Solone

di MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 226-233.

 

L’opera di Solone, arconte nel 594/93, secondo Diogene Laerzio, o nel 592/91, secondo la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele, porta a piena maturazione quelle premesse politiche e sociali che abbiamo intravisto nella comunità aristocratica attica del medio arcaismo. Solone operò infatti sia sul terreno sociale, sia su quello politico-costituzionale; fu riformatore sociale e fu nomoteta, autore di leggi costituzionali, che sostituirono i thesmoí di Dracone. Complessivamente, egli non appare autore di riforme in grado di stravolgere il vecchio profilo politico ateniese o la realtà socio-economica, cioè l’assetto proprietario, dell’Attica. E tuttavia è chiaro che sul terreno sociale egli incise con azioni innovative, volte quanto meno a sanare i guasti che nel corso del tempo si erano determinati nel corpo sociale e nell’economia dell’Attica; sul terreno politico-costituzionale l’opera di Solone fu quella di un codificatore, capace di portare ordine nelle vecchie e conservate strutture, e di ammodernare qua e là. Non fu il creatore della democrazia, anche se la tradizione antica o la riflessione moderna avvertono un filo di sviluppo, tormentato ma continuo, tra l’azione di Solone e il formarsi di gruppi e programmi politici differenziati, con i relativi conflitti, nei decenni successivi, e quindi la tirannide di Pisistrato e dei figli e la democrazia creata dall’alcmeonide Clistene nel 508/07[1].

Solone. Busto, marmo, copia romana da originale di IV sec. a.C. ca. Malibu, J.P. Getty Museum.

Solone avverte acutamente il divario tra la struttura politica, che va conservata anche se perfezionata e resa stabile, e il rapporto sociale, che è diventato conflittuale e drammatico, tra ricchi e poveri, cioè tra i proprietari della terra e i suoi coltivatori. Questo è il quadro dell’assetto proprietario in Attica, come fornito da Aristotele: e fondamentalmente esso è giusto, purché non ci si fermi alle definizioni formali, ma si tenga conto di tutto ciò che esse contengono, e della testimonianza diretta di Solone che egli ci riporta. È soprattutto in gioco la condizione degli hektēmóroi, coloro che lavorano la terra per conto dei ricchi, versando forse come canone 1/6 del prodotto; poiché anche rispetto all’assolvimento di quest’obbligo essi risultano spesso morosi, rischiano d’essere venduti schiavi e come tali trasportati fuori dall’Attica.

Di questo quadro, tutto è stato messo in discussione, con proposta di soluzioni di cui è difficile non vedere la distanza sia dai testi antichi sia dalla verosimiglianza storica. Ora si ammette che ci fosse solo una grande proprietà privata, ma non una media e piccola e che, accanto a grandi proprietà private, ci fossero ancora vaste proprietà pubbliche, che sarebbero dirette eredi e continuatrici di quelle di epoca micenea; ora invece si considera la condizione degli hektēmóroi come il risultato dello scadimento dalla condizione di proprietari privati di un tempo, e quindi si dà un largo spazio alla costituzione e alla diffusione della piccola e media proprietà privata durante i secoli dell’alto e del medio arcaismo. Probabilmente queste rappresentazioni peccano tutte di rigidità e di nominalismo, e tengono poco conto di certe retroiezioni che (a livello formale, soltanto, e senza tradire, a ben guardare, la realtà) Aristotele opera, dalle condizioni economiche del IV secolo a.C. a quelle della fine del VII e dell’inizio del VI[2].

Moschóphoros. Statua, marmo dell’Imetto, 570-560 a.C., Atene, Museo dell’Acropoli.

Se si opera sulla base di una nozione e condizione teoricamente e giuridicamente ben definita di proprietà, si trasferisce con ogni probabilità nell’epoca pre-soloniana e soloniana uno sviluppo dell’idea e delle forme legali distintive della proprietà terriera, che appartiene ad epoca più tarda. In modo particolare, poi, si trascura il fatto che il sistema delle místhōseis (o dei misthōmata o, in generale, misthoí), cioè un vero e proprio sistema dei fitti, una condizione economica in cui è sviluppato il rapporto proprietà-fitto (e perciò si abitano case prese, o ridotte ad essere prese, in fitto, e si coltivano terreni in analoghe condizioni), è ciò che caratterizza l’evoluzione dei rapporti sociali e lo sviluppo dell’economia monetaria tra V e IV secolo a.C., con particolare forza nel IV secolo. Il rapporto ricchezza-povertà, sul terreno della proprietà terriera (centrale nella concezione di Aristotele e nella sua rappresentazione dell’economia), doveva con molta facilità presentarsi ad Aristotele sotto le vesti del rapporto affittuario: salvo che il fitto o il canone nel IV secolo si pagano prevalentemente in denaro, e quelli della fine del VII o dell’inizio del VI si pagano (ed è una prima correzione storica da apportare ad Aristotele) prevalentemente in natura (benché, per Aristotele stesso, all’inizio del VI secolo molti rapporti sociali figurino ormai mediati dalla moneta, in Attica). Chi pensa agli hektēmóroi come coltivatori di terre appartenenti di diritto allo Stato, come residuo di forme micenee, dà probabilmente minore importanza al fatto che quel tipo di proprietà era collegato col potere palaziale; se permangono (anzi, probabilmente, si sviluppano) le proprietà sacre, è ben difficile che con la fine dei palazzi non abbia coinciso un certo sviluppo della proprietà privata. Ma questo non comporta necessariamente una formazione significativa di piccola e media proprietà, condizione da cui poi, per successivi e crescenti indebitamenti, i titolari sarebbero scaduti nella gravosa e rischiosissima condizione di hektēmóroi. Se però si ammette quel che suggeriscono le parole dello stesso Solone («mi può essere eccellente testimone, nella giustizia del Tempo, la madre grandissima degli dèi Olimpi, la nera Terra, da cui io strappai i cippi che in più luoghi erano infissi, Terra un tempo asservita, ora invece libera!»)[3], egli determinò la liberazione della terra, cioè la ricostituzione di condizioni diverse da quelle di servitù che i cippi attestavano e garantivano.

Dunque è plausibile un quadro come quello che segue. Con la crisi del potere miceneo si accentua in Attica quella frantumazione della proprietà, che, nelle forme socialmente riconosciute e garantite, non poteva essere altro che proprietà di relativamente grandi dimensioni. Si viene però a creare un’articolazione collegata alla presenza sulla terra dei suoi diretti coltivatori, che rapidamente ne diventano i possessori di fatto, con obblighi di tipo tributario verso i grandi proprietari (gli unici ad avere, e a potere avere, nelle condizioni dell’epoca, un titolo legale). Un interprete del IV secolo (epoca di místhōseis), come Aristotele, trascriveva questa diffusissima forma di proprietà embrionale, proprietà di fatto (ma non per questo meno esposta a rischi per la persona del coltivatore) in un rapporto affittuario: e, in fondo, non sbagliava, salvo per un eccesso di formalizzazione (da parte sua), non meno inadeguata di quella che operano quegli studiosi moderni che ragionano in termini di proprietà di pieno diritto, per possedimenti di minori dimensioni.

Atene, obolo, 500-480 a.C. ca. AR. 0, 53, Recto: civetta, stante verso destra; sul bordo, l’iscrizione AΘE[NAI].
Solone proibisce la schiavitù per debiti, cioè la sua premessa, che è la possibilità di contrarre debiti e assumere ipoteche sui propri corpi (epí toîs sómasin). Inoltre abolisce i debiti (fa quello che le fonti chiamano chreōn apokop, «taglio dei debiti»). L’osservatore di un secolo di piena economia monetaria può interpretare il taglio come parziale e non totale, e la riduzione del debito così ottenuta può anche collegarla con la riforma monetaria attribuita a Solone, cioè la sostituzione della dracma leggera d’argento (dracma euboica), di g. 4,36, alla dracma pesante (eginetica), di g. 6,2: di fatto, una svalutazione di circa il 30 %, che riduceva i debiti di altrettanto. Ed è proprio così, in termini forse riduttivi, che ragionava l’attidografo Androzione. Non è invero chiaro né il rapporto tra la forma del sistema ipotecario (sarebbe vano negare che esista una forma elementare, e fondamentalmente pre-monetale, di ipoteca già in questo periodo) e il «taglio dei debiti», né quello tra tale taglio e la riforma monetaria. Ma se si dà un minimo credito alla tradizione su un qualche uso di moneta di tipo eginetico ad Atene prima di Solone (del resto, se Atene apparteneva all’anfizionia di Calauria nel VII secolo, tali condizioni esistevano in pieno), si può salvare gran parte della tradizione, e non ridurre tutte le misure soloniane ad un solo atto. L’abolizione (o forte riduzione) dei debiti nel pagamento del canone in natura ci dev’essere stata (e questo sarà il senso fondamentale della problematica parola seisáchtheia, o «scuotimento dei pesi»); ma, accanto, ci saranno state prime forme di indebitamento anche attraverso il nuovo sistema economico, non ancora dominante, ma certo affiorante, della moneta: la riforma monetaria avrà quindi operato in questo settore come strumento significativo, ma non unico, di alleviamento[4]. La condizione della terra, dopo questa riforma di Solone, non era profondamente trasformata rispetto al passato, ma si erano parzialmente create le condizioni per un consolidamento del rapporto di possesso stabile (tanto più che erano stati fatti sparire i cippi che attestavano un diritto diverso di proprietà).

Sul piano politico-costituzionale Solone conferma le vecchie articolazioni censitarie, le vecchie “classi” (télē), forse aggiungendone una, la prima, e definendo i termini quantitativi degli ormai quattro télē: pentacosiomedimni, coloro che avevano una rendita annua di 500 medimni di frumento (o 500 metreti di vino o d’olio); cavalieri (a quota 300); zeugiti (possessori di un paio = zeûgos di buoi? O “opliti”? a quota 200); teti (o salariati), sotto quest’ultimo livello. Le cariche degli arconti e dei tesorieri (tamiaí) erano riservate ai pentacosiomedimni (o forse estese, per quanto riguarda gli arconti, anche alla seconda classe). Ai teti tuttavia la costituzione di Solone garantiva non soltanto la partecipazione all’assemblea (ekklēsía), ma anche al tribunale del popolo (heliaía), di cui egli sarebbe stato creatore o massimo potenziatore. Forse Solone arricchiva il vecchio quadro istituzionale con un nuovo consiglio, quello dei 400, cento per ciascuna delle quattro tribù; ognuna delle tribù era divisa in tre “terzi” (tre trittýes), e in 12 naucrarie (“distretti”, e insieme cariche dei naucrari, con funzioni finanziarie)[5].

Misure attiche per gli aridi (sopra) e per i liquidi (sotto), secondo A. Segré, Metrologia e circolazione monetaria degli antichi, Bologna 1928, 131 ss.

Come si vede, l’opera di Solone, se e in quanto innovatrice, si limita ad articolazioni ulteriori dell’assetto tradizionale, che equivalgono certo a un suo rafforzamento nella coscienza generale. Egli aveva anzi rifiutato le sollecitazioni di alcuni e la tentazione, offerta dalla situazione oggettiva, di farsi tiranno. A questo fermo atteggiamento sul piano del potere politico corrisponde, sul piano economico, il rifiuto di una redistribuzione della terra (ghēs anadasmós), che avrebbe significato il rovesciamento dei diritti formali di proprietà, quelli cioè dei grandi proprietari, gli unici a possedere probabilmente titoli del genere che fossero formalmente definiti, in quelle condizioni storiche. L’agricoltura non riceveva dunque impulsi particolari dalla sanatoria introdotta da Solone; viceversa, sembra plausibile che egli abbia favorito l’artigianato, la produzione ceramica, in una con un certo sviluppo mercantile, in quanto consentì l’esportazione dell’olio, pur vietando altre forme di esportazione[6]. Egli si configura dunque come un valorizzatore del politico, come un creatore di valori comunitari. La sua debolezza, sul terreno dei fatti, è di operare solo mediazioni: ad Atene egli vuole essere, ed è, il dialaktḗs, il “pacificatore”, il “conciliatore”, il “grande mediatore”: non vuole essere (e non è) il tiranno.

Finita la sua opera, egli si trasferisce per commercio e turismo in Egitto; ad Atene riprendono le stáseis, i “conflitti politici”. Dopo cinque anni un’anarchia (= “assenza di arconte”), dopo altri cinque una nuova anarchia, quindi, per un paio d’anni (582-580), un arcontato di durata eccezionale, di un certo Damasia. Ad Atene si hanno già formazioni politiche di tipo corporativo: abbattuto Damasia, si sperimenta un arcontato decemvirale, composto da 5 eupatrídai (“gente di nobile lignaggio”), 3 ágroikoi (“contadini”), 2 demiourgoí (“artigiani”)[7]. Poco dopo troveremo una diversa articolazione, ancora una volta in tre gruppi politici, questa volta su base territoriale: i pedieîs o pediakoí (cioè i “proprietari terrieri del pedíon”), i parálioi (“proprietari di regioni costiere”), i diákrioi o hyperákrioi (“quelli della – o al di là della – zona montuosa”). Non si tratta di veri partiti, con tanto di ideologie; ma emerge una dialettica politica del più grande interesse, che tende ad affermarsi come uno strumento di soluzione dei conflitti. In questo quadro si colloca la tirannide di Pisistrato, le cui caratteristiche, le cui vicende, i cui stessi infortuni possono spiegarsi solo alla luce della particolare temperie politica ad Atene e di quel mondo di valori comunitari che l’opera di Solone aveva rafforzato, anche se non messo al riparo dai fermenti dell’epoca e dai gravi elementi di crisi che la società attica aveva accumulato al suo interno.

 

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Note

[1] Sull’anno dell’arcontato di Solone e la cronologia di Sosicrate (ol. 46, 3 = 594/3 a.C.) in Diog. I 62 (risalente ad Apollodoro), e quella più bassa, di Arist. Ath. 14, 1 (592/1, se l’arcontato di Comea è del 561/0 a.C.); cfr. Plutarco, La vita di Solone, a c. di Manfredini M. – Piccirilli L., Milano 1977, pp. 179-180.

[2] Cfr. Arist. Ath. 2, 2; Plut. Solon 13, 4; Piccirilli L., op. cit., 169-178; Rhodes P.J., Commentary on the Aristotelian Athenaion Politeia, Oxford 1981, 90-97. In termini meramente lessicali, il confronto più diretto e convincente di ἑκτήμοροι (o ἑκτημόριοι) è γεωμόροι (sull’analogia, del resto, cfr. Piccirilli L., op. cit., 170), quindi dovrebbe trattarsi dei possessori di 1/6, non di 5/6. Nei fatti, sembra preferibile invece l’interpretazione 5/6. La vera difficoltà dell’interpretazione risiede in ciò: che la condizione affrontata da Solone possa essere il punto d’arrivo di un lungo cammino, una condizione ultima raggiunta attraverso una crisi e un progressivo declino.

[3] Solone, fr. 24 Diehl = 30 Gentili-Prato.

[4] Arist. Ath. 10.

[5] Il rapporto tra le naucrarie (12 per ogni trittýs), e le trittie, affermato da Arist. op. cit. 8, 3, è revocato in dubbio da Hignett C., A History of the Athenian Constitution to the End of the Fifth Century B.C., Oxford 1952, 67-74 (le naucrarie sono considerate distretti locali, non correlati con le quattro tribù; Pisistrato potrebbe aver rimodellato un sistema collegato – come suggerirebbe l’etimologia – con le esigenze navali, trasformandolo in un sistema amministrativo di portata più generale).

[6] Sulla produzione dell’olio in epoca micenea e arcaica, cfr., ad es., Richter W., Die Landwirtschaft im homerischen Zeitalter, Göttingen 1968, 134-149.

[7] La distinzione eupatrídai-ágroikoi (= gheorgoí)-demiourgoí (circa 580 a.C.) è chiaramente più tarda di quella indicata genericamente come preclistenica in Arist., fr. 385 Ross, Ath. Fr. 5 Oppermann, che conosce solo l’opposizione gheorgoí/demiourgoí (a un’epoca in cui il corpo civico – con 4 tribù, 12 fratrie/trittie, 360 ghéne ciascuno di 30 membri – avrebbe contato 10.800 membri). È come se quel che in origine era distinzione di attività produttiva e professionale (e, in quanto tale, sociale) nella città ancora omogenea (o non troppo eterogenea) al suo interno, avesse dato luogo (al più tardi all’inizio del VI secolo a.C., ma probabilmente già parecchio prima) a una più netta stratificazione, in cui un gruppo emerge ed è connotato solo socialmente (eupatrídai), qualunque ne sia l’attività produttiva e a parte (e anche sotto) stessero quei gruppi che, proprio per essere inferiori, si qualificavano e si distinguevano solo per attività produttiva (quand’anche – e ciò vale certo per l’agricoltura – la condividevano con gli eupatrídai).

La «pólis»: luogo per persone adulte e responsabili

di A.J. Toynbee, Il mondo ellenico. L’emancipazione dell’individuo per opera delle città-stato, Torino 1967, 52-58.

[…] Gli Elleni presero a venerare la pólis quasi fosse una divinità, invece di considerarla semplicemente un’istituzione sorta per il pubblico vantaggio. I sacrifici che le città-stato così deificate esigevano dai cittadini si fecero infine altrettanto duri di quelli imposti da Juggernaut ai propri fedeli, e in tal modo fu segnata la condanna dell’istituzione. […] Dopo aver permesso agli Elleni di risolvere successivamente i due problemi dell’anarchia e della carestia, le città-stato resero loro possibile non solo di «condurre un’esistenza», ma anche di «condurla in modo più ricco».
Il passo tratto dalla Politica di Aristotele […], «le città-stato nacquero per render possibile la vita», prosegue dicendo che «la raison d’être dell’istituzione è di rendere la vita degna di essere vissuta». E questa seconda parte della sentenza di Aristotele sarebbe stata giustificata dai fatti, se egli l’avesse scritta circa cento anni prima di quanto in realtà non fece. Per almeno tre secoli terminati con l’anno 431 a.C., le città-stato elleniche offrirono all’individuo un campo d’azione e un incentivo, liberandolo dai vincoli del culto della natura – soprattutto da quel vincolo particolarmente paralizzante che è il culto della natura sotto la forma della famiglia. La vita familiare mantiene il genere umano schiavo della natura extraumana. Nel seno della famiglia gli esseri umani non sono personalità indipendenti, con una propria mente e una propria volontà; essi non sono che le ramificazioni di un albero genealogico, il quale è a sua volta un ramo dell’albero evolutivo della vita, le cui radici affondano nell’abisso della psiche subconscia.
Nella «trilogia» del poeta tragico ateniese, Eschilo, che narra le vicende del casato di Atreo e che fu rappresentata per la prima volta nel 458 a.C., troviamo drammaticamente descritta la lotta disperata di un individuo per fuggire dal vicolo cieco in cui l’hanno condotto gli obblighi familiari, e la sua liberazione da un’immeritata tortura per l’intervento umano di una città-stato. È la storia di una famiglia i cui membri hanno preso ad uccidere i propri consanguinei, con il risultato che i sopravvissuti si trovano di fronte agli irreconciliabili e categorici doveri che gravano su di loro. Il dio Apollo ordina a Oreste di vendicare la morte del padre, Agamennone, trucidando l’assassina di lui, Clitemnestra, moglie di Agamennone e madre di Oreste – dopo di che, le Erinni perseguitano spietatamente il giovane per aver tolto la vita alla più stretta consanguinea dell’uomo. Le Erinni sono la personificazione mitica del senso di colpa. Preso nel circolo vizioso dei doveri familiari in conflitto fra loro, Oreste non ha via di scampo dall’orribile situazione, per quanto la ragione affermi ch’egli non è uno scellerato, ma una vittima. Chi lo salva è la dea Atena, personificazione mitica della città-stato ateniese. Ella persuade le Erinni ad accettare il verdetto di una giuria ateniese; ed essendo i voti dei giurati equamente divisi fra le due parti in causa, Atena, che presiede la corte, dà il voto decisivo a favore della clemenza e della ragione.

Pittore anonimo. L’assassinio di Egisto per mano di Oreste e Pilade. Pittura vascolare da un’oinochoe apula a figure rosse, 430-400 a.C. c. Paris, Musée du Louvre.

La legislazione della città-stato, ed anche il servizio militare da essa imposto, liberarono l’individuo, a presso di una nuova schiavitù, dalla sua antica soggezione alla famiglia. All’epoca di Eschilo, ad Atene la questione era già stata decisa a favore dell’individuo, ma non era ancora passato tanto tempo da rendere il tema dell’Orestea superato o incomprensibile per il pubblico ateniese del V secolo. Nel Lazio, al limite occidentale dell’espansione ellenica, la famiglia combatté una più ostinata battaglia a difesa dei suoi diritti primordiali. Per tutta la lunga vicenda della legge romana, il pater familias conservò molti dei suoi antichi diritti dispotici sulla moglie e sui figli adulti, e ciò anche nell’ultima codificazione ordinata dall’imperatore Giustiniano nel VI secolo dell’era cristiana, quando la legge di Roma subiva già da sette secoli l’influenza umanitaria della filosofia ellenica, e da due quella moderatrice del cristianesimo. Durante la maggior parte del corso della storia romana, il cittadino maschio adulto rimaneva virtualmente lo schiavo del padre fino al giorno della morte di lui; dalla fondazione dello Stato romano, in un solo posto il figlio-schiavo era un uomo libero: il campo di battaglia. All’atto della mobilitazione, padre e figlio diventavano «uguali», compagni d’arme entrambi al servizio della Repubblica.
Oltre a fornire all’individuo il campo d’azione, la città stato gli forniva uno stimolo ad agire. Pur liberandolo dalla secolare schiavitù alla famiglia, non impoveriva la sua vita col privarlo di quell’intimità che forma il fascino della vita familiare. Le città-stato stesse erano comunità abbastanza piccole da poter funzionare come funziona una famiglia – attraverso i rapporti diretti tra individui. Naturalmente, per quanto limitata possa essere la scala della vita politica, la legge è una cosa impersonale paragonata alle consuetudini familiari, e altrettanto lo è la guerra in confronto alle faide. D’altra parte, se paragonata all’impersonalità delle relazioni umane nell’Impero romano o in uno Stato nazionale dell’Occidente moderno, la città-stato ellenica dell’epoca pre-imperialistica godeva in misura assai più larga della stimolante immediatezza di un ordinamento di tipo familiare. Aristotele prescrive che il corpo dei cittadini non debba essere troppo numeroso, ma tale che un «araldo senza gridare» […] possa farsi udire dall’intera assemblea; e, per la verità storica, poche città-stato elleniche […] ebbero una cittadinanza che sorpassasse i limiti aristotelici. […]
Il grado di nuove possibilità e di stimolo offerto all’individuo dalla città-stato nell’epoca dell’espansione marittima del mondo ellenico (dall’VIII al VI secolo a.C.) è indicato (dimostrato) dalle conquiste individuali realizzate in questo periodo da uomini che s’illustrarono nei campi più svariati. Nella letteratura sorsero poeti come Mimnermo di Colofone, Archiloco di Paro, Alceo e Saffo di Lesbo. Tema delle loro opere erano le esperienze dell’individuo che ha preso coscienza di sé: i piaceri e le pene del sesso e dell’alcool, la fedeltà allo Stato e i rancori politici, ma soprattutto «la grandezza e la miseria» del mortale genere umano. Archiloco aveva uno spirito così totalmente libero, ch’ebbe l’audacia di vantarsi di aver mancato al proprio dovere di cittadino sul campo di battaglia. In un’ingiusta guerra di conquista condotta da Paro contro gli indigeni traci dell’isola di Taso, Archiloco a un certo punto si era salvato la pelle gettando via lo scudo. Invece di nascondere il volto nella vergogna, si gloriava nei suoi versi di questa condotta poco militare, e il fatto che la poesia sia giunta fino a noi, dimostra che il poeta doveva aver trovato dei simpatizzanti fra i suoi contemporanei. Nel campo del pensiero, filosofi fisici specularono attorno alla natura dell’universo. Quale fosse la sostanza primordiale, se l’acqua o una sostanza indeterminata o lo spirito, fu il problema dibattuto fra Talete di Mileto, i suo concittadino Anassimandro e Anassagora di Clazomene. Era l’universo un’unità indifferenziata e immobile? O era molteplicità, varietà, movimento e ritmo? Ed era questo ritmo un alternarsi della mescolanza e della separazione di elementi qualitativamente diversi? O le apparenti caratteristiche e forme di tutte le cose visibili erano il prodotto di una pioggia perpetua di miriadi di atomi uniformi? Furono questi gli argomenti dibattuti fra Zenone di Elea, Empedocle di Agrigento e Leucippo di Mileto.

Pittore di Brygos. Suonatrice di aulós. Pittura vascolare dal tondo di una kýlix attica a figure rosse, 490 a.C. ca., da Vulci. Paris, Musée du Lovure.

Altri si illustrarono nel campo della tecnologia, per esempio Ameinia di Corinto, che fu il primo fra gli Elleni a progettare navi spinte da un triplice ordine di rematori, e Teodoro di Samo, il primo Elleno che fuse oggetti in bronzo. […] La matematica, la filosofia, la poesia erano i campi in cui gli Elleni si muovevano a loro agio.
In questi le loro conquiste erano già così notevoli all’epoca dell’espansione marittima, che non fa meraviglia se essi idolatravano l’istituzione politica che aveva dato libertà d’azione al genio individuale. A quel tempo, il culto del potere collettivo dell’uomo, eretto a città-stato, aveva sostituito di fatto, seppure non apertamente né ufficialmente, il culto del pantheon olimpico quale religione suprema del mondo ellenico. Le città-stato erano offerte al culto dei cittadini sotto la veste di divinità tradizionali – olimpiche alcune, altre ancora più antiche – che vennero mobilitate per questa nuova funzione. Raramente, la divinità era un dio maschile. […] La maggior parte delle città-stato era rappresentata da dee tutelari […].
La città-stato era un più degno oggetto di culto che non gli dèi olimpici fatti ad immagine dell’uomo barbarico; e la personalità dell’uomo che si è emancipato decade, se egli non trova fuori del proprio Io un oggetto più o meno degno della sua devozione. Le città-stato intanto meritavano la devozione dei cittadini, in quanto offrivano loro l’ambiente sociale che li stimolava a sviluppare le proprie capacità […].