ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
da A. Bᴀʟᴇsᴛʀᴀ et al., In partes tres. 2. L’età di Augusto, Bologna 2016, 464-467; trad. it. da Lɪᴠɪᴏ, Storia di Roma dalla sua fondazione, vol. 2 (libri III-IV), a cura di M. Sᴄᴀ̀ɴᴅᴏʟᴀ, C. Mᴏʀᴇsᴄʜɪɴɪ, Milano 2008, 112-115.
Matrona romana velato capite. Busto, marmo, periodo severiano, 193-211. New York, Metropolitan Museum of Art.
Il nobile Appio Claudio, uno dei 𝑑𝑒𝑐𝑒𝑚𝑣𝑖𝑟𝑖 che negli anni 451-449 a.C. avevano redatto le 𝐿𝑒𝑔𝑔𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑋𝐼𝐼 𝑡𝑎𝑣𝑜𝑙𝑒, si innamora perdutamente di una giovane, Virginia, promessa in matrimonio dal padre al giovane Icilio. La ragazza, però, non cede ad alcuna forma di corteggiamento; allora, Appio medita un turpe stratagemma: ordina a uno dei suoi 𝑐𝑙𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒𝑠, Marco Claudio, di reclamare in tribunale Virginia come sua serva, sostenendo falsamente che la giovane sia nata in casa sua in condizione servile e che poi sia stata rapita e allevata da Virginio, ignaro del fatto che non si trattasse di sua figlia. Il piano prevedeva che il 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑡𝑜𝑟 incaricato di giudicare la causa fosse proprio Appio Claudio: una volta pronunciata la sentenza, ovviamente favorevole a Marco Claudio, Virginia gli sarebbe stata consegnata e lui avrebbe avuto modo di abusare di lei. Il giorno dell’udienza, nonostante l’opposizione dell’opinione pubblica, Appio pronuncia l’iniqua sentenza.
[47, 6] Primo stupor omnes admiratione rei tam atrocis defixit; silentium inde aliquamdiu tenuit. dein cum M. Claudius, circumstantibus matronis, iret ad prehendendam uirginem, lamentabilisque eum mulierum comploratio excepisset, Verginius intentans in Appium manus, [7] “Icilio” inquit, “Appi, non tibi filiam despondi et ad nuptias, non ad stuprum educaui. placet pecudum ferarumque ritu promisce in concubitus ruere? passurine haec isti sint nescio: non spero esse passuros illos qui arma habent”. [8] cum repelleretur adsertor uirginis a globo mulierum circumstantiumque aduocatorum, silentium factum per praeconem. [48, 1] decemuir alienatus ad libidinem animo negat ex hesterno tantum conuicio Icili uiolentiaque Vergini, cuius testem populum Romanum habeat, sed certis quoque indiciis compertum se habere nocte tota coetus in urbe factos esse ad mouendam seditionem. [2] itaque se haud inscium eius dimicationis cum armatis descendisse, non ut quemquam quietum uiolaret, sed ut turbantes ciuitatis otium pro maiestate imperii coerceret. ‘proinde quiesse erit melius. [3] “i”, inquit, “lictor, submoue turbam et da uiam domino ad prehendendum mancipium”. cum haec intonuisset plenus irae, multitudo ipsa se sua sponte dimouit desertaque praeda iniuriae puella stabat. [4] tum Verginius ubi nihil usquam auxilii uidit, “quaeso” inquit, “Appi, primum ignosce patrio dolori, si quo inclementius in te sum inuectus; deinde sinas hic coram uirgine nutricem percontari quid hoc rei sit, ut si falso pater dictus sum aequiore hinc animo discedam”. [5] data uenia seducit filiam ac nutricem prope Cloacinae ad tabernas, quibus nunc Nouis est nomen, atque ibi ab lanio cultro arrepto, “hoc te uno quo possum” ait, “modo, filia, in libertatem uindico”. pectus deinde puellae transfigit, respectansque ad tribunal “te” inquit, “Appi, tuumque caput sanguine hoc consecro”. [6] clamore ad tam atrox facinus orto excitus Appius comprehendi Verginium iubet. Ille ferro quacumque ibat uiam facere, donec multitudine etiam prosequentium tuente ad portam perrexit. [7] Icilius Numitoriusque exsangue corpus sublatum ostentant populo; scelus Appi, puellae infelicem formam, necessitatem patris deplorant. [8] sequentes clamitant matronae, eamne liberorum procreandorum condicionem, ea pudicitiae praemia esse? — cetera, quae in tali re muliebris dolor, quo est maestior imbecillo animo, eo miserabilia magis querentibus subicit.
Camillo Miola, Uccisione di Virginia. Olio su tela, 1882. Napoli, Museo di Capodimonte.
Dapprima la sorpresa destata da una simile atrocità fece allibire tutti; poi, per qualche tempo, regnò il silenzio. Quindi, quando Marco Claudio si avanzò per prendere la fanciulla tra le matrone circostanti, e fu accolto dal pianto lamentoso delle donne, Virginio, tendendo minacciosamente le mani contro Appio: «A Icilio – gridò – non a te, Appio, ho promesso mia figlia e l’ho educata per le nozze, non per lo stupro! Si vuol correre agli accoppiamenti a mo’ di bestie e di fiere, alla rinfusa? Se costoro lo sopporteranno, non so; ma spero che non lo sopporteranno quelli che possiedono un’arma!». Mentre colui che rivendicava la proprietà della fanciulla veniva respinto dalla schiera delle donne e dei difensori circostanti, il banditore intimò il silenzio. Il decemviro, accecato dalla libidine, disse che non soltanto dalle invettive scagliate il giorno innanzi da Icilio e dalla violenza di Virgilio, di cui gli era testimonio il popolo romano, ma da altri sicuri indizi egli sapeva con certezza che per tutta la notte si erano tenuti nella città dei conciliaboli al fine di suscitare una sommossa; perciò, prevedendo quel conflitto, egli era sceso al Foro con degli uomini armati, non già per far violenza ai pacifici cittadini, ma per frenare i perturbatori della quiete pubblica, conforme all’autorità che la sua carica gli conferiva. Soggiunse: «Sarà, dunque, meglio restar quieti; va’, littore, allontana la folla, e fa’ largo al padrone perché possa prendersi la sua serva!». Avendo egli pronunciato queste parole con voce tonante, in preda all’ira, la moltitudine fece largo da se stessa, e la fanciulla restò isolata, esposta all’ingiuria. Allora, Virginio, quando vide che da nessuna parte gli veniva aiuto, disse: «Di grazia, Appio: compatisci innanzitutto il dolore di un padre, se ho in qualche modo troppo duramente inveito contro di te; consenti poi che qui, in presenza della fanciulla, io chieda come stanno le cose, di modo che, se a torto mi si considera suo padre, io me ne vada di qui più rassegnato». Avutone il permesso, conduce la figlia e la nutrice verso il tempio della dea Cloacina, presso le botteghe che oggi sono dette Nuove, e là, strappato il coltello a un macellaio, gridò: «Figlia mia, con l’unico mezzo che mi è consentito io ti restituisco la libertà!». Indi trafigge il petto della fanciulla e, volto verso il tribunale, esclama: «Con questo sangue io consacro te, Appio, e il tuo capo agli dèi infernali!». Richiamato dal clamore levatosi per sì atroce evento, Appio ordina che si arresti Virginio. Quello, dovunque passasse, si apriva una via col ferro, finché, protetto anche dalla moltitudine che lo seguiva, giunse alla porta. Icilio e Numitorio, sollevato il corpo esanime, lo mostrarono al popolo; lamentavano la scelleratezza di Appio, la funesta bellezza della fanciulla, l’ineluttabile fato del padre. Li seguivano gridando le matrone: quella era dunque la sorte riservata a chi generava dei figli, quello il premio della pudicizia? E aggiungevano tutte le altre manifestazioni che in tali circostanze il dolore suggerisce ai femminili lamenti, tanto più tristi quanto più è disperato, per debolezza d’animo, il loro dolore.
Guillaume Guillon-Lethière, La morte di Virginia. Olio su tela, 1828. Paris, Musée du Louvre.
L’iniqua sentenza di Appio Claudio, in conseguenza della quale certamente Virginia, se fosse rimasta in vita, avrebbe subito violenza, causò una rivolta della plebe: fu così che venne abolito il collegio dei decemviri, i dieci uomini che, dopo aver scritto le Leggi, non avevano rimesso il proprio potere, ma avevano continuato a esercitarlo in forma tirannica, sospendendo l’elezione annuale dei magistrati e il diritto di veto nei tribunali della plebe. Per introdurre l’episodio di Virginia, Livio nota che anche la cacciata dei Tarquini, quando essi erano ormai divenuti dei despoti, era stata causata dalla ribellione popolare di fronte all’offesa arrecata alla 𝑝𝑢𝑑𝑖𝑐𝑖𝑡𝑖𝑎 di una donna, la celebre Lucrezia, da un esponente di quella famiglia. La coincidenza permette di valutare quanto fosse tenuta in considerazione la 𝑝𝑢𝑑𝑖𝑐𝑖𝑡𝑖𝑎; tale virtù, l’unica richiesta alle donne romane, si fondava sul fatto che la donna, come soggetto giuridico, era sempre sotto la tutela di un uomo, di solito il padre o il marito. Il padre stabiliva a chi la figlia dovesse andare in sposa (il che avveniva di norma attorno ai dodici anni di età) e la donna aveva il dovere di mantenersi casta per il marito. La 𝑝𝑢𝑑𝑖𝑐𝑖𝑡𝑖𝑎, tuttavia, non era connessa solamente alla verginità; imponeva anche alla donna sposata (la 𝑚𝑎𝑡𝑟𝑜𝑛𝑎) di mantenere una condotta che non solo non prevedesse relazioni extraconiugali, ma neanche ne lasciasse supporre l’esistenza. Infine, nel valore della 𝑝𝑢𝑑𝑖𝑐𝑖𝑡𝑖𝑎 rientravano l’educazione dei figli durante i primi anni di vita, nonché la trasmissione a essi dei valori tradizionali della società romana (ossia il rispetto sia verso i genitori, e il padre in particolare, sia verso i numi tutelari della famiglia e della città). In più, dovere della matrona era curare il buon andamento delle attività domestiche, soprattutto la filatura e la tessitura, lavori di primaria importanza. Da parte maschile, la relazione extraconiugale era tollerata, purché non fosse con una donna sposata o promessa sposa: infatti, la tutela della 𝑝𝑢𝑑𝑖𝑐𝑖𝑡𝑖𝑎 della donna, di cui erano responsabili il padre o il marito, comprendeva che l’amante, fino alle limitazioni introdotte da Ottaviano Augusto, potesse essere ucciso.
Diversamente da quanto prevede la nostra sensibilità, nella coscienza dei Romani il comportamento di Virginio era ritenuto tragico (48, 7), ma non riprovevole, tanto che il fidanzato Icilio non protesta e la folla agevola la sua fuga (48, 6). Da questa circostanza si capisce che nella società romana, almeno nella visione idealizzata di essa proposta da Livio, la perdita dell’onore, ancorché senza colpa, costituiva un danno peggiore rispetto alla perdita della vita. questo vale per ciascun individuo; solo che, secondo la concezione patriarcale dei Romani, era al 𝑝𝑎𝑡𝑒𝑟 𝑓𝑎𝑚𝑖𝑙𝑖𝑎𝑠 che spettava, in ultima istanza, la difesa dell’onore dell’intero nucleo familiare. Il gesto di Virginio diventa comprensibile solo se si pensa che il padre, in questo caso, ha anteposto all’affetto verso la figlia l’onore dell’intera famiglia; egli non poteva accettare che una figlia perdesse la propria 𝑝𝑢𝑑𝑖𝑐𝑖𝑡𝑖𝑎, così come non avrebbe potuto tollerare il disonore derivante dalla condotta moralmente reprensibile di un figlio maschio (Livio ricorda in altri passi della sua opera i casi in cui un padre ha ucciso il proprio figlio, il quale era appunto venuto meno ai suoi doveri civici).
Matrona con figlioletta. Gruppo scultoreo, marmo, I sec. a.C. Roma, Centrale Montemartini.
L’episodio di Virginia sembrerebbe costituire una significativa testimonianza del fatto che la donna, nella società romana, si trovava in una condizione completamente subalterna; in realtà, invece, pur nel quadro di una morale patriarcale, la posizione della donna nel mondo romano non era di totale subalternità, a differenza di quanto accadeva in altre società antiche. A questo proposito sono indicative le parole che Livio attribuisce in questo passo alle matrone, le quali sembrano esigere il massimo rispetto, in cambio di quanto connesso con i sacrifici derivanti dal mantenimento della 𝑝𝑢𝑑𝑖𝑐𝑖𝑡𝑖𝑎 (𝑒𝑎𝑚𝑛𝑒 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑜𝑟𝑢𝑚 𝑝𝑟𝑜𝑐𝑟𝑒𝑎𝑛𝑑𝑜𝑟𝑢𝑚 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑐𝑖𝑜𝑛𝑒𝑚, 𝑒𝑎 𝑝𝑢𝑑𝑖𝑐𝑖𝑡𝑖𝑎𝑒 𝑝𝑟𝑎𝑒𝑚𝑖𝑎 𝑒𝑠𝑠𝑒?, 48, 8). Effettivamente, le matrone, oltre a una serie di onori formali sanciti dalla legge, tra cui ricordiamo la possibilità di indossare in pubblico abiti di porpora, avevano anche la possibilità di gestire autonomamente il proprio patrimonio. La figlia partecipava alla successione dell’eredità paterna tanto quanto i suoi stessi fratelli; inoltre, dal II secolo a.C., grazie a una serie di complicate norme giuridiche, la matrona aveva la possibilità di disporre liberamente dei propri averi, sia durante il matrimonio, sia soprattutto in caso di vedovanza (fenomeno non infrequente a causa della differenza di età tra i coniugi e delle guerre). Questo stato di cose ha determinato il cosiddetto “paradosso romano”, secondo la definizione di Eva Cantarella: le donne si incaricavano di trasmettere ai figli e alle figlie i valori di una società patriarcale e maschilista, consapevoli tuttavia del fatto che rispettare le regole imposte da altri comportasse anche dei vantaggi.
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Bibliografia:
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di W. BLÖSEL, Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. COLLA), Torino 2016, pp. 24-35.
L’ammissione dei plebei al consolato, nel 367/6, costituisce una pietra miliare nel cosiddetto «conflitto degli ordini» dal quale la tradizione più tarda, in Livio e in Dionigi di Alicarnasso, vede caratterizzata la storia romana per più di duecento anni, dall’inizio del V secolo fino al 287. La netta dicotomia tra plebei e patrizi nella lotta sugli stessi punti controversi (come ad esempio la protezione dall’arbitrio dei magistrati, la certezza del diritto, la liberazione dalla servitù per debiti e la parità nei diritti politici) offre ai confusi rapporti degli inizi della repubblica una struttura chiara e temi concreti ai quali gli autori più tardi poterono sempre di nuovo ricorrere, senza troppa fatica, nei diversi momenti di queste contrapposizioni, interrotte da fasi di quiete anche decennali. In questo modo, fu loro possibile presentare tutte le diverse conquiste di Roma repubblicana (come il diritto di provocatio, il tribunato della plebe, la legislazione delle dodici tavole, il tribunato consolare, l’ammissione dei plebei alle cariche pubbliche e sacerdotali, l’abolizione della servitù per debiti e l’attribuzione di forza di legge ai plebisciti) come altrettanti prodotti di un unico conflitto degli ordini protrattosi per più generazioni. I compromessi che i plebei e i patrizi accettarono accogliendo la maggior parte di queste nuove istituzioni, centrali nella coscienza che i Romani ebbero di sé, esaltano come tratto fondamentale di entrambe le parti la loro pronta disponibilità alla conciliazione, e il desiderio di concordia, per quanto distanti fossero state le posizioni iniziali. Nondimeno, i due ceti furono sempre costretti alla pace interna da qualche pressione militare dall’esterno. E la grande regolarità con la quale, a ogni nuova contesa interna tra Romani, i vicini popoli dei Volsci, degli Equi e dei Sabini avrebbero invaso il territorio di Roma, induce a sospettare che questi assalti siano una costruzione degli storici.
Ritratto di patrizio romano (vista frontale). Busto, marmo, prima metà del I sec. a.C. Roma, Collezione Torlonia.
Riassumendo, molti dubbi sono stati sollevati sulla visione del conflitto degli ordini come del lunghissimo travaglio necessario alla nascita della repubblica romana. Infatti, esso è ignoto come tale ai primi cronisti di Roma, da Fabio Pittore a Catone il Vecchio e a Polibio, e fino a Cicerone: nella loro esposizione, gli atti di fondazione della repubblica risalgono all’indietro solo fino alla legislazione delle dodici tavole, verso il 450. Questa va considerata una conseguenza dell’origine orale delle tradizioni (oral tradition) relative alla fase di fondazione dello Stato romano, che naturalmente comprende anche il periodo della monarchia. Negli autori citati, a quest’epoca di fondazione, come c’è da aspettarsi date le strutture che caratterizzano la oral tradition, segue una fase intermedia, dalla metà del V fino alla metà del III secolo circa, con un elenco di pochi, aridi fatti e alcuni nomi di persone che con il loro comportamento esemplare servono a illustrare il funzionamento di quelle istituzioni che si erano lentamente e faticosamente consolidate. Infine, con la prima guerra punica (264-241), nei primi storiografi subentrarono i ricordi personali, che anche agli autori successivi avrebbero fornito i contenuti per una storiografia che da allora fu soggetta alle leggi della letteratura.
Con l’estensione temporale del conflitto degli ordini, altrettanto poco chiara è l’identità dei suoi attori. Dalle fonti, infatti, soltanto in modo frammentario è possibile comprendere perché e a partire da quando i patrizi si staccarono dai plebei. Un confronto tipologico con altre aristocrazie nelle società arcaiche indica come caratteristici del patriziato i seguenti elementi: privilegi religiosi, come il monopolio delle cariche sacerdotali; insieme a questo, il monopolio della giurisdizione, che aveva un fondamento sacrale; riti nuziali caratteristici e propri; stretti rapporti economici e familiari con gli aristocratici stranieri; orgoglio per il proprio albero genealogico; possesso di vasti terreni coltivabili, e di cavalli; gran numero di agricoltori dipendenti; infine, il monopolio di magistrature che certamente erano collegate a funzioni sacrali, come l’accoglimento degli auspici, e l’esercizio dell’imperium.
Scena di battaglia. Bassorilievo, pietra calcarea. Isernia, Museo Civico.
La tradizione letteraria ascrive già a Romolo, il primo re, la scelta dei primi senatori, che vengono indicati come patres, e dai quali sarebbero derivati i patrizi. La rilevante importanza della vicinanza genealogica di famiglie tra di loro imparentate si può dedurre, non soltanto a Roma, ma in tutta l’Italia centrale, dall’introduzione del nome gentilizio, che, a partire dall’ultimo terzo del VII secolo, sostituì il patronimico, il nome del padre, con quello di un antenato comune, al quale veniva aggiunto il suffisso -ius; così, ad esempio, dal preteso fondatore della stirpe, Iulus, veniva fatto derivare il nome gentilizio di Iulius.
Anche l’istituzione dell’interregnum, certamente da far risalire all’epoca dei re, testimonia a favore dell’esistenza di un ben definito gruppo di nobili. Ma la distinzione tra le antiche stirpi nobiliari come maiores gentes e le minores gentes aggiunte dai re successivi ai senatori indica chiaramente come questi nobili non formassero affatto una cerchia chiusa di «patrizi». Altrimenti, sarebbe stata impossibile l’integrazione del sabino Attus Clausus, che, secondo la tradizione, si sarebbe trasferito a Roma con ben cinquemila tra clienti e accoliti, un numero a stento credibile. Anche se i Fasticonsulares per il periodo fino al 450 non danno grande affidamento, una decina di consoli, che vi sono indicati e che possono essere collegati soltanto a tarde gentes nobili di origine plebea, testimonia di un’aristocrazia ancora aperta.
Calendario rurale (Fasti Praenestini – CIL I2 1, p. = I.It. XIII, 2, 17 = AE 1898, 14 = 1922, 96 = 1953, 236 = 1993, 144 = 2002, 181 = 2007, 312), ante 22 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.
Ciononostante, già a partire dalla metà del V secolo, si possono notare chiare tendenze esclusivistiche interne al patriziato nella distinzione tra i senatori che sarebbero stati nominati dopo la cacciata dei re, indicati come conscripti, e i patres di antico insediamento. Come è mostrato dall’accoglimento dei Claudii tra i patrizi, si può escludere che già alla fine del VI secolo si sia formato il concetto delimitativo di patricius, riferito soltanto a chi faceva parte della parentela, o della discendenza, di uno degli antichi patres. Sappiamo per certo che nel 458 il magistrato supremo di Tusculum (l’odierna Frascati), Lucio Mamilio, non poté più essere ammesso a far parte del patriziato, quando, in grazia dei suoi meriti per aver salvato Roma dal colpo di Stato di Appio Erdonio, ottenne la cittadinanza romana. Il motivo di questo crescente separatismo dei patrizi va cercato nella decennale fase di rivolgimenti seguita alla cacciata dei re.
In quell’epoca, si deve ipotizzare una dura lotta di concorrenza tra le stirpi nobiliari romane per il possesso delle posizioni di potere. Infatti, la cacciata dell’ultimo re, il quale evidentemente aveva accentrato nella propria persona una quantità di ruoli di comando, aveva lasciato un cospicuo vuoto di potere, che doveva suscitare brame ovunque. Il grande predominio esercitato dagli ultimi tre sovrani etruschi di Roma, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, lascia supporre che gli aristocratici romani ora desiderassero soltanto avere sommi magistrati più deboli, la cui autorità non moderasse pesantemente le loro possibilità di azione. In questo modo, diventa evidentemente comprensibile la limitazione dei pieni poteri del magistrato supremo, il praetor maximus, al solo comando delle operazioni belliche.
Guerriero con elmo calcidese. Testa fittile, terracotta policroma, V sec. a.C. da Albano.
Neppure in quel campo, però, né il magistrato né lo «Stato» romano ebbero il monopolio: i warlords dell’età regia, come i fratelli Vibenna, Macstrna o Lars Porsenna, trovano i loro successori tra numerosi aristocratici romani che condussero vere e proprie guerre private insieme ai loro clienti e accoliti: simili compagnie di armati vengono citate per Poplios Valesios, sul lapis Satricanus e anche per Gneo Marcio Coriolano. Il caso più famoso di una guerra privata è quella che nel 479/8 la gens Fabia condusse, guidando a quel che si narra i suoi quattromila clienti, contro la vicina città di Veio, anche se la stilizzazione della fine di quasi tutti i trecentosei Fabii sulle rive del torrente Cremera, secondo il modello del sacrificio dei trecento Spartani, che l’anno precedente, guidati da re Leonida, erano morti alle Termopili, opponendosi all’avanzata persiana, desta più di un dubbio sulla veridicità di molti particolari quali ci sono stati conservati dalla tradizione.
La mancanza di un monopolio della forza nelle mani dello Stato mise in pericolo il labile equilibrio del potere nella stessa Roma. Ad esempio, si narra che nel 460 il sabino Appio Erdonio con la sua compagine di armati, composta da esuli e servi, occupasse il Campidoglio, chiamando addirittura i plebei alla rivolta, e che, infine, fosse sconfitto soltanto dal tuscolano Lucio Mamilio.
Anche all’interno della società romana, però, c’era un numero sufficiente di scontenti che potevano essere mobilitati per combattere l’aristocrazia dominante. Non a caso, nella tradizione annalistica si trovano cronache simili a proposito dei tre adfectatores regni («aspiranti al trono»). Si dice infatti che il plebeo Spurio Cassio Vicellino, che secondo i Fasti fu console nel 502, nel 493 e nel 486, si ingraziò i plebei per i propri progetti di colpo di Stato con una legge per la spartizione dei territori strappati agli Ernici, che erano bottino di guerra, e anche dell’ager publicus; per questo motivo, sarebbe stato infine condannato a morte e fatto giustiziare dai questori. Qualcosa di simile toccò al ricco mercante plebeo Spurio Melio nel 439: dopo che si era procurato numerosi consensi tra i Romani, con laute elargizioni di grano, fu ucciso dal magister equitum Gaio Servilio Ahala, per ordine del Senato. Perfino a un patrizio viene attribuita un’alleanza, poco consona al suo rango, con i plebei: a Marco Manlio Capitolino, il console dell’anno 392, nonché salvatore del Campidoglio contro i Galli. Si dice infatti che egli accusò l’eccessiva avidità dei compagni del suo stesso ordine, con il proprio denaro evitò a molti plebei la servitù per debiti e, insomma, fece causa comune con i Romani meno abbienti. Ciononostante, nel 384, per le sue ambizioni dispotiche fu condannato a morte dall’assemblea popolare e precipitato dalla rupe Tarpea.
Guerrieri senoni (dettaglio). Rilievo, terracotta policroma, II sec. a.C. dal fregio del tempio di Civitalba. Ancona, Museo Nazionale delle Marche.
Anche se tutte queste narrazioni di leggi agrarie, distribuzioni di grano e lotta all’indebitamento sono incentrate su progetti che furono al centro dell’azione dei grandi populres della tarda repubblica, e appaiono perciò anacronistiche, non ci sono dubbi sulla storicità dei tentativi, compiuti nel V secolo da alcuni singoli aristocratici romani, di acquisire un vantaggio, nella lotta per il potere con i loro compagni di ceto, alleandosi con i cittadini romani meno abbienti, se non addirittura di accentrare tutto il potere nelle proprie mani. I patrizi si premunirono di fronte a tale minaccia, cercando di limitare la possibilità di accesso al potere a quelle stirpi nobiliari che possedevano sufficienti proprietà, cariche sacerdotali e un seguito tra i cittadini tale da potersi misurare nella competizione alle magistrature. Questi nobili, infatti, non avevano certo bisogno di cercarsi nuovi accoliti facendosi paladini delle esigenze sociali ed economiche degli strati più poveri della comunità. Si poteva ben temere, invece, una defezione dalla solidarietà di ceto proprio da parte di coloro che ambivano alla scalata verso l’élite di potere, e che non avevano però a disposizione tante risorse. A tenere distanti simili parvenus era diretta la chiusura a riccio delle stirpi patrizie, e formare un ceto a parte; essa va quindi intesa come una reazione all’acuirsi della competizione interna tra gli aristocratici nei primi decenni della repubblica. La forte diminuzione del numero delle gentes (famiglie nobiliari), che riuscivano ad accedere alle supreme magistrature, rilevabile soltanto verso la fine del V secolo, indica che, a quel punto, questo processo di esclusione era ormai compiuto. Quindi, non sarebbe da ritenersi puramente frutto del caso, nella tradizione, se nelle parti a noi pervenute della legge delle dodici tavole, del 451, non troviamo né il concetto di patricius né quello di plebs.
Proprio come la cerchia dei patrizi non si poteva affatto considerare chiusa prima della metà del V secolo, così non si possono intendere i plebei degli inizi dell’età repubblicana meramente come il grande resto dei non patrizi, seguendo il punto di vista polarizzante della tradizione più tarda. Presumibilmente, i clienti dei patroni patrizi, originariamente, non erano annoverati tra i plebei. Non pochi agricoltori romani si trovavano in una simile duratura dipendenza, economica e giuridica, da un aristocratico. La relazione tra cliente e patrono fu descritta, nel caso ideale, come un rapporto di fedeltà, fides, destinato a durare per tutta la vita, nel quale entravano automaticamente, rispetto al patronus, anche i servi liberati. In cambio dell’aiuto economico in caso di cattivo raccolto, o del sostegno in giudizio da parte del patrono, il cliente, dal canto suo, doveva partecipare alle spese che il patrono doveva affrontare per la dote delle proprie figlie, a quelle dovute a multe pecuniarie e a quelle che gli potevano essere necessarie per accedere a cariche pubbliche. Gli artigiani e i mercanti, i recenti immigrati e i vecchi clienti dell’ultimo re verosimilmente non erano integrati in queste strutture. Questi gruppi così eterogenei potrebbero quindi aver formato il nucleo originario dei plebei.
Scena pastorale. Bassorilievo, pietra locale, I sec. a.C. CIL IX 3128 ([- – – ho]mines ego moneo niquei diffidat [- – -]), da Sulmona. L’Aquila, Museo Civico.I plebei si vedono in azione per la prima volta, nelle loro strutture e nei loro obiettivi, nel 494: minacciati dalla servitù per debiti, i soldati plebei dell’esercito romano che erano stati vittoriosi nella lotta contro i popoli vicini si ammutinarono e si recarono sul Monte Sacro (Mons Sacer), cinque chilometri a nord della città, presso il fiume Aniene (Anio), dove rimasero finché non venne presso concordato un compromesso con i patrizi. Secondo tale accordo, i plebei dovevano eleggere ogni anno due tribuni della plebe, tribuni plebis, ai quali era consentito difendere i plebei, all’interno del pomerio, dagli altri magistrati. I plebei giurarono allora una legge (Lex sacrata) per cui chiunque avesse impedito fattivamente a uno dei tribuni della plebe l’esercizio delle sue funzioni di difesa doveva essere considerato sacer, cioè «consacrato agli dèi», e perciò poteva essere ucciso senza incorrere in alcuna pena. Una simile comunità giurata, quale si trova, come istituto militare, anche tra i vicini popoli dei Volsci e dei Sanniti, era necessaria per procurare alla nuova carica, i cui titolari potevano essere eletti soltanto dalla parte plebea della comunità cittadina di Roma, la necessaria autorità nei confronti dei magistrati patrizi.
Tutte le principali rivendicazioni che i plebei avanzarono lungo due secoli paiono concentrarsi nel momento di questa cosiddetta prima secessione. Già la sua datazione al 494, però, appare dubbia; infatti, la tarda tradizione in tal modo fa esplodere il conflitto tra gli ordini in tutta la sua violenza nello stesso anno in cui per la giovane costituzione repubblicana di Roma il pericolo era cessato per la morte di Tarquinio il Superbo, in esilio a Cuma. Inoltre, questa prima uscita in campo della plebe pare sincronizzata a bella posta con il 493, la data, verosimilmente autentica, della fondazione del tempio di Libero, Libera e Cerere sull’Aventino, considerato come il santuario tipico dei plebei, e con l’istituzione della magistratura plebea degli edili, il cui titolo deriva da aedes, tempio, e che perciò in origine potrebbero essere stati i suoi custodi.
Demetra. Statua, terracotta, II-I sec. a.C. da Ariccia. Roma, Museo Nazionale.
La prima secessione della plebe, per quanto concerne la richiesta di riduzione dei debiti, pare evidentemente modellata sull’ultima, del 287, per la quale il motivo fu realmente questo. Infatti, stranamente i tribuni della plebe, di nuova istituzione, secondo le indicazioni della legge delle dodici tavole, non avevano ancora la possibilità di proteggere i debitori dalla servitù. È inoltre accertato per la prima metà del V secolo un forte crollo economico, e quindi proprio i Romani più poveri potrebbero essere stati maggiormente colpiti da spietate richieste di riscossione dei crediti.
Anche il mezzo impiegato dai plebei, un ammutinamento, pare poco verosimile. In primo luogo, una misura simile non avrebbe comportato pericoli solo se i Romani avessero condotto una campagna di guerra a grande distanza dalla metropoli, come accadde al più presto verso l’inizio del III secolo. In secondo luogo, un ammutinamento avrebbe avuto possibilità di successo solo se i plebei a quell’epoca avessero fornito una parte considerevole degli opliti delle truppe di Roma. Ma la distinzione tra il populus, nel senso di «popolo in armi, esercito», in cui certamente nel V secolo gli opliti erano forniti, tra gli agricoltori, dai grandi o medi proprietari, e la plebs (dal latino plere, «riempire, colmare») indica che i plebei originariamente non potevano servire con armi pesanti, perché non erano in grado di procurarsi i costosi armamenti necessari (elmo, corazza, schinieri, scudo, spada, giavellotto), ma soltanto come frombolieri, armati perciò in modo leggero.
Guerriero ferito (dettaglio). Statua frontonale, terracotta, V sec. a.C. dal Tempio di Sassi Caduti. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Tanto la rigida delimitazione dell’ambito di competenza dei tribuni della plebe esclusivamente a Roma, all’interno del pomerium, quanto la probabile derivazione del termine tecnico tribunus dalle quattro tribus urbane indicano un’origine puramente civile della carica. Nel 471 il numero dei tribuni della plebe dovette poi, secondo la tradizione, salire a quattro, e, cosa ancora più importante, la loro elezione, e quella degli edili plebei, fu assegnata per legge ai concilia plebis. I plebei in questa assemblea, riservata esclusivamente a loro, erano ordinati per tribù: cioè gli appartenenti ai ventuno distretti abitativi dell’epoca (alle quattro antiche tribù urbane e alle diciassette tribù rustiche) per prima cosa decidevano all’interno della propria tribù quali magistrati eleggere, oppure sulle proposte di legge che venivano loro presentate. Decisiva poi era la maggioranza delle tribù, non la maggioranza del numero complessivo dei cittadini aventi diritto di voto. Come già per i comitia centuriata, anche qui nella votazione valeva il principio corporativo – tipicamente romano – e fondamentalmente diverso dal diritto di voto individuale caratteristico delle poleis greche. I concilia plebis potevano essere convocati soltanto dai tribuni della plebe o dagli edili plebei. Le loro decisioni non diventavano leggi (leges), ma venivano chiamati plebiscita, ed erano cogenti soltanto per i plebei, non per i patrizi.
Nella tradizione ci sono state conservate notizie sporadiche su un’assemblea ugualmente ordinata secondo le tribù, i comitia tributa, che sotto la guida dei pretori e più tardi dei consoli eleggevano i questori e gli edili curuli (costituiti nel 366), e votavano leggi (leges) cogenti per tutti i cittadini. Poiché, al contrario di quanto accade per i comitia centuriata e i concilia plebis, non abbiamo nessuna storia delle origini dei comitia tributa dell’intera cittadinanza romana, le loro grandi somiglianze con i concilia plebis (e, talvolta, perfino la loro confusione nelle fonti) indicano che nel corso del IV secolo i comitia tributa vennero identificati con questi.
Scena di assemblea. Bassorilievo, calcare, 50 d.C. c. dal sarcofago di Lusio Storace. Chieti, Museo Nazionale.
La rivendicazione, da parte plebea, volta a ottenere la parità di diritti politici rispetto ai patrizi nel governo della comunità, anch’essa tramandata dalla tradizione per questa prima fase del conflitto degli ordini, è certamente da ritenere anacronistica per il primo periodo repubblicano. Infatti, anche dopo la presunta prima secessione della plebe, i debiti continuarono a gravare, per nulla diminuiti, sui Romani più poveri, e i privilegi giuridici degli aristocratici continuarono a essere schiaccianti.
Per questi motivi, non stupisce che lo stadio successivo del conflitto degli ordini portasse alla formazione del decenvirato, con il compito di introdurre nuove leggi. A proposito di questa prima, ampia codificazione giuridica in ambito romano la tradizione letteraria offre estese narrazioni. Nel corso della loro contesa sull’uguaglianza giuridica per tutti i cittadini, nel 451 i patrizi e i plebei si sarebbero accordati per costituire un collegio di dieci uomini, formato soltanto da patrizi, sospendendo sia i magistrati supremi sia i tribuni della plebe. I decemviri, guidati da Appio Claudio Crasso Irregillense, fino a quel momento nemico della plebe, avrebbero allora redatto una serie di leggi sul modello di quelle ateniesi, che sarebbe stata incisa su dieci tavole di bronzo. Poiché, però, parvero necessarie due ulteriori tavole, sarebbe stato eletto un secondo decemvirato, nel quale lo stesso Appio Claudio, ora manifestamente ben disposto verso i plebei, avrebbe fatto eleggere soltanto questi ultimi. Sotto la sua guida, però, il secondo decemvirato sarebbe diventato presto una tirannia, pronta a perseguitare sanguinosamente i propri avversari: ma poiché i patrizi e i plebei, diffidando gli uni degli altri, non riuscirono a concordare un’azione comune contro i decemviri, questi sarebbero rimasti al potere per tutto l’anno in corso, come stabilito, finché l’indignazione generale per la violenza minacciata da Appio Claudio sulla plebea Virginia, alla quale il padre poté sottrarla soltanto uccidendola, avrebbe costretto infine i decemviri a dimettersi.
Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.
Mentre sia il fatto che Appio Claudio, nel secondo mandato, venga stilizzato come tiranno, sia il suo preteso rovesciamento in seguito alla seconda secessione della plebe, nel 449, non sono probabilmente che parabole sul valore della solidarietà all’interno di una società, è assolutamente verosimile, dal punto di vista storico, l’attività legislatrice del primo collegio decemvirale. La stessa cosa vale per l’origine greca di parecchie disposizioni di legge, anche se si deve pensare ai Greci dell’Italia meridionale, come ad esempio Cuma, piuttosto che a Solone di Atene.
È da notare come i contenuti specifici delle dodici tavole non si trovino nelle narrazioni letterarie relative ai due decemvirati (a parte la significativa eccezione del presunto divieto di matrimonio tra patrizi e plebei), ma invece siano disseminati in notizie antiquarie. Anche se il loro latino arcaico è sempre stato modernizzato dalle varie fonti intermedie, non c’è motivo di dubitare dell’autenticità delle singole disposizioni, tanto più che esse venivano imparate a memoria dai bambini, in quanto costituirono fino all’età imperiale l’unico codice romano di diritto esistente. La legislazione delle dodici tavole rimase, fino alla tarda antichità, l’unico tentativo da parte dei Romani di regolare giuridicamente tutti i campi della vita; manifestamente, la rapida diminuzione dei conflitti tra i ceti dopo il 451 fece cessare il bisogno di una tale fissazione di principi.
Le prime due tavole erano dedicate alla procedura del processo civile (ad esempio, ai termini di tempo per la citazione in giudizio), la terza al diritto delle obbligazioni, che consentiva di tenere prigioniero il debitore moroso e perfino di venderlo come servo «al di là del Tevere». Questo dimostra l’antichità, almeno di quest’ultima disposizione, poiché il Tevere al più tardi dopo la conquista di Veio, avvenuta nel 396, non costituiva più il confine del territorio di Roma. La quarta e la quinta tavola avevano per oggetto il diritto di famiglia, tra l’altro prevedendo un diritto di successione per gli appartenenti a una stessa gens. La sesta e la settima regolavano il diritto sulle cose e sui beni immobili. L’ottava tavola determinava le pene per chi facesse incantesimi, per i ferimenti, gli incendi e i furti. La nona disponeva che sulla vita di un cittadino potesse decidere soltanto il maximus comitiatus (l’assemblea di tutto il popolo). La decima tavola limitava considerevolmente l’ostentazione di ricchezza e di lusso da parte dei nobili nelle cerimonie funebri e nelle sepolture. Mentre nella dodicesima l’argomento è il furto commesso da un servo e l’intervento del pretore su una ingiusta pretesa di possesso, il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei, attribuito all’undicesima tavola, è probabilmente una finzione degli annalisti, che doveva servire come dimostrazione (l’unica) della degenerazione del secondo decemvirato; perciò, gli stessi annalisti pensarono di far sparire questo divieto, dopo neppure cinque anni, per mezzo di un plebiscito molto spettacolare, inscenato dal tribuno della plebe del 445, Gaio Canuleio, pur se un plebiscito non potesse in nessun modo vincolare i patrizi. Inoltre, questo divieto di matrimonio costituirebbe l’unica testimonianza della divisione tra patrizi e plebei contenuta nelle dodici tavole. Furono invece rilevanti, sul piano giuridico, la distinzione sociale tra l’adsiduus, un proprietario di terreni agricoli per il quale poteva garantire soltanto un altro adsiduus, e il proletarius, il cittadino privo di terre, e quella tra cliens e patronus, il quale ultimo, nel caso in cui avesse ingannato il proprio cliens, sarebbe diventato sacer, esecrato e maledetto.
Corteo funebre. Bassorilievo, pietra calcarea, metà I sec. a.C. da S. Vittorino (Amiternum). L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo.
La legislazione delle dodici tavole, in quanto codificazione di un diritto tramandato fino a quel momento soltanto oralmente, costituì un grande passo verso la certezza del diritto e l’uguaglianza giuridica fra tutti i cittadini romani. Infatti, in tal modo potevano essere controllate le sentenze che prima i patrizi emettevano nella loro funzione sacerdotale. Quanto invece dalla legislazione delle dodici tavole venissero fissati i privilegi dei patrizi non è ancora chiaro. È molto evidente, piuttosto, il rafforzamento della gerarchia economica, perché i cittadini ricchi vennero chiaramente favoriti. Mentre le dodici tavole rappresentano una nitida istantanea a colori della società romana verso la metà del V secolo, l’evoluzione sociale di Roma fino all’inizio del IV secolo è ricostruibile soltanto in modo molto vago. Secondo la tradizione, l’indebitamento rimase un problema sempre irrisolto.
L’aumento a dieci, successivamente al decemvirato, del numero dei tribuni della plebe, come difesa contro gli abusi dei patrizi, aveva creato per un numero considerevole di plebei ambiziosi e benestanti un nuovo campo d’azione in cui proporsi come difensori dei propri compagni di ceto. Il tribunato della plebe, con la sua inviolabilità, che ogni plebeo era tenuto a difendere, costituiva il punto focale della solidarietà della plebe, che intendeva se stessa come una comunità giurata. In tal modo, con il tempo si formò uno strato di plebei che, basandosi sul sostegno sociale acquisito, durante il periodo in cui avevano rivestito la carica di tribuno, o anche di edile plebeo, e sull’esperienza maturata nel rappresentare gli interessi politici del proprio ceto, iniziò, al di sopra di questo compito puramente difensivo, a pretendere di configurare la politica cittadina nel suo complesso. Poiché i plebei costituivano inoltre senza dubbio la maggioranza degli ufficiali della legione eletti dall’assemblea popolare, i tribuni militum, con il tempo inevitabilmente dovette espandersi la rivendicazione, da parte della plebe, dell’accesso anche alle magistrature regolari. E, a questo punto, la chiusura della cerchia delle famiglie patrizie, che va collocata proprio nella seconda metà del V secolo, fu soltanto una conseguenza, destinata evidentemente ad avere un certo successo. Comunque, nel collegio dei questori, che dal 421 era formato da quattro componenti, per il 409 sono attestati per la prima volta dei plebei, anzi addirittura tre.
Prima della decisiva grecizzazione che la cultura romana conobbe nel secolo tra la guerra di Taranto (280-272 a.C.) e l’invasione della Grecia, la scrittura era considerata una tecnica senz’altro utile, ma il saper parlare era ben più importante: l’abilità oratoria, a Roma, fu sempre considerata come una forma di potere e una sicura fonte di successo, un’attività intellettualmente elevata[1]. Mentre la poesia, la filosofia e la storiografia – cioè la vera e propria letteratura – rientravano negli otia, nel “tempo libero” voluttuario e individuale, attività improduttive non particolarmente utili alla collettività, la retorica (o ars loquendi) era ben congeniale alla mentalità pragmatica dei Romani ed era ritenuta uno strumento indispensabile della vita attiva (negotium)[2]. Del resto, sino all’età scipionica, l’oratoria fu considerata l’unica attività culturale veramente degna di essere esercitata da un civis di elevata condizione: mentre i primi poeti, infatti, furono per lungo tempo dei liberti, oppure degli italici di moderata estrazione, l’oratoria fu, fin dal principio, appannaggio dei patricii e dei nobiles. In particolare, la capacità di convincere era prerequisito obbligatorio nella carriera politica (cursus honorum) e fondamentale strumento per riscuotere consensi in seno alla comunità. Proprio per i suoi risvolti pratici, dunque, i Romani non avevano nessun bisogno di “importare” la retorica dall’estero, come avevano fatto con le altre arti; invero, in seguito, essi si limitarono ad affinare alla scuola dei rhetores greci le loro naturali attitudini di oratores[3].
Al confine, dunque, fra due epoche, fra la cultura delle origini e la nuova letteratura ellenizzante, si colloca la figura emblematica e semileggendaria di un uomo particolarmente eloquente, mitico “iniziatore” dell’oratoria latina e politico di primo piano: Appio Claudio Cieco[4], di nobilissima stirpe sabina, fu censore nel 312 a.C. e console per due volte, nel 307[5] e nel 296; durante la sua censura, promosse molte opere pubbliche, fra le quali l’aqua Appia (il primo acquedotto dell’Urbe) e la via Appia (che, una volta completata, avrebbe collegato Roma a Brindisi)[6]. Gli antichi ne accostavano il nome a molteplici e importanti imprese, sia in guerra sia in pace: egli, da magistrato della res publica, combatté contro Etruschi[7] e Sabini e fu l’eroe della Terza guerra sannitica; in politica interna, fu strenuo avversario dell’aristocrazia e sostenitore dell’ingresso nel Senato di elementi plebei[8]. Grazie alla sua efficacia oratoria e all’ampia auctoritas di cui godette, Appio Claudio appare, per certi versi, come un predecessore di Catone[9]. Con una famosa orazione tenuta nel 280 a.C. egli si oppose alle proposte di pace di Pirro, e Cicerone vi allude come al primo discorso ufficiale mai pubblicato a Roma – discorso che, evidentemente, suscitando grande impressione fra i senatori, permise ai Romani di sconfiggere definitivamente il re epirota, impadronendosi di quasi tutta la Magna Grecia[10]. Ora, non è possibile determinare se il testo, che ancora ne circolava in età tardorepubblicana, fosse genuino, ma la notizia è comunque interessante, perché documenta, già in quell’epoca, un vivo interesse per il saper parlare.
Il cosiddetto Arringatore. Statua, bronzo, fine II-inizi I sec. a.C., da Perugia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.
La multiforme attività di Appio Claudio lasciò tracce durature in diversi campi. Nell’ambito del diritto, di cui fu grande conoscitore, egli si prodigò per dare maggiore trasparenza all’operato dei giudici. Secondo Pomponio, avrebbe scritto un trattato di cui è rimasto solo il titolo, De usurpationibus, nel quale avrebbe raccolto e spiegato le formule abbreviate delle legis actiones[11].
Tra l’altro, Appio si occupò, a quanto pare, anche di questioni linguistiche ed erudite, meritandosi l’appellativo di “legislatore linguistico”: a lui, infatti, si attribuisce un riordino dell’alfabeto latino, ancora non perfettamente stabilizzatosi, e la soluzione, per mezzo di una “riforma ortografica”, di un problema che si era venuto a creare in seguito all’evoluzione fonetica nota con il nome di “rotacismo”: la -s-, in posizione intervocalica (ad esempio, *hono-s-is, genitivo di honos) era diventata sonora, assumendo un suono a metà fra la z e la r. Appio Claudio introdusse con successo l’uso della r, eliminando dall’alfabeto la z (reintrodotta più tardi per la traslitterazione di voci greche): pare che egli detestasse la z per motivi superstiziosi, perché nel pronunciarla la bocca “imitava i denti di un morto” – notizia che costituisce una spia del valore magico-religioso attribuito all’alfabeto.
A suo nome circolava un’altra opera di carattere più spiccatamente letterario, e cioè una raccolta di massime (Sententiae), forse in metro saturnio; era considerata come un ricettacolo di saggezza popolare, tipica della cultura orale di Roma arcaica, moraleggiante e filosofeggiante: anche sotto questo aspetto, Appio Claudio sembra preannunciare la personalità di Catone. Non si sa se le sue capacità espressive, come, in verità, sarà il caso del Censore, fossero già nutrite da rapporti con la cultura ellenistica, per quanto certe sue massime morali possano far sospettare fonti greco-pitagoriche[12]. Di tre delle sententiae conservatesi[13], una esorta all’equilibrio interiore, un’altra a dominare con determinazione il proprio destino:
‹ae›qui animi compotem esse, ne quid fraudis stuprique ferocia parlat.
Essere padrone di un animo equilibrato, affinché la tracotanza non provochi danno e disonore[14].
Sed res docuit id uerum esse quod in carminibus Appius ait, fabrum esse sua quemque fortunae.
Ma l’esperienza ha mostrato che è vero ciò che afferma Appio nei carmina, e cioè che ognuno è artefice della propria sorte[15].
Elogium di Ap. Claudio Cieco. Iscrizione onorifica su tabula (CIL XI 1827 = ILS 54 = Iscr.It. XIII 3, 79), marmo, 2 a.C.-14 d.C. ca. da Arezzo. Firenze, Museo Archeologico Nazionale: Appius Claudius C(ai) f(ilius) Caecus censor co(n)s(ul) bis dict(ator) interrex III pr(aetor) II aed(ilis) cur(ulis) II q(uaestor) tr(ibunus) mil(itum) III com= plura oppida de Samnitibus cepit Sabinorum et Tuscorum exerci= tum fudit pacem fieri cum [P]yrrho rege prohibuit in censura viam Appiam stravit et aquam in urbem adduxit aedem Bellonae fecit.
È significativo che di Appio Claudio, considerato il progenitore della “prosa” a Roma, Cicerone citi (Tusc. IV 4, 7) l’esistenza di un carmen (mihi quidem etiam Appii Caeci carmen, quod ualde Panaetius laudat epistula quadam quae est ad Q. Tuberonem, Pythagoreum uidetur); questo, tuttavia, non autorizza a ritenere che Appio fosse stato, propriamente parlando, anche un poeta[16].
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[5]Liv. IX 42, 4: creatus consul, cum collegae noum bellum Sallentini hostes decernerentur, ‹Appius Claudius› Romae mansit, ut urbanis artibus opes augeret, quando belli decus penes alios esset.
[11] Pomp. ench. 1 (apud Dig. I 2, 2, 7): postea cum Appius Claudius proposuisset et ad formam redegisset has actiones; ench. 1 (apud Dig. I 2, 2, 36): hunc etiam actiones scripsisse traditum est primum de usurpationibus, qui liber non extat. Cfr. GUARINO 1981; D’IPPOLITO 1986, pp. 39-61; SCHIAVONE 1990, pp. 418-419, MAGDELAIN 1995, pp. 90-91.
[12] MARX 1897 è arrivato a dimostrare che alcuni di questi proverbi si ispirano probabilmente a un’opera di Filemone, riutilizzata più tardi da Plauto, e che sarebbe pervenuta ad Appio Claudio sotto forma di uno Gnomologion, cioè un “florilegio di massime”, trasmesso a Roma tramite la Magna Grecia; cfr. FERRERO 1955, pp. 168-172. Nella seconda metà del IV secolo a.C., il Pitagorismo, che là era probabilmente la dottrina filosofica principale, penetrò nella classe dirigente romana, della quale divenne in qualche modo «l’ideologia ufficiale» (GABBA 1990, p. 56).
[13] BAEHRENS 1886, pp. 36-37; MOREL 1927, pp. 5-6; BLÄNSDORF 1995, pp. 11-13.
[16] LEJAY 1920, p. 137 e GARZETTI 1947, p. 208 hanno considerato la testimonianza di Cicerone troppo soggettiva e troppo incerta per poter essere utilizzata.
di F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 2. Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004, pp. 450-451. Per la trad. cfr. Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, vol. I (libri I-II) a c. di C. Moreschini.
Secondo la tradizione, agli inizi del V secolo a.C. la plebe romana era in fermento perché tormentata dalla servitù per debiti (nexum): chi era in condizioni economiche disagiate era costretto a debiti che spesso, non potendo essere ripagati, portavano alla perdita della libertà personale. Nel 494 le agitazioni sfociarono in aperta rivolta, con la famosa secessio plebis sul Monte Sacro, significativa del rifiuto di partecipare alla vita civica e ai conseguenti doveri militari. Il Senato, dopo diversi tentativi di conciliazione andati a vuoto, inviò presso i ribelli una deputazione di dieci illustri cittadini, fra i quali il consolare Menenio Agrippa, caro alla plebe. L’apologo dell’autorevole personaggio, attraverso le colorite immagini metaforiche dell’indispensabile concordia fra tutte le parti del corpo umano, convinse i rivoltosi a trattare.
B. Barloccini, La secessio plebis al Mons Sacer (494-93 a.C.). Incisione, 1849.
Placuit[1] igitur oratorem ad plebem mitti Menenium Agrippam[2], facundum uirum et quod inde[3] oriundus erat plebi carum. Is intromissus in castra prisco illo dicendi et horrido modo nihil aliud[4] quam[5] hoc narrasse[6] fertur: tempore quo in homine non ut nunc[7] omnia[8] in unum consententia[9], sed singulis membris suum cuique consilium, suus sermo[10] fuerit, indignatas reliquas partes sua cura, suo labore ac ministerio[11] uentri omnia quaeri, uentrem in medio quietum nihil aliud quam datis uoluptatibus frui; conspirasse inde ne manus ad os cibum ferrent, nec os acciperet datum, nec dentes quae acciperent conficerent[12]. Hac ira, dum uentrem fame domare uellent[13], ipsa una[14] membra totumque corpus ad extremam tabem uenisse. inde apparuisse uentris quoque haud segne ministerium esse, nec magis ali quam alere eum, reddentem[15] in omnes corporis partes hunc quo uiuimus uigemusque, diuisum pariter in uenas maturum[16] confecto cibo sanguinem. Comparando hinc[17] quam intestina corporis seditio similis esset irae plebis in patres, flexisse[18] mentes hominum.
Fu deciso di mandare alla plebe come oratore Menenio Agrippa, uomo facondo e, poiché da essa proveniva, caro alla plebe. Egli, introdotto nell’accampamento, con quel modo di parlare primitivo e disadorno, non raccontò, a quanto si tramanda, altro che questo: nel tempo in cui nell’uomo non tutte le parti del corpo erano armoniosamente concordi verso un unico fine, come ora, ma ogni membro aveva un suo particolare modo di pensare, un suo particolare modo di esprimersi, si indignarono le altre parti che tutto ciò ch’esse si procuravano con la loro attività, con la loro fatica, con la loro funzione andasse a vantaggio del ventre, mentre questo, standosene tranquillo nel mezzo, ad altro non pensava che a godersi i piaceri che gli venivano largiti; giurarono, dunque, insieme che le mani non portassero più il cibo alla bocca, che la bocca rifiutasse quello che le veniva offerto, che i denti non masticassero quello che ricevevano. Per questa ostilità, mentre si proponevano di domare il ventre con la fame, tutte le membra insieme e tutto il corpo si ridussero a un estremo esaurimento. Risultò quindi evidente che anche l’opera del ventre non era inutile e che non era nutrito più di quanto non nutrisse restituendo a tutte le parti del corpo, equamente distribuito per le vene, questo sangue cui dobbiamo la vita e le forze e che si forma con la digestione del cibo. Si dice che, così paragonando la ribellione interna del corpo all’iroso furore della plebe contro i patrizi, egli piegò gli animi di quella gente.
***
Note:
[1]Placuit: è termine tecnico per indicare le decisioni del Senato.
[2]oratorem … Agrippam: Dionigi di Alicarnasso, scrittore greco vissuto nel I sec. a.C., autore di un’opera storica, intitolata Archaeologia Romana, in 20 libri, dei quali sono pervenuti solo i primi undici e frammenti degli altri, colui che aveva giustamente visto nel mos maiorum, nell’amore di libertà dei cittadini, nella consapevolezza dei loro diritti e nell’accettazione dei doveri, la superiorità dell’Impero romano, ha lasciato della secessio plebis un ampio e particolareggiato racconto. Egli narra che furono mandate ai plebei due ambascerie, ma che, essendo state minacciosamente respinte, si diede incarico a M. Valerio, T. Larcio e Menenio Agrippa e ad altri sette legati di parlamentare con i dissidenti. Valerio invitò la plebe a tornare in città, Bruto tenne un discorso assai commuovente, esponendo le richieste della plebe, e Agrippa persuase la folla alla riconciliazione. Freddo, monotono, scolorito il racconto di Dionigi, che si dilunga nell’esposizione dei più minuti particolari di fatti leggendari; ben più vivo ed illuminato quello di Livio, che li accenna appena, lasciando loro tutta la vaghezza e il sapere della tradizione.
[3]inde: cioè ex ea, dalla plebe. Però, un ramo della gens Menenia doveva essere stato ammesso già da tempo in Senato.
[13]dum … vellent: cong. obliquo, ma anche perché nella prop. alla circostanza di tempo è congiunta l’idea di intenzione e non manca una sfumatura avversativa.
di F. VALLOCCHIA, Manio Valerio Massimo, dittatore e augure, in Index, 35, 2007, 27-39.
Non placeo concordiae auctor. Optabitis, mediusfidius, propediem, ut mei similes Romana plebis patronos habeat. Quod ad me attinet, neque frustrabor ultra ciues meos neque ipse frustra dictator ero. Discordiae intestinae, bellum externum fecere ut hoc magistratu egeret res publica: pax foris parta est, domi impeditur; priuatus potius quam dictator seditioni interero (Livio, Ab Urbe condita II 31, 9-10).
Manio Valerio, dittatore nell’anno 494 a.C., dopo aver constatato di non essere riuscito ad imporsi quale concordiae auctor[1], in quanto il senato non aveva accettato le sue proposte per la liberazione dei plebei dai debiti, abdica dalla dittatura, «facendo al senato profezie» (Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane VI 43, 2)[2] sulla secessione della plebe.
Secondo la narrazione di Livio, Manio Valerio sembra così uscire dalla storia della secessione che, proprio in conseguenza della sua abdicazione dalla dittatura, la plebe attuerà in quello stesso anno. La storiografia contemporanea, fatte poche eccezioni (seppure di grande rilievo, come si vedrà), sembra voler trascurare l’importante ruolo che Manio Valerio ebbe anche per tutta la durata della secessione; ruolo che possiamo ricavare da un buon numero di fonti: un elogium epigrafico ed alcuni testi di Cicerone, di Dionigi di Alicarnasso, di Valerio Massimo e di Plutarco. Da queste si ricavano anche altre informazioni che mettono in luce la grande importanza di Manio Valerio nella storia di Roma. Per primo, egli ricoprì contemporaneamente la dittatura e l’augurato, come solo Quinto Fabio Massimo, Lucio Cornelio Silla e Gaio Giulio Cesare dopo di lui faranno[3]; e per primo egli ricevette l’onore della speciale denominazione di Maximus (Cicerone, Brutus 54; Plutarco, Vita di Pompeo, XIII 11), della quale solo molto tempo dopo sarà insignito anche Quinto Fabio.
Nicolas Poussin, Coriolano riceve le suppliche della sua famiglia. Olio su tela, 1652-53. Les Andelys, Musée Nicolas-Poussin.
La prima secessione della plebe nelle narrazioni di Livio e di Dionigi di Alicarnasso
Livio e Dionigi di Alicarnasso mostrano una particolare attenzione per gli avvenimenti relativi alla secessione plebea del 494 a.C.; a tale avvenimenti sono dedicati ben 46 titoli (dal 45 al 90) del libro sesto dell’opera dello storico greco contro una parte del titolo 31, l’intero titolo 32 ed una parte del titolo 33 del libro secondo dell’opera dello storico latino. Questa palese sperequazione si riflette soprattutto sulla quantità di notizie fornite dalle due narrazioni, le quali, quanto al contenuto, non fanno però emergere differenze tali per cui le si possa ritenere in contrapposizione tra loro.
Quanto alle possibili ragioni delle differenze tra le narrazioni di Livio e di Dionigi, Theodor Mommsen scrisse brevemente: «contra Livius solo opinor brevitatis studio ductus in his rebus narrandis et Valerii nomen plane suppressit et de fenore levato verbum nullum fecit»[4].
In effetti, ponendo a confronto il testo di Livio con quello di Dionigi sugli eventi collegati all’inizio ed alla fine della detta secessione, si ricava che: a) sia Livio (II 31, 11) sia Dionigi (VI 45, 1) evidenziano il nesso tra l’abdicazione di Manio Valerio dalla dittatura e l’inizio della secessione plebea; b) sia Livio (II 32, 12) sia Dionigi (VI 83, 2) evidenziano il nesso tra l’apologo di Menenio Agrippa e la fine della secessione; c) Livio (II 32, 8) mette in luce solo il ruolo svolto da Menenio Agrippa sul Monte Sacro; ma non lo fa in modo tale da escludere quanto rileva nel racconto di Dionigi (VI 69, 3), nel quale è detto che sul Monte Sacro erano stati inviati dieci présbeis[5], tra i quali Menenio Agrippa e Manio Valerio; d) Livio, pur avendo chiaramente indicato nel peso dei debiti la causa principale della secessione, evidenzia, tra le condizioni poste dai plebei per la fine della stessa, la sola istituzione del tribunato della plebe (Ab Urbe condita II 33, 1); nella sua narrazione, però, non vi sono elementi che possano escludere anche l’accoglimento di istanze relative ai debiti, come esposto da Dionigi (VI 88, 3).
Pertanto, come evidenziato da Mommsen, non vi è contrapposizione tra i testi dei due storici; le poche differenze sono dovute ad una minor quantità di notizie riferite dallo storico latino. Differenze più importanti, invece, vi sono tra Livio ed altre fonti.
B. Barloccini, La secessio plebis al Mons Sacer (494-93 a.C.). Incisione, 1849.
Manio Valerio in CIL VI 40920 e XI 1826, Cicerone, Valerio Massimo e Plutarco
In un’iscrizione marmorea di età augustea[6], rinvenuta ad Arezzo nel 1688, è riportato l’elogium di Manio Valerio:
M/ · Valerius
Volusi · f
Maximus
dictator · augur primus · quam
ullum · magistratum · gereret
dictator · dictus · est · triumphavit
de Sabinis · et · Medullinis · plebem
de sacro · monte · deduxit · gratiam
cum · patribus · reconciliavit · fae
nore · gravi · populum · senatus · hoc
eius · rei · auctore · liberavit · sellae
curulis · locus · ipsi · posterisque
ad Murciae · spectandi · caussa · datus
est · princeps · in senatum · semel
lectus · est.
Elogio di M’. Valerio Voluso Massimo, dittatore. Tabula, marmo, 19 a.C. c. (CIL XI, 1826 = Inscr.It. XIII 3, 78 = ILS 50). Arezzo, Museo Archeologico Nazionale ‘G.C. Mecenate’ [link].Theodor Mommsen (in CIL I, 1, 186 ss.) affermava che questa iscrizione era stata posta da Augusto all’interno del Foro fatto da lui costruire a Roma e che una copia di essa era stata collocata anche ad Arezzo, unitamente ad altri sei elogia tratti da iscrizioni presenti in quel Foro. Un parziale riscontro di queste affermazioni è costituito dal rinvenimento, nel 1934 a Roma alle pendici del Campidoglio, dalla parte dell’Altare della Patria, di una epigrafe mutila riproducente parte della iscrizione già rinvenuta ad Arezzo; G. Alföldy e L. Chioffi (in CIL VI, 8, 4839 s.) affermano che questa iscrizione sarebbe stata collocata non nel Foro di Augusto, ma nel Foro Romano per ordine di Augusto stesso (per il testo dell’epigrafe rinvenuta a Roma, vedasi CIL VI, 8, 4920)[7].
In questo elogium è posto in risalto il ruolo di conciliatore avuto da Manio Valerio in occasione della prima secessione plebea; nelle linee 8 e 9 si legge: «gratiam / cum · patribus · reconciliavit». Questo ruolo di Manio Valerio è evidenziato anche in altre fonti, pur con vari intendimenti politici.
a) In un passo di un’opera retorica di Cicerone, il Brutus, è posta in risalto l’attività fondamentale di Manio Valerio nella fine della secessione plebea; nel sottolinearne la capacità oratoria, l’Arpinate afferma che Manio Valerio «aveva sedato le discordie»:
Videmus item paucis annis post reges exactos, cum plebes prope ripam Anionis ad tertium miliarium consedisset eumque montem, qui Sacer appellatus est, occupavisset, M. Valerium dictatorem dicendo sedavisse discordias, eique ob eam rem honores amplissumos habitos et eum primum ob eam ipsam causam Maxumum esse appellatum (Cicerone, Brutus 54).
Nel passo, Cicerone sembra supporre esservi contemporaneità tra la carica di dittatore di Manio Valerio e la sua salita al Monte Sacro; invece, tanto Livio quanto Dionigi riferiscono dell’abdicazione di Manio Valerio dalla dittatura prima della secessione. Pertanto, o Cicerone è incorso in un errore, oppure egli ha voluto semplicemente richiamare l’attenzione sul fatto che Manio Valerio era stato dittatore. Del resto, la citazione di Manio Valerio non ha finalità di ricostruzione storica, ma esclusivamente di esaltazione della retorica. Vero è, comunque, che nei testi in cui Cicerone tratta di attività compiute da dittatori, è evidente che queste attività sono svolte in una stretta contestualità con la carica rivestita[8].
b) Valerio Massimo, sottolineando l’eloquenza di Manio Valerio come già aveva fatto Cicerone, ne mette in luce l’attività di persuasione verso la plebe; Manio Valerio fu colui che “sottomise il popolo al Senato”:
Regibus exactis plebs dissidens a patribus iuxta ripam fluminis Anienis in colle, qui sacer appellatur, armata consedit, eratque non solum deformis, sed etiam miserrimus rei publicae status, a capite eius cetera parte corporis pestifera seditione diuisa. ac ni Valeri subuenisset eloquentia, spes tanti imperii in ipso paene ortu suo corruisset: is namque populum noua et insolita libertate temere gaudentem oratione ad meliora et saniora consilia reuocatum senatui subiecit, id est urbem urbi iunxit. uerbis ergo facundis ira, consternatio, arma cesserunt (Factorum et dictorum memorabilium libri IX, VIII 9,1).
Come nell’elogium epigrafico, così nel passo di Valerio Massimo, successivo di qualche anno, si passa da uno specifico riferimento al rapporto plebs-patres ad un generale riferimento al populus. Peraltro, Valerio Massimo (IV 4,2) riporta anche la tradizione di Menenio Agrippa, riferendo altresì alcuni particolari già oggetto della narrazione di Livio; egli infatti, dopo aver affermato che il senato e la plebe avrebbero scelto Menenio Agrippa come conciliatore, narra che il suo funerale sarebbe stato garantito con il denaro raccolto «a populo».
c) Plutarco evidenzia l’opera di convincimento posta in essere da Manio Valerio; questi fu colui che «aveva riconciliato il senato e la plebe»:
Δύο γοῦν Μαξίμους, ὅπερ ἐστὶ μεγίστους, ἀνηγόρευσεν ὁ δῆμος· Οὐαλλέριον μὲν ἐπὶ τῷ διαλλάξαι στασιάζουσαν αὐτῷ τὴν σύγκλητον (Plutarco, Vita di Pompeo, XIII 11).
Dunque: mentre in Livio è narrata la mediazione del solo Menenio Agrippa, nell’elogium epigrafico, in Cicerone, in Valerio Massimo (che ricorda, però, anche Menenio Agrippa) ed in Plutarco è indicata la sola attività di convincimento posta in essere da Manio Valerio; in una posizione intermedia tra questi due gruppi di fonti si pone la narrazione di Dionigi di Alicarnasso, nella quale trovano spazio tanto Menenio Agrippa quanto Manio Valerio, pur se al primo è riservata un’attenzione maggiore. Tutto ciò conduce a pensare che esistano due tradizioni, nelle quali il merito della fine della secessione medesima è attribuito rispettivamente a Menenio Agrippa ovvero a Manio Valerio.
Guerriero con elmo calcidese. Testa fittile, terracotta policroma, V sec. a.C. da Albano.
Valerio Anziate e l’odierna storiografia. Mommsen aveva ragione
Le posizioni assunte dagli storici contemporanei circa queste tradizioni, sono sostanzialmente quattro. a) La grande maggioranza di essi raccoglie solo la tradizione di Menenio Agrippa; b) pochissimi riportano la sola tradizione di Manio Valerio[9]; c) alcuni riferiscono ambedue le tradizioni senza prendere posizione, oppure, più spesso, criticano la tradizione di Manio Valerio[10]; d) altri hanno una visione ipercritica di tutta la tradizione delle secessioni plebee[11].
Le accuse di non veridicità rivolte alla tradizione di Manio Valerio derivano da una più generale critica alle fonti annalistiche romane. Hirschfeld aveva sostenuto che il testo dell’elogium epigrafico di Manio Valerio non sarebbe dipeso da una antica tradizione annalistica, ma dagli Annali di Valerio Anziate[12]. Successivamente, altri studiosi affermarono, in riferimento alla prima secessione plebea, che Valerio Anziate avrebbe apportato ai dati più risalenti le «falsificazioni, di cui abbonda la pseudo-storia romana, a favore dei Valerii»[13]. Le «falsificazioni» dell’Anziate avrebbero influenzato fortemente, oltre il citato elogium, anche le opere di Dionigi, di Valerio Massimo (per di più anch’egli membro della gens Valeria) e di Plutarco[14]. Il ruolo di Manio Valerio sarebbe stato dunque “inventato” da Valerio Anziate che, così, avrebbe cercato di contrapporre questa sua ricostruzione alla tradizione antica[15], la quale attribuiva a Menenio Agrippa il merito della fine della prima secessione.
Contro le critiche alla veridicità della tradizione di Manio Valerio e, in particolare, contro le accuse di scarsa attendibilità mosse all’elogium epigrafico di questi, Mommsen affermava che il testo dell’elogium «pendere ab annalibus antiquis et optimis»[16]. Ritengo che Mommsen avesse ragione. Quattro osservazioni conducono a questa conclusione.
Innanzitutto, non abbiamo alcuna notizia certa sulla datazione degli Annali di Valerio Anziate; inoltre, è noto che di quest’opera sono pervenuti solo alcuni frammenti[17].
Non è possibile appurare se fossero già stati pubblicati gli Annali di Valerio Anziate nel 46 a.C., quando Cicerone scriveva il Brutus, opera nella quale appare il richiamo al ruolo di Manio Valerio nella conclusione della secessione plebea del 494 a.C.; inoltre, l’Arpinate in nessuno scritto menziona l’annalista Anziate[18]. È dunque molto probabile che il riferimento fatto da Cicerone a Manio Valerio nel Brutus sia dipeso da una fonte diversa dagli Annali di Valerio Anziate.
Non è possibile provare che il testo dell’elogium di Manio Valerio sia dipeso dagli Annali di Valerio Anziate. È quindi possibile che l’elogium sia stato ispirato da altra fonte, forse la stessa di cui si era avvalso Cicerone qualche decennio prima.
È possibile che lo stesso Valerio Anziate abbia tratto le informazioni riguardanti Manio Valerio da fonti più antiche[19]. Se così fosse, non avrebbe senso sostenere che il ruolo di Manio Valerio nella prima secessione plebea sia dipeso da una “invenzione” dell’Anziate; al più si potrebbe sostenere che questi abbia dato maggiore risonanza alle narrazioni che ponevano in risalto la figura di Manio Valerio[20].
È pertanto assai probabile che la tradizione di Manio Valerio sia stata fondata su narrazioni molto antiche, quanto quelle che riferivano dell’apologo di Menenio Agrippa. Gli annalisti successivi, ciascuno secondo le proprie idee ed i propri metodi, hanno basato le loro ricostruzioni su un nucleo originario che conteneva i tratti fondamentali di quelle vicende: a) il dittatore Manio Valerio e la questione dei nexi; b) la secessione della plebe; c) l’apologo di Menenio Agrippa; d) la nascita del tribunato della plebe; e) la discesa dei plebei dal Monte Sacro. Del resto, Cicerone, Dionigi e Livio attingevano le loro notizie da numerosi annalisti, dai più antichi ai più recenti; tutti e tre, per esempio, conoscevano gli scritti di Fabio Pittore, il più antico.
La questione dei nexi
Livio e Dionigi sono concordi nel riconoscere l’occasione della prima secessione plebea nella abdicazione di Manio Valerio dalla dittatura:
Namque Valerius post Vetusi consulis reditum omnium actionum in senatu primam habuit pro uictore populo, rettulitque quid de nexis fieri placeret. Quae cum reiecta relatio esset, «non placeo» inquit, «concordiae auctor. (…) priuatus potius quam dictator seditioni interero». Ita curia egressus dictatura se abdicauit. Apparuit causa plebi, suam uicem indignantem magistratu abisse; itaque uelut persoluta fide, quoniam per eum non stetisset quin praestaretur, decedentem domum cum fauore ac laudibus prosecuti sunt (Ab Urbe condita II 31, 8-11);
Il dittatore Manio Valerio si dimette dalla carica perché il Senato rifiuta di approvare le sue proposte a favore dei nexi; il dittatore non riesce ad imporsi quale concordiae auctor. In conseguenza dell’abdicazione, la plebe attua la secessione.
È di tutta evidenza che sia per Livio sia per Dionigi la questione dei nexi ha un peso fondamentale sulle motivazioni che spingono la plebe alla secessione[21]; e non credo che il limitato sviluppo dell’economia monetaria nei primi decenni del V secolo a.C., possa costituire una prova della scarsa incidenza dell’indebitamento tra le cause della prima secessione plebea[22]. Peraltro il nexum, sicuramente antecedente alla legge delle XII Tavole, sarà abolito solo alla fine del IV secolo a.C.[23]
Tuttavia, se per Livio e Dionigi l’indebitamento dei plebei è una delle cause della secessione del 494 a.C., il solo Dionigi dice espressamente che la liberazione dai debiti sarà formalmente deliberata dal senato nel 493 a.C.; Livio non ne fa menzione, pur avendo chiaramente indicato il problema dei nexi tra i motivi della secessione e pur avendo scritto che il dittatore Manio Valerio si era dimesso dalla carica perché il senato non era voluto intervenire nella questione dell’usura[24].
Come in Dionigi, così nell’elogium epigrafico di Manio Valerio è richiamata la decisione del senato sulla liberazione dai debiti:
fae/nore · gravi · populum · senatus · hoc / eius · rei · auctore · liberavit.
Il Senato liberò il populus dai debiti, essendo Manio Valerio auctor della deliberazione senatoria. Orbene, circa questo aspetto, sono due i punti sui quali si confrontano l’elogium e Dionigi: a) la liberazione dai debiti ad opera del Senato; b) la persona cui attribuire il merito di questa iniziativa. Sul primo punto c’è totale concordanza; sul secondo, invece, potrebbe sembrare che vi sia contrasto; infatti, dal racconto dello storico greco parrebbe che il merito di tale liberazione debba essere attribuito a Menenio Agrippa. Questi, nella ricostruzione di Dionigi, si rivolge una volta al senato e quattro volte alla plebe secessionista[25]; al senato, per convincerlo ad inviare présbeis ai plebei con pieni poteri nelle trattative (Antichità romane VI 67,2), alla plebe, nella prima parte del suo primo discorso, per garantire espressamente la liberazione dai debiti, descrivendo nei dettagli il contenuto della deliberazione che il Senato avrebbe approvato una volta raggiunto l’accordo con i plebei secessionisti (Antichità romane VI 83,4-5). Il racconto di Dionigi, però, è complesso ed una sua attenta lettura ci permette di pervenire ad una conclusione più articolata.
Innanzitutto, è evidente che, prima ancora che avvenga la secessione, l’indebitamento è tra le principali preoccupazioni del dittatore Manio Valerio, tanto che lo stesso dittatore prevede la futura seditio cagionata dalla mancata risoluzione del problema dei nexi; e questo, come ho già avuto modo di osservare, è chiaro tanto per Livio quanto per Dionigi. Inoltre, con la secessione in corso e prima che Menenio Agrippa pronunci il suo primo discorso alla plebe, già Manio Valerio aveva assicurato che il senato era pronto ad accettare le condizioni dettate dai plebei (Antichità romane VI 71); infine, dopo l’apologo di Menenio Agrippa e l’assicurazione che tutti i présbeis saranno garanti degli accordi raggiunti, è Manio Valerio colui che ritorna a Roma per convincere il senato, contro l’accanita opposizione di Appio, ad accettare tutte le condizioni poste dalla plebe, compresa la “novità” dei tribuni (Antichità romane VI 88,2-3).
Pertanto, nella narrazione di Dionigi è evidente il doppio ruolo di Manio Valerio; questi: a) garantisce (insieme agli altri présbeis) l’accordo tra plebei e Senato; b) convince il senato ad accogliere le richieste dei plebei. Il termine auctor, con cui nell’elogium è qualificata l’attività di Manio Valerio nella liberazione dai debiti, può indicare ambedue i ruoli evidenziati.
La parola auctor, con riferimento all’attività del Senato, indica l’azione di colui che propone una deliberazione senatoria[26].
Peraltro, il termine è connesso all’istituto della mancipatio e della conseguente auctoritas da parte del mancipio dans, detto appunto auctor. Orbene, il mancipio dans-auctor, sulla base di una norma delle XII Tavole (Cicerone, Topica IV 23, usus auctoritas fundi biennium est; De officiis I 12, 37, adversus hostem aeterna auctoritas), «in caso di minacciata evizione avrebbe dovuto intervenire nella rivendica promossa dal terzo contro l’acquirente»[27]; in altri termini, in caso di trasferimento della res tramite mancipatio, l’auctoritas costituiva per il mancipio accipiens una garanzia per l’evizione[28].
Dunque, la parola auctor si addice al ruolo di Manio Valerio, come emerge dal racconto di Dionigi, tanto se interpretata secondo il significato di garante (per l’evizione), quanto se interpretata secondo il significato di proponente un senatoconsulto. La prima accezione è riconducibile al ruolo di garante[29] della non modificabilità (in peius) delle disposizioni relative alla liberazione dai debiti, che in uno dei discorsi di Menenio Agrippa è attribuito a tutti i présbeis (Antichità romane VI 84,2). La seconda accezione ha fondamento sul fatto che è Manio Valerio, sempre secondo il racconto di Dionigi, ad esporre per primo al Senato il suo parere favorevole all’approvazione di tutte le richieste avanzate dalla plebe (Antichità romane VI 88,3).
Guerriero ferito (dettaglio). Statua frontonale, terracotta, V sec. a.C. dal Tempio di Sassi Caduti. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
La discesa dei plebei dal Monte Sacro ed il ruolo dell’augure Manio Valerio
Manio Valerio, secondo l’elogium, oltre che dittatore fu anche augure. Livio riporta la notizia della morte di un augure Manio Valerio nel 463 a.C. (Ab Urbe condita III 7,6: mortui et alii clari uiri, M. Valerius (…) augures). I due Valerii possono essere la stessa persona, anche se un passo di Dionigi rende problematica questa identificazione, in quanto lo storico greco riproduce un discorso (494 a.C.) del dittatore Manio Valerio, nel quale questi afferma di avere più di settanta anni (Antichità romane VI 44,3); ritenendo che l’augure del 463 sia lo stesso Manio Valerio del 494, questi sarebbe dunque morto ad un’età superiore a cento anni[30]; il che peraltro non è impossibile. Comunque, anche non accettando l’identificazione tra il dittatore ed augure Manio Valerio e l’augure morto nel 463, non v’è motivo di dubitare che il dittatore Manio Valerio fosse anche augure. Altro problema è stabilire se Manio Valerio fosse già augure nel 493, quando, secondo il racconto di Dionigi, fu inviato dal senato al Monte Sacro. In più punti delle sue storie Dionigi attira l’attenzione sull’età avanzata di Manio Valerio (Antichità romane VI 39,2; 41,2; 43,4; 71,1); in considerazione di ciò, è del tutto plausibile che Manio Valerio fosse augure già precedentemente[31]. Ora, occorre capire quale relazione vi possa essere tra l’augurato e la fine della secessione plebea. L’elogium epigrafico di Manio Valerio, sul punto specifico della fine della secessione plebea, recita:
plebem / de sacro · monte · deduxit;
L’elogio che Livio fa di Menenio Agrippa, sullo stesso punto riferisce:
Huic (Menenio Agrippa) … reductori plebis Romanae in urbem (Ab Urbe condita II 33,11).
Non vi è contraddizione tra i due elogi, perché Manio Valerio condusse la plebe giù dal Monte Sacro[32], mentre Menenio Agrippa ricondusse la plebe a Roma. Orbene, l’azione di Menenio Agrippa fu di natura politica; quella di Manio Valerio ebbe implicazioni giuridico-religiose ed almeno quattro sono le argomentazioni che lo chiariscono.
a) Il rapporto tra Iuppiter e l’augur. Gli auguri sono definiti da Cicerone, egli stesso augure, quali interpretes Iovis Optumi Maximi (Cicerone, De legibus II 8,20).
b) Il rapporto tra Iuppiter e la plebe sul Mons Sacer. Dionigi racconta che i plebei bōmòn kateskeúsan sulla cima del monte su cui si erano accampati, che chiamarono di Zeús Deimatíos (Iuppiter Territor)[33] (Antichità romane VI 90,1). In questa notizia, è implicito il nesso tra la secessione ed il timore di Iuppiter, diffuso tra i plebei sul Monte Sacro.
Nell’opera di Festo, sotto la voce Sacer mons, si legge che i plebei consacrarono il mons a Iuppiter:
Sacer mons appellatur trans Anienem, paullo ultra tertium miliarum: quod eum plebes, cum secessisset a patribus, creatis tribunis plebis, qui sibi essent auxilio, discendentes Iovi consecraverunt (Festo, v. Sacer mons, 422 e 424 – ed. Lindsay).
Nel passo di Festo è chiaramente detto che oggetto della consecratio fu il mons sul quale i plebei si erano ritirati dopo la secessione. Ora, nelle fonti sono indicate, quali oggetti di consecratio, res dai termini ben individuati e, soprattutto, agevolmente individuabili[34]; il mons, invece, si divide in più parti (radices, latera, iuga, vertices)[35], tanto da renderne problematica una precisa delimitazione ai fini della consecratio, per non parlare dell’evidente problema della estensione territoriale. Tutto ciò potrebbe far pensare ad una imprecisione terminologica di Festo, che, forse, intendeva indicare con il termine mons la parte della sommità, ove nell’antichità non era raro che fossero costruiti altari agli dèi[36]. Pertanto, è possibile che la consecratio di cui parla Festo abbia avuto ad oggetto non l’intero mons, ma la sua sommità (epì tēs akrōreías), dove era stato edificato il bōmòs di cui parla Dionigi. Peraltro, in altre due fonti si trova il riferimento alla consecratio di un mons; si tratta di un frammento delle orazioni perdute di Cicerone e di un passo di Valerio Massimo. Il testo di Cicerone (Oratio pro Gaio Cornelio, 49) è relativo proprio al mons sacer: «Montem illum trans Anienem, qui hodie Mons Sacer nominatur, in quo armati consederant, aeternae memoriae causa consecrarent». Il passo di Valerio Massimo (II 2,9) è invece riferito al monte Palatino: «Lupercalium enim mos a Romulo et Remo inchoatus est tunc, cum laetitia exultantes, quod his auus Numitor rex Albanorum eo loco, ubi educati erant, urbem condere permiserat sub monte Palatino, hortatu Faustuli educatoris sui, quem Euander Arcas consecrauerat». In ambedue i casi è dubbio se gli autori usino il verbo consecrare in un senso tecnico o lato; né è chiaro se oggetto di consecratio sia il mons nel suo complesso o sue parti. Certo è che lo stesso Cicerone usa consecrare anche in una accezione lata, come si può constatare nel seguente passo: «insulam Siciliam totam esse Cereri et Liberae consecratam» (In Verrem V 106).
c) Il rapporto tra l’augur e l’inaugurazione e consacrazione dei luoghi[37]. L’augure è il solo sacerdote che possa procedere alla inauguratio dei luoghi, pur se questo potere presuppone un’apposita richiesta del magistrato. Il luogo inaugurato è definito templum e può trovarsi sia all’interno del pomerio sia fuori; in ogni caso, esso è destinato allo svolgimento di attività magistratuali e sacerdotali. Per ciò che concerne il rapporto tra inauguratio e consecratio, le fonti testimoniano l’esistenza di luoghi inaugurati e non consacrati, ma anche di luoghi consacrati e non inaugurati. Comunque, la consecratio di un luogo deve avvenire in templo, cioè in un luogo inaugurato (si vedano Cicerone, De domo sua 53, 136-137; Servio, Ad Aeneidem I 446). Ora, occorre considerare che sul mons della prima secessione sono compiute, dai plebei o per i plebei, attività che, se compiute dal populus o pro populo in Roma, avrebbero dovuto essere generalmente effettuate in templo: riunione di un’assemblea di cives per eleggere i magistrati; riunione di un’assemblea di cives per deliberare un nómos; edificazione di un’ara; consacrazione di un luogo ad una divinità. Limiterò la mia attenzione agli ultimi due punti: i plebei bōmòn kateskeúsan[38] a Iuppiter (Antichità romane VI 90,1) ed alla stessa divinità consacrano il mons della secessione (Antichità romane VI 90,1; Festo, v. Sacer mons, 422 e 424, ed. Lindsay). Orbene, come ho già detto, gli atti di consecratio dovevano avvenire in un luogo inaugurato. È noto che la consecratio di un luogo era competenza dei pontefici; non si può, però, stabilire con certezza se sul Monte Sacro fosse presente anche un pontefice. È comunque possibile che vi fosse, considerato che sappiamo pochissimo sui nomi dei componenti i collegi sacerdotali di questo periodo e che tra i présbeis inviati dal Senato sul Monte Sacro, oltre all’augure Manio Valerio, vi era probabilmente almeno un altro sacerdote, Servio Sulpicio Camerino (Antichità romane VI 69,3), di cui Livio dice che era curio maximus nel 463 a.C., anno della sua morte (Ab Urbe condita III 7,6). In ogni caso, non vedo come i plebei avrebbero potuto effettuare una consecratio senza l’intervento dei pontefici.
d) Religio e plebe. L’auctoritas dell’augure Manio Valerio permette alla plebe di lasciare il mons della secessione senza aver turbato la pax deorum o, comunque, in pace con essi. Pur in un clima indubbiamente rivoluzionario, nel racconto di Dionigi è evidente la volontà dei plebei di seguire il più possibile il modello organizzativo della civitas di appartenenza, soprattutto per ciò che concerne l’osservanza delle caerimoniae. Iuppiter è al centro tra plebei e Senato: l’augure, interprete (patrizio) della volontà di Giove, pone le condizioni giuridico-religiose necessarie perché la plebe non violi la Romana religio. Sia nell’elogium di Manio Valerio sia nei passi di Dionigi e di Festo è evidente la posizione di Iuppiter in relazione alla fine della secessione: nell’elogium i plebei sono condotti giù dal Monte Sacro dall’interprete di Iuppiter (augur … plebem de sacro monte deduxit); in Dionigi i plebei dimostrano il loro timore per Iuppiter (bōmòn kateskeúsan… Diòs Deimatíou); in Festo i plebei scendono dal Monte dopo averlo consacrato a Iuppiter (eum plebes … discendentes Iovi consecraverunt). L’incontro tra i due ordines della civitas (plebs e gentes patriciae sono indicate quali ordines civitatis dal giurista dell’età augustea Ateio Capitone in Gellio, Noctes Atticae X 20,5) nel culto di Iuppiter è molto importante per la religio, tanto da richiedere l’intervento dei feziali (Antichità romane VI 6,89,1), segno evidente della unità del sistema giuridico-religioso romano: nella narrazione di Dionigi, tra senato e plebe vengono conclusi synthḗkai, parola greca che traduce il termine latino foedus[39]. La particolare attenzione da parte dei plebei per la religio apparirà evidente anche quarantaquattro anni dopo, in occasione della seconda secessione plebea, quando la riconciliazione con i patres sarà resa possibile, anche in questo caso, grazie all’opera di un sacerdote: il pontifex maximus. Da questi sarà infatti presieduta nel 449 a.C. l’assemblea plebea che, dopo l’esperienza del decemvirato legislativo, tornerà ad eleggere i tribuni della plebe (Asconio, In Cornelianam, 77 – ed. Clark; Ab Urbe condita III 54,11)[40].
[1] Sui «dittatori favorevoli alla plebe e al popolo» e sul «dictator quale concordiaeauctor», vedasi G. Meloni, Dictatura popularis, in Dictatures. Actes de la table ronde, Paris 27-28/02/1984, Paris 1988, 79 ss. e 84 s.; cfr. ID., Dottrina romanistica, categorie giuridico-politiche contemporanee e natura del potere del “dictator”, in AA.VV., Dittatura degli antichi e dittatura dei moderni, a cura di G. Meloni (Biblioteca di Storia antica, Collana diretta da L. Capogrossi Colognesi e L. Labruna. A cura del Gruppo di ricerca sulla diffusione del diritto romano, 16), Roma 1983, 90; 108 nt. 84-85.
[2] Dionigi di Alicarnasso scrive che Manio Valerio fece delle profezie al senato che si rifiutava di accogliere le sue proposte in merito ai debiti; Dionigi utilizza il verbo apothespízein che, appunto, indica l’attività di chi fa profezie (vedasi H.G. Liddell – R. Scott, Greek-English Lexicon, I, Oxford 1940).
[3] Vedasi V. Spinazzola, Gli augures, Roma 1895, 85 s.
[5] La parola greca présbeis traduce il termine latino legati. Si vedano D. Magie, De Romanorum iuris publici sacrique vocabulis solemnibus in Graecum sermonem conversis, Lipsiae 1905, 87 s.; H.J. Mason, Greek Terms for Roman Institutions, Toronto 1974, 153. In E. Boisacq, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Heidelberg 1950, 811, la traduzione in francese è resa con «envoyés, députés, ambassadeurs».
[6] Per il testo dell’epigrafe e per un suo commento, si vedano CIL I, 1, 189 e XI 1826, Inscriptiones Italiae, XIII, 3 (Elogia), 57 ss.
[7] Il testo dell’iscrizione rinvenuta a Roma (CIL VI, 8, 4920) inizia dalla parola populum, presente nella linea 10 dell’iscrizione aretina (CIL XI 1826): populum · sen[atus] / hoc auctore [liberavit] / sellae curuli[s locus] / ipsi posteri[sque ad] / Murciae · s[pectandi] / caussa · pu[blice datus] / est · prin[ceps in senatum] / semel l[ectus est]. Le differenze tra i due testi sono solo due: nella iscrizione di Roma non appare eius rei che invece è presente nella linea 11 dell’epigrafe aretina ed in quest’ultima non appaiono le lettere pu, integrate in publice dal CIL, che sono invece incise nella linea 6 dell’iscrizione romana.
[8] Si vedano, ad esempio, Cicerone, Pro P. Quinctio 24, 76; De domo sua 79; De officiis 2, 29; Brutus 312; Brutus 328.
[9] Vd. Th. Mommsen, Storia di Roma antica, I, 2, Firenze 1960 (Römische Geschichte, Berlin 1888), 336 s., il quale dava spazio al solo Manio Valerio, affermando che questi convinse la plebe a tornare a Roma ed il senato ad accettare le richieste plebee sulla liberazione dai debiti e sulla creazione dei tribuni.
[10] Vd. E. Pais, Storia di Roma, III, Roma 1927, 21 s., il quale richiamava tanto Menenio Agrippa quanto Valerio Massimo (che lo studioso chiama Marco e non Manio) e poneva in evidenza il fatto che Dionigi «trova modo di fondere le diverse narrazioni e di assegnare una parte tanto a Manio Valerio quanto a Menenio Agrippa». Vedasi anche J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine, Rome 1978, 542, il quale, pur riportando sia le fonti che tramandano la tradizione di Menenio Agrippa sia quelle che ricordano il ruolo di Manio Valerio, pone su queste ultime l’accusa di dipendere dall’opera di Valerio Anziate.
[11] Vedasi G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, Milano-Torino-Roma 1907, 6 s.: «quali precisamente tra i moventi della lotta siano stati quelli che determinarono la secessione o le secessioni, che cosa per l’appunto si sia ottenuto per questa via dai patrizi, se la plebe si sia ritirata sull’Aventino soltanto una volta o più, quando esattamente ciò abbia avuto luogo, son quesiti a cui sarebbe pura illusione il credere che la tradizione, come a noi è pervenuta, possa dar modo di rispondere». Vedasi anche H.H. Scullard, Storia del mondo romano, I, Milano 1983 (A History of the Roman World 753-146 BC, London 1980), 108, il quale ricorda il ruolo di Menenio Agrippa, mettendo però in dubbio la veridicità stessa di tutta la tradizione relativa alla prima secessione plebea.
[12] O. Hirschfeld, Das Elogium des M. Valerius Maximus, in Philologus, 34, 1876, 85 ss.
[13] Così G. De Sanctis, v. Valerio Anziate, in Enciclopedia Italiana, XXXIV, Roma 1937, 916. Sulle falsificazioni di cui si sarebbe reso responsabile Valerio Anziate per dare lustro alla gens Valeria si vedano altresì H. Volkmann, v. Valerius Antias, in PWRE, VIII, A2, 1948, 2312 ss., e, più recentemente, F.X. Ryan, The subsequent magistracy of M’ Valerius Volusi f. Maximus, in Acta Antiqua Academiae Scientiarum Hungaricae, 38, 1998, 353 ss.
[14] G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, cit., 41, sostiene che Dionigi, «non riuscendo a giudicare rettamente del valore delle fonti e ad avvertire quanto di menzognero era, per esempio, in Valerio Anziate, scelse a guida gli annalisti che meglio si prestavano a fornirgli gli elementi di un racconto prammatico, cioè i più mendaci e recenti, di cui appunto pel desiderio d’essere compiuto accolse assai di più di Livio le invenzioni». L’influenza dell’opera dell’Anziate in Dionigi, Livio e Plutarco è altresì evidenziata da L. Pareti, Storia di Roma e del mondo romano, I, Torino 1952, 37 s. La dottrina più recente, soprattutto i giuristi, è meno critica nei confronti della attendibilità dell’opera di Dionigi; si vedano S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, Milano 1981, 10 ss.; L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella ‘Storia di Roma arcaica di Dionigi di Alicarnasso, I, Napoli 1988, 7 ss.; F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, I, Napoli 1999, 36 s.
[15] Sull’antichità della tradizione relativa a Menenio Agrippa e, allo stesso tempo, sulla impossibilità di stabilire con certezza l’epoca in cui essa sarebbe stata formata, vedasi la ricognizione delle opinioni espresse dalla dottrina contemporanea in J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine, cit., 542 nt. 344.
[17] H. Volkmann, v. Valerius Antias, cit., 2312 ss.
[18] Valerio Anziate non è mai menzionato, neppure indirettamente, da Cicerone (al riguardo, vedasi G. De Sanctis, v. Valerio Anziate, cit., 916). L. Pareti, Storia di Roma e del mondo romano, I, cit., 37, sostiene che «il fatto che vari autori lo (scilicet Valerio Anziate) dicono coevo di Sisenna, e che la sua storia si proponeva, a quanto sembra, di giungere fino alla morte di Silla, pare testimoniare che il silenzio di Cicerone su di lui non dipende dall’aver Valerio Anziate pubblicato i suoi Annali dopo il 43, in cui l’oratore morì; ma dal non averne voluto parlare».
[19] Si vd. O. Hirschfeld, Das Elogium des M. Valerius Maximus, cit., 85 ss., e H. Volkmann, v. Valerius Antias, cit., 2312 ss.
[20] Vd. L. Peppe, Studi sull’esecuzione personale, I, Milano 1981, 65 nt. 94, il quale non esclude che Valerio Anziate abbia ripreso ed ampliato una tradizione più antica.
[21] Vd. F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, I, cit., 111 e 241, il quale insiste sulle motivazioni economiche della prima secessione plebea.
[22] Sulle motivazioni di natura economica della prima secessione plebea e, soprattutto, sulla monetazione e sulla natura dei debiti in età arcaica, vedasi F. De Martino, Storia economica di Roma antica, I, Firenze 1979, 13 ss.; 29 ss.; 45 ss. Per una ricognizione della dottrina sul problema dell’indebitamento in età arcaica, vedasi C. Gabrielli, Contributi alla storia economica di Roma repubblicana. Difficoltà politico-sociali, crisi finanziarie e debiti fra V e III sec. a.C., Como 2003, 11 ss.
[23] Per una precisa ricostruzione storico-giuridica nel nexum, vedasi F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, I, cit., 230 ss. L’abolizione del nexum avviene tra il 326 ed il 313 a.C. con una legge Poetelia, o PoeteliaPapiria.
[24] Riferendosi alla spiegazione data da Mommsen circa la differenza tra la narrazione di Livio e quella di Dionigi (per la quale vedasi supra, nel testo), L. Peppe, Studi sull’esecuzione personale, I, cit., 64, sostiene che «una tesi siffatta, a parte la sua indimostrabilità, è banale e in fondo gratuita». Tuttavia, lo stesso Peppe pretende di dimostrare che le omissioni di Livio sarebbero prove della inesistenza del problema dell’indebitamento nel V secolo a.C.
[25] Per pronunciare il famoso apologo (Antichità romane VI 83,3-5 e VI 84-86); per chiedere a Giunio Bruto di manifestare quale garanzia voglia la plebe (Antichità romane VI 6,87,3); per chiedere che una parte dei présbeis torni a Roma per presentare al senato le richieste plebee (Antichità romane VI 88,1-2); per consigliare ai plebei di inviare in città degli uomini per ricevere dal senato assicurazioni (Antichità romane VI 88,4).
[26] Vd. per esempio, Gaio, Istituzioni I 73: divus Hadrianus … auctor fuit senatusconsulti faciundi.
[27] M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palermo 1994, 317 nt. 51.
[28] Nelle fonti giuridiche di età successiva alle XII Tavole, il termine auctor è impiegato anche nel significato più generale di dante causa; si veda il Vocabularium Iurisprudentiae Romanae, I, v. Auctor, 513 s. Su auctoritas ed auctor si vedano anche L. Amirante, Sul concetto unitario dell’auctoritas, in Studi in onore di S. Solazzi, Napoli 1948, 375 ss., e, soprattutto per ciò che concerne l’età arcaica, F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, I, cit., 309 s.
[29] In H.G. Liddell – R. Scott, Greek-English Lexicon, I, cit., la parola anádochos, con specifico riferimento a Antichità romane VI 84, è tradotta con il termine inglese “surety”, che in italiano significa anche “garante”.
[30] Così G.J. Szemler, The Priests of the Roman Republic, Bruxelles 1972, 52 s., per le opinioni espresse in dottrina sulla identificazione tra i due Valerii. Szemler, seguendo Mommsen, propende a credere che l’augure morto nel 463 sia lo stesso Manio Valerio della prima secessione plebea.
[31] Secondo J. Rüpke – A. Glock, Fasti sacerdotum: die Mitglieder der Priesterschaften und das sakrale Funktionspersonal römischer, griechischer, orientalischer und judisch-christlicher Kulte in der Stadt Rom von 300 v. Chr. bis 499 n. Chr., II, Stuttgart 2005, 1351, Manio Valerio sarebbe già augure dal 495 a.C.
[32] Sul significato di deducere, vd. la voce Deduco, in Lexicon totius Latinitatis, II, 600, ed in Thesaurus linguae Latinae, V,1, 272 e 277.
[33] R. Bartoccini, v. Iuppiter, in Dizionario epigrafico di antichità romane, II, 2, rist. Roma 1961, 245, cita solo un’epigrafe che indica Territor come attributo di Iuppiter: sancto Iovi territori sacrum (CIL XIV 3559).
[34] Per una elencazione delle res consacratae indicate nelle fonti, si vd v. Consecro, Thesaurus linguae Latinae, IV, 379 ss. Si vedano anche E. Pottier, v. Consecratio, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, I, 2, rist. Graz 1969, 1448 ss.; G. Wissowa, v. Consecratio, in PWRE, IV, Stuttgart 1900, 896 ss.; E. De Ruggiero, v. Aedes, in Dizionario epigrafico di antichità romane, I, rist. Roma 1961; G. Luzzatto, v. Consecratio, in NNDI, IV, Torino 1959, 110; C. Frateantonio, v. Consecratio, in Der Neue Pauly, 3, Stuttgart-Weimar 1997, 128.
[35] Vd. la voce Mons nel Thesaurus linguae Latinae, VIII, 1431.
[36] Vd., infatti, F. Lenormant, v. Montes divini, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, III, 2, rist. Graz 1963, 1995.
[37] Sulla inauguratio dei luoghi e sul rapporto con la consecratio, si veda P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960, 248 ss.
[38] Il verbo kataskeúazein indica un’attività di edificazione. Il termine bōmós traduce il latino ara; vedasi E. Saglio, v. Ara, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, I, 1, rist. Graz 1969, 347.
[39] Vd. H.J. Mason, Greek Terms for Roman Institutions, cit., 90. Sul foedus tra Senato e plebei nel 493 a.C. e sulla «unicità virtualmente universale del sistema giuridico-religioso elaborato dai feziali», vd. P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, 199 s.
[40] Vedasi C.M.A. Rinolfi, Livio 1.20.5-7: pontefici, sacra, ius sacrum, in Diritto @ Storia, 4, 2005, 15 ss.
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