in BIONDI I., Storia e antologia della letteratura greca. Vol. 3 – L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, 628-636 [con blbliog. aggiornata].
La vita
La figura di Luciano di Samosata si distingue nettamente nel panorama culturale del II secolo, per la brillante personalità, per la vivacità dell’ingegno e per la vastità di interessi, che lo spinsero a una pluralità di ricerche sconosciuta ad altri esponenti della neosofistica. Con questo movimento culturale, inoltre, Luciano ebbe un rapporto assai critico: dapprima seguace entusiasta, se ne allontanò poi in maniera altrettanto decisa, per affrontare una nuova serie di esperienze culturali, nelle quali non mancò di mettere in luce il proprio carattere polemico e il suo stile arguto e mordace.

Luciano nacque intorno al 120 a Samosata, capitale della Commagene di Siria, figlio di una famiglia piuttosto modesta. Come narrò egli stesso in un’opera autobiografia, il Sogno, quando fu cresciuto abbastanza da dover pensare al proprio avvenire, i suoi genitori, ritenendo che i propri mezzi finanziari non fossero sufficienti per permettere al ragazzo di affrontare studi lunghi e costosi, pensarono di avviarlo all’arte del marmorario, mandandolo alla bottega di uno zio, che già esercitava questo mestiere. Tuttavia, l’apprendistato di Luciano durò assai poco, perché lo zio, infuriato con l’inesperto nipote che gli aveva rovinato un costoso blocco di marmo, lo cacciò in malo modo, con una solenne bastonata. Pesto e disperato, Luciano si addormentò; allora, in sogno, gli apparvero la Statuaria e l’Eloquenza, prospettando i vantaggi che ciascuna di loro avrebbe potuto offrirgli, se egli avesse scelto di dedicare a lei la propria esistenza. L’episodio, che è un’evidente trasposizione della storia di Eracle al bivio, narrata all’inizio del II libro dei Memorabili di Senofonte, segnò la vita di Luciano. Il giovane, infatti, abbracciando la carriera dell’eloquenza, si dedicò allo studio della lingua e della letteratura greca, delle quali acquisì ben presto grande padronanza, imparando con facilità il dialetto attico del periodo classico. Egli, dunque, intraprese la carriera del retore itinerante, che lo portò in varie città dell’Asia Minore, in Gallia e in Italia. A Roma Luciano ebbe modo di conoscere il filosofo Nigrino, che svolse un ruolo abbastanza importante nella sua vita. Trasferitosi per un certo periodo ad Atene, verso il 160 circa, sembra che i suoi interessi filosofici abbiano preso il sopravvento su quelli retorici e che lo abbiano avviato a studi ben più profondi e meditati. Si trattò, invero, di una parentesi piuttosto breve, perché, non molto tempo dopo, Luciano si dedicò di nuovo alla passione di sempre, i viaggi: in questo periodo, infatti, egli fu anche ad Antiochia, dove conobbe personalmente l’Augustus Lucio Vero. Dal 165 in poi ritornò ancora ad Atene, che considerava la sua patria di adozione e se ne allontanò soltanto per ricoprire la prestigiosa carica di archistator praefecti Aegypti («segretario del prefetto d’Egitto»), conferitagli, nonostante la proprie origini orientali, grazie a influenti amicizie. Nel 175, però, si dimise dall’incarico – probabilmente per motivi politici, oppure forse per il suo temperamento irrequieto –, ritornando ad Atene. Da quel momento in poi, la sua vita pubblica non conobbe più avvenimenti di rilievo. Secondo le fonti antiche, la morte lo raggiunse non molto tempo dopo, verso la fine del principato di Marco Aurelio, intorno al 180 circa. A questo anno, infatti, risalgono i suoi ultimi scritti di cui si abbia notizia, l’Alessandro e il trattato in forma epistolare Come si deve scrivere la storia. Il lessico Suda, che fornisce di Luciano un giudizio assolutamente negativo, proclamandolo «erede del fuoco di Satana», narra che egli morì tragicamente, sbranato da una muta di cani, «perché fu nemico rabbioso della verità». La notizia, naturalmente, è da considerarsi leggendaria. La produzione letteraria di Luciano, infatti, tutta in prosa, è pervenuta in un corpus di ottanta scritti, alcuni dei quali spuri. La loro cronologia rappresenta per gli studiosi un problema assai complesso, che non sarà affrontato in questa sede; ci si limiterà, invece, per maggiore chiarezza, a suddividere le opere lucianee secondo il genere e i contenuti.
Gli scritti retorici
Al periodo in cui Luciano esercitò la professione di retore itinerante appartengono proemi e declamazioni (μελέται, «esercizi» retorici di vario argomento), fra i quali assume particolare importanza per il suo carattere autobiografico il già citato Sogno; a quest’opera si aggiunge l’Apologia, anch’essa di contenuto autobiografico, che Luciano compose negli anni della maturità, quando era cancelliere in Egitto, per difendersi dall’accusa di brama di onori – comportamento assolutamente inaccettabile in un filosofo cinico, quale egli stesso si professava. Interessante, come esempio di esercitazione retorica tesa a illustrare la potenza della sua dialettica, secondo la migliore tradizione dell’insegnamento sofistico, è il Tirannicida, in cui il protagonista commette un omicidio premeditato, eliminando il figlio di un tiranno. Straziato per il dolore, il padre, a sua volta, si toglie la vita e l’assassinio del ragazzo, nel discorso pronunciato in tribunale per difendersi, sostiene di aver diritto a riconoscimenti e onori per aver liberato la città da quel regime. Allo stesso genere appartiene il Diseredato, storia di un medico che guarisce il proprio padre da un attacco di follia: il genitore, però, rinsavito, disereda il figlio, perché costui rifiuta di prestare le proprie cure alla matrigna, anche lei vittima di un accesso di pazzia.

Nello stesso gruppo di opere si possono annoverare l’Elogio della mosca e il Tribunale delle vocali. Quest’ultima, in particolare, è una querela esposta dal signor Sigma contro il signor Tau per appropriazione indebita e usurpazione di diritti, di fronte alla giuria delle vocali, perché negli autori attici il Tau ha abusivamente occupato il posto di Sigma nella grafia delle parole. In un altro scritto dal titolo significativo, Sei un Prometeo nei discorsi, l’autore, di fronte all’ammirazione entusiasta, ma un po’ eccessiva, di un suo allievo, ridimensiona obiettivamente le proprie capacità, sottolineando come i contenuti delle proprie opere non propongano alcunché di nuovo, ma il loro valore risieda soltanto nella consumata tecnica formale dell’esposizione.
Un cenno meritano anche le sue προλαλιαὶ o διαλέξεις, le «chiacchierate», che precedevano l’ἐπίδειξις, la «recitazione» vera e propria, e che miravano a suscitare la benevola attenzione del pubblico con il loro tono conversevole e garbato. In tutti questi scritti compaiono già gli elementi tipici dell’arte di Luciano: l’opposizione dialettica di opinioni opposte, la tendenza a un’ironia fine e sagace, lo stile chiaro e gradevole, caratterizzato da osservazioni spiritose e da un vivace umorismo, che spesso scaturisce dalla parodia di situazioni o personaggi, oltre che da un’ottima capacità di sfruttare il linguaggio a fini comici.
Scritti di polemica filosofica e religiosa
In uno dei numerosi scritti lucianei che contengono accenni autobiografici, il Due volte accusato, l’autore presenta se stesso in veste di imputato in un processo che gli è stato intentato dalla Retorica e dal Dialogo platonico. La prima lo accusa di averla abbandonata, mentre il secondo lo considera reo di aver distrutto la serietà e la profondità dei suoi contenuti, contaminandoli con la comicità e con la satira; nella sua difesa, Luciano ammette di aver abbandonato, verso i quarant’anni, la Retorica, che ormai «non aveva più la dignità di donna onesta, come ai tempi di Demostene, ma andava in giro truccata come una prostituta, tutta coperta di belletti». Per questo motivo egli aveva optato per la filosofia; ma seguendo l’impulso indagatore del suo animo inquieto, desideroso di novità e spiccatamente critico, non aveva potuto fare a meno di notare come anch’essa fosse cambiata rispetto al tempo antico. Perciò, egli aveva deciso di approfondire la propria analisi, per scoprire le ragioni di quel peggioramento, servendosi a questo scopo di quell’illustre strumento di dottrina che era stato il dialogo platonico, non senza averlo opportunamente modificato per adattarlo alle proprie esigenze (Due volte accusato, 30-32).

In effetti, in quel periodo della sua vita, Luciano si dedicò alla ricerca speculativa; il risultato fu una serie di scritti dal tono amaramente satirico contro la degenerazione del pensiero filosofico e della figura del saggio, ricchi di un umorismo pungente e dissacratore, che richiama alla memoria la commedia antica. Particolarmente significativa appare, da questo punto di vista, una irriverente e spassosa parodia del Simposio di Platone, contenuta in un dialogo lucianeo con lo stesso titolo. Licino, persona seria e colta (in cui l’autore adombra se stesso), si reca dall’amico Aristeneto per prendere parte a un banchetto offerto per festeggiare le nozze della figlia: purtroppo, però, il padrone di casa ha avuto la malaugurata idea di invitare anche i rappresentanti di tutte le maggiori scuole filosofiche, nell’intento di conferire un tono intellettuale alla lieta occasione. Invece, l’unico risultato che riesce a ottenere è che il banchetto si trasformi in un’indegna gazzarra, durante la quale uno dei cinici, che era riuscito a imbucarsi alla festa senza essere stato invitato, approfitta della confusione per riempirsi la capace bisaccia di ghiotte vivande.

Lo stesso tono umoristico e sarcastico nei confronti della degenerazione della filosofia caratterizza anche altri scritti di Luciano: nei Fuggitivi, ad esempio, i nuovi filosofi sono allegoricamente rappresentati come schiavi fuggiaschi (i pensatori “moderni” che si sono sottratti all’autorità dell’antica dottrina), acciuffati dai loro padroni e sottoposti a meritata punizione. Nelle Vite all’incanto, si immagina che Zeus metta all’asta, per venderli al miglior offerente, i fondatori delle principali scuole filosofiche – l’epicurea, la scettica, la peripatetica, la pitagorica –, ognuno dei quali ha preteso di indicare le direttive su cui gli uomini dovrebbero basare la propria esistenza. Il piacevole umorismo che caratterizza l’operetta scaturisce dal realismo con cui l’autore ha saputo ricostruire il clima di una vera vendita all’asta, con il banditore che magnifica i pregi della sua merce, il pubblico che osserva, chiacchiera, commenta, e i potenziali compratori che vogliono essere bene informati e controllare di persona, prima di fare la propria offerta.

Nel Pescatore, seguito dell’opera precedente, il protagonista, Parresiade («Colui che non ha peli sulla lingua») – che poi è l’autore stesso –, si trova coinvolto in una pericolosa situazione: infatti, Zeus ha concesso a tutti gli intellettuali, le cui vite sono state messe all’incanto, di ritornare un giorno tra i vivi per vendicarsi di colui che li ha così crudelmente scherniti. Parresiade, però, tiene una convincente apologia davanti alla Filosofia, dimostrando che quelli da lui perseguitati non sono stati che dei disonesti ciarlatani, colpevoli di aver avvilito a scopo di lucro l’insegnamento degli antichi maestri. In questo modo, Parresiade-Luciano è assolto e può dedicarsi al difficile compito di pescare (di qui il titolo del dialogo) i veri filosofi con la lenza e con l’amo, dall’alto dell’Acropoli di Atene, scartando senza pietà le creature spinose e repellenti che di tanto in tanto abboccano. In questo modo, il dialogo, che era stato con Platone lo strumento per eccellenza del discorso filosofico, con Luciano diviene l’arma prediletta per ridicolizzare gli avversari, criticando, insieme alle varie tendenze culturali, anche le più diffuse credenze religiose.

Il tono derisorio nei confronti dei filosofastri raggiunge il vertice dell’asprezza in un opuscolo redatto in forma epistolare, la Morte di Peregrino. Costui era un filosofo cinico assai noto a cui si attribuiva anche una certa simpatia per il Cristianesimo e Luciano lo aveva conosciuto quando, di ritorno dall’Oriente, era giunto ad Atene. Nel 165 il filosofo aveva deciso di dimostrare la sua radicale protesta contro il malcostume dei tempi suoi con uno spettacolare suicidio, in occasione dei Giochi olimpici, buttandosi nel fuoco in pubblico. Ma Luciano vide nel gesto di quell’uomo soltanto una manifestazione di fanatismo per lui intollerabile e non esitò a esprimere tutta la propria disapprovazione, accomunando nella sua durissima critica anche la “superstizione” dei cristiani, che andava diffondendosi sempre più ampiamente.
Va, però, aggiunto che la lingua tagliente, ma imparziale, dello scrittore siro non risparmiò nemmeno la divinità suprema del pantheon pagano: in tre dialoghi, Zeus confutato, Zeus tragedo e il Concilio degli dèi, il signore dell’Olimpo si trova coinvolto in situazioni nelle quali la sua autorità appare messa gravemente in dubbio, senza che egli riesca a difenderla degnamente.

In contrasto con la satira pungente e distruttiva delle opere appena citate, si possono ricordare tre scritti lucianei dal tono meno aspramente polemico e, per certi aspetti, più costruttivo. Il primo, il Nigrino, espone in forma dialogica un incontro dell’autore con il filosofo neoplatonico, il quale si sforza di convertire Luciano alla sua dottrina, convincendolo a dedicarsi alla vita speculativa. A questo scopo, egli magnifica l’antica cultura e la nobiltà intellettuale di Atene, contrapponendola alla rozzezza dei Romani e alla loro indifferenza per le cose dello spirito. Il tono dell’opera è piuttosto violento e retorico e ciò induce a considerarla con un certo spirito critico; tuttavia, occorre riconoscerle almeno la sincerità con cui essa esprime il bisogno di trovare un rifugio nella cultura del passato e nel profondo senso civico e morale che l’animava, per sfuggire alle brutture del presente. Tale intento risulta chiaro anche dal Demonatte, biografia dell’omonimo filosofo cinico, che Luciano conobbe ad Atene e di cui ammirò la semplice e schietta onestà di vita e di pensiero. Altrettanto sereno e pacato è il tono dell’Ermotimo, un dialogo in cui il principale interlocutore è l’autore medesimo che, sotto lo pseudonimo di Licino, dimostra la vanità di ogni ricerca filosofica, fondandosi sui principi dello scetticismo e facendoli propri.
Dialoghi
Nel periodo della maturità, il dialogo rimase quasi esclusivamente il mezzo espressivo usato dallo scrittore siro, che se ne servì per comporre le sue opere più note e più meritatamente famose: le raccolte che comprendono i ventisei Dialoghi degli dèi, i quindici Dialoghi marini, gli altrettanti Dialoghi delle cortigiane e i trenta Dialoghi dei morti.

I primi due gruppi, caratterizzati da un tono umoristico di grande freschezza e vivacità, oltre che da uno stile esemplare per agilità, chiarezza e arguzia di linguaggio, rappresentano scene che hanno come protagonisti gli dèi dell’Olimpo e del mare, colti in umanissimi episodi della loro vita quotidiana, in un’ottica che, a iniziare da Callimaco, rimase tipica del periodo ellenistico e degli anni a esso successivi. Basterà citare, come significativo esempio, la scena famosissima del pomo della Discordia, rivissuta attraverso il racconto di due divinità marine, Panope e Galene, testimoni oculari dell’evento:
Teti e Peleo si erano già ritirati nel talamo accompagnati da Anfitrite e da Poseidone, quando Eris, in quel momento, di nascosto a tutti – poté farlo facilmente, perché alcuni bevevano, altri applaudivano, altri ancora erano intenti ad ascoltare Apollo che suonava la cetra e le Muse che cantavano –, gettò nella sala del banchetto un pomo bellissimo, tutto d’oro, o Galene! E sopra c’era scritto: “Mi prenda la bella”. Ed esso, rotolando, nemmeno a farlo apposta, si fermò dove se ne stavano a mensa Hera, Afrodite e Atena. Dopo che Hermes lo ebbe raccolto ed ebbe letto la scritta, noi Nereidi ammutolimmo. Infatti, che dovevamo fare, in presenza di quelle lì? Esse, invece, se lo contendevano e ciascuna pretendeva che il pomo toccasse a lei; e se Zeus non le avesse divise, la cosa sarebbe arrivata anche alle mani. Ma egli disse: “Non sarò certo io a decidere su quest’affare – eppure quelle pretendevano che fosse lui a giudicare –, andate sull’Ida dal figlio di Priamo, il quale ama la bellezza e sa distinguere il più bello e non sbaglierà certo il verdetto”[1].
Come è ben noto, il giudizio di Paride, che assegnò il pomo ad Afrodite, scatenò il decennale conflitto di Troia, la guerra più famosa di sempre; ma qui, niente lascia supporre la fatali conseguenze del gesto di Eris. L’attenzione dell’autore è tutta presa dall’atmosfera festosa del banchetto nunziale, con musica, canti e laute bevute (poco importa se chi suona è Apollo e se le voci sono quelle immortali delle Muse), e, subito dopo, dall’improvviso scintillio del pomo, che suscita la meraviglia di Panope (la «Tuttocchi»), che racconta l’episodio. Dopo la lettura delle parole incise sull’aureo frutto, nessuna delle Nereidi osa fiatare; non che si sentano meno belle delle altre, ma sono presenti «quelle lì», la sposa e due figlie di Zeus, tutt’e tre con un bel caratterino, visto che per poco non si azzuffano come donnette qualunque. E nemmeno il loro legittimo marito e padre, per quanto fulminante e altitonante, osa esprimere un giudizio che metterebbe a serio repentaglio la tranquillità familiare; preferisce scaricare la propria responsabilità sulle ignari spalle di un comune mortale, con piena indifferenza per ciò che accadrà.

Nei Dialoghi delle cortigiane lo spunto satirico è meno evidente: lo scrittore descrive quel particolare mondo femminile senza troppi moralismi, con uno stile e un gusto che richiama i toni della Commedia Nea, alla quale Luciano si è evidentemente ispirato, ma senza raggiungere l’approfondimento psicologico che caratterizza i personaggi di Menandro.

Nei Dialoghi dei morti, invece, la satira moraleggiante torna a essere uno degli aspetti più frequenti e approfonditi. Oggetto dell’attenzione dell’autore sono, nella maggior parte dei casi, i falsi miti dell’esistenza umana: la ricchezza, il potere, la fama, la bellezza. Il personaggio-chiave è rappresentato dal filosofo cinico Menippo di Gadara, che porta con sé anche nell’Ade il suo spirito critico e dissacratore, dal quale non si salva niente e nessuno, né Mida né Creso con tutto il loro oro, né Sardanapalo con il fasto della sua regalità. Nireo, l’eroe più bello dopo Achille fra quelli che militarono a Troia, è ormai uguale a Tersite e non c’è più alcuna differenza tra il suo teschio e quello dell’uomo più brutto di tutto l’esercito acheo. E davvero sciocchi furono tutti quelli che, per Elena, presero parte al celeberrimo conflitto, senza riflettere che, entro breve tempo, del fulgido splendore della bellissima donna non sarebbero rimaste che poche ossa nude, uguali a tutte le altre, nello squallido nulla che è l’ultimo traguardo di ogni umana grandezza.
Opere di contenuto vario
Alla fase più tarda della vita e dell’attività di Luciano appartengono alcune opere di contenuto vario e meno facilmente ascrivibili a un genere preciso, anche se per stile e temi non si discostano molto dalla precedente produzione. Fra queste si possono ricordare i Saturnali, in cui lo scrittore medita amaramente sulle ingiustizie che avvelenano il mondo, prendendo spunto dalla solennità romana dei Saturnalia, in occasione della quale, per rievocare la mitica età dell’oro sotto il regno di Saturno (il greco Kronos), venivano momentaneamente abolite tutte le differenze sociali ed erano i padroni a servire i propri schiavi.

Nell’Apologia, un opuscolo di carattere giudiziario e autobiografico prima ricordato, Luciano, che era stato molto duro nei confronti di chi accettava incarichi da lui considerati umilianti, anche se ben remunerati, in ricche case romane, tenta di giustificare la propria posizione di funzionario imperiale, mettendo in risalto la differenza fra un dipendente pubblico e chi, invece, si mette al servizio di un privato. Interessante è anche il breve trattato Come si deve scrivere la storia, redatto in forma epistolare e posteriore alla spedizione di Marco Aurelio contro i Parti, condotta nel 180. Prendendo spunto dalle adulatorie esagerazioni con cui gli storici contemporanei narravano le gesta degli imperatori, Luciano esprime una critica molto negativa nei confronti di questo stravolgimento della funzione della Storia e nella seconda parte dello scritto elenca alcune indicazioni per evitare simili errori, desumendole dalle opere degli storiografi ellenistici e, in particolare, da Polibio.
La Storia vera
Nel corpus degli scritti di Luciano è compresa anche un’opera in due libri, intitolata Storia vera. Nell’introduzione, l’autore informa di averla composta per il diletto e il riposo mentale del lettore, prendendo spunto, con una buona dose di ironia, dalle fantasiose storie di poeti e storici a partire da Omero per giungere a Ctesia di Cnido, il medico di Artaserse (metà V sec. a.C.) e ad Antonio Diogene, un romanziere del I secolo, finendo poi con Iambulo, autore di racconti fantastici, collocabile forse nel III sec. a.C. Tuttavia, prima di iniziare il suo racconto, Luciano avverte che l’unica cosa vera della sua storia è che non c’è niente di vero e che, perciò, «è assolutamente necessario che i lettori non ci credano per nulla».

La narrazione, in prima persona, comincia nel momento in cui il protagonista-scrittore, per curiosità e per puro spirito di avventura, raccolti cinquanta compagni e noleggiata una nave, parte dalle Colonne d’Eracle per esplorare il misterioso Oceano Occidentale. Dopo ottanta giorni, i naviganti approdano a un’isola sconosciuta; in una selva trovano una colonna di bronzo con un’iscrizione in greco, che li informa che quello è il termine ultimo a cui giunsero Eracle e Dioniso. La presenza del dio è tuttora ben visibile nella straordinaria natura dell’isola, in cui scorre un fiume di vino e prospera una strana vigna, le cui piante hanno un solido tronco ben piantato in terra, ma a partire da una certa altezza si sviluppano in bellissimi corpi femminili, dalle cui dita nascono tralci e che hanno in testa, invece di capelli, viticci, pampini e grappoli. Esse accolgono festosamente Luciano e i suoi compagni, ma la loro cordialità cela un’insidia mortale; infatti, i marinai che le abbracciano non possono più staccarsi e divengono viti anch’essi, mettendo radici e tralci.
Partiti da quella terra infausta, i viaggiatori vengono sorpresi da una burrasca e, travolti da un violentissimo turbine di vento, sono sollevati in aria con tutta la nave. Dopo una navigazione “aerea” durata sette giorni e sette notti, essi approdano sulla Luna. Mentre stanno esplorando la grande sfera luminosa, vengono sorpresi e arrestati da guerrieri lunari, gli Ippoghipi, che cavalcano immensi uccelli rapaci, una sola delle cui penne è più lunga di un albero di nave. Condotti dal re, Endimione, che un tempo era stato un uomo e che era tato trasportato lassù perché Selene si era innamorata di lui, ricevono benevola accoglienza. Anzi, il sovrano chiede l’aiuto di Luciano e dei suoi compagni nella guerra che sta conducendo contro gli Elioti, gli abitanti del Sole. Lo scontro è terribile e sanguinoso; l’esercito avversario è comandato da Fetonte, che ha ai suoi ordini gli Aeroconopi (le «Zanzare aeree») e gli Ippomirmeci, enormi formiche alate, a cui si affiancano i mostruosi Nefelocentauri, metà uomini giganteschi e metà cavalli alati. Essi sono alleati del re solare, ma, per fortuna, giungono in ritardo, altrimenti, i Seleniti non avrebbero mai potuto vincere la battaglia.

Stipulata la pace, Luciano e i suoi amici si trattengono per un certo tempo sulla Luna, imparando a conoscere lo strano popolo che vi abita; non esistono donne, non si muore, ma ci si trasforma in aria, ci si ciba esclusivamente del fumo di rane arrostite sui carboni, bevendo rugiada liquefatta. I vestiti sono fatti di fili sottilissimi di rame, di cui vi è grande abbondanza e che vengono filati come lana; quando un Selenita si soffia il naso, dalle narici gli esce miele, mentre se suda, espelle latte. Dalle cipolle essi ricavano un olio profumatissimo e dalle viti ricavano l’acqua, prodotta da grappoli i cui acini sono grossi chicchi di grandine. Ma la cosa più strana è che i Seleniti possono riporre nel proprio ventre tutto ciò che vogliono, perché esso è come una bisaccia che si può aprire e chiudere a volontà; e poiché l’interno è foderato di una morbida e calda pelliccia, vi tengono dentro i neonati per ripararli dal freddo, dopo averli dati alla luce dal polpaccio di una gamba. Possono anche estrarsi gli occhi e rimetterseli a piacere; così i ricchi ne hanno molte paia, di vario colore, mentre i poveri non ne possiedono che un solo paio fra i componenti della famiglia e devono servirsene a turno.
Partiti dalla Luna e ripresa la navigazione celeste, Luciano e compagni incontrano, a metà strada fra il cielo e il mare, la città di Lychnopolis, abitata non da uomini ma da lucerne (λύχνοι); dopo una breve sosta, possono finalmente toccare di nuovo la superficie del mare e proseguire il viaggio. Dopo qualche giorno, la nave si imbatte in un numeroso branco di cetacei e balene; e la più grande di esse, un vero mostro marino, spalancate le fauci, si lancia verso l’imbarcazione e la inghiotte tutta intera. Trasferiti di colpo nell’immenso ventre dell’animale, Luciano e i suoi compagni vi scoprono una fitta selva popolata da uccelli marini; inoltratisi nel bosco, trovano un tempietto dedicato a Poseidone, presso il quale scorgono alcune tombe, contrassegnate ciascuna da una colonnina. In lontananza, poi, vedono una fattoria dal cui tetto si alza un filo di fumo e da cui giunge alle loro orecchie il latrato di un cane.

Messisi in cammino, incontrano di lì un vecchio e un giovanotto, che coltivano un orto pieno di verdure e di fiori, irrigato da una limpida sorgente che zampilla lì vicino. Ospitalmente accolti, vengono a sapere che il vecchio, di nome Scintaro, e suo figlio Cinira, originari di Cipro, inghiottiti anch’essi dalla balena, vivono nel suo ventre ormai da ventisette anni, nutrendosi di pesci e dei vegetali che vi coltivano. Inoltre, la selva fornisce loro piante di vite che danno un ottimo vino e la possibilità di cacciare gli uccelli che vi si rifugiano. L’unico pericolo è rappresentato dal fatto che in essa si annidano popoli selvaggi e inospitali, ma essi hanno imparato a difendersi e a tenerli lontani, perché costoro non conoscono l’uso delle armi e si servono solo di lische di pesce. Luciano e i suoi amici offrono allora aiuto al vecchio; così, sbarazzatisi una volta per sempre degli incomodi vicini, trascorrono un anno e otto mesi di vita comoda e pacifica nel ventre della balena. Durante questo periodo, hanno la possibilità di assistere, ben nascosti dietro gli enormi denti della balena, a uno scontro fra giganti che navigano su isole spinte a remi. Con la narrazione della battaglia fra isole termina il primo libro della Storia vera.
Il secondo libro riprende con il progetto di Luciano di abbandonare il ventre del cetaceo, perché lui e i suoi compagni si sentono ormai stanchi di quella vita monotona e sedentaria. Così, il vecchio Scintaro e il figlio decidono di seguirli; perciò, dopo aver trasportato la nave fino alla gola del mostro, essi danno fuoco alla selva, uccidendo la balena. Una volta ripreso il mare, però, vengono sorpresi dal gelido Borea, il vento del Nord, che trasforma le acque intorno a loro in un gigantesco lastrone di ghiaccio. I marinai, allora, sono costretti a scavarsi una caverna e a soggiornarvi fino al ritorno di una temperatura più mite, nutrendosi di pesce congelato. Quando, alla fine, i ghiacci si sciolgono, gli avventurosi viaggiatori giungono in un oceano di latte, da cui sorge un’isola di formaggio. Dopo avervi fatto una breve sosta, che offre loro un gradevole cambiamento di dieta, riescono a raggiungere un mare azzurrissimo, di acqua limpida e salata: è il mare dei Sugheropodi, delle strane creature in tutto e per tutto simili agli uomini, tranne che per i piedi di sughero, che permettono loro di correre velocemente sul pelo dell’acqua, senza mai affondare.
Oltrepassate le isole Sugherie, i naviganti giungono in vista di una terra sconosciuta, dalle cui coste si leva una brezza carica di dolcissimi profumi, come quelli che Erodoto aveva narrato che esalassero dall’Arabia Felice. Si tratta dell’Isola dei Beati, dove vivono le ombre dei giusti; essa è immersa in un’eterna primavera, allietata dal canto melodioso degli uccelli e dagli aromi di piante e di fiori meravigliosi. Invitato con i suoi compagni a banchetto, Luciano ha la possibilità di conoscere tutti i grandi personaggi del mito e della storia: poeti, filosofi, statisti, musici, eroi che vivono là in perfetta armonia, conversando, componendo e suonando musica, danzando, cantando e assistendo a giochi. Ma proprio mentre si stanno celebrando le Thanatasie – le festività più solenne per i Beati – organizzate da Achille e Teseo, si sparge l’allarmante voce che gli abitanti del Soggiorno degli Empi, elusa la sorveglianza dei loro custodi, stanno per assalire l’Isola felice, guidati dai più crudeli tiranni, fra i quali si distinguono Falaride d’Agrigento e l’egizio Busiride. Infatti, di lì a poco, ha luogo lo scontro: i Beati hanno la meglio, grazie soprattutto alla presenza di Achille, ma anche Socrate si dimostra un combattente davvero intrepido.

Dopo questi fatti, un altro avvenimento, di ben diversa natura, sopraggiunge a turbare la quieta vita dell’Isola: Cinira, il figlio del vecchio Scintaro, giovane bello e aitante, si innamora, ricambiato, di Elena e decide di rapirla. Ma il progetto viene scoperto e Luciano e i compagni vengono cacciati; quando stanno per salpare, Odisseo, di nascosto a Penelope, consegna a Luciano una lettera per Calipso, perché l’isola della ninfa, figlia di Atlante, si trova sulla rotta che essi dovranno percorrere. Ma prima di giungervi, i naviganti approdano al Soggiorno degli Empi, in cui echeggiano continuamente grida e gemiti di dolore; la terra non produce che rovi ed è attraversata da tre fiumi, uno di fango, uno di sangue e uno di fuoco, assolutamente invalicabile. Abbandonato in fretta quel luogo terribile e inospitale, i viaggiatori giungono all’isola dei Sogni, coperta di distese di papaveri e mandragore, dalla quale provengono tutti i sogni che allietano o rattristano il riposo dei mortali. Di là fanno rotta per l’isola di Calipso. La ninfa li accoglie ospitalmente e, letta l’epistola di Odisseo, scoppia in lacrime, commossa profondamente dal ricordo dell’eroe. Luciano, allora, conforta la ninfa e la rassicura, parlandole dell’affetto che Odisseo nutre ancora per lei; certamente sarebbe già venuto a trovarla, se Penelope non lo tenesse sotto stretto controllo.
Dopo aver lasciato l’isola, Luciano e i suoi vengono assaliti dai Colocintopirati, che navigano su enormi zucche svuotate e seccate, servendosi delle foglie delle zucche stesse come vele e dei semi come proiettili; e si troverebbero a malpartito, se non intervenissero, sui loro gusci di noce, i Carionauti, acerrimi nemici dei Colocintopirati: infatti, mentre gli equipaggi avversari si scontrano, Luciano e amici ne approfittano per svignarsela senza dare nell’occhio. Scampati alla battaglia, dopo altre mirabolanti avventure, essi incontrano le terre dei selvaggi Bucefali e quelle abitate dalle terribili Onoskelee: queste sono donne bellissime, che hanno, però, al posto delle gambe, zampe d’asino abilmente nascoste da lunghe vesti; inoltre, si nutrono di carne umana, attirando i viaggiatori con le loro lusinghe per poi ucciderli e divorarli. Allontanatisi in fretta, i naviganti arrivano in vista del continente australe, che sta agli antipodi del mondo conosciuto. Ringraziati gli dèi per aver finalmente raggiunto la meta, essi si accingono a sbarcare; ma ecco scatenarsi una violenta tempesta, che fracassa la nave e li costringe a salvarsi a nuoto, con le sole armi e qualche suppellettile. A questo punto, il racconto si chiude e Luciano si accomiata dai suoi lettori, promettendo di narrare in altri libri le nuove avventure.

Opera di puro divertimento, la Storia vera non conosce limiti di spazio né di tempo, proprio come la fantasia del suo autore. La terra, il mare, il cielo, il mondo dei vivi e quello dei morti e perfino il ventre di un cetaceo mostruoso fanno da sfondo alle mirabolanti avventure del protagonista, sempre in moto, ma senza una meta precisa. Benché si affrontino tempeste e battaglie, si incontrino dèi e giganti, Seleniti marsupiali e donne-viti, in uno scenario di fenomeni naturali non meno strabilianti, il senso del drammatico o del pauroso sono completamente assenti, così come manca del tutto il tema della magia. Perfino i luoghi più strani e la dimensione ultraterrestre non appaiono altro che come un vario e inconsueto spettacolo, offerto agli occhi di un viaggiatore-narratore, che si compiace di raccontare, con un divertimento che prevale sullo stupore.
Al genere delle storie incredibili appartiene un altro romanzo, contenuto nel corpus lucianeo, ma considerato spurio; esso è intitolato Lucio o l’asino ed è scritto, invece che in attico, nel greco della koiné. Vi si narrano le avventure del giovane Lucio, il quale appassionato di magia, spia, con l’aiuto di un’ancella, una famosa maga che si sta trasformando in uccello, grazie a un unguento miracoloso di cui si cosparge il corpo. Dopo che la metamorfosi si è compiuta, la maga vola via; e Lucio, desideroso di imitarla, si spalma a sua volta di unguento: ma nella fretta, sbaglia contenitore e viene così mutato in asino, riuscendo a riacquistare l’aspetto umano soltanto dopo molte peripezie.
Secondo Fozio, patriarca di Costantinopoli (IX sec.), esisteva anche un’altra opera che trattava lo stesso argomento, le Metamorfosi di Lucio di Patrai, di cui però non si sa nulla; invece, lo spunto narrativo della trasformazione di Lucio in asino è stato sviluppato nei Metamorphoseon libri XI dello scrittore madaurese Apuleio (125 c.-post 170 c.). Allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile stabilire con chiarezza i rapporti fra le due opere greche e quelli di entrambe con il romanzo di Apuleio, che si differenzia dalle prime per la maggiore ampiezza, per la ricchezza degli episodi collaterali e soprattutto per il contenuto, caratterizzato da evidenti riferimenti al culto misterico di Iside.
Pensiero, stile e fortuna di Luciano
Sebbene Luciano non abbia mai raggiunto una grande profondità speculativa e non possa essere considerato un pensatore originale, egli rimane tuttavia una delle personalità più significative del suo tempo. A lui è dovuta la creazione di un nuovo genere di dialogo, che ha saputo unire in modo singolarmente piacevole i contenuti del pensiero filosofico all’umorismo della commedia ed è servito a denunciare, con intelligente arguzia, molti degli aspetti negativi della vita e della cultura del tempo, a un pubblico certamente assai vasto. La dissacrante ironia dell’autore non ha risparmiato nessuna manifestazione della debolezza umana, ma ha stigmatizzato soprattutto le mistificazioni dei falsi maestri e dei falsi filosofi, nel tentativo di limitare il diffondersi di un dogmatismo che la sua mente razionale non poteva accettare e che lo ha portato ad accomunare nella sua critica anche qualunque forma di religione (Cristianesimo compreso). Infatti, pur dimostrando simpatia per gli epicurei e per i cinici, Luciano non ha mai accettato completamente il pensiero di nessuna scuola, fedele a uno scetticismo di fondo che scaturiva naturalmente dal suo ingegno mobile e vario. Incline per indole a un’ironia beffarda e corrosiva, questo intellettuale siro ha avuto, tuttavia, il suo più grande limite nel non saper proporre soluzioni alternative, limitandosi a distruggere senza creare: ma, ciononostante, è difficile sottrarsi al fascino di questo spirito arguto e versatile, ricco di capacità di osservazione e di espressione, dotato di un’eccezionale sensibilità linguistica e di una altrettanto straordinaria cultura, che lo ha portato a spaziare con felice eclettismo e con gusto sempre sicuro da Omero a Esiodo, da Euripide ad Aristofane, da Erodoto a Tucidide e a Platone, che gli offrì lo spunto formale per i suoi dialoghi.
La fortuna di Luciano fra i suoi contemporanei non fu grandissima; soltanto in epoca bizantina egli fu riscoperto da Fozio, che lo apprezzò per il suo stile e per il suo atteggiamento critico nei confronti di vari aspetti del mondo pagano. A partire dal XV secolo, Luciano fu ammirato e tradotto anche in Italia, quando le sue opere fornirono suggestioni a poeti come il Boiardo e ispirarono la pittura, attraverso l’arte di Botticelli e Mantegna. Soprattutto la Storia vera ha avuto grande importanza nella cultura europea, in vari periodi e a diversi livelli, perché a essa si rifecero Rabelais, Swift e Voltaire; e sia Le avventure del Barone di Münchhausen di Gottfried Bürger sia le ben note Avventure di Pinocchio sono in buona misura debitrici alla sua geniale e sbrigliata fantasia.
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***
Note:
[1] Luc. DMar. 7, 1-2: ἡ Θέτις μὲν ἤδη καὶ ὁ Πηλεὺς ἀπεληλύθεσαν ἐς τὸν θάλαμον ὑπὸ τῆς Ἀμφιτρίτης καὶ τοῦ Ποσειδῶνος παραπεμφθέντες, ἡ Ἔρις δὲ ἐν τοσούτῳ λαθοῦσα πάντας — ἐδυνήθη δὲ ῥᾳδίως, τῶν μὲν πινόντων, ἐνίων δὲ κροτούντων ἢ τῷ Ἀπόλλωνι κιθαρίζοντι ἢ ταῖς Μούσαις ᾀδούσαις προσεχόντων τὸν νοῦν — ἐνέβαλεν ἐς τὸ ξυμπόσιον μῆλόν τι πάγκαλον, χρυσοῦν ὅλον, ὦ Γαλήνη· ἐπεγέγραπτο δὲ ‘ἡ καλὴ λαβέτω.’ κυλινδούμενον δὲ τοῦτο ὥσπερ ἐξεπίτηδες ἧκεν ἔνθα Ἥρα τε καὶ Ἀφροδίτη καὶ Ἀθηνᾶ κατεκλίνοντο. κἀπειδὴ ὁ Ἑρμῆς ἀνελόμενος ἐπελέξατο τὰ γεγραμμένα, αἱ μὲν Νηρηίδες ἡμεῖς ἀπεσιωπήσαμεν. τί γὰρ ἔδει ποιεῖν ἐκείνων παρουσῶν; αἱ δὲ ἀντεποιοῦντο ἑκάστη καὶ αὑτῆς εἶναι τὸ μῆλον ἠξίουν, καὶ εἰ μή γε ὁ Ζεὺς διέστησεν αὐτάς, καὶ ἄχρι χειρῶν ἂν τὸ πρᾶγμα προὐχώρησεν. ἀλλ᾽ ἐκεῖνος, Αὐτὸς μὲν οὐ κρινῶ, φησί, περὶ τούτου, — καίτοι ἐκεῖναι αὐτὸν δικάσαι ἠξίουν — ἄπιτε δὲ ἐς τὴν Ἴδην παρὰ τὸν Πριάμου παῖδα, ὃς οἶδέ τε διαγνῶναι τὸ κάλλιον φιλόκαλος ὤν, καὶ οὐκ ἂν ἐκεῖνος κρίναι κακῶς.
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