Ipponatte, un aristocratico con la maschera da pitocco


Tra “poeta maledetto”, mendicante dei bassifondi, protagonista in prima persona delle squallide avventure narrate in autobiografici e virulenti giambi – secolare cliché critico-letterario – e il poeta colto e raffinato, compositore di elaboratissime parodie e satire per eterie aristocratiche riunite a simposio c’è un vero abisso: proprio la programmatica varietas della poesia ipponattea, il suo polimorfo mimetismo linguistico – destinato a essere assunto a emblema del genere dagli Alessandrini – e il raro dono di ritrarre icasticamente scene e dettagli hanno certamente contribuito a scavarlo. Nativo di Efeso, vissuto negli ultimi decenni del VI secolo perlopiù a Clazomene, dove lo esiliarono sgradito i tiranni Atenagora e Coma, Ipponatte fu autore di una cospicua raccolta di componimenti giambici in almeno due libri, di cui restano circa 180 frammenti (oltre 200 con i dubia), inegualmente divisi tra trimetri giambici, tetrametri giambici, tetrametri trocaici, esametri, epodi.

Pittore Pedieo. Una musicista accompagna un simposiasta ubriaco. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 510 a.C. Paris, Musée du Louvre.

Originale interprete – in chiave giambica – delle istanze di un’aristocrazia antitirannica e minacciata, l’Efesino dedicò i suoi velenosi ritratti d’ambiente a quel δῆμος emergente, che la rivoluzione artigianale e mercantile aveva portato in primo piano, che tiranni – e aspiranti tali – fomentavano e manovravano, talora con l’interessata complicità dell’Impero achemenide (dopo il 546), e che gli antichi γένη aristocratici temevano e detestavano. Proprio il nome del poeta, Ἱππῶναξ, che vale «signore dei cavalli», tradisce un’origine aristocratica: sia il secondo elemento, ἄναξ, sia il riferimento del primo ai cavalli, costoso appannaggio dell’aristocrazia, sono ingredienti caratteristici di nomi nobiliari. A questo proposito, altri fattori confermerebbero l’appartenenza a questa classe sociale. Ci sono infatti frammenti in cui il poeta lamenta la propria povertà e inveisce contro la cecità di Pluto, che non gli ha mai detto (F 36 West, 3-4):

“… δίδωμί τοι μνεας ἀργύρου τριήκοντα

καὶ πόλλ’ ἔτ’ ἄλλα” …

“… Io ti concedo qui trenta mine d’argento

e molto altro ancora”…,

altri in cui supplica Ermes perché gli regali un mantello e dei sandali felpati (F 32 West, 4-6):

δὸς χλαῖναν Ἱππώνακτι καὶ κυπασσίσκον

καὶ σαμβαλίσκα κἀσκερίσκα καὶ χρυσοῦ

στατῆρας ἑξήκοντα τοὐτέρου τοίχου.

Da’ un mantello a Ipponatte e una tunichetta,

sandaletti e pantofoline e sessanta stateri

d’oro puro metti dell’altra parte;

altri in cui si dichiara tormentato dal freddo e dai geloni ai piedi (cfr. F 34 West): tutto questo e il fatto che il suo lessico sia spesso attinto al parlare quotidiano e incline all’oscenità hanno indotto gli studiosi a vedere in Ipponatte la tipica figura del «nobile decaduto», con la mano sempre tesa a elemosinare. Per contro, la critica più recente (Degani) ha messo luce come l’elemento «popolare» e i contenuti volgari vadano ricondotti alle convenzioni del genere giambico. Tra le norme e i ruoli tipici c’è infatti «la maschera» del miserabile intirizzito dal freddo e morto di fame. Se questa precisazione costituisce un salutare correttivo alla vecchia immagine del poeta autobiograficamente pitocco, analogamente al caso di Archiloco, non si deve arrivare a escludere che il riconoscimento di un «io» mimetico-drammatico (per cui il poeta assume la posa del miserabile) riduca a semplici invenzioni fittizie le figurazioni e le vicende che affiorano in diversi frammenti.

Fyodor Bronnikov, Mendicante romano. Olio su tela, 1855. Collezione privata.jpeg

Un mondo di artigiani, commercianti, osti, indovini, prostitute, ladri, truffatori, e soprattutto artisti emergenti, quali gli scultori Bupalo e Atenide, il loro collega Bione, il pittore Mimne, il vasaio Eschilide, il musico e guaritore Cicone, i suoi accoliti Codalo e Babi, l’affamato pitocco Sanno, il crapulone Eurimedontiade e, infine, Arete.

Maestro dell’insulto, dell’escrologia, del violento attacco personale, Ipponatte riempì la propria poesia simposiale di furti, aggressioni, violenze, sesso a volontà, e la propria lingua di immagini colorite, di paragoni animaleschi, di metafore popolari rivisitate, di proverbi e formule magiche, di parole gergali o straniere opportunamente “tradotte” e spiegate, di esilaranti parodie dell’ἔπος, di roboanti neoformazioni. Queste molteplici capacità espressive, il tono divertito e irriverente, l’amore per il paradosso e il rifiuto del páthos fecero di Ipponatte il precursore della commedia e poi della disincantata poesia alessandrina.

D’altronde, come ha assai opportunamente evidenziato Enzo Degani, il tratto fortemente innovativo della produzione ipponattea consiste proprio nell’uso della lingua: la patina dialettale che riveste i suoi componimenti è lo ionico d’Asia, ma il poeta sa far propri elementi linguistici di altre aree geografiche e addirittura di parlate non greche; così si trovano impiegati vocaboli nuovi, numerosi termini altrimenti attestati (hápax legómena), parole composte. Proprio per queste sue caratteristiche la produzione di Ipponatte fu oggetto di frequenti citazioni da parte di grammatici, lessicografi ed eruditi dei secoli successivi, che hanno conservato in questo modo molti suoi frammenti.

Pittore della fonderia. Un fabbro e il suo servo alla fornace. Pittura vascolare a una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. Berlin, Antikensammlung.

Tra le vittime del “biasimo giambico” caddero i fratelli scultori Bupalo e Atenide, che avrebbero realizzato un ritratto caricaturale del poeta e che questi con una serie di violentissime invettive avrebbe indotto al suicidio per impiccagione. Con Bupalo, soprattutto, Ipponatte sarebbe entrato in rivalità per una certa Arete, donna di molto liberi costumi; e come Archiloco nel celebre Epodo di Colonia aveva rievocato a denigrazione di Neobule la propria scappatella con la di lei sorella minore, così Ipponatte raccontava del suo incontro notturno con Arete (F 13-14, 16-17 West):

ἐκ πελλίδος πίνοντες· οὐ γὰρ ἦν αὐτῆι

κύλιξ, ὁ παῖς γὰρ ἐμπεσὼν κατήραξε,

bevendo essi dal secchio: lei non aveva

una coppa, perché il servo, cadutovi sopra, l’aveva frantumata,

ἐκ δὲ τῆς πέλλης

ἔπινον· ἄλλοτ’ αὐτός, ἄλλοτ’ Ἀρήτη

προύπινεν.

                      dal secchio

bevevano: una volta era lui, l’altra Arete

a fare il brindisi.

ἐγὼ δὲ δεξιῶι παρ’ Ἀρήτην

κνεφαῖος ἐλθὼν ‘ρωιδιῶι κατηυλίσθην.

Ed io, giunto da Arete di notte,

mentre un airone volava da destra, vi piantai il campo.

κύψασα γάρ μοι πρὸς τὸ λύχνον Ἀρήτη

Chinatasi infatti su di me, a lume di lucerna, Arete…

Quello ritratto da Ipponatte è uno sgangherato simposio, focalizzato su un «secchio per mungitura» (πελλίς), termine che attirò l’attenzione dei testimoni antichi (Ath. XI 495c-d; Eust. ad Od. V 244, 1531, 53 ss.) e che qui sostituisce la coppa (κύλιξ) di una inusuale simposiasta, probabilmente l’impudica Arete, inopinatamente fracassata da un servo (παῖς) cadutovi sopra; si tratta forse di un giovane amante con cui la donna si sarebbe intrattenuta (?). Clima ebbro, gesti goffi e volgari – forse favoriti da prolungate bevute – costituiscono l’orizzonte privilegiato della poesia ipponattea, vasto repertorio di trovate comiche cui attingeranno i poeti di ogni tempo: il gioco sulla «coppa», anzi sul «secchio», sarà mutuato da Aristofane (Th. 633) e dal giambografo ellenistico Fenice di Colofone (F 4, 3; 5, 1-2 Pow.), mentre il motivo del servo che rompe il calice si diffonderà nella poesia latina, da Mazio (F 11, 2 Blänsdorf), a Orazio (Sat. II 8, 72; 81), a Petronio (52).

Pittore della Forgia. Un’etera urina in uno σκύφος. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 480 a.C. Berlin, Antikensammlung.

Ecco l’arrivo improvviso del poeta, giunto per un’erotica visita notturna, ironicamente propiziata da fausti, omerici auspici: un «airone» (l’ἐρῳδιός, su cui si sofferma il grammatico Erodiano, GG III/1 116, 21-117, 3; III/2 924, 12-19, testimone principale del frammento), che vola da destra, come quello che annunciò il successo, nell’iliadica “Doloneia” (Il. X 274-276), a Odisseo e Diomede; e la notte, che serve a «piantare la tenda» (v. 2) dalla solita Arete, donna rotta a esperienze sessuali di ogni tipo. In questo triviale contesto Ipponatte riprende la nobile equazione fra eros e guerra, che precorre l’immaginario della lirica greca.

La continuazione dell’incontro furtivo – segnalata dalla ripresa del nome della donna – coglie al chiarore di una lucerna la stessa disponibile Arete curva sull’io parlante nella posizione della fellatrix di archilochea memoria (cfr. F 42 West): che il contesto fosse quello di una fellatio pare garantito dal parallelo archilocheo e dalle occorrenze erotiche del verbo κύπτειν («curvarsi», «chinarsi sopra», «mettersi a testa in giù»), tanto realistico. Topica spettatrice di appassionati convegni amorosi diverrà poi la lucerna in commedia (cfr. Aristoph. Ec. 7-13; Adesp. Com. F 724, 1 K.-A.) e soprattutto nella poesia epigrammatica (cfr. AP V 4-5; 7-8; 128; Hor. Sat. II 7, 48; Mart. X 38, 7; XIV 39).

Pur nella grave lacunosità del testo si coglie un’inclinazione a ritrarre per istantanee puntuali, in una progressione di dettagli che costituiscono (o, piuttosto, demoliscono) una figura femminile che certo appare tipizzata nel ruolo della donna incontinente – così nel bere come nell’eros –, ma che doveva riuscire tanto più godibile al gruppo degli ascoltatori partecipi al simposio, in quanto attratta nell’orbita di un «effetto di verità» che il narratore intendeva conseguire, sfruttando nomi, cose, situazioni appartenenti al concreto loro ambito sociale. In altre parole, udendo il nome di Arete il pubblico di Ipponatte doveva riconoscere la deformazione grottesca (la “caricatura”) di un personaggio noto dalla realtà.

Pittore Kleophrades. Incontri galanti tra etere e clienti. Pittura vascolare da un’ὑδρία attica a figure rosse, c. 490 a.C. Berlin, Staatliche Antikensammlungen.

Non meno che nell’episodio dell’incontro notturno con Arete che altrove Ipponatte si rivela un artista della narrativa osée, quasi boccaccesca, ben più portato dello stesso Archiloco all’oscenità spregiudicata. Così nel F 84 West viene rievocato un altro, frettoloso, convegno, scandito da morsi e baci e bruscamente interrotto dal sopraggiungere del rivale Bupalo, che caccia il poeta sul più bello. Nei frammenti riferibili al litigio con l’odiato scultore si avverte tutta la rabbia del poeta (F 120-121 West):

λάβετέ μεο ταἰμάτια, κόψω Βουπάλωι τὸν ὀφθαλμόν.

ἀμφιδέξιος γάρ εἰμι κοὐκ ἁμαρτάνω κόπτων.

Tenetemi il mantello, pesterò l’occhio a Bupalo.

Infatti, sono ambidestro e non sbaglio, se picchio.

Putroppo, la millantata abilità dello sfidante è destinata, di lì a poco, a sgonfiarsi in una malinconica constatazione (F 73 West, 4-5):

οἱ δέ μεο ὀδόντες

ἐν ταῖς γνάθοισι πάντες ‹ἐκ›κεκινέαται.

tutti i denti

mi ballano sulle gengive.

Anche in questo caso, il linguaggio, in apparenza sboccato e plebeo, dell’aggressione ad personam, degno di una rissa da osteria, rivela aristocratiche reminiscenze letterarie; esso ha infatti un precedente illustre nell’epica omerica e riecheggia le parole millantatrici con cui il mendicante Iro sfidò Odisseo, scambiato per un rivale nell’accattonaggio, uscendo poi dallo scontro con le ossa rotte. Anzi, il rapporto di Ipponatte con l’archetipo è così evidente da indurre alcuni studiosi a supporre che l’intento parodistico del passo omerico sia stato suggerito al poeta proprio dall’ascolto recente di una recitazione agonale di rapsodi (Od. XVIII 27-29): … ὃν ἂν κακὰ μητισαίμην / κόπτων ἀμφοτέρῃσι, χαμαὶ δέ κε πάντας ὀδόντας / γναθμῶν ἐξελάσαιμι συὸς ὣς ληϊβοτείρης («… io potrei conciarlo male, / colpendolo con ambo le mani, e fargli cadere tutti i denti / dalle mascelle, come quelli di una scrofa che rovina i raccolti»).

Pittore Epitteto. Lotta fra due pugili. Pittura vascolare dal fondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 520 a.C. ca. London, British Museum.

Talvolta l’invettiva abbandona gli ambiti propriamente letterari per collegarsi alle pratiche di purificazione, che ogni comunità effettua con scadenze regolari. Dai resti del F 92 West si vede ricostruito un rituale magico eseguito con una sferza di fico battuta sui genitali dell’«io» narrante a opera di una donna lidia nello sconfortante scenario di una latrina. Altrove, il poeta mostra l’abitudine di apostrofare l’avversario con l’appellativo infamante di φαρμακός («avvelenatore di città», «liberatore dai mali»), connesso con φάρμακον («veleno», «rimedio», «farmaco»): nelle città ioniche si trattava di un individuo, scelto annualmente, in genere tra le persone più umili ed emarginate (servi, criminali, straccioni, soggetti affetti da deformità, ecc.), che veniva allontanato dalla comunità cittadina nel corso di rituali più o meno violenti, che potevano portare alla morte; la cerimonia apotropaica prevedeva che il malcapitato, dopo essere stato percosso con rami di fico e mazzi di cipolle (σκίλλαι) in una processione lungo le strade della città, fosse da ultimo lapidato o bruciato vivo, o meno crudamente espulso dalla città. In tal modo, si riteneva di allontanare, insieme con il “capro espiatorio”, le sventure che avrebbero potuto abbattersi sulla società intera. Augurare a un cittadino di fare la fine del φαρμακός equivale, insomma, ad assimilarlo a un individuo della peggiore specie, destinato a una fine violenta. Così, infatti, la frasca di fico (κράδη) è un emblema ricorrente in Ipponatte in connessione con il rito del capro espiatorio, a cui si riferisce una serie di frammenti (F 5-10 West), appartenenti forse a componimenti diversi, ma citati insieme dall’erudito Giovanni Tzetze (Tz. Chil. V 728 ss.):

πόλιν καθαίρειν καὶ κράδηισι βάλλεσθαι.

Purificare la città e farsi battere con frasche di fico.

βάλλοντες ἐν χειμῶνι καὶ ῥαπίζοντες

κράδηισι καὶ σκίλληισιν ὥσπερ φαρμακόν.

Battendolo in un prato e con frasche

di fico e di cipolle, come un capro espiatorio.

δεῖ δ’ αὐτὸν ἐς φαρμακὸν ἐκποιήσασθαι.

Bisogna renderlo un capro espiatorio.

κἀφῆι παρέξειν ἰσχάδας τε καὶ μᾶζαν

καὶ τυρόν, οἷον ἐσθίουσι φαρμακοί.

E alla sua mano porgere fichi secchi e focaccia

e cacio, quale mangiano i capri espiatori.

πάλαι γὰρ αὐτοὺς προσδέκονται χάσκοντες

κράδας ἔχοντες ὡς ἔχουσι φαρμακοῖς.

Da molto tempo, infatti, li aspettano a bocca aperta

con frasche di fico, come le hanno per i capri espiatori.

… λιμῶι γένηται ξηρός· ἐν δὲ τῶι θύμωι

φαρμακὸς ἀχθεὶς ἑπτάκις ῥαπισθείη.

… che rinsecchisca per la fame; e nell’anima,

portato via qual capro espiatorio, sette volte lo si sferzi.

Pittore di Pan. Pan che insegue un capraio. Pittura vascolare da un cratere a campana a figure rosse, c. 470 a.C. Boston, Museum of Fine Arts.

Oltre che ritrattista di figure in azione Ipponatte è anche maestro dell’immagine bloccata, con personaggi fissati in tratti fisiognomici che denunciano il vizio che si cela in loro, come nell’epodo dedicato all’ingordo Sanno (F 118 West, 1-9):

ὦ Σάνν’, ἐπειδὴ ῥῖνα θεό[συλιν φύ]εις,

καὶ γαστρὸς οὐ κατακρα[τεῖς,

λαιμᾶι δέ σοι τὸ χεῖλος ὡς ἐρωιδιοῦ

[ ]

τοὖς μοι παράσχες [ ]

σύν τοί τι βουλεῦσαι θέ[λω.

(. . . .)

τοὺς] βρα[χίονας

καὶ τὸ]ν τράχ[ηλον ἔφθισαι,

κα[τεσθίεις δέ·] μ̣ή σε γαστρίη [λάβηι

O Sanno, poiché quel naso empio coltivi

e il ventre non sai dominare,

e il tuo labbro è ingordo come il becco di un airone

. . . .

Porgimi l’orecchio…

Ti voglio dare un consiglio.

. . . .

Nelle braccia

e nel collo sei rovinato,

eppur ti ingozzi: attento che non ti prenda una colica…

Pittore della Gigantomachia di Parigi. Scena simposiale. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. London, British Museum.

La caricatura e la satira possono sfociare nell’invettiva senza mezze misure in quel primo Epodo di Strasburgo (F 115 West) di pur controversa autenticità, che appare tanto violento nell’augurio di un impietoso naufragio a un traditore (un προπεμπτικόν alla rovescia lo definiva Perrotta) quanto letterariamente cosciente nella sottile ripresa di un celebre brano odissiaco (Od. VI 226 ss.):

.[

η[

π.[ ]ν[…]….[

κύμ[ατι] πλα[ζόμ]ενος

κἀν Σαλμυδ[ησσ]ῶ̣ι̣ γυμνὸν εὐφρονέσ[τατα

Θρήϊκες ἀκρό[κ]ομοι

λάβοιεν ‑ ἔνθα πόλλ’ ἀναπλήσαι κακὰ

δούλιον ἄρτον ἔδων ‑

ῥίγει πεπηγότ’ αὐτόν· ἐκ δὲ τοῦ χνόου

φυκία πόλλ’ ἐπέ̣χοι,

κροτέοι δ’ ὀδόντας, ὡς [κ]ύ̣ων ἐπὶ στόμα

κείμενος ἀκρασίηι

ἄκρον παρὰ ῥηγμῖνι κυμαντῷ ˘ x

ταῦτ’ ἐθέλοιμ’ ἂ̣ν ἰδεῖ̣ν,

ὅς μ’ ἠδίκησε, λ̣[ὰ]ξ δ’ ἐπ’ ὁρκίοις ἔβη,

τὸ πρὶν ἑταῖρος [ἐ]ών.

. . . .

. . . .

sbattuto dalle onde

e nudo in Salmidesso con somma gentilezza

i Traci dalle alte chiome

lo accolgano – là patirà molti mali,

mangiando pane da servo –,

lui, intirizzito dal gelo! E fuori dalla schiuma

molte alghe lo ricoprano,

batta i denti, giacendo riverso

come un cane per sfinimento

sul limitare della battigia…

vorrei che vivesse queste pene,

lui, che mi fece torto, che calpestò i giuramenti,

che in passato mi fu compagno.

Pittore delle Sirene. Odisseo e le Sirene. Pittura vascolare da uno στάμνος attico a figure rosse, 480-470 a.C. ca. da Vulci. London, British Museum.

Non stupisce allora se questo poeta, che aveva al suo arco tanto le frecce della finzione plebeo-satirica quanto quelle del lusus letterario, fosse considerato dagli antichi come l’inventore (il πρῶτος εὑρετής) del genere della parodia letteraria, di cui si possiede un esempio negli esametri del F 128 West:

Μοῦσά μοι Εὐρυμεδοντιάδεα τὴν ποντοχάρυβδιν,

τὴν ἐν γαστρὶ μάχαιραν, ὃς ἐσθίει οὐ κατὰ κόσμον,

ἔννεφ’, ὅπως ψηφῖδι ‹κακῇ › κακὸν οἶτον ὀλεῖται

βουλῆι δημοσίηι παρὰ θῖν’ ἁλὸς ἀτρυγέτοιο.

Musa, dell’Eurimedontiade, Cariddi che divora l’oceano,

la lama-in-pancia di quel mangione senza ritegno

dimmi, sì che per malo suffragio di mala morte perisca,

per volontà del popolo, lungo la riva del mare infecondo!

Pittore di Cadmo. Eracle e Dioniso a banchetto. Pittura vascolare da una πελίκη attica a figure rosse, c. fine V sec. a.C. London, British Museum.

Il ritratto grottesco di un ghiottone volgare, dal patronimico e dagli epiteti altisonanti, ma destinato a una misera fine, dà libero sfogo all’invettiva linguistica di Ipponatte, i cui interminabili e mirabolanti composti, ovviamente nuovi di zecca, insegneranno schemi compositivi ben precisi al rutilante lessico comico. Espressa in esametri eroici e chiaramente memore, con la sua risibilmente solenne invocazione alla Musa, l’esquisse di questo misterioso cialtrone rappresenta altresì il primo chiaro esempio di poesia parodica; è proprio per questo che il testimone, Polemone di Ilio (F 45 Preller), cita questi quattro versi. La contaminazione dei celeberrimi incipit dell’Iliade e dell’Odissea introduce solennemente non già l’epica ira di un Pelide, o l’instancabile e variegata mobilità di un Laertiade, ma la «Cariddi che divora l’oceano» (ποντοχάρυβδιν) e il ventre ben fornito di un coltellaccio trincia-tutto (ἐν γαστρὶ μάχαιραν) di un non meglio precisato Eurimedontiade (sotto le cui fattezze qualcuno ha voluto riconoscere l’ombra del solito Bupalo), le cui assunzioni di cibo, di conseguenza, non sono precisamente ispirate al decoro e all’etichetta. L’allure parodicamente solenne dell’invocazione alla Musa è acuita dall’iperbato del verbo, «narrami», che occorre solo nell’incipit del v. 3, dove l’iperbolica descrizione satirica, attraverso lo snodo dell’invocazione, cede il posto alla giambica maledizione. Ed è quanto mai significativo che la rovina dell’ignobile personaggio – espulso come l’ennesimo capro espiatorio – sia auspicata con un voto negativo, chiasticamente accostato a una «mala morte» che esso determina, e con una «deliberazione popolare», quasi a sottolineare come sia per le scelte del popolo che gli odiosi parvenu del popolo precipitano infine nella fame e nella miseria, «lungo la riva del mare infecondo», epico confine e pietra tombale dello sconfinato stomaco dell’Eurimedontiade.

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M.L. West, Studies in Greek Elegy and Iambus, Berlin-New York 1974.

Chi è Elena?

Elena, nell’immaginario comune, è la donna infedele. È colei che non ha esitato ad abbandonare il marito, la casa e la famiglia, per gettarsi in una vicenda d’amore extra-coniugale irrispettosa di tutto e di tutti, al punto da causare una guerra. Non una guerra qualsiasi, ma la progenitrice epica di tutte le guerre, che ha visto contrapposti gli eserciti di tutto il mondo egeo. È facile etichettare così il personaggio di Elena: una donna bellissima, in grado di stregare ogni uomo, ma portatrice anche di guai e di sventure. Purtroppo, o per fortuna, Omero non rende il giudizio così semplice: l’Elena che ha saputo affrontare e violare ogni convenzione etica e tradizionale per fuggire con l’uomo che ama, viene rappresentata a Troia intenta alle stesse attività praticate dalle altre donne che non hanno mai lasciato il focolare; anche lei, come le altre spose d’eroi, tesse la tela. C’è qualcosa di molto stonato rispetto al ritratto di femme fatale che sembrava essere stato delineato fin dall’inizio.

Ma il vero colpo di scena deve ancora arrivare: Elena viene raggiunta da Iris, la dea dell’arcobaleno, messaggera degli dèi, che le annuncia che suo marito, Menelao, re di Sparta, tradito e furibondo, è in procinto di affrontare in duello il suo amante, Paride Alessandro. Lei, Elena, è il trofeo in palio per il vincitore della contesa. Altro che libertà, altro che padrona del proprio destino!

Pittore di Stoccolma 1999. Elena e Paride. Lato A di un cratere a campana apulo a figure rosse, c. 380-370 a.C. da Taranto. Paris, Musée du Louvre.

La donna, a quel punto, si lascia andare a un sentimento davvero imprevedibile per la seduttrice disinibita che il lettore moderno presumeva di conoscere: Ὣς εἰποῦσα θεὰ γλυκὺν ἵμερον ἔμβαλε θυμῷ / ἀνδρός τε προτέρου καὶ ἄστεος ἠδὲ τοκήων· / αὐτίκα δ’ ἀργεννῇσι καλυψαμένη ὀθόνῃσιν / ὁρμᾶτ’ ἐκ θαλάμοιο τέρεν κατὰ δάκρυ χέουσα (Il. III 139-142, «Così dicendo la dea le ispirava nel cuore desiderio struggente / del marito di prima, della sua città, dei suoi genitori; subito, copertasi con un velo di bianchezza splendente, / si slanciò fuori della stanza, versando una tenera lacrima»).

Allora Elena ha una coscienza, si rende conto di quello che ha fatto, capisce, infine, che la libertà – sempre che sia riuscita a ottenerla – impone un prezzo molto alto: la rinuncia alla comodità, alle sicurezze, agli affetti e alle cose care. Certo, ci potrebbe essere il conforto della bellezza di Paride e del suo coraggio, che Elena spera dimostri contro il terribile Menelao. E, invece, Paride fugge, lasciando il suo elmo in mano all’avversario; anzi no, si dilegua, protetto da una provvidenziale nebbia divina! Adesso l’amante aspetta Elena a letto per fare l’amore. Quel letto, unico campo di battaglia dove il suo amato sembra riuscire a sfoggiare talento e ardimento! Ma, allora, chi è Elena? Una donna senza scrupoli e pudore, o una donna in cerca della libertà e della felicità?

Sorge perfino qualche dubbio sul suo matrimonio con il re di Sparta; perché Menelao, il cui nome significa «repressore del popolo» (da μένειν, «restare», «rimanere», e λαός, «popolo»), sembra in grado di apprezzare soltanto la bellezza fisica della sua sposa. Il dubbio, dunque, persiste, e l’aedo iliadico non fa nulla per dissiparlo. Chi è Elena?

Pittore di Brygos. Menelao ed Elena. Pittura vascolare su una λήκυθος attica a figure rosse, c. 480 a.C. da Armento. Berlin, Altes Museum.

L’Encomio di Elena di Gorgia da Leontini (c. 483-380 a.C.) cerca di scagionare totalmente la donna dall’accusa di aver provocato la guerra. Seguendo la struttura di un’orazione giudiziaria (proemio, esordio, esposizione, confutazione, ricapitolazione, epilogo), l’autore assume la difesa della celeberrima eroina; nel corso della trattazione compaiono anche interessanti annotazioni sulla poesia, che viene considerata affine alla retorica per la capacità di coinvolgere emotivamente ascoltatori e lettori. Partendo dal presupposto che Elena aveva agito sotto l’influenza di una forza più grande di lei, la volontà di Afrodite, ovvero la capacità persuasiva del λόγος, il sofista dimostra la completa innocenza del personaggio.

Dopo averla già eletta a personaggio delle Troiane, Euripide di Atene (c. 486-406 a.C.) dedica un intero dramma a Elena. Accusata dalle donne di Troia di essere la causa, con il suo comportamento, della morte dei loro uomini e della distruzione della loro città, nella tragedia del 415 l’eroina si difende, addossando la responsabilità della guerra a Paride e alla madre di lui, Ecuba, colpevole di aver generato l’uomo di cui si era innamorata. La moglie di Priamo reagisce fino a indurre Elena a chiedere il perdono a Menelao. Nella tragedia del 412, invece, Euripide propone un ritratto della regina spartana completamente diverso: nella sua Elena il tragediografo adotta la versione del mito secondo cui la traditrice, quella fuggita con Paride, sarebbe stata solo un fantasma. Elena avrebbe dovuto essere il premio per un concorso di bellezza, che Paride aveva vinto, ma la dea Hera – adirata con lui – aveva dato al Priamide un simulacro, un fantasma appunto, mettendo al sicuro la vera Elena in Egitto. Ma anche qui il fascino della donna aveva creato problemi: il mite e pio re Proteo, al quale la donna era stata affidata dalla dea, muore e il successore, il figlio Teoclimeno, si innamora della regina di Sparta. Ella, tuttavia, fedele a Menelao, non abbandona mai lo spazio sacro della tomba di Proteo, per evitare che Teoclimeno la importuni. Arriva in Egitto Teucro, fratello di Aiace, che, dopo averla riconosciuta, non senza grande stupore, aggiorna la donna sugli ultimi sviluppi della guerra di Troia: la città è stata presa a distrutta e Menelao ha trascinato in patria il fantasma di Elena, convinto che si tratti davvero della sposa infedele. Infine, giunge in Egitto pure Menelao, con al seguito la regina-simulacro, che si dissolve non appena l’Atride incontra la vera sposa. A questo punto i due devono fuggire dall’Egitto senza incorrere nelle ire dello spasimante Teoclimeno: allora, Elena comunica al re egizio la falsa notizia che l’antico sposo è scomparso, ottenendo il permesso di celebrarne in mare i funerali; al largo, l’Atride la attende su una nave, travestito da semplice marinaio. Finalmente i due possono ritornare a Sparta.

Pittore di Menelao. Il tentativo di vendetta di Menelao. Pittura vascolare su un cratere attico a figure rosse, c. 450-440 a.C. da Egnazia. Paris, Musée du Louvre.

Con quest’opera Euripide mostra che tutta la guerra di Troia non è stata altro che un grande inganno, uno scontro sanguinosissimo, che ha provocato la morte di tanti e ha seminato distruzione senza alcuno scopo e senza alcun senso, se non le allucinazioni a cui vanno soggetti gli uomini. Mentre Menelao si batteva con accanimento per difendere il proprio onore, sua moglie, ritenuta a torto infedele, stava in Egitto, dall’altra parte del mondo allora conosciuto.

La versione “alternativa” di Elena che ripara in Egitto è stato ripreso, nel 1928, dal poeta e drammaturgo austriaco Hugo von Hofmannsthal nella sua Elena egizia, libretto di un’opera lirica composta da Richard Strauss. Nato a Vienna nel 1874, von Hofmannsthal fu testimone degli ultimi anni dell’Impero asburgico e poi del suo crollo, della Grande guerra e della nascita dell’Austria repubblicana. Morì nel 1929, prima che la sua nazione fosse fagocitata dal Terzo Reich hitleriano. Von Hofmannsthal fu, con la sua opera, un sostenitore della creazione di una cultura comune a tutta l’Europa, per lo scrittore unico strumento valido a scongiurare lo scatenarsi di un nuovo conflitto mondiale.

Gustave Moreau, Elena in gloria. Acquarello.

La sua Elena egizia si apre con Menelao che, distrutta Troia, riporta a Sparta la propria sposa. Il re è deciso a uccidere la fedifraga per vendicarsi della sua infedeltà, ma una tempesta, scatenata dalla ninfa Etra, che intende salvare la donna, fa affondare la nave; l’Atride salva a nuoto sé stesso ed Elena e approda sull’isola di Etra. Qui Menelao riprende i propri propositi uxoricidi, ma la ninfa interviene ancora, chiamando gli Elfi e chiedendo loro di fare un gran rumore; in questo modo, si ricreano i clamori della battaglia, distraendo il re e inducendolo a credere di essere ancora sotto le mura di Ilio (da notare come Hofmannsthal non esiti a introdurre nel mito greco personaggi della mitologia norrena). Menelao, convinto ancora di essere in guerra, si precipita fuori dal palazzo, dove crede di vedere Paride ed Elena insieme e di ucciderli; tornato all’interno della reggia, però, con grande stupore si trova davanti la vera moglie, che chiede a Etra di essere portata insieme al marito in un luogo dove possano dimenticare tutti i tristi fatti che li hanno visti protagonisti. La ninfa fa bere al re di Sparta un filtro che gli provoca oblio, inducendolo a desistere dalle sue idee di vendetta, e i due sposi si ritrovano in Egitto.

Se Euripide e Hofmannsthal riprendono, entrambi, il motivo della giovane Elena, dal fascino irresistibile, il poeta e scrittore greco Ghiannis Ritsos (1909-1990) propone un punto di vista completamente diverso. Nella sua opera l’autore offre un ritratto della donna segnato dal passare del tempo, che lascia tracce indelebili sia sul suo aspetto sia nel suo spirito. Ritsos è considerato uno dei maggiori poeti ellenici del XX secolo e si è distinto, oltre che per la sua arte, anche per l’impegno politico, che l’ha visto prima nelle fila della resistenza contro l’invasione nazifascista della Seconda guerra mondiale, poi incarcerato durante il regime dei Colonnelli (1967-1974). Ritsos compose la sua Elena nel 1970 e, nel raffigurare una donna ormai anziana, rivisita un tema già caro ai filosofi e ai poeti della Roma imperiale: Elena, come qualsiasi altro essere vivente, è destinata a recare sulla propria persona i segni del tempo; anche di lei non resterà che un cranio perso in un mucchio d’ossa, come la descriveva Luciano di Samosata nei Dialoghi dei morti (18); anche Marco Aurelio parlava di lei come di «un’animuccia che trascina un cadavere».

«Vecchia ubriaca». Statua, marmo, copia romana da un originale greco del II sec. a.C. attribuita a Mirone. Roma, Musei Capitolini.

Ritsos riprende questo motivo e presenta Elena chiusa nella stanza di un ospizio, in bilico fra un presente fatto di acciacchi, demenza senile e semi-infermità e un passato testimoniato da tanti oggetti e da molti ricordi: la collana ricevuta da Micene dopo l’uccisione di Clitemnestra, le lettere degli ammiratori, i nomi e le immagini degli eroi achei (soggetti, peraltro, alle frequenti amnesie di una vecchia malata). Anche Menelao è stato ormai portato via dal tempo, dopo aver passato gli ultimi anni della sua vita insieme con Elena, a contemplare il bottino di tante guerre accumulato nella loro dimora. Il presente di Elena è fatto di solitudine e di conflitto, con le ancelle che la detestano, la derubano dei suoi tesori e la curano in modo negligente, truccandola malamente, forti della sua debolezza. In questo quadro, la morte giunge come una liberazione: ancora una volta, le serve se ne approfitteranno, portandole via tutto ciò che potranno. L’Elena di Ritsos, composta in pieno regime militare, sembra essere un’allegoria del passato e del presente della Grecia: una Grecia epica, quella omerica, della quale al tempo dello scrittore non sopravvivono che ricordi e oggetti, persi in una dimensione polverosa, volgare e prosaica. Da quel presente asfittico, l’eroe può essere liberato solo mediante la morte.

“Come le foglie”

La similitudine che mette in relazione la stirpe umana con le foglie ricorre, con accenti e significati differenti, tre volte nei poemi omerici.

La prima – e più celebre – occorrenza dell’immagine è quella di Il. VI 145-149. Sul campo di battaglia si incontrano per la prima volta l’acheo Diomede e Glauco, greco d’origine ma naturalizzato licio e alleato dei Troiani. Diomede domanda allo sconosciuto avversario la sua identità – teme di trovarsi di fronte a un dio – e Glauco risponde:

Τυδεΐδη μεγάθυμε τί ἢ γενεὴν ἐρεείνεις;

οἵη περ φύλλων γενεὴ τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν.

φύλλα τὰ μέν τ’ ἄνεμος χαμάδις χέει, ἄλλα δέ θ’ ὕλη

τηλεθόωσα φύει, ἔαρος δ’ ἐπιγίγνεται ὥρη·

ὣς ἀνδρῶν γενεὴ ἣ μὲν φύει ἣ δ’ ἀπολήγε.

Grande Tidide, perché mi chiedi la stirpe?

Tale e quale la stirpe delle foglie è quella degli uomini.

Le foglie il vento fa cadere a terra, ma altre sugli alberi

in fiore ne spuntano, quando arriva la primavera;

così le stirpi degli uomini, una nasce l’altra svanisce.

Glauco e Diomede. Ricostruzione a disegno di una gemma. W.H. Roscher, Ausfürliches Lexikon der griechisches und römisches Mythologie, 1884 [www.maikar.com].

Il tertium comparationis, ovvero l’elemento che accomuna i due termini messi a confronto, è la mancanza di rapporto fra una progenie (di uomini come di foglie) e quella precedente: il legame di stirpe sembra essere qui svuotato di significato e sostituito dal sentimento di appartenenza a una medesima generazione di coetanei. Senonché, subito dopo, Glauco indugia nel racconto della storia di suo nonno Bellerofonte, ed è proprio la constatazione di un’antica amicizia fra la stirpe di Glauco e quella di Diomede a determinare la conclusione positiva dell’episodio.

Con un significato leggermente diverso l’immagine delle foglie ritorna in Il. XXI 462-466, dove, a Poseidone che gli propone di intervenire in battaglia in aiuto degli Achei, Apollo risponde:

ἐννοσίγαι’ οὐκ ἄν με σαόφρονα μυθήσαιο

ἔμμεναι, εἰ δὴ σοί γε βροτῶν ἕνεκα πτολεμίξω

δειλῶν, οἳ φύλλοισιν ἐοικότες ἄλλοτε μέν τε

ζαφλεγέες τελέθουσιν ἀρούρης καρπὸν ἔδοντες,

ἄλλοτε δὲ φθινύθουσιν ἀκήριοι.

Scuotitore della terra, tu dovresti dirmi che non son saggio,

se con te mi mettessi a combattere per far piacere ai mortali

miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano

pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi,

un’altra volta cadono privi di vita.

Il tertium comparationis è in questo caso la brevità e la caducità della vita umana, contrapposta all’immortalità degli dèi.

Poseidone e Apollo. Frammento di rilievo (particolare), marmo, V secolo a.C. dal fregio degli dèi del Partenone. Atene, Museo dell’Acropoli.jpg

Infine, il paragone tra uomini e foglie ricorre in Od. IX 51-52: i Ciconi sopraggiungono a vendicare la scorreria di Odisseo e dei suoi compagni ὅσα φύλλα καὶ ἄνθεα γίνεται ὥρῃ, / ἠέριοι («quante spuntano in primavera le foglie e i fiori, al mattino»). Qui ciò che accomuna i due elementi del confronto è la quantità, grande, e il palesarsi improvviso; le foglie sono osservate sul nascere come i nemici sopraggiungono al mattino.

La similitudine omerica ha avuto una notevole fortuna, nell’antichità e poi nella moderna letteratura europea. Tra le numerose riprese dell’immagine, quella del poeta lirico Mimnermo (VII-VI secolo a.C.) contiene una significativa innovazione rispetto al modello: mentre nel VI libro dell’Iliade il tema è quello del succedersi ininterrotto delle generazioni, nella continuità del ciclo naturale, in Mimnermo il paragone dà espressione al motivo della brevità della giovinezza, destinata a dileguarsi in fretta e a non fare mai più ritorno. Il poeta, cioè, ricorre alla similitudine non più per alludere al rinnovarsi ciclico delle stirpi, ma per connotare un’età dell’esistenza individuale, la giovinezza appunto, piacevole, ma destinata a breve durata (F 2 West², vv. 1-8):

ἡμεῖς δ’, οἷά τε φύλλα φύει πολυάνθεμος ὥρη

ἦρος, ὅτ’ αἶψ’ αὐγῇς αὔξεται ἠελίου,

τοῖς ἴκελοι πήχυιον ἐπὶ χρόνον ἄνθεσιν ἥβης

τερπόμεθα, πρὸς θεῶν εἰδότες οὔτε κακὸν

οὔτ’ ἀγαθόν· Κῆρες δὲ παρεστήκασι μέλαιναι,

ἡ μὲν ἔχουσα τέλος γήραος ἀργαλέου,

ἡ δ’ ἑτέρη θανάτοιο· μίνυνθα δὲ γίνεται ἥβης

καρπός, ὅσον τ’ ἐπὶ γῆν κίδναται ἠέλιος.

E noi, come foglie che produce la primavera ricca di germogli,

quando ai raggi del Sole crescono tutt’a un tratto –,

simili a quelle, in un cubito di tempo, dei fiori della gioventù

godiamo, senza che dagli dèi ci giunga la nozione del male

né del bene: le nere Chere ci stanno addosso ormai,

e l’una regge il termine della penosa vecchiaia,

l’altra quello della morte; per un istante appena vive il frutto

della gioventù, per quanto si spande sulla Terra il Sole.

I primi due versi rimandano al passo di Il. VI, ma la prospettiva è diversa: la voce di Mimnermo non è distaccata come quella di Glauco e non si tratta più della vanità delle genealogie e dei vanti aristocratici, ma della brevità della giovinezza e dei piaceri della vita; non più eroica accettazione, dunque, ma drammatica protesta.

Pittore Cleofrade. Simposiasta che gioca al κότταβος. Pittura vascolare sul tondo di una κύλιξ attica a figure rose, 480 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.

Il poeta lirico Simonide di Ceo (VI-V secolo a.C.) risente sia di Omero sia di Mimnermo; egli cita esplicitamente il primo, «l’uomo di Chio» (una delle località che si vantava di essere stata la patria di Omero), ma, come Mimnermo, si serve del paragone fra uomini e foglie per lamentare la brevità dell’esistenza e della giovinezza, di cui gli uomini peraltro, nutrendo speranze irrealizzabili, mostrano di non essere consapevoli (F 8 West²):

ἓν δὲ τὸ κάλλιστον Χῖος ἔειπεν ἀνήρ·

‘οἵη περ φύλλων γενεή, τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν’·

παῦροί μιν θνητῶν οὔασι δεξάμενοι

στέρνοις ἐγκατέθεντο· πάρεστι γὰρ ἐλπὶς ἑκάστῳ

ἀνδρῶν, ἥ τε νέων στήθεσιν ἐμφύεται.

θνητῶν δ’ ὄφρά τις ἄνθος ἔχῃ πολυήρατον ἥβης,

κοῦφον ἔχων θυμὸν πόλλ’ ἀτέλεστα νοεῖ·

οὔτε γὰρ ἐλπίδ’ ἔχει γηρασέμεν οὔτε θανεῖσθαι,

οὐδ’, ὑγιὴς ὅταν ᾖ, φροντίδ’ ἔχει καμάτου.

νήπιοι, οἷς ταύτῃ κεῖται νόος, οὐδὲ ἴσασιν

ὡς χρόνος ἔσθ’ ἥβης καὶ βιότου ὀλίγος

θηντοῖς. ἀλλὰ σὺ ταῦτα μαθὼν βιότου ποτὶ τέρμα

ψυχῇ τῶν ἀγαθῶν τλῆθι χαριζόμενος.

Una sola cosa, bellissima, disse l’uomo di Chio:

“Quale la stirpe delle foglie, tale quella degli uomini”.

Pochi tra i mortali, dopo aver accolto nelle orecchie

queste parole, se le impressero in cuore: in ciascuno,

infatti, innata è la speranza, che sboccia nel cuore dei giovani.

Quando qualcuno dei mortali possiede l’amabile fiore di gioventù,

con animo leggero progetta cose irrealizzabili;

né ha alcun pensiero della vecchiaia o della morte,

né, quando è sano, si preoccupa della malattia.

Sciocchi, quelli che hanno questa mentalità, e non sanno

che il tempo della giovinezza e dell’esistenza è breve

per i mortali. Ma tu che l’hai capito, al limitare della vita,

fatti forza, godendoti nell’anima i beni.

(trad. it. I. Biondi)

Statua del vecchio (forse un indovino). Marmo, 454 a.C. ca. opera del ‘Maestro di Olimpia’, dal frontone orientale del Tempio di Zeus Olimpico. Museo Archeologico di Olimpia.

Anche Virgilio riprende nell’Eneide (VI 306-310) l’immagine delle foglie che in autunno cadono a terra numerose, come termine di paragone per la condizione delle anime dei defunti che si accalcano sulla riva dell’Acheronte:

huc omnis turba ad ripas effuse ruebat,

matres atque viri defunctaque corpora vita

magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,

impositique rogis iuvenes ante ora parentum:

quam multa in silvis autumni frigore primo

lapsa cadunt folia.

Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive,

donne e uomini, i corpi privati della vita

di magnanimi eroi, fanciulli e intatte ragazze,

e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri:

quante nelle selve al primo freddo d’autunno

cadono scosse le foglie.

(trad. it. R. Calzecchi Onesti)

Maestro della Leggenda dell’Eneide, La discesa di Enea negli Inferi. Smalto dipinto su rame argentato, c. 1530-1540. Baltimora, Walters Art Museum.

Come nel passo dell’Odissea ricordato sopra, qui il tertium comparationis è la quantità (quam multa): le foglie, numerose, sono però questa volta osservate alla fine della loro stagione, non all’inizio, coerentemente con la situazione dei defunti nell’Oltretomba.

Di questo passo virgiliano si sarebbe ricordato Dante (1265-1321) nell’Inferno (III 112-117):

Come d’autunno si levan le foglie

una appresso de l’altra, fin che ’l ramo

vede a terra tutte le sue spoglie,

similemente il mal seme d’Adamo

gittansi di quel lito ad una ad una,

per cenni come augel per suo richiamo.

Le anime si gettano nella barca di Caronte come le foglie, una dietro l’altra, in ottobre cadono dal ramo; a «levan» corrisponde «gittansi», a «una appresso de l’altra» corrisponde «ad una ad una».

Michelangelo Buonarroti, Giudizio Universale. Dettaglio: I dannati sulla barca infernale. Affresco, c. 1536-1541. Cappella Sistina, Città del Vaticano.

Lorenzo de’ Medici (1449-1492) nel poemetto Corinto, ricco di reminiscenze letterarie, riprende il parallelo fra uomini e foglie: il tema è quello del rimpianto del tempo breve della giovinezza. Il pastore Corinto, proiezione autobiografica del Magnifico, effonde al lume della Luna i suoi lamenti d’amore per la giovane e bella ninfa Galatea, ritrosa a ogni suo approccio; il suo discorso si conclude con l’immagine delle rose candide e rosse, appena sbocciate nel giardino e ben presto sfiorite. Il malinconico motivo delle rose, che si vedono nascere e morire «in men d’un’ora» (v. 177), offre lo spunto per un invito a cogliere senza indugio il fiore della gioventù e della bellezza, destinato inesorabilmente ad appassire nel più breve spazio di tempo (vv. 178-183):

Quando languenti e pallidi vidi ire

le foglie a terra, allor mi venne in mente

che vana cosa è il giovenil fiorire.

Nostro solo è quel poco ch’è presente,

né il passato o il futuro è nostro tempo:

un non è più, e l’altro è ancor nïente.

Infine, Giuseppe Ungaretti (1888-1970), nella lirica Soldati, composta nel bosco di Courton, in Francia, sul limitare della Grande guerra (nel luglio 1918), attraverso la similitudine uomini-foglie, resa in forma epigrammatica, sottolinea, come già Mimnermo, la fragilità della condizione umana, accentuata in questo caso dalla drammatica esperienza bellica:

Soldati

Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie

Il titolo, Soldati, è il primo termine del paragone che viene svolto nei quattro versi del testo; il tertium comparationis è il modo di stare, precario: quello dei soldati in attesa del distacco definitivo e inevitabile della vita e quello delle foglie in autunno, quando un soffio di vento basta per farle cadere.

***

Riferimenti bibliografici:

M. Barbi, Per due similitudini dell’Inferno, SD 11 (1927), 121-128.

B. Maier, Lorenzo de’ Medici, in W. Binni (ed.), Da Dante al Tasso, I, Firenze 1954, 257-276.

G. Regoliosi, Il tertium comparationis fra uomini e foglie, Zetesis 1 (1994) [www.rivistazetesis.it].

Il culto di Iside a Roma

Come nel Mediterraneo orientale, durante il periodo ellenistico, il culto di Iside attecchì presto in Sicilia, Sardegna e Italia, al punto che, nelle città portuali della Penisola, come Puteoli, Pompeii e Ostia, questa religione era ormai ben radicata intorno all’88 a.C. La fondazione di un Iseum a Pompei risale alla fine del II secolo a.C., così come un santuario dedicato alle divinità alessandrine fu eretto a Puteoli nel 105. Con il ritorno forzato dei mercanti italici dall’Oriente, a causa della guerra mitridatica, era solo questione di tempo perché il culto isiaco da essi abbracciato si diffondesse e si affermasse anche in Roma: Lucio Apuleio racconta che il primo collegium pastophorum dell’Urbe fu istituito ai tempi di Silla (Apul. Met.  XI 30). La religione della dea, comunque, conobbe in età repubblicana vicende alterne: le reazioni contro il culto isiaco negli anni 58, 53 e 48 a.C. (Tert. Ad nat. 1, 10; DCass. XL 47; XLII 26) furono di natura eminentemente politica, visto che l’élite senatoria si sentiva sempre più limitata nell’esercizio del potere. Infatti, una delle prerogative del venerando consesso consisteva nell’approvazione e nell’introduzione di culti stranieri nel sistema religioso romano. In quelle occasioni, fu la rivendicazione dei propri privilegi e la salvaguardia della propria autorità a indurre i patres a sanzionare la soppressione e l’espulsione delle associazioni isiache da Roma. Tuttavia, l’approvazione e l’inaugurazione di un tempio votato alla dea da parte del secondo collegio triumvirale nel 43 a.C. dimostra chiaramente che il culto di Iside non era scomparso del tutto (DCass. XLVII 15, 4). Dopo la vittoria di Ottaviano ad Azio e il consolidamento del suo potere, il princeps varò due provvedimenti (nel 28 e nel 21 a.C.: DCass. LIII 2, 4; LIV 6, 6) con i quali bandì la religione isiaca dall’Urbe: queste disposizioni rientravano a pieno titolo nel suo programma di restitutio rei publicae e di restaurazione del mos maiorum, in una fase di definizione dell’autorità e dei poteri del primo imperatore.

Frederick Arthur Bridgman, Navigium Isidis. Olio su tela, 1902.

Il decreto di Tiberio di proibire a Roma le religioni straniere e le cerimonie egizie e giudaiche, espellendone i cultori (Tac. Ann. II 85, 4; Ios. AI XVIII 72; Suet. Tib. 36, 1), può essere inteso come un’ulteriore misura atta a preservare la morale tradizionale, sebbene sia più probabile che fosse legato agli eventi occorsi in Egitto nell’inverno 18-19 d.C., in occasione del soggiorno di Germanico nel Paese: il figlio adottivo dell’imperatore, infatti, aveva visitato il Paese per conoscerne le antichità, ma sembra che il reale motivo di quel viaggio fosse la carestia che vessava l’Egitto. Così, Germanico aveva ordinato l’apertura dei granai di Stato, facendo diminuire il prezzo delle derrate alimentari. Queste disposizioni, insieme ad altri atteggiamenti tenuti dal condottiero, suscitarono la disapprovazione del principe, anche perché Germanico era entrato in Alessandria, trasgredendo le disposizioni di Augusto e senza l’autorizzazione del principe (Tac. Ann. II 59). A ogni modo, l’allontanamento dall’Urbe dei seguaci di Iside e dei giudei fu un atto pubblico che Tiberio assunse per confermare la propria autorità politica e religiosa, come garante dell’ordine. La taccia di superstitio, che da allora colpì il culto isiaco, decadde con il consolidamento del principato e la progressiva assimilazione dell’Egitto come parte integrante dell’Impero romano. Difatti, già nell’ultimo periodo di Caligola la religione della dea fece il suo ingresso ufficiale a Roma, quando fu eretto il tempio di Iside Campense in Campo Marzio e all’inizio del principato di Claudio il culto fu riconosciuto tra i sacra publica.

Iside. Statua, marmo, prima metà del II secolo. Roma, Musei Capitolini.

Il legame tra Iside e la domus Augusta si rafforzò durante il governo di Vespasiano: questi, non a caso, era stato acclamato imperator dalle truppe di stanza ad Alessandria il 1 luglio del 70 (Ios. BI IV 10, 6) e, in seguito, aveva trascorso la notte prima del trionfo congiunto con il figlio Tito nell’Iseum Campense (Ios. BI VII 5, 3-6; Suet. Vesp. 8). La devozione e l’atteggiamento di pietas rivolto alle divinità alessandrine, mostrati dalla gens Flavia, si manifestarono dopo l’incendio dell’80, con la ricostruzione del santuario voluta da Domiziano (DCass. LXVI 24, 2; Eutrop. VII 23, 5). Tre iscrizioni romane rivelano il collegamento fra Marco Aurelio e gli dèi alessandrini, benché l’imperatore non ne fosse un diretto cultore (CIL 6, 570; 573; IG XIV 1024 = IGRR 2, 101). Nel corso del II secolo il culto isiaco si estese attraverso la città portuali e le vie militari in tutte le province dell’Impero, raggiungendo anche la Germania meridionale e il Noricum, in particolare dopo la vittoria di Marco Aurelio su Quadi e Marcomanni (DCass. LXXI 8). Dopo gli interventi di restauro al tempio in Campo Marzio voluti da Severo Alessandro (SHA Alex. 26, 8), la religione della dea rimase in vita fino all’abolizione dei culti tradizionali e l’avvento del Cristianesimo.

Il sacerdote di Iside e alcuni fedeli durante una cerimonia. Affresco, I secolo, da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Due sono le grandi festività associate alla dea Iside durante l’età imperiale romana: il cosiddetto navigium Isidis (o πλοιαφέσια), celebrato il 5 marzo (Apul. Met. XI 8-17; Lyd. Mens. 4, 45), e l’inventio (εὕρεσις) Osiridis, che si teneva dal 28 ottobre al 3 novembre; entrambe le solennità erano strettamente connesse al mito egizio di Iside e Osiride. La ricorrenza di primavera, stagione che coincideva con la ripresa della navigazione marittima, ricordava il viaggio di Iside a Biblo, in Libano, per ritrovare lo sposo Osiride. Apuleio fornisce una descrizione piuttosto vivace della processione mascherata (Apul. Met. VIII 17). L’altra cerimonia, con la sua progressione dal dolore alla gioia, commemorava la conclusione della ricerca di Iside con il ritrovamento del cadavere smembrato del divino marito, la sua ricomposizione e la sua resurrezione. Diversamente, i riti misterici legati alla dea sono, per loro stessa natura, difficili da spiegare: sempre Apuleio (Met. XI) a tal proposito traccia un ampio quadro dei rituali preparatori (comando onirico dell’iniziazione, bagno lustrale, digiuno, vestizione con il lino) e le cerimonie conclusive (vestizione con le dodici – cosmiche? – vesti, presentazione dell’iniziato alla comunità dei fedeli), ma si limita a circoscrivere il rito notturno come una sorta di viaggio nell’Oltretomba, l’incontro con la morte e gli dèi inferi.

Scena del Navigium Isidis. Affresco, I secolo, dal Sacrarium del tempio di Iside a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Le comunità isiache presentavano un collegio di cinque intermediari del culto, variamente detti antistites o παστοφόροι, capeggiati da un sacerdote superiore e ben distinguibili durante le processioni grazie ai paramenti indossati (Apul. Met. XI 10). Ciascun ministro di culto, uomo o donna, ricopriva questa onorificenza per almeno un anno e in certi casi perfino a vita. Nelle iscrizioni votive e nelle dediche onorifiche compaiono figure di custodi templari, come νεωκόροι o ζάκοροι, che probabilmente assistevano anche gli officianti durante i sacrifici. I παστοφόροι (“portatori di reliquie”) di cui si ha notizia in Occidente erano equiparati agli ἱεροφόροι e agli ἁγιοφόροι di altre religioni. Ad Alessandria il grande sacerdote della dea era noto come προφήτης e inferiore a lui di un grado nella gerarchia compariva lo στολιστής (“vestitore”). Si possiede un’unica testimonianza di una ornatrix fani (“decoratrice del santuario”) in Occidente (SIRIS 731).

Sacerdote tenente nelle mani una corona di rose con serpente. Affresco, I secolo, dal Tempio di Iside a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Allo στολιστής era direttamente subordinato lo scriba della comunità (Apul. Met. XI 17), che però, come gli astrologi (ὡροσκόποι, ὡρολόγοι) e i cantori (ὑμνῳδοί), non trova attestazione al di fuori dell’Egitto. C’erano poi i cosiddetti θεραπευταί o cultores, gli adepti privi di rango o funzione nella gerarchia. Infine, sui reperti epigrafici compaiono figure variamente note come ναύαρχοι o ναυβάται: si trattava spesso di membri del culto che officiavano la πλοιαφέσια. Nel complesso, si può notare come i sacerdoti quanto i funzionari delle associazioni cultuali laici potessero essere insigniti delle medesime dignità. Spesso non tutti i dedicanti o i destinatari di un’iscrizione erano iniziati al culto della dea: anzi, la maggior parte dei documenti iscritti è costituita da ex voto prodotti da fedeli e da cultori, mentre le epigrafi ufficiali (soprattutto quelle pro salute imperatoris) erano di natura eminentemente politica.

Iside. Statua, marmo, prima metà del I sec. d.C. dall’angolo nordorientale del porticus nel tempio di Iside a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Ora, in tutti gli aspetti del culto, del mito e dell’immagine di Iside predominano gli elementi egiziani: nell’antico Egitto ella era una divinità salvatrice, legata alla fertilità della terra, e la concezione di lei come guaritrice, protettrice e madre era assai diffusa in tutto il Mediterraneo antico. Le statue di epoca ellenistica e imperiale la ritraggono come una divinità greca o romana, assimilata a Demetra/Cerere, ma i tratti caratteristici sono la presenza dell’ankh nella mano sinistra, simbolo egizio della vita, e vesti molto aderenti, che lasciano intravedere le curve. L’erotismo fu senz’altro una componente che contribuì al sincretismo fra la dea e Afrodite/Venere. D’altra parte, la statua di Iside, ora conservata presso i Musei Capitolini, mostra una dea pienamente romanizzata: ella è raffigurata con un’acconciatura tipicamente romana con i capelli coperti da un velo, un segno di rispettabilità degno di una matrona dell’alta società. Sembra che il culto di Iside abbia inciso profondamente sulla cultura occidentale nell’epoca della praeparatio evangelica, proponendo l’immagine di una figura femminile materna che allatta il bambino (Horus), capace di infondere pace e serenità.

L’antropologo inglese James George Frazer (1854-1941) individuò interessanti analogie tra il culto di Iside e quello cristiano della Vergine Maria, avanzando l’ipotesi che la religione dell’Antico Egitto possa aver influenzato il simbolismo cattolico e le sue astrazioni teologiche:

«I Greci concepivano Iside come divinità del grano, identificandola con Demetra. Un epigramma greco la descrive come “colei che ha partorito i frutti della Terra” e come “madre delle spighe di grano”, e, in un inno composto in suo onore, lei stessa si definisce “regina dei campi di grano”, e viene identificata come “colei che si prende cura del sentiero ricco di grano del solco fecondo”. Spesso, quindi, gli artisti greci e romani la raffiguravano con spighe di grano fra i capelli o tra le mani. Possiamo dunque supporre che, anticamente, Iside fosse un’agreste madre del grano, adorata con ingenue cerimonie dai contadini egiziani. Ma sarebbe difficile rintracciare le rustiche fattezze della zotica dea nell’elegante e ieratica immagine, affinata da secoli di evoluzione religiosa, che si presentava ai suoi fedeli in epoca assai più tarda: moglie fedele, tenera madre, benefica sovrana della natura, circonfusa da un nimbo di purezza morale, di arcaica e misteriosa santità. Così purificata e trasfigurata, conquistò molti cuori, ben oltre i confini della sua terra natale. In quella babele di religioni che accompagnò il declino della vita nazionale dell’antichità, il suo culto fu uno dei più popolari a Roma e in tutto l’Impero. Perfino alcuni imperatori romani le furono apertamente devoti. E, benché la religione di Iside, come altre religioni, possa spesso essere servita da copertura a uomini e donne di liberi costumi, i suoi riti ci appaiono, nel complesso, contraddistinti da una dignitosa compostezza, una decorosa solennità, pienamente idonee a placare una mente turbata, a lenire un cuore oppresso. Essi attiravano quindi le anime sensibili, soprattutto le donne, disgustate e scandalizzate dai riti cruenti e licenziosi di altre divinità orientali. Non fa meraviglia quindi che, in un’epoca di decadenza, quando ogni fede tradizionale era scossa, quando i sistemi crollavano, le menti erano turbate e il tessuto stesso dell’Impero, considerato un tempo eterno, cominciava a mostrare strappi e lacerazioni sinistre, la serena immagine di Iside, con la sua pacatezza spirituale, la sua benevola promessa di immortalità, apparisse agli occhi di molti come una stella in un cielo tempestoso, suscitando nei loro cuori una devozione estatica non dissimile da quella che, nel Medioevo, fu tributata alla Vergine Maria. In realtà, il suo rituale solenne, con i sacerdoti sbarbati e tonsurati, i suoi mattutini e i suoi vespri, la sua musica argentina e melodiosa, il battesimo e l’aspersione con l’acqua santa, le imponenti processioni, le immagini ingioiellate della Madre di Dio, presentavano molti punti in comune con le pompe e le cerimonie del Cattolicesimo. E non è detto che si tratti di una somiglianza puramente accidentale. L’antico Egitto può aver contribuito al sontuoso simbolismo della Chiesa cattolica e alle sue rarefatte astrazioni della sua teologia. Senza dubbio nell’iconografia, l’immagine di Iside che allatta il bimbo Horo è così simile a quella della Madonna col Bambino che, a volte, riceveva l’adorazione di cristiani inconsapevoli. E a Iside, nella sua successiva connotazione di patrona dei marinai, la Vergine Maria deve forse il suo stupendo appellativo di Stella Maris, con cui la invocavano i naviganti nella tempesta. Gli attributi della divinità marina vennero forse conferiti a Iside dai navigatori greci di Alessandria. Sono totalmente estranei alle caratteristiche innate e alle abitudini degli Egizi che non amavano il mare. In base a questa ipotesi Sirio, l’astro di Iside che sorge dalle acque del Mediterraneo orientale, foriero di un cielo sereno, era per i naviganti la vera Stella Maris, la “Stella del Mare”».

(J.G. Frazer, Il ramo d’oro, Roma 1992, 436-437)

Isis lactans. Affresco, IV secolo, dalle rovine di un’abitazione a Karanis (Egitto).

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Il lusso sfrenato di Nerone: le grandi costruzioni (Suet. Nero 31)

Il capitolo 31 della Vita Neronis si concentra sulla trattazione di uno dei vizi del principe, l’inclinazione al lusso sfrenato e allo sperpero facile di denari, e in particolare allo sfoggio di magnificenza nelle costruzioni. La prima parte del brano è dedicata alla descrizione della sontuosa dimora che Nerone si fece costruire tra Esquilino e Palatino, la Domus transitoria, che avrebbe dovuto garantire un “transito” e collegare i nuclei delle proprietà imperiali sui rispettivi colli. La casa “di passaggio” andò distrutta, insieme a mezza Roma, nel terribile incendio del luglio 64. Il disastro diede modo a Nerone di mettere in cantiere progetti urbanistici ancora più ambiziosi, certamente di pubblica utilità; ma naturalmente il principe sfruttò l’occasione per potare a compimento la costruzione del proprio palazzo, passato alla storia come Domus Aurea. La direzione dei lavori fu affidata agli architetti Severo e Celere (Tac. Ann. XV 42); è noto anche il principale decoratore, il pittore Fabullo, o Famulo: Plinio il Vecchio lo descrive come una persona di grande dignità, che dipingeva in toga perfino sulle impalcature, per rendere omaggio all’arte (Plin. NH. XXXV 120).

Lucina presenta il piccolo Adone alla dea Venere. Affresco, I sec. d.C. dalla Domus aurea di Nerone. Oxford, Ashmolean Museum.

La nuova versione della residenza imperiale è descritta da Svetonio come una città nella città, tanto sontuosa e sfarzosa da ospitare al suo interno campi e parchi, con grande varietà di flora e di fauna, e un lago tanto grande da sembrare un mare. Al suo interno Nerone fece erigere un colosso a propria immagine e somiglianza, affidandone la realizzazione allo scultore Zenodoro (cfr. Plin. NH. XXXIV 45-47): alta circa 36 metri (secondo Svetonio), 35 (secondo Plinio), la statua era nota semplicemente come “Colosso”; dopo la morte dell’imperatore (giugno 68), fu trasformata in effige del dio Sole (DCass. LXV 15, 1) e, in seguito, trasferita di fronte all’anfiteatro Flavio, facendo sì che quest’ultimo, con il tempo, prendesse il nome popolare di “Colosseo”.

Certamente, la Domus aurea non rappresentò l’unico eccesso architettonico di Nerone. Il principe, infatti, volle che fosse costruita anche un’immensa piscina coperta in cui convogliare le acque termali della città campana di Baia; alla piscina era possibile recarsi in nave direttamente dal porto di Ostia attraverso un canale scavato appositamente, abbastanza largo da consentire il transito simultaneo di due grandi imbarcazioni che procedevano in direzione opposta.

Lawrence Alma-Tadema, Scultori nell’antica Roma. Olio su rame, 1877. Kiev, Museo Chanenko.

[31.1] Non in alia re tamen damnosior quam in aedificando domum a Palatio Esquilias usque fecit, quam primo transitoriam, mox incendio absumptam restitutamque auream nominauit. de cuius spatio atque cultu suffecerit haec ret‹t›ulisse. uestibulum eius fuit, in quo colossus CXX pedum staret ipsius effigie; tanta laxitas, ut porticus triplices miliarias haberet; item stagnum maris instar, circumsaeptum aedificiis ad urbium speciem; rura insuper aruis atque uinetis et pascuis siluisque uaria, cum multitudine omnis generis pecudum ac ferarum. [2] in ceteris partibus cuncta auro lita, distincta gemmis unionumque conchis erant; cenationes laqueatae tabulis eburneis uersatilibus, ut flores, fistulatis, ut unguenta desuper spargerentur; praecipua cenationum rotunda, quae perpetuo diebus ac noctibus uice mundi circumageretur; balineae marinis et albulis fluentes aquis. eius modi domum cum absolutam dedicaret, hactenus comprobauit, ut se diceret quasi hominem tandem habitare coepisse.

[3] Praeterea incohabat piscinam a Miseno ad Auernum lacum contectam porticibusque conclusam, quo quidquid totis Bais calidarum aquarum esset conuerteretur; fossam ab Auerno Ostiam usque, ut nauibus nec tamen mari iretur, longitudinis per centum sexaginta milia, latitudinis, qua contrariae quinqueremes commearent. quorum operum perficiendorum gratia quod ubique esset custodiae in Italiam deportari, etiam scelere conuictos non nisi ad opus damnari praeceperat.

[4] Ad hunc impendiorum furorem, super fiduciam imperii, etiam spe quadam repentina immensarum et reconditarum opum impulsus est ex indicio equitis R. pro comperto pollicentis thesauros antiquissimae gazae, quos Dido regina fugiens Tyro secum extulisset, esse in Africa uastissimis specubus abditos ac posse erui paruula molientium opera.

[31.1] Tuttavia gli sperperi maggiori li fece nelle opere di costruzione. Si fece costruire una dimora che si estendeva dal Palatino all’Esquilino, che dapprima chiamò transitoria e poi, quando la fece riedificare perché era andata distrutta da un incendio, aurea. Della sua grandezza e magnificenza basterà dire questo: c’è un atrio in cui era stata eretta una statua colossale di Nerone alta centoventi piedi. Tale era l’ampiezza, che all’interno aveva porticati a tre ordini di colonne, lunghi un miglio; c’era anche un lago artificiale che sembrava un mare, circondato da edifici che formavano come delle città. Inoltre, all’interno, c’erano campi, vigne, pascoli, boschi con svariati animali, selvatici e domestici, d’ogni specie. [2] Negli altri ambienti, ogni cosa era rivestita d’oro, di gemme preziose e madreperla. Il soffitto delle sale da pranzo era a lastre d’avorio mobili e forate, cosicché vi si potessero far piovere dall’alto fiori ed essenze. Il salone principale era circolare e ruotava su sé stesso tutto il giorno e la notte, senza mai fermarsi, come la Terra. Nelle sale da pranzo scorrevano acque marine e albule. Quando Nerone inaugurò questa casa, finiti i lavori, espresse il suo compiacimento, dicendo che «finalmente, poteva cominciare ad abitare in modo degno di un uomo». [3] Intraprese anche la costruzione di una piscina coperta, cinta da porticati, da Miseno al lago d’Averno, dove far convogliare le acque termali di Baia, e un canale, dall’Averno a Ostia, per potervisi recare in nave, senza affrontare il mare aperto: sarebbe stato lungo centosessanta miglia e largo tanto da consentire il passaggio simultaneo di due quinqueremi che viaggiassero in direzione opposta. Per realizzare tali opere aveva ordinato di deportare in Italia tutti i detenuti da qualsiasi luogo si trovassero e di comminare a tutti i condannati, per qualsiasi crimine, i lavori forzati.

[4] A tale frenesia di spese fu spinto, oltre che dalla fiducia nel proprio potere, anche da una certa speranza, sorta all’improvviso, di poter scoprire immensi giacimenti sommersi, dietro rivelazione di un cavaliere romano, il quale sosteneva con certezza che le ricchezze dell’antichissimo tesoro che Didone, fuggendo da Tiro, aveva condotto con sé, erano nascoste in Africa, in enormi caverne e si potevano estrarre con pochissima fatica.

Grottesca (particolare). Affresco, c. 65-68 dalla Sala delle Maschere, Domus aurea. Roma, Parco Archeologico del Colosseo.

L’espropriazione di una parte tanto rilevante del centro urbano suscitò meraviglia e malumori da parte del popolo, che pure amava l’imperatore. Le proteste si limitarono tuttavia a bisbigli e sarcasmo. Un celebre epigramma che, a detta di Svetonio (Nero 39), circolava in quel periodo – una sorta di “pasquinata” – era il seguente: Roma domus fiet: Veios migrate, Quirites / si non et Veios occupat ista domus («Roma diventa una casa: emigrate a Veio, o Quiriti! / Sempre che questa dimora non giunga fino a Veio!»). Dopo la fine di Nerone, Vespasiano si affrettò a restituire al pubblico un patrimonio architettonico e paesaggistico di simile valore, che comunque fu in gran parte smantellato. Il lago artificiale fu ricoperto e la valletta nella quale era stato realizzato servì per la costruzione dell’anfiteatro Flavio, nei pressi del quale fu collocata la statua colossale di Nerone. Anche le terme di Traiano e il tempio di Venere (cfr. SHA Hadr. 19, 12-13) sorsero sul colle Oppio, un tempo occupato dalla Domus aurea. Nel giro di quarant’anni il sito in cui sorgeva la “Casa d’Oro” fu colmato di nuovi edifici. Questo fatto rappresentò, paradossalmente, una fortuna: inglobati nelle fondamenta delle costruzioni successive, i resti dell’enorme residenza conservarono, protetti dall’umidità, i pregevoli affreschi e le decorazioni parietali (le cosiddette “grottesche”)

La Domus aurea venne alla luce incidentalmente, quando, alla fine del XV secolo, un giovane romano cadde in una fessura sul versante del colle Oppio, ritrovandosi in una delle stanze dipinte del palazzo. Le “grottesche”, costituite da ghirlande di elementi vegetali, animali e creature fantastiche, suscitarono l’interesse degli artisti del Rinascimento come Pinturicchio, Michelangelo e Raffaello, che si fecero calare nei cunicoli per poter studiare da vicino queste immagini e copiarle sui loro taccuini. Questo genere di decorazioni ebbe un impatto di straordinaria importanza sullo sviluppo dell’arte rinascimentale e successiva: dalla fine del Quattrocento alla fine del Settecento i motivi “a grottesca” furono utilizzati praticamente ovunque, diventando una specie di ossessione. Si ricordi, tanto per fare un esempio, gli stucchi delle Logge Vaticane e quelle di Villa Madama, a opera di Giovanni da Udine (1487-1564).

Achille a Sciro. Affresco, c. 65-68, dalla Domus aurea. Roma, Parco Archeologico del Colosseo.

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