Durante la campagna di scavo del 1899, a Roma, l’archeologo Giacomo Boni portò alla luce il cosiddetto “Cippo del Foro” e lo associò a un frammento di Sesto Pompeo Festo, un grammatico latino di II-III secolo d.C., che riferiva:
Niger lapis in comitio locum funestum significat, ut alii dicunt Romani morti destinatum, sed non usu obuenisse ut ibi sepeliretur, sed Faustulum nutricium eius, ut alii dicunt, Hostilium auum Tulli Hostilii regis.
«La pietra nera indica nel comizio un luogo funesto, che alcuni dicono destinato al sepolcro di Romolo, ma che non accadesse più che ivi si seppellisse, ma alcuni lo dicono destinato a tomba di Faustolo, suo patrigno, altri di Ostilio, avo di re Tullo Ostilio».
(Fᴇsᴛ. 𝐿.𝐿. p. 177 Lindsay)

La collocazione del cippo piramidale in pietra tufacea nell’area del Comitium, una zona del Foro Romano in cui, in epoca repubblicana, i cives Romani erano soliti adunarsi per eleggere i magistrati e votare le leggi, segnava un locus funestus, cioè il luogo in cui sarebbe scomparso il fondatore dell’Urbe. Lo scavo di Boni al di sotto del pavimento in marmo nero, risalente al I secolo a.C., portò alla luce un complesso monumentale molto arcaico, accessibile tramite una scaletta, costituito da una piattaforma con un altare a tre ante e a “U”, un tronco di stilobate (forse il basamento per una statua), e il cippo piramidale: quest’ultimo su ogni faccia recava un’iscrizione bustrofedica (da βουστροφηδόν, cioè «a somiglianza dei buoi che arano un campo»), in un alfabeto di derivazione greco-etrusca.
Data l’ubicazione e l’importanza del luogo, il testo inciso doveva essere destinato a un uso e a un pubblico particolari: siccome, in epoca molto antica, soltanto un’élite di cittadini sapeva leggere, l’epigrafe, per essere fruibile ai più, richiedeva la mediazione di un sacerdote-interprete e deteneva un carattere magico:
quoi·hon…|…·sakros·es|ed·sord…|…oka·fhas·|·recei·io…|…euam·|·quos·re…|…kalato|rem·hab…|…tod·iouxmen|ta·kapiad·otau…|…m·iter·pe…|…m·quoi·ha|uelod·nequ…|…iod·iouestod·louquiod·qo…
«Sia consacrato agli dèi Mani colui per colpa del quale questo termine venga rimosso. Chiunque abbia commesso impurità funerarie paghi al re, come saldo della multa, il patrimonio di famiglia. Qualora il re venisse a sapere che qualcuno transiti [per la via vicina al locus funestus], allora per voce dell’araldo, in ottemperanza a una legge pubblica, ne sequestri gli animali da strada… di chi voglia intraprendere il cammino sia la responsabilità: il re non consenta ad alcuno di intraprenderlo, se non per legittimo decreto…».
(CIL I 1)
Tutto il contesto fa pensare a una lex sacra, contenente norme e disposizioni relative alle penalità, se non addirittura alle ἀποτροπαί (“maledizioni”) da scagliare contro quanti avessero tentato di violare l’area consacrata. Non a caso, sul monumento compare la formula sakrod esed (corrispondente al latino “classico”, sacer esto). Il monito, inciso sul cippo, era reso perenne dalla pietra, rimasta esposta per cinque secoli, fino agli inizi del I secolo a.C., quando appunto l’area fu ricoperta da una pavimentazione in marmo nero. La storiografia romana di epoca repubblicana (soprattutto Livio e le sue fonti annalistiche) hanno abituato a pensare che fino alla seconda metà del V secolo a.C. i Tarquini spadroneggiassero su Roma senza legge, decidendo le sorti dei cittadini secondo il loro capriccio. Evidentemente, l’iscrizione del Lapis Niger dimostra l’esatto contrario, e cioè che almeno fin dalla metà del secolo precedente la comunità romana disponesse di un’auto-regolamentazione scritta.
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