Panaetius laudat epistula quadam quae est ad Q. Tuberonem, Pythagoreum uidetur); questo, tuttavia, non autorizza a ritenere che Appio fosse stato, propriamente parlando, anche un poeta[16].

 

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MASSA-PAIRAULT 2001 = F.-H. Massa-Pairault, Relations d’Appius Claudius Caecus avec l’Etrurie et la Campanie, in D. Briquel, J.P. Thuillier (éds.), Le Censeur et les Samnites : sur Tite-Live, livre IX, Paris 2001, pp. 97-116.

MOREL 1927 = W. Morel, Fragmenta poetarum Latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium, Leipzig 1927.

NARDUCCI 1991 = E. Narducci, Oratoria e retorica, in La prosa latina, Roma 1991, pp. 95-107.

NICOLET 1961 = C. Nicolet, Appius Claudius et le double Forum de Capoue, Latomus 20 (1961), pp. 683-720.

SCHIAVONE 1990 = A. Schiavone, Pensiero giuridico e razionalità aristocratica, in G. Clemente, F. Coarelli, E. Gabba, Storia di Roma, II, 1, Torino 1990, pp. 412-478.

STAVELEY 1959 = E.S. Staveley, The Political Aims of Appius Claudius Caecus, Historia 8 (1959), pp. 410-433.

WINTERBOTTOM 1985 = M. Winterbottom, The Roman Orator and his Education, Akroterion 30 (1985), pp. 53-57.

***

Note:

[1] NARDUCCI 1991.

[2] CAVARZERE 2000.

[3] WINTERBOTTOM 1985.

[4] AMATUCCI 1893-94; HUMM 2005; BOTTIGLIERI 2017.

[5] Liv. IX 42, 4: creatus consul, cum collegae noum bellum Sallentini hostes decernerentur, ‹Appius Claudius› Romae mansit, ut urbanis artibus opes augeret, quando belli decus penes alios esset.

[6] Liv. IX 33, 434; Diod. XX 36; cfr. CIL XI 1827. Si vd. NICOLET 1961; FERENCZY 1967; MacBAIN 1980; HUMM 1996.

[7] MASSA-PAIRAULT 2001.

[8] Liv. X 7, 1-2. STAVELEY 1959.

[9] Liv. X 15, 12: nobilitas obiectare Fabio fugisse eum Ap. Claudium collegam, eloquentia ciuilibusque artibus haud dubie praestantem.

[10] Enn. Ann. 9, 202-203 V2 = 199-200 Sk; Cic. Brut. 14, 55; 16, 61; Cato 6, 16; Quint. Inst. Or. II 16, 7; ined. Vat. 34-35; Plut. Pyrrh. 19, 1-4; App. bell. Samn. 10, 2; Liv. per. 13; Isid. or. I 38, 2.

[11] Pomp. ench. 1 (apud Dig. I 2, 2, 7): postea cum Appius Claudius proposuisset et ad formam redegisset has actiones; ench. 1 (apud Dig. I 2, 2, 36): hunc etiam actiones scripsisse traditum est primum de usurpationibus, qui liber non extat. Cfr. GUARINO 1981; D’IPPOLITO 1986, pp. 39-61; SCHIAVONE 1990, pp. 418-419, MAGDELAIN 1995, pp. 90-91.

[12] MARX 1897 è arrivato a dimostrare che alcuni di questi proverbi si ispirano probabilmente a un’opera di Filemone, riutilizzata più tardi da Plauto, e che sarebbe pervenuta ad Appio Claudio sotto forma di uno Gnomologion, cioè un “florilegio di massime”, trasmesso a Roma tramite la Magna Grecia; cfr. FERRERO 1955, pp. 168-172. Nella seconda metà del IV secolo a.C., il Pitagorismo, che là era probabilmente la dottrina filosofica principale, penetrò nella classe dirigente romana, della quale divenne in qualche modo «l’ideologia ufficiale» (GABBA 1990, p. 56).

[13] BAEHRENS 1886, pp. 36-37; MOREL 1927, pp. 5-6; BLÄNSDORF 1995, pp. 11-13.

[14] Fest. s.v. stuprum, p. 418, 11-13 Lindsay. A proposito della padronanza di sé e del dominio delle passioni dell’anima, insegnamenti tipici della dottrina pitagorica e, in particolare, quella di Archita di Taranto, si vd. Cic. Cato 12, 39-40. Cfr. HUMM 2000.

[15] Cfr. Ps.-Sall. rep. I 1, 2. BILIŃSKI 1981.

[16] LEJAY 1920, p. 137 e GARZETTI 1947, p. 208 hanno considerato la testimonianza di Cicerone troppo soggettiva e troppo incerta per poter essere utilizzata.

181 a.C.-2019 d.C. Aquileia

di BRIZZI G., in «Corriere della Sera – La Lettura» n. 377 (Domenica, 17 febbraio 2019), pp. 6-7.

 

Cominciano le celebrazioni per i 2.200 anni dalla fondazione della città che per un breve periodo fu insediamento celtico e subito dopo colonia latina. Un gruppo di Galli si era stabilito da queste parti perché aveva trovato la piana incolta e deserta, «inculta per solitudines», ma non aveva intenzioni bellicose. Roma, tuttavia, ancora spaventata dal ricordo di Annibale, li aveva cacciati. Da qui inizia la biografia entusiasmante di una realtà urbana.

 

Duemiladuecento anni. Tanti ne sono trascorsi da quando, nel 181 avanti Cristo, al centro della piana del Friuli, in vista delle Alpi Giulie, nacque Aquileia; ma la gestazione era cominciata cinque anni prima, ed era stata frutto del metus, della paura. Nel 186 avanti Cristo un gruppo di Galli, da oltralpe, passò nei territori dei Veneti con il proposito di insediarsi su quelle terre; e scelse, trovandola incolta e deserta (inculta per solitudines) l’area su cui sarebbe poi sorta Aquileia. Il fatto non piacque ai Romani, che, quando lo appresero, ne furono spaventati. Quel movimento pareva inserirsi in un quadro geostrategico globale: nel 188, nelle acque d’Asia Minore, era stata arsa, dopo il trattato di Apamea, l’ultima grande flotta mediterranea, quella del re di Siria, annullando la minaccia di una futura invasione via mare dell’Italia; e il 187 aveva visto nascere con la via Emilia, lungo il confine politico della penisola, l’Appennino, una linea difensiva — prefigurazione dei futuri limites dell’impero? — destinata entro pochi anni a collegare ben sei colonie militari, da Rimini a Piacenza. L’arrivo degli intrusi allarmò così un senato afflitto dalla paranoica paura postannibalica, che temette forse un pericolo più grave del reale; e, diffidando della smania revanscista del macedone Filippo V, che si diceva fosse pronto a muovere i barbari Bastarni dalle sedi balcaniche per scagliarli contro l’Italia, credette trattarsi di un’avanguardia dell’invasione.

L’area del Foro romano, Aquileia.

 

A dissipare l’incubo bastò un’ambasceria oltre le Alpi. Avendo appreso che il passaggio in Italia era stata una decisione spontanea dei nuovi venuti, il senato intimò loro di andarsene, e mosse le legioni (183 a.C.). Fu il console Marcello a distruggere il nascente insediamento celtico, etiam invito senatu secondo Plinio (Naturalis historia, III, 131). Dopo avere comunicato loro che la cerchia alpina doveva rimanere inviolata, verso i Galli si mostrò però una certa indulgenza; e li si ricondusse incolumi alle loro sedi. Si decise allora la deduzione di una nuova colonia latina; e a fondarla furono inviati i triumviri Publio Cornelio Scipione Nasica, Gaio Flaminio e Lucio Manlio Acidino, ricordato in un’iscrizione aquileiese di età repubblicana. Grazie alle condizioni della regione si poterono allettare i tremila coloni (per una popolazione forse di diecimila anime in tutto) offrendo loro cospicui lotti di terra: 50 iugeri per ogni colono, 100 per i centurioni, 140 per i cavalieri.

L’origine di Aquileia è interamente romana: le terre occupate dai Celti erano inculta per solitudines e del loro insediamento, impianto provvisorio e non città, nulla sembra essere rimasto, mentre l’unico luogo che il mito classico rivendichi al Friuli più antico non è una polis, come la troiana Padova, ma la sede di un culto naturale, lo sbocco del Timavo al mare. Non distante a sua volta dall’Adriatico, in una zona paludosa lungo il fiume Natisone, a dieci anni dalla fondazione Aquileia non aveva ancora completato il circuito delle mura; tanto che Marco Cornelio Cetego, cui si deve anche la bonifica del luogo, vi dedusse nel 169 a.C. un secondo nucleo di 1.500 coloni, portando gli abitanti al numero di circa 15 mila.

 

Rito di fondazione della città. Rilievo, calcare locale. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.

 

Avamposto oltre il territorio degli alleati Veneti, la città è, ancora per Ausonio (Ordo Urbium Nobilium, 7), nel IV secolo, «colonia latina posta di fronte ai monti d’Illiria». Sentinella avanzata, e dunque claustrum, o base per future conquiste, Aquileia rimase poi sempre un centro strategico vitale; e partecipò a tutte le guerre contro le popolazioni locali. Difensive, dapprima: già nel 178 a.C. scoppiò un conflitto contro gli Istri, sospetti di intesa con la Macedonia. Durante l’ultima guerra macedonica, avendo progettato di propria iniziativa una spedizione verso l’Istria e l’Illirico interno, Gaio Cassio Longino ricevette un rabbuffo da parte del senato, convinto che il console dovesse agire solo a protezione di Aquileia e preoccupato all’idea che la sua iniziativa «aprisse la via verso l’Italia a tanti popoli diversi» (Livio 43, 10, 1); timore condiviso dagli aquileiesi, che proprio allora lamentarono l’incompletezza delle mura. Più marcatamente offensive furono invece le guerre condotte da Sempronio Tuditano contro gli Istri (129 a.C.) e da Emilio Scauro contro i Carni (119 a.C.).

Un diverso carattere della città richiama la sfortunata campagna di Gneo Papirio Carbone contro i Cimbri (113 a.C.). Polibio (in Strabone 4, 6, 12) ricordava che già al tempo suo era stato scoperto l’oro nel territorio dei Taurisci Norici; e in quantità tale da provocare, sembra, da parte di imprenditori italici una vera «corsa» cui pose un freno l’azione dei reguli locali. In difesa di costoro, protetti da Roma, Carbone affrontò i Germani, e ne fu sconfitto a Noreia, centro del Norico. Nello stesso passo in cui dice Aquileia «fortificata a baluardo contro i soprastanti barbari», Strabone (5, 1, 8) ne sottolinea anche il carattere di emporion, centro propulsore per una politica di penetrazione commerciale verso le regioni d’oltralpe. Favorita sia dal porto-canale navigabile che giungeva nel cuore della città, sia dall’articolata rete di vie sorte in successione e raccordate con l’Emilia e la Postumia — l’Annia o la Iulia Augusta, la Gemina o la strada per il Norico, l’asse per Emona-Ljubljana o quello per Tarsatica — la città continuò a svilupparsi.

Municipium cittadino dopo la guerra sociale, iscritta alla tribù Velina, Aquileia entrò a far parte del territorio italico dopo Filippi; e divenne il centro della X regione augustea, chiamata Venetia et Histria. Nell’inverno 59-58 a.C. Cesare vi tenne tre legioni. Augusto vi soggiornò a più riprese, al tempo delle guerre in Germania e in Pannonia; e con lui la famiglia, Tiberio, la figlia Giulia (che vi perdette l’unico figlio nato dall’unione con Tiberio) e la moglie Livia (estimatrice del Pucinum, un vino locale cui si dice attribuisse la sua longevità).

 

Mosaico con fiocco, tralci di vite ed edera. Metà I sec. a.C. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.

 

Con la conquista delle terre fino al Danubio l’importanza militare della città parve scemare; ma non fu che un attimo. Di qui sarebbero passati imperatori legittimi, pretendenti al trono e orde di barbari; non senza danni. Nel 69 le legioni del Danubio toccarono più volte Aquileia, facendo anche preda in città. Di qui mossero, da e per la Dacia, Domiziano e Traiano; e vi soggiornarono Marco Aurelio e Lucio Vero (morto ad Altino) quando, secondo Ammiano (39, 6, 1) la città aveva già superato grazie alle difese riattate per tempo l’assedio di Quadi e Marcomanni (mentre venne distrutta Opitergium-Oderzo). Anche Aquileia fu colpita allora dalla pestis antonina, che avrebbe fatto strage nell’impero. Nel 193 d.C. gli aquileiesi, atterriti dal numero (e dall’aspetto…) dei soldati di Settimio Severo, se la cavarono invece accogliendoli coronati d’alloro.

Ancora durante il III secolo l’Italia restava malgrado tutto il centro simbolico del potere; e per impadronirsene (o per combattere barbari sempre più pericolosi, come Alamanni e Goti) passavano da Aquileia  gli «imperatori soldati» , espressione delle terre del Danubio: Massimino «il Trace», che l’assediò invano e vi fu ucciso (238); Decio; Emiliano; Claudio II vincitore dei Goti, e suo fratello Quintillo (che vi perì suicida), Diocleziano e Massimiano, persecutori dei cristiani. Nel IV secolo proseguì la sequenza di lotte civili: vi si scontrarono Costante e Costantino II (340), poi Costanzo e Magnenzio (351), la assediò di nuovo Giuliano (361); la visitarono tra il 364 e il 386, Valentiniano I, Graziano e Valentiniano II. Nel 387, come ricorda Ausonio, vi morì, vinto da Teodosio, Magno Massimo.

 

Massimino il Trace. Sesterzio, Roma 235 d.C. Æ. 18, 4 gr. Recto: Providentia Aug(usta) – S(enatus) C(onsulto). Providentia, stante verso sinistra, cornucopia, scettro e globo.

 

Gran peso aveva assunto nel frattempo, ad Aquileia, la religione cristiana. Collegata tradizionalmente alla predicazione di Marco e al martirio del protovescovo Ermacora, la Chiesa aquileiese si sviluppò appieno dopo la metà del III secolo. Vettore del Cristianesimo nella regione e nei territori contermini fino alla Rezia, essa conobbe una straordinaria ripresa dopo la persecuzione tetrarchica. Partecipò al concilio di Arles (314) con il vescovo Teodoro; che edificò ad Aquileia la basilica e lo straordinario complesso di edifici di culto arricchiti da splendidi mosaici. Un suo esponente, Fortunaziano, apprezzato da Papa Liberio, si avvicinò in seguito agli Ariani; ma la presenza in città di Girolamo e Ambrogio portò, nel 381, a un nuovo concilio antiariano presieduto da Ambrogio proprio ad Aquileia.

Il V secolo segna la fine della città romana, poiché le reiterate devastazioni ad opera di Alarico nel 401, di Teodorico nel 439 e di Attila nel 452, con il depauperamento demografico e la conseguente mancata manutenzione di strutture essenziali come il porto e le opere di canalizzazione, produssero lo sviluppo esiziale della malaria. Con il 568 e l’invasione longobarda, la Venetia fu divisa in due parti, la terrestre dominata dai Longobardi; e la marittima (Grado, l’Istria e le isole) controllata dai Bizantini. Fu la decadenza: nel suo carme della fine dell’VIII secolo, Paolino definisce la città «speco di villici, tugurio di pezzenti». Aquileia rinacque però poco dopo ad opera del patriarca Massenzio, che di fatto, con l’aiuto di Carlo Magno, ricostruì la basilica.

Dedica al vescovo Teodoro. Mosaico, IV sec. d.C. Aquileia, Basilica patriarcale di S. Maria Assunta: Theodore felix, adiuvante Deo omnipotente et poemnio caelitus tibi traditum omnia baeate fecisti et gloriose dedicasti (“Felice te, Teodoro, che con l’aiuto di Dio Onnipotente e del gregge che ti ha concesso, hai costruito questa chiesa e gloriosamente l’hai consacrata”).

 

Il paesaggio funerario a Roma tra il III e il I secolo a.C.

di C. VALERI, in I giorni di Roma. L’età della conquista, a cura di E. LA ROCCA, C. PARISI PRESICCE, A. LO MONACO, Milano 2010, pp. 137-147.

Rigorose disposizioni di legge vietavano a Roma di seppellire i morti in città; le necropoli si sviluppavano perciò all’esterno dei limiti cittadini, e cioè, in pratica, oltre le mura urbiche. In queste pagine esamineremo rapidamente il paesaggio attorno alle mura della città di Roma nei secoli compresi tra il III e il I secolo a.C., con qualche citazione di altri centri che hanno restituito testimonianze importanti; una disamina dunque delle tipologie monumentali utilizzate in questo periodo, una panoramica delle architetture funerarie e delle loro decorazioni che, inevitabilmente, prende in esame le costumanze di un limitato ceto sociale. In realtà, ci occuperemo delle modalità di sepoltura di coloro che erano in grado di impiegare cospicue sostanze per perpetuare la propria memoria, e quella della gens di appartenenza, attraverso la costruzione di edifici funerari più o meno scenografici e comunque duraturi. È stato giustamente rilevato come la parola monumenta, abitualmente utilizzata dagli scrittori latini per indicare gli edifici sepolcrali, abbia attinenza con il verbo greco mnēmoneúō, a suggerire quanto la loro natura sia correlata con la volontà, da parte del defunto, non solo di tramandare ai posteri il ricordo di sé, ma anche di esaltare attraverso la monumentalità dei sepolcri, la grandezza e la continuità della famiglia, celebrandone le virtù e soprattutto il ruolo sociale ed economico rivestito in seno alla società del tempo.

Mausoleo dei Cornelii Scipiones, III-II secolo a.C. sulla via Appia.

Ma i più potevano permettersi solo modeste inumazioni in fosse terragne o una deposizione dei resti incinerati in cassette di legno, in ceste di vimini, con, al massimo, il lusso di una stele di pietra che, sorgendo dal suolo, ne segnalasse la sepoltura. Testimonianze queste assai poco durevoli che, in gran parte, non possiamo più cogliere ed è provato anche da studi recenti che la percentuale di tali sepolture costituiva la quasi totalità nelle necropoli romane, con un rapporto che, nelle città più ricche, possiamo calcolare nella percentuale di uno a sette.

A Roma, così come in gran parte del mondo antico, i monumenti funerari erano raggruppati al di fuori delle porte urbiche, a comporre agglomerati allineati per lo più lungo le principali vie di accesso alla città, in posizioni di visibilità massima. Si ritiene generalmente che, fino al III secolo a.C., le tombe «si distribuivano irregolarmente sul territorio, forse sulle proprietà dei loro committenti, e prevalevano le sepolture ipogee o le camere sotterranee senza grandi monumenti in alzato» (von Hesberg); l’autorappresentazione familiare, che a Roma, fin dai tempi più remoti, si estrinsecava nella celebrazione del funerale, come impressivamente tramandatoci da Polibio (VI 53), non sembra aver assunto, almeno fino agli inizi del III secolo a.C., una vera e propria espressione monumentale. Nel corso del IV secolo a.C. sembra attenuarsi l’osservanza delle rigide leggi suntuarie che, codificate nelle XII Tavole, avevano influenzato il carattere delle sepolture nel secolo precedente. Una testimonianza in questo senso può essere riconosciuta nei resti dei corredi pertinenti a tombe ritrovate sul Celio, in via Santo Stefano Rotondo. Si tratta di piccole camere scavate nel banco tufaceo, dalla forma rettangolare, entro cui sono stati ritrovati, in condizioni più o meno frammentarie, sarcofagi in peperino privi di decorazioni, tra i quali uno di dimensioni decisamente monumentali; sulle casse dovevano essere dipinti tituli almeno con in nomi dei defunti. Il rango aristocratico degli ignoti proprietari del sepolcro è testimoniato dal corredo ritrovato all’interno del sarcofago più grande e da alcune raffinate terrecotte con evidenti tracce di policromia, sfuggite fortunosamente al saccheggio, con ogni probabilità appliques decorative di un qualche oggetto ligneo: databili negli anni finali del IV secolo a.C., raffigurano geni alati caratterizzati da un’impostazione monumentale della figura, un busto femminile emergente da una foglia di acanto e, in un chiaro simbolismo di salvazione ultraterrena, quadrighe che, condotte da nikai, solcano le acque marine fantasticamente simboleggiate da un tritone con doppia coda anguiforme.

Ricostruzione assiometrica del Mausoleo degli Scipioni (in F. COARELLI, Rom – Ein archäologischer Führer. Neubearbeitung von Ada Gabucci. Zabern, Mainz 2000)

A Roma le prime testimonianze archeologiche certe di sepolcri gentilizi risalgono al IV secolo a.C.: si tratta di tombe a camera scavate per lo più nella roccia e formate da uno o più ambienti collegati da gallerie, come nel caso del sepolcro dei Cornelii, intercettato negli anni cinquanta del secolo scorso durante la costruzione di un cavalcavia su via Marco Polo. Non è più ben percepibile l’aspetto originario della tomba, ricavata nel pendio tufaceo che scende verso la valle del fiume Almone, a una certa distanza dalle mura serviane, nei pressi di un importante asse viario: costruita forse già nella prima metà del IV secolo a.C., ebbe un periodo di utilizzo che non è possibile determinare, ma che comunque copre tutto il secolo, mentre è invece certo che nel I secolo d.C. il monumento non era più in funzione. L’ingresso alla tomba non è stato rintracciato, ma piuttosto che un semplice accesso nel banco di roccia si può ipotizzare una facciata con un paramento di blocchi di pietra squadrati, come nel sepolcro dei Furii a Tusculum, databile al IV secolo, quando la città ricevette la cittadinanza romana. Tra i materiali ritrovati durante  gli scavi della tomba dei Cornelii spiccano il coperchio di un sarcofago appartenuto a un Cornelio Cn(aei) f(ilius) e la cassa del sarcofago del pontefice massimo P. Cornelius Scapola, entrambi conservati nei Musei Capitolini (ora Centrale Montemartini). Il coperchio in peperino è conformato a tetto displuviato con tegole e coppi e, su ciascun lato, compaiono sei antefisse decorate da motivo vegetale; sul geison corre un fregio costituito da palmette, boccioli e fiori di loto, mentre le testate sono veri e propri frontoncini con un acroterio a disco sovrastante due ippocampi, affrontati ai lati di un grande fiore a campanula. I confronti di tali elementi decorativi con materiali provenienti dall’Etruria e dalle città laziali, in modo particolare Palestrina, hanno indirizzato verso una datazione intorno alla metà del IV secolo a.C. Il sarcofago di Scapola era realizzato in una pietra bianca travertinoide e, in antico, doveva essere interrato per circa venticinque centimetri, l’unica decorazione è rappresentata da due paraste rastremate verso l’alto che, sormontate da capitelli ionici, incorniciano lateralmente la fronte della cassa entro cui compare inciso il nome del defunto, forse da identificare con Publio Cornelio Scapola, console nel 328 a.C.

È stato più volte sottolineato come la costruzione della via Appia nel 312 a.C. abbia determinato l’ubicazione dei monumenti funerari di alcune delle più eminenti famiglie aristocratiche di Roma, prima fra tutte quella dei Cornelii Scipiones, fautrici di una politica di espansione verso il Mezzogiorno ellenizzato, con cui probabilmente intrattenevano interessi di varia natura (Zevi); non sarà casuale, pertanto, che altre importanti gentes dell’epoca (Metelli, Servilii, Atilii) avessero eretto i loro monumenti sepolcrali nella medesima zona (Cicerone, Tuscolanae, I 7, 13). Come informano alcune fonti letterarie, in particolare Cicerone e Livio, il sepolcro dei Corneli Scipiones sorgeva fuori la Porta Capena e, fin dal 1614, ne furono individuati i resti in una vigna sulla sinistra delle via Appia, lungo un diverticolo che la collegava con la via Latina. Nel 1780 i fratelli Sassi, proprietari della vigna, “riscoprirono” il monumento e condussero scavi purtroppo devastanti: in pochi mesi l’area venne indagata, recuperando il corredo epigrafico che ancora si conservava, ma in molti casi distruggendo sarcofagi intatti, disperdendo i resti ossei e altri oggetti mobili, nonché alterando fortemente anche l’aspetto delle cripte. Nel 1880 il monumento divenne proprietà dello Stato e durante gli anni venti del Novecento fu interessato da un profondo intervento di scavo e restauro guidato da A.M. Colini; in seguito a tali indagini Italo Gismondi approntò una documentazione grafica che, a tutt’oggi, rimane lo strumento di studio più attendibile.

Per una descrizione del sepolcro possiamo ricorrere alle parole di Antonio Nibby: «Ivi [lungo la via Appia, n.d.r.] forse era un predio avito della famiglia la quale profittando della rupe tufacea del colle aprì una specie di latomia, e dopo aver estratto le pietre formò in questa il sepolcro […]. Questa latomia aveva una certa regolarità, poiché riducevasi a un quadrato la cui volta naturale era retta da quattro enormi piloni: più larga era la via in mezzo, come quella per la quale introducevansi i sarcofagi…» (Roma nell’anno 1838, pp. 563 sgg.). In effetti la planimetria del monumento appare di forma quasi quadrata, pari all’incirca a 14,50 metri di larghezza per 13,50 metri di lunghezza, articolata all’interno in diversi settori individuati dai quattro pilastri risparmiati nella roccia e che hanno la funzione di sostenere la volta; risultano così quattro gallerie perimetrali ai lati e due che si incrociano ortogonalmente al centro. Successiva appare invece la costruzione di un’ulteriore galleria, così riteneva anche Nibby, sulla quale torneremo più avanti.

L. Cornelio Silla. Busto, marmo, I sec. d.C. München, Glyptothek.

Dalla camera ipogea provengono i materiali più antichi e le iscrizioni di età repubblicana conservateci corrispondono a nove deposizioni, di certo un’esigua parte rispetto a quella originariamente lì contenuta: è stato calcolato infatti che tra frammenti ancora in situ e tracce delle nicchie destinate a contenerne altri, dovevano trovarvi posto non meno di trentadue o trentatré sarcofagi (Coarelli). Il sarcofago qualitativamente più nobile, quello di L. Cornelius Scipio Barbatus, console nel 298 a.C., vincitore dei Sanniti e morto con ogni probabilità negli anni settanta del III secolo a.C., fu ritrovato nel 1780 ancora collocato nella sua nicchia al centro della parete di fondo, perfettamente in asse con l’ingresso antico. L’imponente arca in peperino ha la foggia di un grande altare; il coperchio è decorato lateralmente da pulvini desinenti in foglie acantiformi, mentre la cassa presenta in alto un coronamento di tipo architettonico con una cornice a dentelli e un fregio dorico con triglifi e metope decorate da rosette. Rispetto ai sarcofagi del sepolcro dei Cornelii, di poco anteriori, pienamente rispondenti alla tradizione etrusco-laziale del sarcofago a forma di casa, quello del Barbato allude nella foggia e nelle decorazioni agli altari greci, in particolare sicelioti. Il titulus in versi saturni del fondatore del sepolcro, inciso sulla fronte della cassa, recita: «Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Gneo, uomo forte e sapiente, il cui aspetto fu in tutto pari al valore, fu console, censore, edile presso di voi. Prese Taurasia e Cisauna nel Sannio, assoggettò tutta la Lucania e ne portò via ostaggi». L’elogio attribuito al capostipite della gens, al quale spetta di diritto il rango eroico, rivela un’allusione a un modello greco per cui la bellezza fisica eguaglia il valore (quoius forma virtutei parisuma fuit); tuttavia la grafia non sembra compatibile con la data della morte del Barbato ed è stato dunque ipotizzato che l’iscrizione sulla cassa, con versi forse in parte ripresi dalla laudatio funebris del personaggio, sia stata incisa solo verso la fine del III secolo. Le sepolture più antiche, quelle di Scipione Barbato e del figlio, sono caratterizzate da sarcofagi monolitici in peperino, le altre più recenti, che appaiono per lo più formate da spesse lastre di tufo dell’Aniene, erano state disposte intorno alla nicchia che ospitava la monumentale disposizione, praticando anche ulteriori cavità nel banco di cappellaccio. Da questa camera ipogea proviene anche il cosiddetto Ennio, una testa in tufo dell’Aniene conservata anch’essa nei Musei Vaticani: probabilmente appartenente a una statua databile verso la metà del II secolo a.C., serba l’effige di un membro della gens, forse un vir triumphalis, per la presenza di una corona di alloro, o, più semplicemente, un giovane Scipione eroizzato post mortem. Per la testa è stata anche proposta la pertinenza a un coperchio di sarcofago con figura giacente, sul modello di quelli etruschi, ma non vi sono altri confronti nel panorama romano contemporaneo e sembra difficile poter ipotizzare la presenza di sarcofagi di questo tipo accanto al monumentale sarcofago-ara di Barbato, che invece, nella tipologia e negli elementi decorativi, esprime chiari accenti greci assunti per il tramite delle colonie d’Italia.

Sarcofago di L. Cornelio Scipione Barbato con iscrizione (ILLRP, 309 Degrassi = ILS, I, 1 Dessau). Nefro, III sec. a.C. Mausoleo degli Scipioni sulla Via Appia.

Intorno alla metà del II secolo a.C. la più antica camera ipogea appariva ormai satura e per questo dovette essere approntata una nuova galleria sul lato verso la via Appia. Sembra possibile ascrivere l’ampliamento del monumento al tempo di Scipione Emiliano che avrebbe provveduto anche alla realizzazione di una facciata architettonica: è in questo momento forse che il sepolcro, sorta di sacrario delle memorie di famiglia, diventa accessibile al pubblico; lo era di certo all’epoca di Cicerone che lo visitò. Nell’alto podio in blocchi di tufo di Grotta Oscura si aprivano gli ingressi al sepolcro, i cui archi erano realizzati in tufo dell’Aniene; al di sopra sorgeva un prospetto in peperino scandito da semicolonne scanalate, ioniche o corinzie, su basi di tipo attico che determinavano una ripartizione della facciata, forse inquadrando nicchie entro le quali alcuni hanno immaginato di poter collocare le statue citate da Livio (XXXVIII 56, 1-4) e raffiguranti Scipione Africano, Scipione Asiatico e il poeta Ennio; quest’ultima era certamente ex marmore (Cicerone, Pro Archia, 22) e dunque si immaginano in marmo, a maggior ragione, anche le altre due. L’identificazione dei ritratti citati dalle fonti è stata oggetto di molteplici dibattiti anche recenti e la proposta di riconoscere, nel cosiddetto Mario e nel cosiddetto Silla (entrambi nella Gliptoteca di Monaco), i due Scipiones ha da ultimo sollevato forti dubbi. Qualche discussione è sorta anche in merito alla loro attinenza al sepolcro. L’assai probabile relazione tra il Tempio delle Tempeste, eretto dal figlio di Scipione Barbato, e la tomba gentilizia fuori Porta Capena, ha indotto a supporre che le statue dei membri più rappresentativi della famiglia potessero essere collocate in sacelli o heroa non coincidenti con il sepolcro (La Rocca) nel quadro di un rapporto tra aedes e tomba familiare, altrimenti attestato nello stesso periodo sia per la gens dei Claudii (tempio di Bellona), sia dei Marcelli (tempio di Honos et Virtus). Va detto comunque che, nel caso degli Scipiones, le fonti (Cicerone utilizza la formula in sepulcro Scipionum e Livio in Scipionum monumento) sembrerebbero riferirsi proprio al monumento funerario. Comunque, poco dopo la metà del II secolo a.C., il sepolcro degli Scipiones veniva dotato di una sorta di scaenae frons che, con la sua monumentalizzazione architettonica di matrice greca (sono gli anni in cui artisti e architetti provenienti dal Mediterraneo orientale operano già da tempo nella città, e tra questi basti ricordare Ermodoro da Salamina attivo a Roma dal 146 almeno fino al 102 a.C.), si sovrappose alla decorazione pittorica del podio la quale, ancora in parte apprezzabile nel suo carattere di autentico “palinsesto”, rispondeva alla tradizione tipicamente romana della pittura storico-trionfale.

Ennio. Testa, tufo dell’Aniene, metà del II secolo a.C. ca. dal Mausoleo dei Cornelii Scipiones. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Una siffatta «trasposizione in linguaggio figurativo dei commentarii che descrivevano le campagne militari» (La Rocca), all’esterno della più antica facciata del sepolcro gentilizio, era funzionale all’affermazione pubblica dello status sociale dei defunti ivi deposti. I resti pittorici occupano una striscia lunga oltre otto metri e alta all’incirca due, si riconoscono almeno cinque strati di intonaco sui quali è possibile intravedere lacerti di raffigurazioni che riconducono a scene di trionfo e di sottomissione di vinti. La conservazione fortemente compromessa degli affreschi non permette di ricostruire pienamente i cicli narrativi, caratterizzati comunque nel complesso da una certa qualità pittorica con punte d’eccellenza in alcuni dettagli superstiti che, databili forse ancora nel III secolo a.C., raffigurano uno scudo e una corazza anatomica resa con raffinate lumeggiature. Certo è che l’antica facciata del sepolcro doveva ricevere continui aggiornamenti decorativi ogni qualvolta veniva lì sepolto un importante personaggio della famiglia, in particolare i viri triumphales, ossia coloro che avevano ricevuto l’onore del trionfo, il più grande concesso a un magistrato romano. La necessità di onorare la memoria dell’illustre defunto imponeva un rinnovamento  delle pitture destinate a evocarne le gesta, esaltando nel contempo, per riflesso, anche i membri viventi della gens, secondo un’ideologia che presiedeva anche alla pompa funebris, episodio centrale nella vita della città, utilizzato dalle famiglie della nobilitas repubblicana per ribadire, al cospetto della collettività, status sociale e ambizioni politiche. Ma se il funerale, pur nella sua impressiva e ideologicamente pregnante scenografia, era episodio destinato a venir dimenticato e a sparire dalla memoria collettiva, perduravano invece i sepolcri, con le loro decorazioni, ben visibili da quanti percorrevano le maggiori strade di accesso alla città.

L’uso di decorare le sepolture con pitture dai soggetti storico-trionfali è altresì attestato a Roma nella necropoli esquilina, e offre l’occasione per introdurre altre tipologie di tomba a camera. Com’è noto, l’area era occupata da un vasto e antichissimo sepolcreto che rimase in funzione fino al I secolo a.C. quando, per iniziativa di Mecenate, tutta la zona fu risanata e convertita ad uso residenziale con l’apprestamento dei celebri horti Maecenatiani. Il ritrovamento dei monumenti funerari medio-repubblicani che qui si vogliono citare avvenne tra il 1874 e il 1876, nei pressi delle chiese di Sant’Eusebio e di San Vito, e costituisce «uno degli episodi più oscuri dell’archeologia romana», inserito com’è nell’ambito dei frenetici e poderosi sbancamenti che, spianando colli e colmando valli – «come se l’estetica di una città moderna dipendesse dalla sua orizzontalità» (Lanciani) – procedevano di parti passo con le speculazioni edilizie postunitarie. Oltre agli ipogei a camera, scavati nel tufo con banconi ricavati nelle pareti e destinati a interi nuclei familiari, si evidenziano infatti alcuni “sepolcri singolari”, tombe a camera di pianta rettangolare di dimensioni ridotte, emergenti quasi totalmente dal terreno e destinate probabilmente a deposizioni individuali. L’eccezionalità di queste sepolture è comprovata dalla presenza, almeno in due casi, di decorazioni pittoriche nonché dalla loro ubicazione nella zona di massima visibilità della necropoli, subito fuori la Porta Esquilina, a nord della via Labicana, ossia nel campus Esquilinus. Questo luogo, riservato alle sepolture pubbliche, ospitava anche il lucus Libitinae, un santuario suburbano dedicato a (Venere) Libitina, divinità tutelare delle cerimonie funebri, nel cui tempio era custodito l’apparato necessario ai funerali solenni.

Planimetria dei ritrovamenti della Necropoli dell’Esquilino (di G. Pinza, 1907).

Risulta piuttosto complesso ricostruire il reale aspetto di questi monumenti, uno dei quali, rintracciato tra le odierne via Carlo Alberto e via Rattazzi, ha restituito un frammento di intonaco dipinto, vero e proprio incunabolo delle pittura romana. Due personaggi, indicati nel dipinto con i nomi di M. Fannius e di Q. Fabius, compaiono in scene organizzate su più registri sovrapposti: i due s’incontrano davanti alle mura di una città e al cospetto dell’esercito, nell’ultimo registro appaiono in combattimento, l’uno in toga e l’altro in armi. Molteplici sono state le ipotesi proposte: potrebbe trattarsi degli episodi conclusivi di una delle guerre sannitiche con la resa di Marco Fannio al generale Quinto Fabio Rulliano, console per cinque volte tra il 322 e il 295 a.C., o al di lui omonimo figlio Quinto Fabio Gurges, console nel 292 e nel 276 a.C. (Coarelli), interpretazione che non solo attribuirebbe le titolarità del sepolcro a uno dei due personaggi citati, ma che suggerirebbe un’attribuzione al celebre Fabio Pittore, perché nel 303 a.C. aveva affrescato la cella del tempio votato a Salus, da C. Iunius Bubulcus qualche anno prima, nel corso della seconda guerra sannitica. Altri ha invece pensato di riconoscere la consegna di una hasta pura, sempre nel quadro delle guerre sannitiche, da parte di Q. Fabius a M. Fannius, valoroso soldato che, appartenente a una gens plebea ufficialmente nota solo a partire dagli anni ottanta del II secolo a.C., si sarebbe distinto durante le campagne militari, meritando prima l’onore della massima onorificenza militare e poi quello della sepoltura pubblica (La Rocca). Al di là delle varie interpretazioni, l’affresco, pur nella sua immediatezza espressiva, mostra dipendenze da modelli ellenistici nella tecnica pittorica “a macchia” e nella ricchezza dei dettagli, resi tramite efficaci lumeggiature a pennello. Più dubbia è l’esatta collocazione della pittura nel sepolcro: le notizie purtroppo esigue accennerebbero a un ritrovamento all’esterno, ma nella storia degli studi il dato non sembra aver riscosso troppo credito.

Fregio storico. Affresco, 300-280 a.C., dalla Tomba dei Fabii (Necropoli dell’Esquilino). Roma, Centrale Montemartini.

Apparteneva di certo a un trionfatore il vicino sepolcro “Arieti” (dal nome del suo scopritore) che con quello dei Fabii condivide le vicende della scoperta; in questo caso soccorrono però una documentazione di scavo più circostanziata e un acquerello che, eseguito prima del distacco delle pitture, risulta fondamentale per ricostruire la sequenza. Rinvenuto all’angolo tra le odierne via Napoleone III e via Rattazzi, il sepolcro si presentava come una camera di pianta rettangolare costruita in blocchetti di peperino e dalle dimensioni molto simili a quelle della tomba dei Fabii (5,50 x 3 metri, contro i 5 x 3,50 metri, anche se ricostruzioni recenti darebbero misure maggiori); il pavimento era costituito da lastre di peperino, le pareti poggiavano su uno zoccolo modanato e, superiormente, presentavano un coronamento di lastre di peperino un poco aggettanti (circa sei centimetri). Secondo l’acquerello ottocentesco si riconosce una scena di combattimento con guerrieri a piedi e a cavallo, posta «sul muro esterno accanto alla porta d’ingresso della tomba» (Talamo), mentre all’interno si dovrebbe invece immaginare il frammento pittorico, forse situabile al lato della porta, con una figura maschile dalle braccia alzate realizzata con vivido espressionismo e di assai discussa interpretazione, una sorta di telamone (La Rocca) piuttosto che un condannato al supplizio negli inferi (Lanciani), o una crocifissione (Coarelli). Anche la più complessa scena del trionfo, purtroppo oggi in parte dispersa, viene immaginata all’interno e probabilmente si sviluppava su due pareti ad angolo, per una lunghezza di almeno 3,80 metri. La quadriga trionfale era preceduta da sei littori (se ne conservano oggi solo quattro per una lunghezza di 1,55 metri) con il fascio delle verghe, vestiti del sagum rosso: il numero dei littori ha fatto giustamente supporre che il titolare della tomba fosse un pretore. Lo stile pittorico è caratterizzato da un tratto rapido, piuttosto corsivo e con accenti quasi caricaturali, espressione di un pittore “popolare” della metà del II secolo a.C., erede di quel Teodoto ridicolizzato qualche decennio prima dal poeta Nevio perché sugli altari compitali dipingeva come con una coda di bue figure di Lari danzanti. Studi recenti suggeriscono la collocazione all’esterno almeno di parte delle pitture della tomba “Arieti”, elemento che contribuirebbe a conferire a queste tombe individuali il carattere di veri e propri heroa destinati a personaggi cui erano stati conferiti onori del tutto eccezionali.

L’attenzione per la decorazione esterna dei monumenti funerari conosce uno sviluppo tutto particolare nel corso del II secolo a.C. il rifacimento del sepolcro degli Scipiones non costituisce l’unico caso; basti pensare al sepolcro dei Claudii Marcelli, eretto per il conquistatore di Siracusa lungo la via Appia in prossimità del tempio di Virtus da lui stesso voluto, che, intorno alla metà del II secolo a.C., venne ornato con tre statue raffiguranti il console M. Claudius Marcellus, morto nel 148 a.C., suo padre, console nel 196 a.C., e il celebre nonno, fondatore del sepolcro, console per ben cinque volte. Tale intervento suggerisce effettivamente una tripartizione della facciata con una sistemazione simile a quella del sepolcro degli Scipiones, in accordo con il nuovo gusto architettonico di influenza greco-ellenistica.

Nel corso del II secolo tali ascendenze determinarono l’avvio di un nuovo sviluppo delle tipologie architettoniche dei monumenta funerari direttamente proporzionale alla decisa volontà di un’affermazione individuale e non più gentilizia da parte degli esponenti della classe dirigente romana. Il fenomeno va letto in relazione con lo sviluppo delle statue onorarie e non possiamo non pensare, al riguardo, alla notizia di Plinio (Naturalis Historia, XXXIV 31-32) circa l’affollamento di statue nel Foro, tale da provocare l’intervento dei censori Publio Cornelio Scipione e Gaio Popilio (158 a.C.) che ne ordinarono la rimozione, risparmiando solo quelle che erano state erette per decreto del popolo o del Senato. La causa ovviamente va ricercata nel rapido mutamento di valori che interessò la società repubblicana a seguito delle vittorie su Cartagine e via via sui regni ellenistici, che fecero affluire a Roma un’enorme quantità di ricchezze, oltre ad assicurarle il dominio sul Mediterraneo tutto con le ben note conseguenze politiche, sociali e culturali.

Nel 183 a.C. Scipione Africano veniva sepolto a Liternum in un sepolcro all’interno della sua proprietà; Livio (XXXVIII 56, 3-4), che vede il monumento già in rovina, descrive un podio massiccio sul quale un tempo doveva trovarsi la statua stante del vincitore di Zama, forse riparata da una nicchia prostila. Lontano da Roma, Scipione poteva aspirare a un monumento funebre simile a un heroon microasiatico, rompendo decisamente con la tradizione delle tombe gentilizie ancora pienamente attuale nel panorama dell’Urbe, quasi uguagliando un dinasta orientale in questo rapporto tra il sepolcro e la villa-palazzo dove l’Africano risiedeva, anche se Seneca, qualche secolo più tardi, lo avrebbe additato come esemplare modello di morigeratezza.

Ritratto virile con testa calva, noto come “Scipione” (secondo alcuni studiosi rappresenterebbe molto probabilmente un sacerdote isiaco). Busto, bronzo, inizi I sec. d.C. dalla Villa dei Papirii, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Ma gli esempi archeologicamente attestati di veri e propri sepolcri individuali, con i primi timidi inserimenti di probabili elementi statuari, non sono anteriori alla fine del II secolo a.C. e sembrano stagliarsi ancora piuttosto isolati nel paesaggio delle necropoli al di fuori delle porte urbiche. Nei pressi della via Ostiense se ne rintraccia una delle più antiche testimonianze: si tratta del sepolcro di Servius Sulpicius Galba, da attribuire preferibilmente al console del 108 a.C. piuttosto che al di lui padre, console nel 144 a.C., situato accanto agli horrea Galbana nei pressi del porto fluviale. La tomba ha ora l’aspetto di un dado di 2,60 metri per lato: su uno zoccolo a due filari corre una modanatura a cyma reversa e ancora sopra quattro filari di tufo, l’iscrizione compare al centro su un blocco di travertino inquadrata da cinque fasces per lato, simbolo della dignità curule. La notizia del ritrovamento di un frammento di una statua togata seduta di dimensioni al vero, recentemente rintracciato (Ferrea), ha fatto ipotizzare che la tomba fosse provvista originariamente di un’edicola: si tratterebbe di uno dei primissimi esempi di questo tipo di monumento funerario di chiara ascendenza orientale, che avrebbe conosciuto un notevole successo nel corso del I secolo a.C.

Sempre nella zona del Testaccio, ma a una certa distanza a sud del sepolcro di Galba, è testimoniata una delle più antiche tombe in forma di altare, tipologia tra le prime ad essere adottata per monumenti funerari individuali, sia a Roma che nelle colonie. La tomba, ora non più visibile e purtroppo nota solo da una xilografia del XVIII secolo, fu scoperta tra il 1697 e il 1699 e venne subito attribuita alla gens dei Rusticelii grazie all’iscrizione presente su una delle pareti (CIL, VI, 11534). Il monumento, databile negli anni finali del II secolo a.C., è costruito in blocchi di tufo con un basamento modanato e una cornice superiore sormontata da un corto attico piatto; la lontananza da una via sepolcrale e il ritrovamento di altre iscrizioni che menzionano membri della gens hanno fatto supporre che il sepolcro sorgesse all’interno di un predio della famiglia. Questo doveva essere il caso anche del sepolcro di Galba, così vicino agli horrea da lui costruiti da farli ritenere, l’uno e gli altri, compresi entro una stessa proprietà confinante con la via Ostiense, con un affaccio verso il Tevere che ne esaltava la visibilità.

Torre funeraria della famiglia dei Cornelii Scipiones, a Tarragona.

Nel corso del I secolo a.C., le tombe ad altare di tipo greco sembrano divenire a Roma appannaggio della classe media. Ancora entro il primo quarto del secolo possono essere datate la cosiddetta tomba “dorica” e la vicina tomba “dei festoni” (o “a ghirlande”) al quarto miglio della via Appia, il cui aspetto attuale si deve alle ricostruzioni realizzate alla metà dell’Ottocento da Luigi Canina. Il nome della seconda di esse proviene dall’inserimento di un fregio non pertinente, con eroti alati che sostengono festoni, nella struttura a dado in blocchi di tufo, sormontata da una mensa d’altare con pulvini decorati da motivi fitomorfi e da teste di Medusa. Tombe ad altare decorate da fregi dorici si diffondono rapidamente nei centri italici più titolati, a partire dagli anni immediatamente successivi alla Guerra Sociale, divenendo quasi un segno distintivo dell’orgoglio municipale; non è casuale che a Pompei tale tipologia fu scelta per il sepolcro in blocchi di tufo di M. Porcio, duoviro della colonia e probabile triumviro della deductio sillana. Da tempo è stata infatti sottolineata la grande diffusione di tale tipologia e del motivo decorativo del fregio con triglifi e metope, entro cui, oltre ai motivi più consueti di rosette, bucrani e protomi taurine, possono comparire soggetti figurati più vari (armi, navi, delfini, ecc.) forse allusivi alla vita e alla carriera del defunto.

Una categoria importante, per le tipologie dei monumenti funerari individuali, è rappresentata da quelli a edicola di chiara derivazione ellenistica, la cui prima attestazione letteraria è forse costituita dal già citato sepolcro di Scipione a Liternum, e che, ancora nella prima metà del I secolo a.C., sembrano diffusi soprattutto in ambito extraurbano, sovente apprestati dai notabili della tarda repubblica in praedia di loro proprietà. Gli elementi dell’alto zoccolo e dell’edicola soprastante sono sempre presenti, ma, tra la tarda età repubblicana e il I secolo d.C., la tipologia funeraria conoscerà un’evoluzione e una sperimentazione tali da produrre innumerevoli e impressive varianti, in una moltiplicazione di piani e di nicchie dai disegni architettonici sempre più articolati e arricchiti da una molteplice varietà di elementi scultorei.

Uno degli esempi certi più antichi a Roma è riconosciuto nella tomba edificata dal Senato verso il 70 a.C. all’edile Gaio Poblicio Bibulo honoris virtutisque caussa, lungo la via che usciva per la porta Fontinalis ai piedi del Campidoglio. Su un alto basamento è costruita una cella rettangolare, della quale rimane ora solo la facciata con un’apertura inquadrata da quattro lesene tuscaniche; sulla trabeazione correva un fregio con ghirlande, bucrani e rosette. È probabile che la statua di Bibulo fosse al centro della facciata, ma la decorazione architettonica è ancora preponderante su quella statuaria e il messaggio celebrativo è affidato all’iscrizione che campeggia a grandi lettere sul prospetto e sui lati del basamento e che denuncia l’eccezionalità dei meriti del defunto al quale fu concesso un sepolcro pubblico. Gradualmente, l’architettura di coronamento – dapprima assolutamente scenografica di per sé, si pensi alla pompeiana tomba delle Ghirlande, che già presenta alcuni elementi architettonici realizzati eccezionalmente in marmo – viene animata dalla decorazione statuaria, che assume un ruolo via via preponderante. Il proliferare dei piani con nicchie ed edicole, il cui più antico modello va ricercato negli heroa ellenistici d’Asia Minore che sintetizzano i sepolcri-torre e i monumenti a naiskos della Licia, diverrà con il tempo assolutamente funzionale alla possibilità di esporre le statue ritratto dei defunti. Uno degli esempi più antichi e, allo stesso tempo, monumentali, è riconosciuto nel cosiddetto monumento di Pompeo sulla via Appia, nei pressi di Albano; ne rimane solo il nucleo cementizio, ma originariamente il sepolcro era suddiviso in quattro piani che dovevano raggiungere l’altezza di quasi trenta metri. Per avere un’idea, seppur più contenuta, dell’aspetto di questi monumenti bisogna scendere verso l’età augustea e il I secolo d.C. e spostarci nei municipi italici (Sarsina, Pompei, Aquileia) e provinciali che ne conservano quasi intatti alcuni straordinari esempi (sepolcro degli Iulii a Saint-Rémy, tomba di Poblicius a Colonia).

Iscrizione funeraria. Sepolcro di C. Poblicio Bibulo. 70 a.C. ca., presso il Campidoglio, Roma (CIL VI 1319).

Nella regione gravitante attorno alla via Aemilia, che offre importanti testimonianze di monumenti funerari già dai primi anni del I secolo a.C. (ante 90 a.C.) con i sepolcri a dado coronati da fregio dorico appartenuti agli Ovii e ai Maecii della colonia di Ariminium, si mantengono a Sarsina sepolcri a edicola in ottimo stato di conservazione. In particolare è da ricordare il sepolcro di Aefonius Rufus, ora integralmente ricostruito nel locale museo, che raggiunge i tredici metri di altezza. Esso è composto da tre distinti corpi: un dado per basamento, incorniciato da un fregio dorico e da un meandro entro i quali corre l’iscrizione; al centro compare una struttura a forma di tempietto tetrastilo corinzio, con un fregio a racemi di acanto che corre sulla trabeazione e una serie di statue previste a decorare gli intercolumni: uomini in toga, orgogliosi di mostrare la cittadinanza acquisita e l’elevato rango sociale ed economico raggiunto, e donne che, nella postura dei più frequenti tipi iconografici, come quello detto della Pudicitia, sfoggiano le pettinature dell’epoca. La copertura è costituita da un’alta cuspide affiancata da sfingi, a guardia del sepolcro, sormontata da un capitello corinzio che sorreggeva un finto vaso cinerario.

Nella tarda età repubblicana si diffondono a Roma le tombe a tumulo costituite da un poderoso basamento circolare, all’interno del quale era ricavata la camera funeraria, e da un cono di terra che su questo sorgeva e che aveva la funzione di un vero e proprio segno territoriale. La rinnovata diffusione di questo genere di sepoltura, che ha ben noti precedenti sul suolo italico, si deve probabilmente a Silla che, sappiamo, fu sepolto in un tumulo nel Campo Marzio (Lucano, Farsalia, II 222), area in quell’epoca riservata ai monumenta dei cittadini romani più illustri e degni. La struttura non aveva forse un carattere di particolare monumentalità e l’eccezionalità della sepoltura dovette essere sottolineata dal rito della cremazione (inusitata nella gens Cornelia che usava inumare i propri defunti) e che, a detta di Plutarco (Vita di Silla, 38) raggiunse livelli di estremo sfarzo.

Mausoleo detto ‘Torrione Prenestino’, fine I sec. a.C. – inizi I sec. d.C., sulla via Praenestina.

La più antica delle grandi tombe a tamburo, archeologicamente attestata, può essere riconosciuta nel Torrione “Micara” sulla via Tuscolana nei pressi di Frascati. Il suo diametro raggiunge quasi i trenta metri, pari all’incirca a quello dei più tardi mausolei di Cecilia Metella e di Casal Rotondo, attribuito a L. Aurelio Cotta, e di circa dieci metri inferiore al gigantesco “Torrione” di età augustea sulla via Prenestina. La struttura, costituita da blocchi di peperino (ma nelle camere funerarie all’interno i muri sono rivestiti in mattoni), sembra databile ancora entro la metà del I secolo a.C.; l’eccezionalità delle sue dimensioni, unita alla notizia – confermata da ritrovamenti epigrafici – di una vasta proprietà dei Licinii Luculli nella zona, ha permesso l’identificazione dell’edificio con il sepolcro di Lucullo, morto nel 57 a.C. Tra la fine della repubblica e l’età augustea questo tipo di monumentum ebbe grande diffusione; esso fu probabilmente utilizzato per la tomba di Giulia, figlia di Cesare sposa di Pompeo, morta nel 54 a.C. (Plutarco, Vita di Cesare, 23, 7; Vita di Pompeo, 53, 6), come per il sepolcro sulla via Praenestina di L. Cornelius, architetto di Q. Lutazio Catulo. In età augustea, oltre ai già citati esempi, si ricordano la tomba del praefectus fabrum Lucilio Peto e sua sorella Polla, sulla via Salaria, databile agli ultimi anni del I secolo a.C. e il sepolcro del generale cesariano C. Munatius Plancus, esaltato nella sua visibilità dalla collocazione in cima al panoramico monte Orlando a Gaeta. Nel corso del I secolo a.C. si moltiplicarono dunque soluzioni sempre più scenografiche e caratterizzate da dimensioni gigantesche, tra queste anche i sepolcri con alzato a forma di meta, che appaiono circoscritti alla seconda metà del I secolo a.C., meritano una breve menzione, se non altro per l’appartenenza alla categoria di uno dei monumenti che maggiormente tuttora distinguono il paesaggio della città di Roma. La piramide Cestia sulla via Ostiense, tomba di C. Cestio, pretore nel 44 a.C., si appoggia su una fondazione in opus caementicium e in blocchi di travertino ed è completamente rivestita in marmo di Carrara. La base misura cento piedi romani e si sviluppa per un’altezza di 36,81 metri, all’incirca centoventicinque piedi romani; il suo apparato decorativo prevedeva colonne ai quattro angoli e statue sulla facciata.

Mausoleo di Cecilia Metella, via Appia (foto d’epoca di G. Sommer).

Come abbiamo visto, molteplici sono le soluzioni adottate dai rappresentanti della vecchia e nuova aristocrazia per sepolture individuali, che dobbiamo immaginare sorgere ancora piuttosto isolate lungo le principali vie di accesso alla città, in casi particolari nell’area del Campo Marzio o entro i limiti di praedia privati, in zone comunque ben visibili e accessibili. Fin dai primi decenni del I secolo a.C. il paesaggio delle necropoli romane comincia ad arricchirsi anche dei sepolcri destinati alle famiglie di origine liberta che, con l’adozione di tipologie ben precise, interverranno a mutare non poco il paesaggio suburbano. Celebri quelli di via Statilia, nei pressi dell’antico asse viario del Celio, che costeggiano in una sequenza di facciate la via sepolcrale. Il più antico appartiene a un P. Quinctius, liberto di un Titus: al centro del prospetto si apre una porta ai lati della quale si riconoscono scudi oplitici, subito sotto il suo coronamento appaiono blocchi di travertino scolpiti a busto, che sembrano quasi rammentare gli abitanti di una casa affacciati alla finestra. Questi rilievi con mezzi busti di togati e di matrone velate, a volte ritratti nella dextrarum iunctio, invaderanno di lì a poco le necropoli dell’Urbe e dell’Italia tutta, caratterizzando i sepolcri della “middle class” romana tra la tarda repubblica e l’età giulio-claudia. L’ideologia della celebrazione familiare è decisamente lontana per questa classe di particolari “cittadini”, che compone il cuore pulsante della società economica dell’epoca con i loro mestieri di imprenditori, commercianti, artigiani, ecc. I liberti non hanno un passato da celebrare, la loro fortuna è tutta giocata nel presente, la loro esistenza dipende dal sospirato raggiungimento della dignità civica, che orgogliosamente enunciano mostrandosi in toga, l’abito dei cittadini romani. Tra i più impressivi monumenti funerari collettivi va annoverata la cosiddetta tomba dei Flavi di Porta Nocera a Pompei. Nella facciata in opera incerta, che giustamente è stato detto sembrare una fedele riproduzione degli appartamenti d’affitto (cenacula), si apre al centro un passaggio a fornice; al di sopra, un poco arretrato, compare una sorta di attico entro il quale si dispongono otto nicchie che ospitavano in antico altrettanti busti ritratto, realizzati in tufo e recanti i nomi dei defunti. Il tipo di sepolcro non ha alcun precedente in Campania ed è certamente un portato dei liberti dei coloni romani; in particolare quello dei Flavi costituisce uno degli esempi più antichi, databile verso il 70 a.C.

Mausoleo di Lucilio Peto, fine I secolo a.C., sulla via Salaria.

Questo rapido excursus si arresta ai limiti del principato augusteo, l’ascesa di Ottaviano avrebbe infatti decisamente stravolto l’assetto dello Stato repubblicano. Il clima delle ambiziose lotte politiche che, nel corso degli ultimi decenni della repubblica, aveva prodotto significativi risvolti sul piano delle autocelebrazioni, anche in contesti funerari, era decisamente tramontato. La drastica riduzione della possibilità di accedere a ruoli politici effettivi e un generale livellamento delle personalità,  che non fossero quella del princeps e dei membri della sua famiglia e di un ristretto entourage, sembrano condurre verso una graduale,  ma inarrestabile, normalizzazione e cristallizzazione dei monumenti funerari. Questi si arricchiscono certo grazie all’impiego quasi generalizzato del marmo e all’uso più diffuso della decorazione statuaria, con i noti rilievi “a cassetta” e i busti funerari nelle nicchie delle facciate dei colombari, ma il graduale processo di affastellamento dei sepolcri, registrato nelle necropoli suburbane di età augustea, va di pari passo con una certa omologazione del paesaggio funerario. Del resto non era pensabile rivaleggiare con la smisurata mole sepolcrale che Ottaviano, fin dagli esordi della sua ascesa al potere, cominciò a progettare e a costruire nel Campo Marzio, nell’ambito di un articolato e complesso sistema di rimandi monumentali e simbolici che, di fatto, rendevano il princeps l’unico protagonista di questa area, un tempo destinata anche ai publica sepulcra. Il gigantesco Tumulus Iuliorum, incastonato fra la via Flaminia e il Tevere, sulle cui acque doveva specchiarsi e allo stesso tempo incombere, inaugurava un clima di apoteosi dinastica che avrebbe annullato qualsiasi tipo di competizione.

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Brixia. Storia della città romana

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Tito Livio menziona Brescia e Verona come i principali insediamenti della popolazione dei Cenomàni, di origine celtica; Plinio il Vecchio aggiunge alle prime due anche Cremona; per il geografo Tolomeo il dominio dei Cenomàni si estendeva fino a Bergamo, Mantova e Trento. Il nome di Brescia (lat. Brixia) deriva da *brig-(e)s-ia (dalla radice, probabilmente ligure, bric-, «montagna tagliata a picco»). Altri nomi di centri della Gallia Cisalpina hanno la stessa etimologia: ad esempio, Brixellum (Brescello). Brescia è nota alle fonti letterarie, a partire dal I secolo a.C., come caput Cenomanorum («capitale dei Cenomàni»), sorta nelle vicinanze del fiume Mella; per Catullo essa è la «città madre» di Verona. È molto probabile che l’insediamento cenomàno fosse situato in posizione elevata (sul colle Cidneo) ma non si può escludere che si estendesse anche nel piano, come lasciano immaginare materiali di scavo di età preromana rinvenuti nell’area del foro, allora forse adibita a mercato. Prima che i Bresciani ricevessero, nell’89 a.C., il diritto latino e lo statuto di colonia, venendo così assimilati alle popolazioni latine e instaurando rapporti privilegiati con Roma (come si dirà più avanti), la storia di Brescia coincide sostanzialmente con la storia dei Cenomàni. Successivamente, la rapida e intensa romanizzazione della Cisalpina favorì la completa integrazione delle popolazioni di origine celtica e dei tanti immigrati di origine romana e italica che si erano insediati sul territorio padano. L’appartenenza originaria alla stirpe celtica rimase ancora evidente nell’onomastica degli indigeni e nei culti religiosi, sebbene le divinità celtiche subissero anch’esse un processo di romanizzazione attraverso l’attribuzione di caratteristiche proprie di divinità romane (la cosiddetta interpretatio romana).

Vittoria Alata. Statua, bronzo, I sec. d.C. da un’intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. Giulia.

 

I primi rapporti fra Romani e Cenomàni.

Lo storico Polibio racconta che nel 225 a.C. Veneti e Cenomàni accolsero di buon grado l’alleanza che veniva offerta loro dai Romani, prossimi a impegnarsi nella guerra contro le popolazioni galliche dell’Italia settentrionale. Questa alleanza, conclusa da parte romana per motivi strategici e dai Cenomàni nella speranza di estendere il loro dominio fino all’Adda a danno degli Insubri, stanziati più a occidente, costituisce il più antico rapporto di collaborazione fra Celti e Romani di cui si abbia notizia sicura. La successiva vittoria romana consentì ai Cenomàni di conseguire i vantaggi sperati: l’ampliamento del loro territorio e l’accrescimento del loro prestigio presso le popolazioni della Cisalpina e delle valli alpine. Per consolidare la conquista territoriale nel territorio gallico i Romani dedussero, nel 218 a.C., le colonie di Piacenza e di Cremona, una al di qua l’altra al di là del Po, entrambe di diritto latino (i coloni che ne facevano parte assumevano tutti lo status giuridico dei Latini). Questa decisione di stanziare dei coloni – sostanzialmente dei soldati, secondo la concezione che avevano i Romani di colonia – provocò reazioni negative presso le popolazioni della Cisalpina e anche presso i Cenomàni, nonostante i buoni rapporti che intercorrevano con Roma.

Alimentarono il malcontento delle popolazioni della Cisalpina emissari del cartaginese Annibale, che si preparava a portare la guerra in Italia e che sperava di ottenerne l’appoggio. I Cenomàni inizialmente rimasero fedeli a Roma, poi si staccarono da essa, senza tuttavia ribellarsi apertamente.

Statere cenomane. Ar. 7,40 gr., fine II sec. a.C. Recto: testa laureata maschile voltata a destra.

L’alleanza con Roma.

Fu alla fine della guerra annibalica, nel 201 a.C., che i Cenomàni, unite le loro forze a quelle degli altri popoli della Cisalpina, assalirono Piacenza, che fu conquistata, e Cremona, che invece resistette. Le operazioni militari condotte dai Romani in Cisalpina si conclusero con la vittoria definitiva su Insubri e Cenomàni nel 197. Questa data segna l’inizio di una stretta e leale collaborazione dei Cenomàni (e degli Insubri) con Roma, avviata e facilitata dalle miti condizioni di pace applicate dai vincitori. I Romani, contrariamente al loro costume, lasciavano integro il territorio delle popolazioni vinte, ne rispettavano la costituzione interna di carattere tribale e territoriale, consentivano di avere proprie forze armate e non imponevano alcun tributo. A cambiare in maniera definitiva le prospettive dei rapporti fra Roma e i Cenomàni fu, però, il formale trattato di alleanza (foedus) che i Romani conclusero con loro dopo il 194, facendoli passare allo stato di alleati (socii foederati). Si trattava degli alleati più settentrionali di Roma, ai quali era delegato il compito, assai delicato e strategicamente della massima importanza, di controllare ed eventualmente di affrontare le popolazioni settentrionali, sia quelle delle valli alpine, ancora primitive e dedite alla rapina, sia quelle che avrebbero potuto attraversare i valichi alpini e penetrare in Italia. Stava qui, probabilmente, la ragione di tanta benevolenza romana nei loro confronti.

 

La romanizzazione del territorio e la concessione del diritto latino (89 a.C.).

Ricostruire le vicende storiche dei Galli della Cisalpina (quindi dei Cenomàni e di Brescia, in particolare) è reso molto difficile dal completo silenzio delle fonti, soprattutto letterarie, intorno agli avvenimenti di quasi un secolo: fra il 187 e l’89 a.C. Il processo di romanizzazione, al quale le popolazioni della Cisalpina aderirono senza resistenze, maturò nel corso del II secolo a.C., favorito da scambi commerciali sempre più intensi, resi più facili dalle vie di comunicazione fluviali e lacuali e dalla costruzione di strade che univano Roma al settentrione della penisola (via Aemilia) e il mar Tirreno con l’Adriatico (via Postumia). Lungo queste vie di comunicazione transitavano eserciti in marcia ma anche mercanti di provenienza per lo più romana e italica; la vivacità dell’artigianato locale, la fertilità della terra e la bellezza naturale del territorio attiravano nuove presenze, soprattutto dall’Italia centrale e meridionale, e incoraggiavano l’impiego di capitali in attività agricole e commerciali. In questo modo, non appena si fu consolidata la presenza romana sul territorio, singoli o piccole comunità vi si stabilirono in forma definitiva. Il processo di romanizzazione ricevette ulteriore impulso nell’89 a.C. con la concessione del diritto latino (ius Latii) alle comunità italiche alleate – quindi anche ai Cenomàni – rimaste fedeli a Roma durante la guerra sociale (91-89 a.C.). Il diritto latino avvicinava alla cittadinanza romana e comportava dei vantaggi, consistenti soprattutto in alcuni diritti, come quello di trasferirsi a Roma e di diventarne cittadini col permesso dei censori.

Brixia ricevette anche lo statuto di colonia latina, sebbene non venisse effettuata alcuna deduzione di coloni: si trattava, nella realtà, di una finzione giuridica che conseguiva lo scopo di rendere capillare la romanizzazione del territorio italico. Allo statuto di colonia latina dovette seguire la centuriazione del territorio, cioè la suddivisione in lotti. Essi erano delimitati da linee ortogonali tra loro e seguivano un orientamento predeterminato (aderente all’orografia e all’idrografia del territorio). La suddivisione del terreno che risultava, dal caratteristico aspetto a reticolo, era regolare e veniva registrata in un catasto (forma). La centuriazione comportava opere di bonifica e diboscamento e conferiva al paesaggio un aspetto nuovo e ordinato che, per il territorio degli Insubri e dei Cenomàni (e, in generale, per la Gallia Cisalpina), è sostanzialmente quello attuale (nonostante le profonde alterazioni subite, soprattutto negli ultimi cinquant’anni). Essa portava con sé un incremento della produzione agricola e perciò del benessere economico.

Sul territorio bresciano vennero operate ben tre centuriazioni, in tempi successivi: l’ultima quando Brixia divenne colonia civica Augusta (prima dell’8 a.C.). Risale certamente al tempo dell’acquisizione del diritto latino l’organizzazione del diritto latino l’organizzazione urbana della città secondo un impianto costruttivo tipicamente romano, riconoscibile ancor oggi. Anche il santuario tardorepubblicano, del quale rimangono importanti resti sotto il capitolium di età flavia che domina l’area del foro, risale alla prima metà del I secolo a.C. (ma scavi recentissimi hanno accertato l’esistenza di un precedente edificio santuariale risalente al II secolo a.C.) ed è probabile che al I secolo a.C. risalga anche la prima cinta muraria edificata a difesa della città.

Ricostruzione assiometrica dell’area del foro romano, a Brescia.

 

Dal diritto latino al conseguimento della cittadinanza romana (49 a.C.).

Al tempo della guerra civile tra Mario e Silla (88-82 a.C.) anche alla Gallia Cisalpina non furono risparmiati saccheggi e rovine. Dall’82-81, quando divenne provincia (Gallia Cisalpina), e fino al 42 a.C., quando il governo provinciale venne abolito da Ottaviano ed essa entrò a far parte del territorio italico, la Cisalpina fu governata militarmente da un magistrato romano, con grave limitazione dell’autonomia amministrativa della quale aveva goduto ampiamente fino a quel momento.

Nel 49 a.C., per la lex Roscia, tutti i Traspadani erano diventati cittadini romani. Promotore della concessione della cittadinanza fu Gaio Giulio Cesare. Egli aveva stabilito un rapporto di stretta collaborazione e di piena intesa con le élites della Transpadana, dalle quali aveva ottenuto l’appoggio necessario per continuare con successo la conquista gallica. Il legame con Cesare, nipote di Gaio Mario, e la presenza nella Transpadana di esuli mariani provenienti dall’Italia centrale, soprattutto dall’Etruria, alimentarono i sentimenti filo-cesariani, divenuti filo-ottavianei al tempo della guerra civile seguita all’uccisione di Cesare. È significativo che, ricevuta la cittadinanza, i Bresciani fossero ascritti alla tribus Fabia, a quanto pare la stessa del dittatore. Ai centri urbani della Transpadana, ora abituati da cittadini romani, venne dato lo statuto municipale (i cittadini erano detti municipes, perché si accollavano i munera, cioè i doveri propri dei cittadini). Le comunità locali conservavano la loro autonomia amministrativa ma si assumevano gli oneri dei cittadini romani (tra i quali il servizio legionario). Il governo municipale era tenuto da due quattuorviri iure dicundo (massime autorità locali, con potestà di amministrare la giustizia civile) coadiuvati da due quattuorviri aedilicia potestate (che curavano l’ordine pubblico, il mercato, la condizione delle strade eccetera). Quanto l’Italia settentrionale si fosse ormai integrata culturalmente nell’Italia romana lo testimoniano a sufficienza i personaggi di primo piano, protagonisti della vita letteraria (poesia, storia, biografia, eloquenza, filosofia) del I secolo a.C. provenienti dall’Italia settentrionale: Emilio Macro, Gaio Cassio Parmense, Gaio Cornelio Gallo, Marco Furio Bibaculo, Gaio Elvio Cinna, Publio Quintilio Varo, Gaio Valerio Catullo, Publio Virgilio Marone, Cornelio Nepote, Tito Livio e numerosi altri. Tra il 27 (anno in cui ricevette il titolo di “Augusto”) e l’anno 8 a.C. (termine cronologico fissato in base all’epigrafia) l’imperatore Augusto conferì a Brescia lo statuto ordinario di colonia civica Augusta cioè «colonia di cittadini (romani) fondata da Augusto».

Pietra tombale di Pantagato, servo di C. Terenzio Basso Mefanate Etrusco (Inscr. It. X V 468). Cippo, pietra locale, I sec. d.C. Brescia, Museo di S. Giulia.

 

Brescia, colonia civica Augusta.

Nell’età augustea Brescia colse nuove opportunità di crescita economica e culturale, come è attestato in maniera esauriente dal ricco materiale archeologico ed epigrafico, tra i più vasti ed interessanti dell’Italia settentrionale; quello epigrafico esteso cronologicamente soprattutto tra I e III secolo. Brescia, come si è detto, aveva assunto un importante ruolo strategico sia dal punto di vista economico e commerciale (vie di comunicazione, artigianato ed economia agricola) che politico e militare (avamposto verso le popolazioni e i valichi alpini, amministrazione delle comunità limitrofe e periferiche). La definitiva strutturazione urbana di Brescia risale all’età augustea e sarà ultimata al tempo di Tiberio (14-37 d.C.). Essa, oltre a dare la definitiva impronta di città romana, quale ancor oggi è dato di vedere, fornì alla popolazione bresciana i servizi indispensabili, data l’importanza assunta dalla sua vita associata e il suo sviluppo, organizzandone gli spazi urbani. Testimonianze epigrafiche e archeologiche attestano che il rifornimento idrico necessario era assicurato da un acquedotto che collegava Brescia alla val Trompia; l’acqua rappresentava, naturalmente, la prima esigenza per una città; l’abbondanza di essa consentiva di costruire fontane pubbliche e terme, oltre a garantire una migliore igiene. Forse è da attribuire ad Augusto anche la costruzione della definitiva cinta muraria della colonia, che si sarebbe resa indispensabile per difenderla dalle azioni di brigantaggio e dalle razzie compiute dalle popolazioni delle valli alpine prima di venire sottomesse. Le mura tornarono d’attualità al tempo della successione imperiale dell’anno 69. Plinio il Vecchio attesta esplicitamente l’inserimento di Brixia e del suo territorio (ager Brixianus) nella regio X augustea, allorché Augusto ripartì amministrativamente tutto il territorio dell’Italia in undici regiones.

Ricostruzione della battaglia di Bedriacum (Calvatone), 69 d.C., fra Flaviani e Vitelliani. Illustrazione di S. Ó’Brógáin.

 

Brescia e la società bresciana in età imperiale.

Le lotte sanguinose per la successione imperiale seguite alla morte di Nerone coinvolsero soprattutto la città di Cremona, che «per tre giorni bastò a tutto», racconta Tacito, ma anche Brescia subì di riflesso la sua parte di danni. Dopo la vittoria, Vespasiano incoraggiò la ricostruzione di tutti i centri dell’Italia settentrionale che avevano subito danni e perciò anche Brescia. Le circostanze favorirono una nuova sistemazione urbanistica del foro e degli edifici adiacenti e soprattutto l’edificazione del capitolium, simbolo della grandezza di Roma, dedicato nel 73, sotto il regno di Vespasiano, come ricorda la dedica monumentale, frammentaria. Accanto alle provvidenze imperiali svolse un ruolo importante per la ricostruzione monumentale della città la munificenza dei cittadini bresciani. In età flavia, o poco tempo dopo, ai Camunni venne riconosciuto uno statuto autonomo: essi, infatti, dopo aver costituito la civitas Camunnorum sotto Tiberio ebbero una res publica loro e propri magistrati, e vennero ascritti a una tribù diversa da quella dei Bresciani (la Quirina invece della Fabia).

Fra il II e il V secolo la città e il territorio vennero coinvolti in vicende belliche, ora legate alla successione imperiale ora alle incursioni di popoli barbari: i Marcomanni, ricacciati a fatica da Marco Aurelio e Lucio Vero dopo che ebbero devastato l’Italia settentrionale (166-168); gli Alamanni, sconfitti da Gallieno, Claudio II il Gotico e Aureliano verso la fine del III secolo; gli Unni, che occuparono una dopo l’altra Aquileia, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo, Milano e Pavia, nel 452. Nei primi secoli dell’Impero (I-III) i Bresciani consolidarono il prestigio che si erano costruiti sia in Italia sia all’estero. Le attività commerciali dei suoi cittadini, il formarsi di una nobiltà municipale attiva e competente, la fama di onestà e di probità che circondava i suoi abitanti, come attesta Plinio il Giovane, misero Brescia in particolare evidenza fra le città dell’Impero. Prova di questo è l’ascesa alle più alte cariche dello Stato, attraverso la carriera senatoria, e alle più elevate responsabilità nell’amministrazione dell’impero, attraverso la carriera equestre – soprattutto fra II e III secolo – di esponenti di potenti famiglie bresciane.

L’ampia documentazione epigrafica in nostro possesso ci consente di conoscere la presenza e l’attività dei numerosi collegia attivi a Brixia (sodalizi di spiccato carattere religioso, che offrivano un ambito di amicizia fraterna e provvedevano al funerale degli aderenti). Tra questi, le attestazioni più numerose riguardano il collegium dei fabrii (per lo più tignuarii, cioè «carpentieri»), che provvedevano allo spegnimento degli incendi; compito analogo avevano i dendrophori, il cui carattere religioso (culto di Attis e Cibele) risulta particolarmente accentuato; c’erano poi i centonarii («cenciaioli»), i pharmacopolae publici («farmacisti e speziali»), gli iumentarii («conduttori di bestie da soma»), i praecones («araldi e banditori»). Il culto dell’imperatore era affidato ai seviri Augustales: si trattava, per lo più, di liberti (ex servi) che, disponendo di un discreto patrimonio, si assumevano il compito sentito come il più onorevole. Numerosi anche i culti religiosi praticati nella colonia. Accanto alle divinità tradizionali romane erano venerate divinità di origine celtica già in parte romanizzate, come le Matronae e le Iunones, e altre che conservavano il loro carattere originario, come Bergimus.

Le «Matres de Vertault». Gruppo scultoreo, terracotta, I-II secolo d.C. Vertault, Musée de la civilisation celtique.

 

Gli inizi del Cristianesimo.

L’affermazione del Cristianesimo a Brescia fu sicuramente precoce se la Chiesa era già organizzata tra la fine del II e l’inizio del III secolo, ma il primo vescovo storicamente certo fu Clateo, che risale agli inizi del IV. A quest’epoca risalgono anche le prime testimonianze epigrafiche cristiane della città. La penetrazione del Cristianesimo nel territorio bresciano avvenne invece più tardi, al principio del V secolo, in concomitanza con le invasioni barbariche e con il cedimento dell’organizzazione amministrativa romana (come nel resto della Lombardia e, in generale, dell’Italia settentrionale). Questo favorì la maggiore attrazione esercitata dalla città di Brescia sul territorio circostante, anche sul piano religioso. La Chiesa bresciana venera i martiri Faustino e Giovita fin dal tempo antico (al più tardi dall’VIII secolo) e sopra l’area occupata dalla chiesa di San Faustino ad sanguinem venne costruita la chiesa di Sant’Afra; il luogo è ricordato anche da San Gregorio Magno ma il culto dei due martiri potrebbero risalire al tempo del vescovo Gaudenzio (397-400 circa). Tra la fine del V e l’inizio del VI secolo vennero costruite le chiese di Santa Maria Maggiore, sull’attuale occupata dal Duomo Vecchio, e San Pietro de Dom, affiancata alla prima, che occupava l’area  dove oggi sorge la nuova cattedrale.