ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di C. BEARZOT, La polis greca, Bologna 2009, 9-15.
La storia della Grecia antica è caratterizzata, com’è noto, dalla centralità dell’esperienza politica vissuta nell’ambito della comunità cittadina, la πόλις. Essa costituisce, per i Greci, la principale forma di Stato, tant’è vero che il pensiero politico greco si concentra quasi interamente sulla πόλις e sulle sue forme costituzionali. Il celebre dibattito erodoteo sulle costituzioni, il cosiddetto λόγος τριπολιτικός (Hdt. III 80-82) verte, non a caso, sulle costituzioni della πόλις; nella Politica, Aristotele si preoccupa quasi esclusivamente della πόλις, senza dare significativo spazio a questioni che riguardino, per esempio, gli Stati federali. Nello stesso senso ci indirizza la terminologia: la costituzione è detta πολιτεία, in quanto avvertita come elemento fondamentale della πόλις, mentre il termine che designa il cittadino è πολίτης, come se appunto la πόλις fosse l’unica forma di Stato.
Il mondo greco, in realtà, conobbe anche altre forme di organizzazione politica: gli Stati federali, i cosiddetti κοινά o ἔθνη, presenti accanto alle πόλεις fin dall’arcaismo, e gli Stati territoriali, dalla Siracusa di Dionisio I ai regni ellenistici. Tali forme sono alternative della πόλις e ne mettono in discussione alcuni limiti, come la «gelosia della cittadinanza», l’incapacità di dar vita a un equilibrio internazionale stabile, il carattere di «società chiusa». Ma il pensiero politico greco, come mostra anche l’incertezza terminologica relativa a Stati federali e territoriali, non sembra considerare altre forme di Stato che la πόλις medesima.
Eracle uccide l’Idra di Lerna. Rilievo, marmo, c. III sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Il termine πόλις, infatti, ha diverse valenze e può significare «cittadella fortificata», «acropoli», «centro urbano», ma anche «entità statale» dotata di centro politico e soprattutto κοινωνία πολιτική, «comunità» nella sua dimensione politica. Le fonti antiche segnalano con grande insistenza il carattere non tanto urbanistico, quanto sociale e istituzionale della πόλις. Che la città sia, prima di tutto, una comunità di uomini associati fra loro lo mostra un topos letterario molto comune, quello secondo cui sono gli uomini, i cittadini, a costituire la realtà cittadina. Già Alceo (F 112, 10 Lobel-Page) afferma che «sono gli uomini la torre che difende la città» (ἄνδρες γὰρ πόλι]ο̣ς πύργος ἀρεύ[ιος). Analoga impostazione offre Tucidide (VII 77, 7), quando fa dire allo stratega ateniese Nicia, in un discorso pronunciato durante la spedizione di Sicilia, che i soldati ateniesi devono essere coraggiosi e capaci di sfuggire ai nemici, se vogliono che le sorti di Atene si risollevino: egli ricorda che «gli uomini infatti costituiscono la città, non le mura o le navi vuote d’uomini» (ἄνδρες γὰρ πόλις, καὶ οὐ τείχη οὐδὲ νῆες ἀνδρῶν κεναί).
Allo stesso modo, Temistocle, quando, nel 480, durante la seconda guerra persiana, il corinzio Adimanto gli rinfaccia di essere un ἄπολις, un uomo senza πόλις, perché Atene è stata distrutta dall’attacco persiano, e di non poter quindi parlare né dare il proprio voto nell’assemblea panellenica, risponde (Hdt. VIII 61) dimostrando «come gli Ateniesi avessero una città e una terra più grandi dei Corinzi, finché avessero duecento navi in assetto di guerra: nessuno dei Greci infatti avrebbe potuto respingere l’attacco» (ὡς εἴη καὶ πόλις καὶ γῆ μέζων ἤ περ ἐκείνοισι ἔστ’ ἂν διηκόσιαι νέες σφι ἔωσι πεπληρωμέναι· οὐδαμοὺς γὰρ Ἑλλήνων αὐτοὺς ἐπιόντας ἀποκρούσεσθαι).
Questi passi inducono a definire la πόλις prima di tutto come una comunità politica di cittadini insediata su un territorio. La prevalenza della dimensione politica è ben illustrata da un passaggio di Pausania (X 4, 1), in cui si afferma che la città focese di Panopeo – priva di strutture urbanistiche adeguate, giacché gli abitanti non possiedono archivi né ginnasio né teatro né agorà, né strutture di servizio o abitazioni degne di questo nome – sembrerebbe non meritare il nome di πόλις: eppure, essa va considerata tale, perché gli abitanti «sono divisi dai vicini da confini e mandano anch’essi delegati all’assemblea dei Focesi» (ὅμως δὲ ὅροι γε τῆς χώρας εἰσὶν αὐτοῖς ἐς τοὺς ὁμόρους, καὶ ἐς τὸν σύλλογον συνέδρους καὶ οὗτοι πέμπουσι τὸν Φωκικόν).
Oplita che balza dal carro (ἀποβάτης). Rilievo votivo con iscrizione (SEG I 131), marmo pentelico, V sec. a.C. dal tempio di Anfiarao a Oropos. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
È dunque la dimensione politica, unita a quella territoriale, a definire la πόλις e, quando i Greci si soffermano sul problema del rapporto fra l’uomo e lo Stato, è alla πόλις che pensano. Un passo del Filottete di Sofocle, in cui l’eroe lamenta di essere stato reso «ἄπολις, un morto tra i vivi», evidenzia bene il rapporto fra l’uomo greco e la πόλις. Nella stessa prospettiva possono essere richiamate le celebri definizioni aristoteliche, che parlano dell’uomo come di un animale «che per natura vive nella πόλις» e ritengono quest’ultima una struttura il cui fine è di «far vivere bene» l’uomo (Aristot. Pol. I 1253a).
A riprova di quanto detto, si osservi che tracce di riflessione sugli Stati federali, che pure accompagnano la storia dei Greci fin dall’arcaismo, sono molto modeste nel pensiero politico ellenico. Aristotele vi dedica uno spazio limitatissimo, arrivando addirittura a negare che uno Stato federale possa avere una vera e propria costituzione (Aristot. Pol. VI 1326b). Discutendo delle dimensioni dello Stato ideale, il filosofo afferma infatti che una città che abbia un numero troppo esiguo di cittadini non può bastare a sé stessa e tradisce così la sua natura di città, mentre quella che ne ha troppi, pur bastando a sé stessa come un ἔθνος, non è una πόλις, perché difficilmente potrà avere una costituzione (πολιτεία). Se Aristotele coglie qui un elemento caratteristico delle federazioni, la forza demografica, finisce tuttavia, sottolineando l’assenza di πολιτεία, per negarne il carattere di vero e proprio Stato. Qualche traccia di riflessione sul federalismo si trova nel IV secolo, nelle Elleniche di Ossirinco (cap. 19, 2-4, pp. 32-33 Chamers) e in Senofonte (Hell. V 2, 12-19), e poi soprattutto in Polibio (II 37 ss.), che attribuisce all’ordinamento federale la crescita della potenza degli Achei in età ellenistica; ma si tratta sempre di interventi piuttosto modesti in confronto alla riflessione sulla πόλις.
Quanto agli Stati territoriali, una riflessione in merito è praticamente assente: non si arrivò mai, infatti, a elaborare una teoria dello Stato ellenistico, che valorizzasse aspetti come, per esempio, la funzione di elementi etnici diversi. Nelle definizioni presenti nelle fonti letterarie ed epigrafiche sembra essere sottolineata una delle caratteristiche principali dello Stato territoriale, ovvero la complessità politica e sociale e l’articolazione fra realtà diverse all’interno del territorio: τὰ πράγματα indica l’insieme degli affari ed è di carattere assai vago: «re, amici, forze armate» (βασιλεύς, φίλοι, δυνάμεις) esprime l’ideologia della monarchia militare; βασιλεῖς, δυνάσται, πόλεις ed ἔθνη comprende l’intero mondo ellenistico nelle sue forme statali. Queste definizioni evidenziano un’articolazione tra elementi centralizzanti (sovrano, esercito) e realtà locali (πόλεις, ἔθνη, φίλοι), cogliendo la complessità dello Stato ellenistico.
Né nel caso degli Stati federali né nel caso di quelli territoriali, dunque, abbiamo una riflessione che possa essere lontanamente paragonata a quella sulla πόλις: non a caso, il celebre saggio di Victor Ehrenberg dal titolo Der Staat der Griechen (1965) era interamente dedicato alla πόλις. Tuttavia, la storiografia più recente sia è sottratta al condizionamento degli antichi: sono ormai numerosi i contributi moderni dedicati anche agli Stati federali e territoriali, e sintesi recenti sulle forme dello Stato antico, come quella di Alexander Demandt (Antike Staatsformen. Eine vergleichende Verfassungsgeschichte der Alten Welt, 1995), mostrano un pieno superamento della posizione poleocentrica.
Una pur breve storia della storiografia moderna sulla πόλις richiederebbe uno spazio enorme: si intende qui, pertanto, solo richiamare alcune delle più recenti riflessioni su questo tema, che continua ad attirare l’attenzione degli studiosi. Se il problema delle origini della πόλις sembra, di fatto, non risolvibile in modo soddisfacente allo stato attuale, si è però sviluppata una serie di riflessioni su altri temi non meno significativi, dal problema della divisione/organizzazione dello spazio e del rapporto con il territorio (la χώρα) a quello, ricco di sfumature, del significato della πόλις come comunità cittadina.
Il tentativo di ridiscutere il concetto di πόλις nel senso di «città-Stato» e la sua adeguatezza a cogliere pienamente il fenomeno storico cui fa riferimento, condotto da Wilfrid Gawantka (Die sogenannte Polis, 1985), ha messo in evidenza la necessità di verificare la validità di concetti interpretativi che rischiavano ormai di diventare veri e propri luoghi comuni (un «mito storiografico», come è stato sottolineato da Maurizio Giangiulio in Alla ricerca della polis, 2001). La nozione di città-Stato elaborata dai moderni (che la intendono come forma di Stato per antonomasia nel mondo greco e ne sottolinea l’assoluta preminenza sull’individuo) non sarebbe necessariamente corrispondente alla nozione greca di πόλις e sarebbe comunque troppo rigida per esprimere le diverse realtà locali in cui era frazionata la Grecia antica: il termine πόλις sembra infatti far riferimento a una grande varietà di forme di insediamento e di comunità politiche e a livelli cronologici troppo diversi.
Senocratea presenta il proprio figlio al dio-fiume Cefiso alla presenza degli dèi. Rilievo su stele votiva, marmo pentelico, c. 410 a.C. dal Falero. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
La ridiscussione del concetto di πόλις, dopo la provocazione di Gawantka, non è certo mancata: particolarmente intensa è stata la discussione sollevata, soprattutto in area anglosassone, sul carattere non statuale dell’esperienza poleica. L’idea di una «stateless polis» è stata anticipata da alcuni interventi volti a sottolineare il carattere prevalentemente «sociale» della città greca. Robin Osborne (Demos: The Discovery of Classical Attika, 1985) ha sottolineato che nella πόλις mancano tanto una vera e propria «autorità statale» che monopolizzi la coercizione, quanto un potere esecutivo vero e proprio; sulla stessa linea, Paul Cartledge (Kosmos: Essays in Order, Conflict, and Community in Classical Athens, 1998) ha osservato che la πόλις ignora la distinzione tra governanti e governati e le nozioni di «diritti dell’individuo» e di «tolleranza», mentre conosce una serie di forme di controllo sociale, cui si affida per il mantenimento dell’ordine costituito. In seguito, la riflessione è stata approfondita da Moshe Berent (The Stateless Polis: towards a Re-evaluation of the Classical Greek Political Community, 1994; Anthropology and the Classics: War, Violence, and the Stateless Polis, 2000): muovendo da modelli antropologici, egli sostiene che la πόλις non corrisponda ai criteri necessari per poter parlare di «Stato» in senso hobbesiano e weberiano. Essa, infatti, non presenterebbe una adeguata distinzione fra popolo e potere esecutivo; non avrebbe il monopolio della coercizione (essendo priva di esercito permanente e di polizia), con la conseguente necessità di affidare la tutela dell’ordine pubblico all’iniziativa individuale e al controllo sociale; mancherebbe inoltre di aspetti essenziali, come una territorialità ben definita e un’adeguata burocrazia. La πόλις non era dunque una «città-Stato», ma una «stateless community»: non nel senso di una comunità tribale tenuta insieme dalla parentela, come vorrebbe l’antropologia (una prospettiva di questo genere sarebbe inaccettabile nell’interpretazione della πόλις greca), ma nel senso di una comunità di guerrieri, la cui coesione dipendeva dalla tattica di combattimento oplitico.
Una prima obiezione potrebbe riguardare l’opportunità di valutare la statualità della πόλις sulla base di confronti con uno Stato di tipo moderno, alcuni aspetti del quale risalgono a non prima del XIX secolo, e sono quindi posteriori alla stessa riflessione di Hobbes. Ma soprattutto, posizioni come quella di Berent sembrano sottovalutare aspetti importanti della πόλις, dalla complessità della struttura istituzionale alla territorialità. Una critica serrata alle posizioni di Berent è venuta da uno dei massimi studiosi di storia delle istituzioni greche e in particolare della democrazia ateniese, Mogens H. Hansen (A Comparative Study of Thirty City-state Cultures: An Investigation, 2002).
Prima di considerare gli argomenti di Hansen, vale la pena di richiamare il prezioso contributo offerto, nell’ambito degli studi sulla πόλις, dal Copenaghen Polis Centre, che ha operato sotto la sua guida dal 1993 al 2005. Le ricerche del CPC hanno preso l’avvio dalla riconosciuta necessità di evitare una discussione su basi esclusivamente teoriche e di raccogliere preventivamente una documentazione più ampia possibile sulla πόλις, per poter poi, sulla base dell’analisi di un materiale davvero esaustivo, mettere a fuoco i diversi problemi che la riguardano. Nei numerosi volumi prodotti dal centro di ricerca troviamo una raccolta delle fonti per la storia della πόλις, un prezioso «inventario» delle medesime e gli atti di vari convegni dedicati alle più diverse problematiche concernenti la πόλις. Sulla base di questo ampio lavoro preparatorio, il carattere statuale della πόλις viene rivendicato con convinzione da Hansen e dal suo gruppo di ricerca; la stessa traduzione di πόλις con «città-Stato», tanto contestata, è apparsa ad Hansen sostanzialmente corretta («city-State is the best possible equivalent to polis», in Polis and City-State: an Ancient Concept and its Modern Equivalent, 1998, 123).
Corcira e Atene (personificate) di fronte a Zeus in trono sanciscono un’alleanza. Rilievo, marmo, c. 375 a.C. da una stele iscritta. Atene. Museo Archeologico Nazionale di Atene.
Nella sua polemica con Berent, Hansen sottolinea prima di tutto come non si possa restringere la discussione al concetto di Stato come «governo», concentrandosi su problemi come la monopolizzazione dell’uso della coercizione, ma si debba piuttosto considerare anche lo Stato come «territorio» e come «corpo politico». Ora, già non sarebbe corretto parlare di totale assenza di istituzioni di governo nella πόλις; se poi si considerano le altre due prospettive, le differenze tra Stato antico e Stato moderno tendono a indebolirsi. Il territorio, pur non costituendo certo la parte fondamentale della πόλις, ne è infatti un elemento di rilievo, come mostrano diversi aspetti, dalla problematica del confine alle dispute territoriali ai provvedimenti di bando, che implicano un riferimento al concetto di territorio. Quanto allo Stato come corpo politico, è questa una sicura caratteristica della πόλις che non è però affatto assente negli Stati moderni; per contro non manca, nel pensiero, l’idea che la πόλις sia non solo il corpo cittadino, ma anche qualcosa di impersonale, distinguibile dai πολῖται (la documentazione proposta da Hansen mette in luce come l’azione di un cittadino o di un organo di governo, intrapresa «a favore» o «per conto» della πόλις, evidenzi una distinzione fra il singolo individuo e la comunità nel suo complesso, intesa in senso istituzionale). Ciò consente di non enfatizzare il problema della mancata distinzione tra popolo ed esecutivo, fra governanti e governati, che caratterizzerebbe la πόλις: la sovrapposizione tra depositari della sovranità e detentori del potere esecutivo è in effetti un elemento presente nella città greca, e in particolare in quella democratica, ma è anche vero che non si è mai governanti e governati contemporaneamente, in quanto il cittadino, quando diviene magistrato, assume comunque uno statuto particolare.
Per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia, Hansen osserva innanzitutto che alcune caratteristiche, come l’assenza di forze di polizia, il ricorso all’autodifesa da parte del cittadino, la sua possibilità di intervenire con azioni suppletive come l’arresto sommario, l’uso dell’iniziativa popolare nella promozione dell’azione legale, non sono esclusive della πόλις, ma sono riscontrabili anche in molti Stati europei del XVIII secolo; a questo rilievo egli aggiunge che non si può affermare che l’ordine pubblico nella πόλις fosse garantito dal solo controllo sociale, essendo prevista una serie di complessi meccanismi giuridici. Quanto, invece, all’assenza di un esercito stabile come indizio di assenza di statualità, prima di tutto bisogna tener conto di una serie di eccezioni (ta cui, come ammette lo stesso Berent, Sparta, Atene e le città rette da regimi tirannici; ma Hansen menziona altri casi: la Siracusa democratica, Tebe, Argo, la Lega arcadica, l’Elide); inoltre, occorre piuttosto valutare il grado di militarizzazione della società, molto elevato nelle città greche, in cui i cittadini potevano essere spesso chiamati alle armi e in cui le spese militari erano notevoli. Anche il livello progredito delle relazioni internazionali e degli istituti delle diplomazia non depone a favore dell’interpretazione della πόλις come «stateless society».
A parere di Hansen, insomma, le differenze tra πόλις e Stato moderno finiscono per risultare modeste, se si considera la documentazione nel suo complesso senza selezionarla indebitamente allo scopo di costruire quello che egli definisce «a skewed model», un modello distorto. Ciò che accomuna Stato moderno e πόλις, al di là delle inevitabili differenze, è la nozione di «cittadinanza»: cioè l’appartenenza di un individuo a uno Stato, in virtù della quale egli, come cittadino, gode di una serie di privilegi in campo politico, economico e sociale e di adeguate forme di tutela (nonostante l’assenza, spesso sottolineata, della nozione di «diritti dell’individuo»). Dunque, la πόλις può essere considerata uno Stato, perché assomma le seguenti caratteristiche: è un potere pubblico legittimo con giurisdizione su un territorio definito, che si manifesta nella costituzione e nelle leggi ed è in grado di monopolizzare l’uso della forza; inoltre, conosce una chiara separazione fra Stato e società, fra pubblico e privato.
Demos (personificazione) incorona un cittadino meritevole. Rilievo, marmo pario, fine IV sec. a.C. da una stele onorifica. Atene, Museo dell’Agorà.jpg
Se dunque Berent tenta di escludere il carattere statuale della πόλις sulla base di un improprio confronto con lo Stato moderno, è anche vero che Hansen, da parte sua, tende talora a sovrapporre Stato moderno e πόλις: le due visioni contengono entrambe elementi anacronistici. La πόλις, in realtà, non era né una «stateless community», né uno Stato nel senso moderno del termine, come ha evidenziato Michele Faraguna (Individuo, Stato, comunità. Studi recenti sulla polis, 2000). Com’è stato sottolineato da Giangiulio (Stato e statualità nella polis, 2004), è certamente legittimo parlare di statualità della πόλις, ma in senso del tutto peculiare, perché peculiare è il rapporto tra ambito sociale e ambito politico nella mentalità greca. la città in senso politico-istituzionale e la città intesa come società, in realtà, coesistevano, come nella riflessione aristotelica, in un rapporto complesso che non poteva prescindere dal legame con il territorio.
Ancora, il carattere fortemente «politico» dell’esperienza della πόλις è stato rivendicato anche da Oswyn Murray (Cities of Reason, 1991; The Greek City: from Homer to Alexander, 1993), il quale ha proposto un’idea della πόλις come «città della ragione», in cui ogni decisione è assunta in seguito all’applicazione della procedura razionale della decisione. La πόλις, benché appaia certamente diversa da forme organizzative moderne, si presenta pertanto non come una società tribale, ma come un contesto in cui si esprime pienamente una forma di razionalità politica: essa offre la possibilità di «vivere secondo ragione», di «vivere bene» in senso aristotelico, in base a un ordine non imposto dall’alto, ma concordato dalla comunità.
Per concludere, se alcune discussioni, spesso condotte in base a modelli mutuati dall’antropologia e a confronti non sempre convincenti con esperienze moderne, appaiono talora poco produttive, merito indiscusso di questa serie di ricerche è stato soprattutto di mettere in luce le molteplici e non univoche dinamiche che caratterizzano la πόλις greca, di sottoporne a verifica alcuni contenuti tradizionalmente dati per scontati (per esempio, il concetto di autonomia) e, insieme, di mostrare come la complessità delle realtà poleiche non implichi che si debba rinunciare al concetto di πόλις come modello, purché del suo carattere di modello si abbia consapevolezza.
di I. Bɪᴏɴᴅɪ, Storia e antologia della letteratura greca. 2.B. La prosa e le forme di poesia, Messina-Firenze 2004, 131-140.
1. La vita
Notizie biografiche | Senofonte, figlio di Grillo, nacque fra il 430 e il 426 a.C. da una famiglia agiata, nel demo attico di Erchia, a una quindicina di chilometri da Atene. Educato secondo l’uso aristocratico, raggiunta l’età per imbracciare le armi, egli militò nei cavalieri (ἱππεῖς); ciò probabilmente influì anche sulle sue successive posizioni politiche, sempre conservatrici, tanto che negli ultimi anni della guerra peloponnesiaca Senofonte non nascose le proprie tendenze filo-spartane. Come molti altri giovani di posizione sociale elevata, anch’egli frequentò Socrate; benché non molto interessato alla speculazione filosofica, nutrì grande ammirazione, stima e rispetto per le qualità umane e morali del maestro, difendendolo sempre dalle accuse che gli furono rivolte. L’avvenimento più importante della vita di Senofonte si verificò nel 401, poco dopo la capitolazione di Atene (404), in un momento assai critico per la vita politica della sua città, quando un suo amico, il beota Prosseno, aggregato a un contingente di mercenari ellenici che Ciro il Giovane, fratello minore del Gran Re Artaserse II, stava raccogliendo per muovergli guerra e detronizzarlo, lo invitò a unirsi a quell’impresa. Senofonte allora chiese consiglio a Socrate; in realtà, egli aveva già deciso in cuor suo il da farsi, approfittando della fortunata opportunità di allontanarsi da Atene, anche perché, dopo la restaurazione democratica di Trasibulo, Senofonte, filo-oligarchico e filo-lacedemone, non era più ben visto in città. Infatti, poco dopo l’inizio dell’impresa persiana, egli fu raggiunto dalla condanna all’esilio, con un bando che sarebbe stato revocato solo nel 370.
Reduce dell’avventurosa spedizione, che ci concluse con la morte di Ciro sul campo a Cunassa e con la ritirata dei 10.000 mercenari, che Senofonte avrebbe raccontato poi nell’Anabasi, egli scelse come sua nuova sede la stessa Sparta; qui strinse amicizia profonda e personale con re Agesilao II, del quale avrebbe composto in seguito un’encomiastica biografia e insieme con il quale, nel 394, partecipò alla battaglia di Coronea. Dagli Spartiati Senofonte ebbe in dono una tenuta a Scillunte, una piccola città dell’Elide, nel Peloponneso nord-occidentale, dove visse per un lungo periodo (quindici o vent’anni), in piena tranquillità, dedicandosi all’agricoltura, alla caccia e forse anche alla scrittura. Proprio in quegli anni si possono infatti collocare la stesura dell’Anabasi e della Ciropedia, quella di alcuni opuscoli, come la già ricordata biografia di Agesilao, oltre che l’abbozzo di una parte delle Elleniche.
Nel 371 il disastroso esito dello scontro a Leuttra pose fine all’egemonia lacedemone sulla Grecia e segnò l’inizio di quella di Tebe; di fronte al comune pericolo, Sparta e Atene si allearono e il bando di esilio che era stato comminato a Senofonte fu revocato. In questa rischiosa situazione, i rapporti con la madrepatria migliorarono, tanto che Senofonte inviò i suoi due figli, Grillo e Diodoro, a combattere a Mantinea, nel 362. Il primo, che cadde in battaglia dopo aver ferito mortalmente il comandante tebano Epaminonda, ebbe dalla città onori solenni. Negli anni fra il 365 e il 355, Senofonte si dedicò anche al completamento delle Elleniche e alla composizione di altri scritti, l’ultimo dei quali è un breve trattato di economia, sulle entrate ateniesi (Πόροι, le Entrate). Non si conosce con esattezza l’anno della scomparsa di Senofonte, ma è probabile che le Entrate siano state la sua ultima fatica e che lui sia spirato di li a poco, tra il 354 e il 350 a.C., forse a Corinto.
Hugo Haerdtl, Senofonte. Statua, marmo austriaco, 1899. Wien, Parlamentsgebäude.
2. Le opere
Un autore dai molteplici interessi | Senofonte fu autore di numerose opere, a testimonianza dei suoi molteplici interessi, che spaziavano dalla storiografia alla trattatistica di argomento diverso. Tuttavia, come spesso accade ai poligrafi, egli non sempre approfondì adeguatamente i vari temi affrontati, ma i suoi meriti di scrittore sono innegabili, così come il pregio di aver offerto numerosi spunti per generi letterari inediti, ripresi e sviluppati poi pienamente in età ellenistica. Poiché non è possibile stabilire con certezza una cronologia delle opere senofontee, per una maggiore sistematicità, esse possono essere suddivise per argomenti: scritti di carattere storiografico, politico e biografico; opere “socratiche”, che hanno per oggetto la figura del maestro e i suoi insegnamenti; scritti minori, di carattere tecnico. Così, al primo gruppo appartengono l’Anabasi, le Elleniche, la Ciropedia, la Costituzione degli Spartani, l’Agesilao e lo Ierone; al secondo, l’Apologia di Socrate, i Memorabili di Socrate, il Simposio e l’Economico; all’ultimo, l’Ipparchico, il Trattato sull’ippica, il Cinegetico e le Entrate.
L’Anabasi| L’Anabasi (Ἀνάβασις), o Spedizione di Ciro, è il racconto delle peripezie di un corpo di mercenari greci in marcia attraverso l’Impero achemenide, al servizio di Ciro il Giovane, contro il fratello Artaserse II. Propriamente, il titolo, che significa «marcia verso l’interno», si adatta bene solo al primo libro, che descrive l’avanzata dell’esercito fino a Babilonia; gli altri sei libri (forse la divisione in sette libri non è dovuta all’autore ma ai grammatici alessandrini) narrano invece la difficile ritirata dei Greci verso la costa, dopo che Ciro fu sconfitto dal fratello e ucciso in battaglia a Cunassa, nel settembre 401.
Appoggiato dalla madre Parisatide, donna oltremodo decisa e crudele, Ciro aveva raccolto un numeroso esercito nel quale figurava un contingente di circa 14.000 mercenari ellenici; il 6 marzo 401, il principe ribelle mosse da Sardi, capitale della satrapia di Lidia, e attraverso la Frigia, la Licaonia, la Cappadocia, la Cilicia e la Siria, giunse all’Eufrate. Seguendo il corso del grande fiume, l’armata entrò nella regione di Babilonia e là, il 3 settembre dello stesso anno, si scontrò presso la località di Cunassa con l’esercito di Artaserse, immensamente superiore di numero. Ciro cadde in battaglia; ma il contingente greco, vittorioso nel suo settore, sfondò lo schieramento nemico e avanzò ancor più nell’interno, ignaro della sorte del principe. Informati poi della sua morte e resisi conto della gravità della situazione, i Greci non si persero d’animo e iniziarono la ritirata verso la costa. Inizia qui la fase più drammatica dell’avventura in mezzo a innumerevoli pericoli: il tradimento del satrapo Tissaferne, il quale, fingendosi amico dei Greci, invita i loro strateghi a colloquio e, dopo averli fatti arrestare a tradimento, li fa decapitare; la scarsa conoscenza del territorio, abitato da popolazioni dai costumi ancora primitivi e feroci; la fame e il freddo, che sorprendono gli Elleni sui monti dell’Armenia; il deterioramento dei rapporti all’interno del gruppo, in cui i disagi e il continuo rischio della vita cominciano a far prevalere la legge del più forte; il profondo scoramento, che sembra aver ragione anche dei più energici, fino a quando, l’8 febbraio del 400, essi giungono sulla cima del monte Teche, un picco della catena dei monti Eussini (forse l’od. Kolat-Dagh), dalla quale scorgono il mare. A questo punto, Senofonte, che aveva preso parte all’impresa ούτε στρατηγός ούτε λοχαγός ούτε στρατιώτης («né stratego, né locago, né soldato»), ma come semplice osservatore, acquistando però sempre maggiore autorità nel corso della spedizione, riconsegna gli sparuti resti dell’armata greca al comandante spartano Tibrone, che aveva ricevuto l’incarico di impegnare i superstiti nella lotta contro Tissaferne.
A un’analisi che voglia tener conto più dei risultati raggiunti che delle intenzioni dell’autore, l’Analisi appare non tanto un’opera storica, quanto un libro di memorie, un diario minuzioso, ricco di spunti autobiografici e di attenzione per un ambiante etnografico molto diverso da quello ellenico; manca però, al di là dell’attenta cronaca, una vera e propria indagine critica, che ricerchi le cause profonde degli avvenimenti narrati. Tuttavia, nonostante questo limite, è difficile sottrarsi al fascino di un’opera in cui il narratore è al tempo stesso protagonista e cronista della sua impresa, anche se Senofonte, per dare un’idea di un maggior distacco, usò la tecnica del racconto in terza persona e fece pubblicare l’opera sotto lo pseudonimo di Temistogene di Siracusa. Nel corso del racconto, le sue vicende si intrecciano con quelle di altri personaggi, che di volta in volta emergono nella vicenda e balzano dinanzi agli occhi del lettore con incisiva vitalità, analizzati con umano interesse e con profondità psicologica, come lo spartano Clearco, duro e aggressivo, mercenario e combattente per vocazione, perché la guerra è la sola attività adatta al suo carattere violento e crudele:
Infatti, era capace più di chiunque altro di provvedere che il suo esercito avesse viveri a disposizione e di procurarli; ma era anche capace di inculcare nei presenti l’idea che a Clearco bisognasse obbedire. Questo otteneva con durezza e, difatti, aveva un aspetto truce e voce aspra. Applicava le punizioni con inflessibilità e talvolta con rabbia, tanto che, in certi casi, se ne pentiva. Però puniva con ferma deliberazione, perché era convinto che un esercito senza punizioni non valesse nulla; anzi, raccontavano che era solito dire che un soldato deve temere più il proprio comandante che il nemico […][1].
Suo degno compare, il tessalo Menone, divorato dall’ambizione, avido di potere e di denaro e totalmente privo di qualunque scrupolo morale:
Era evidente che Menone il Tessalo era dominato da una fortissima brama di ricchezza, che desiderava comandare per prendere di più e che desiderava essere onorato per guadagnare di più; voleva diventare amico dei più potenti per non dover scontare la pena, qualora commettesse soprusi. Per realizzare i propri desideri, era convinto che la via più breve fosse quella di spergiurare, mentire e ingannare, e la schiettezza e la sincerità per lui erano la stessa cosa che la stupidità[2].
In contrapposizione a questi due, la natura onesta di Prosseno il Beota, l’amico di Senofonte, un intellettuale affascinato da sogni di eroismo e di gloria, ma non sostenuto da un’adeguata energia e totalmente privo dell’aggressività necessaria per sopravvivere in un ambiente come quello di cui era entrato volontariamente a far parte:
Prosseno il Beota, fin da ragazzo, desiderava diventare un uomo capace di compiere grandi imprese […], ma per quanto appassionatamente aspirasse a tutto ciò, era chiaro d’altra parte che non sarebbe stato disposto a raggiungere alcuno di questi obiettivi a scapito della giustizia, ma sentiva suo dovere il conseguirli operando secondo giustizia e rettitudine, senza compromessi. Quindi, sapeva dare ordini alla gente perbene, ma era incapace di infondere soggezione o paura nei soldati […][3].
Fra gli altri personaggi di rilievo che militano dalla parte di Artaserse, il subdolo Tissaferne, satrapo persiano responsabile di aver scatenato l’odio fra i fratelli Ciro e Artaserse con le sue delazioni, sempre pronto ad agire con perfidia e tradimento; per contrasto, il fedelissimo Artapate, dignitario di Ciro e suo amico, che non sopporta di sopravvivere al suo signore e si taglia la gola sul cadavere di lui, dopo la sconfitta di Cunassa. E infine, lo stesso Senofonte-personaggio, di cui Senofonte-autore non trascura i pensieri, le speranze, le paure, il comportamento, sempre sostenuto da una riflessiva determinazione, in cui alcuni studiosi hanno voluto cogliere una punta di compiaciuta autoesaltazione, tanto che è stata avanzata l’ipotesi che Senofonte abbia deciso di scrivere l’Anabasi per controbattere l’opera di Sofaineto di Stinfalo, il quale, aggregato anch’egli alla spedizione, narrò le sue avventure in un’Anabasi di Ciro, in cui si minimizzava il comportamento di Senofonte durante la ritirata.
Personaggi e episodi si inquadrano in uno scenario esotico, descritto con tale efficacia da divenire esso stesso protagonista: l’immensa piana dell’Eufrate, così diversa dal paesaggio greco, nella sua sconfinata uniformità «piatta come il mare»; gli aspri picchi dell’Armenia, con il gelido vento del nord che intirizzisce e uccide; un paesaggio ostile e desolato, che fa da sfondo alla disperazione degli Elleni, così come la vista del mare dall’alto monte Teche dà luogo a un esaltante coinvolgimento emotivo di tutti i soldati.
Da queste caratteristiche ha avuto origine il successo dell’Anabasi, l’archetipo di un genere narrativo destinato a grande fortuna nella letteratura classica e moderna, quello del diario di guerra; in esso trovano posto i Commentarii di Cesare, ma anche Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, come pure le opere di numerosi scrittori del Neorealismo italiano, da Levi a Rigoni Stern.
I Diecimila di Senofonte. Illustrazione di Y. Lee.
Le Elleniche | Le Elleniche (Ἑλληνικά), o Storia greca, contengono, in sette libri, gli avvenimenti occorsi in Grecia dal 411 (battaglia di Cizico) al 362 a.C. (battaglia di Mantinea), un periodo difficile e complesso, durante il quale le città greche furono impegnate in una lotta senza quartiere che terminò con un distruttivo logoramento reciproco, e che segnò la fine della civiltà della πόλις, aprendo la strada all’egemonia macedone. Con quest’opera, Senofonte si propose di riprende la narrazione di Tucidide dal punto esatto in cui il grande storico l’aveva lasciata; infatti, l’esordio del primo libro immette il lettore di colpo in medias res, senza alcuna forma di introduzione o di proemio, tanto che, per comprendere bene il senso del racconto, è necessario ricollegarsi alle parole conclusive delle Storie tucididee. Anche la suddivisione degli avvenimenti segue lo schema annalistico del precedente e il racconto è caratterizzato da uno stile piuttosto impersonale, che, proseguendo per tutto il libro primo e parte del secondo (per l’esattezza, II 3, 10), si conclude con la presa di Samo da parte di Lisandro nel 404, subito seguita dall’instaurazione del regime dei Trenta. I capitoli che seguono, e poi i libri successivi, presentano invece caratteri assai diversi: l’ordine cronologico annalistico viene abbandonato, lo stile si fa più disteso e descrittivo, ricco di digressioni, con ampio spazio dedicato all’analisi psicologica dei personaggi, secondo una tecnica narrativa che ricorda quella dell’Analisi. Circa la marcata diversità fra questa parte dell’opera e quella iniziale si possono fare solo ipotesi. Probabilmente Senofonte venne in possesso del materiale raccolto da Tucidide per l’ultima parte della sua opera; perciò potrebbe averlo utilizzato mantenendone intatte sia le caratteristiche stilistiche, ben diverse dalle proprie, che la partizione cronologica. Questa teoria è suffragata, anche se non dimostrata, da una testimonianza di Diogene Laerzio (II 57), il quale afferma che Senofonte, pur avendo avuto l’occasione di appropriarsi degli “appunti” di Tucidide, li pubblicò e li rese noti. Un’altra spiegazione potrebbe essere che fra la prima e la seconda parte delle Elleniche sia trascorso un periodo di tempo piuttosto lungo; l’opera, iniziata subito dopo il 404, con il piano di completare quella di Tucidide, sarebbe stata condotta a termine da Senofonte negli anni della maturità, durante il soggiorno a Scillunte. Altri studiosi pensano a una redazione avvenuta addirittura in tre tempi: la parte centrale, da II 3, 10, fino ai primi capitoli del libro quinto, sarebbe stata composta per prima; subito dopo, Senofonte si sarebbe dedicato a raccordare la propria narrazione a quella tucididea e, infine, forse tra il 358 e il 355, avrebbe portato a termine l’opera, utilizzando il materiale raccolto negli anni precedenti.
Certo è che nella parte centrale dell’opera compaiono in modo più evidente i pregi e i difetti dello stile senofonteo; accanto all’abilità di rappresentare con drammatica efficacia personaggi e scene, come la cinica arroganza di Crizia e l’arresto e la condanna a morte di Teramene, o il rientro in patria di Alcibiade, si nota un utilizzo non molto rigoroso delle fonti e una certa confusione nella cronologia, perché, narrando i fatti in base alla loro importanza e non secondo la naturale successione, talvolta lo scrittore si è visto costretto a tornare indietro, ad aggiungere particolari, a scapito della chiarezza e dell’ordine. Interessante è invece il modo con cui Senofonte si serve del discorso diretto; mentre Tucidide preferisce considerare le parole dei personaggi come premessa e giustificazione delle loro azioni, e perciò colloca i discorsi nella parte del racconto più adatta a dare il massimo risalto a questa loro funzione, Senofonte se ne serve soprattutto come mezzo di approfondimento psicologico dei personaggi, con una più ampia varietà di toni e di sfumature, anche perché, almeno in parte, essi si fondavano sul ricordo diretto dell’autore. Tuttavia, quanto di personale compare nel testo e nell’ideologia delle Elleniche non contribuisce alla loro imparzialità; l’ammirazione di Senofonte per Agesilao, la simpatia per i Lacedemoni e il loro sistema politico lo hanno indotto a giudizi non sempre obiettivi, e a osservazioni dettate più dal sentimento che dal raziocinio. Lo dimostra il fatto che, quando Senofonte tenta di motivare concettualmente un evento storico, lo fa ricorrendo a un motivo religioso (Hell. V 4, 1), come quando afferma che la rovina dell’egemonia spartana fu dovuta alla collera degli dèi perché i Lacedemoni avevano violato il giuramento di rispettare l’autonomia delle città greche. Il rigoroso spirito critico di Tucidide e il suo pragmatismo appaiono ben lontani, ma nonostante questi limiti, l’opera di Senofonte rimane una delle più importanti su questo fondamentale periodo della storia greca.
Stele funeraria degli opliti Chairedemos e Lykeas. Marmo pario, 420 a.C. ca. da Salamina. Pireo, Museo Archeologico Nazionale.
La Ciropedia | La Ciropedia (Κύρου παιδεία), considerata spesso il capolavoro di Senofonte per accuratezza stilistica, fu scritta probabilmente verso il 360 e benché il titolo significhi propriamente «educazione di Ciro», l’opera contiene, in otto libri, l’intera biografia di Ciro il Grande, fondatore dell’Impero persiano, limitando al primo libro il racconto della sua educazione. Anche presso i suoi connazionali, le notizie storiche su questo personaggio dovettero mescolarsi ben presto con la leggenda; per esempio, un racconto largamente diffuso presso i Persiani, e riportato anche da Erodoto, narrava che il re dei Medi, Astiage, era sta avvertito da un sogno premonitore, secondo cui un bambino nato da sua figlia Mandane lo avrebbe spodestato. Perciò, la diede in sposa a un persiano di basso rango, Cambise; non contento di ciò, quando seppe che dall’unione era nato un figlio maschio, ordinò di abbandonarlo in una foresta. Ma il piccolo Ciro fu raccolto e allevato da alcuni pastori e, in seguito, riconosciuto da suo nonno. Un simile racconto, che ha tutte le caratteristiche della favola (si notino le analogie con le origini dei grandi fondatori delle civiltà antiche!), dimostra come la figura del monarca orientale fosse divenuta ben presto protagonista di vicende accettate senza alcuna preoccupazione di veridicità storica, non solo dal suo popolo, ma anche da scrittori greci come Antistene e Ctesia, a cui Senofonte attinse con molta libertà.
Può darsi che il progetto di raccontare la storia di Ciro il Grande sia stato suggerito a Senofonte dall’aver conosciuto di persona il suo lontano discendente, Ciro il Giovane, figlio di Dario II, per il quale nutrì molta ammirazione; ma lo scopo che l’autore si prefisse fu soprattutto quella di restituire un’immagine del monarca ideale, moralmente perfetto e altamente consapevole della propria missione. Senofonte immaginò così un personaggio nel quale il valore militare, l’autorità e il senso della giustizia degni di un Gran Re si fondevano con le più nobili qualità umane, come il rispetto per gli dèi e il sentimento profondo dell’onore e dell’amicizia. Per creare una figura simile, lo scrittore ateniese ebbe presenti le qualità di due uomini che aveva ben conosciuto e sinceramente stimato, Socrate e Agesilao. Ma proprio perché Ciro riassume in sé, al massimo grado, le virtù dell’uno e dell’altro, risulta un personaggio letterario, troppo perfetto e idealizzato per essere esistito davvero. Del resto, che Senofonte non si preoccupasse troppo dell’attendibilità storica, lo dimostra anche il modo con cui descrive la forma di governo realizzata da Ciro, un miscuglio di elementi che l’autore ha desunto da quelle costituzioni a lui contemporanee e che riteneva meglio organizzate e più vantaggiose per gli uomini. Inoltre, benché sia noto che Ciro il Grande morì in battaglia, combattendo contro i Massageti, Senofonte non esitò a sostituire questa fine cruenta con un sereno trapasso in tarda età, accompagnato da dotte dissertazioni sull’immortalità dell’anima e da nobili consigli morali impartiti a familiari e amici: una vera morte “socratica”!
Tuttavia, nonostante questa voluta distanza dalla realtà storica, la Ciropedia ha un valore indicativo da non trascurare; in un periodo di drammatici rivolgimenti storici in cui i Greci cercavano di raggiungere una soluzione politica fondata sulla concordia delle varie città sotto l’egemonia morale e culturale di Atene, come avrebbe voluto, per esempio, Isocrate, Senofonte progettò la realizzazione del proprio governo ideale non in una πόλις ellenica, bensì in una monarchia universale, in cui popoli assai diversi fra loro erano tenuti insieme dall’autorità di un sovrano illuminato, precorrendo così una soluzione storica che si sarebbe verificata sotto la monarchia macedone e, più ancora, in quella dei diadochi in epoca ellenistica.
Interessante è anche l’attenzione dello storico per l’educazione a cui erano sottoposti, dai sette anni in poi, i giovani persiani di nobili natali. Con questa parte dell’opera, Senofonte si inserì nel dibattito sulla pedagogia politica, che era stata il principale obiettivo dei sofisti. Ma, mentre questi ultimi si disinteressavano degli aspetti etici del problema (quelli stessi che, invece, erano assolutamente inderogabili per Socrate), ritenendo che la prima qualità del politico fossero le sue capacità dialettiche e la sua forza di persuasione, Senofonte pose a fondamento dell’educazione persiana una solida base etica, costituita dal continuo e severo esercizio della giustizia, unita a una dura disciplina militare, piuttosto simile a quella spartana, per la quale egli non nascose mai la propria ammirazione.
Un altro aspetto non trascurabile della Ciropedia, anzi, forse il più importante, è il suo valore letterario, che permette di considerarla molto simile a un romanzo, il primo romanzo storico della letteratura occidentale, costruito su un’elaborata struttura narratologica. Sull’asse principale della vicenda, costituita dalla biografia di Ciro, si innestano numerose e ampie digressioni, autonome e complete rispetto al nucleo centrale. Fra le più belle, la tragica storia di Gobria, un vecchio principe assiro, animato da un disperato desiderio di vendetta verso il suo sovrano, che gli ha ucciso l’unico figlio per invidia e gelosia, e quella di Pantea e Abradata, patetica e drammatica avventura di amore e morte, vero romanzo nel romanzo. Questi e numerosi altri racconti di più breve respiro trovano spazio nel contesto della vicenda principale, dominata dalla figura di Ciro, che rappresenta anche, in tanta varietà di avvenimenti, l’elemento di unità, sempre presente e sempre coerente con se stesso, dalla lieta infanzia alla pensosa nobiltà della morte.
Combattimento fra Greci e Persiani. Bassorilievo, marmo, fine V secolo a.C. Dal fregio meridionale del Tempio di Atena Nike.
La Costituzione degli Spartani | La Costituzione degli Spartani (Λακεδαιμονίων πολιτεία) delinea nei suoi tratti essenziali il sistema di governo e la vita politica di Sparta, fondati da Licurgo, uno dei più famosi fra gli antichi legislatori, ma a proposito del quale la critica moderna ha avanzato qualche riserva, considerando leggendarie molte delle notizie pervenute su di lui. Secondo Senofonte, che non nutriva alcun dubbio sulla storicità del personaggio e della sua opera, la costituzione lacedemone, diversa da quella di tutte le altre realtà elleniche, fu fonte di benessere, concordia, prestigio politico e gloria militare per gli Spartani, finché essi vi si attennero con rigore. Ma quando permisero che la sua autorità fosse a poco a poco sminuita dall’ambizione e dalla bramosia di ricchezza, conobbero anch’essi la vergogna della decadenza, com’era accaduto agli Ateniesi e ai Persiani. Infatti, le pessimistiche conclusioni di quest’opuscolo hanno lo stesso tono delle ultime pagine della Ciropedia, in cui Senofonte descrive con amarezza la decadenza dell’Impero persiano, degenerato nella mollezza e nella corruzione, dopo il felice regno di Ciro il Grande.
Merry-Joseph Blondel, Licurgo di Sparta. Olio su tela, 1828. Amiens, Musée de Picardie
L’Agesilao | Questa breve biografia del re spartano Agesilao II (Ἀγησίλαος), scritta dopo la sua morte, avvenuta nel 360 a.C., ha carattere decisamente encomiastico. Senofonte, che lo aveva conosciuto di persona, ne era diventato amico e aveva militato ai suoi ordini, volle metterne in risalto le grandissime virtù militari e le eccezionali qualità umane, idealizzandole secondo canoni retorici, ma tentando, al tempo stesso, di mantenersi abbastanza fedele alla realtà storica. Degna di nota è anche la tecnica di cui Senofonte si servì per dare risalto alle doti del suo eroe; infatti i pregi di Agesilao risultano ancor più evidenti grazie al continuo confronto con i difetti di qualche altro personaggio, come il satrapo Tissaferne o il re Artaserse o, più semplicemente, con quelli della maggior parte degli uomini.
L’«Olpe Chigi». Particolare: due falangi oplitiche che si affrontano. Pittura vascolare da un olpe tardo-corinzio a figure nere e policrome. 630 a.C. ca., da Veio. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Lo Ierone| Quest’opuscolo, redatto in forma dialogica, prende spunto dagli aneddoti che si raccontavano sull’amicizia fra Ierone (Ἱέρων), tiranno di Siracusa, e il poeta Simonide di Ceo, suo ospite, e svolge, attraverso una serie di τόποι, il ben noto tema dell’infelicità e della solitudine di chi detiene un potere assoluto. Senofonte immagina che i due discutano sulla condizione del tiranno, confrontata con quella dell’uomo comune. Ierone afferma di non meravigliarsi se gli ignoranti invidiano i tiranni e li credano felici per la potenza e la ricchezza; lo stupisce però che una persona intelligente e colta come Simonide possa cadere nello stesso equivoco. I due prendono allora in considerazione vari fattori, sui quali, secondo l’opinione comune, si fonda la felicità umana: la patria, l’amore dei familiari, della moglie, dei figli, l’amicizia, la stima dei concittadini, la simpatia disinteressata degli altri e l’amara conclusione di Ierone è che sotto nessuno di questi aspetti il tiranno può dirsi più fortunato della gente comune. Ma Simonide, la cui benevola ironia assomiglia molto a quella di Socrate, lo consola dicendogli che anche un monarca assoluto può essere benvoluto e felice, quando governa con giustizia e saggezza, avendo sempre di mira il benessere dei suoi sudditi.
James Barry, L’incoronazione dei vincitori a Olimpia. Olio su tela, 1777-1784 c.
4. Le opere socratiche
L’Apologia di Socrate| Con l’Apologia, che porta lo stesso titolo del ben più celebre dialogo platonico, Senofonte intese tramandare l’orazione che il maestro pronunciò in propria difesa davanti ai giudici. Purtroppo, grava su questo opuscolo, forse la più giovanile delle opere senofontee, il confronto con l’ampiezza e la profondità di pensiero del testo platonico, a cui risulta assai inferiore. La figura di Socrate, così come emerge dalle poche pagine di Senofonte, è quella di uomo stanco e demoralizzato, che avverte il peso dell’età e si preoccupa di ribattere le accuse con argomentazioni che, in verità, non appaiono molto stringenti, e che si concludono con una profezia di sventura per il figlio di Anito. Tuttavia, lo spirito con cui l’opera è redatta è quello di una schietta ammirazione per Socrate, cosa che fa pensare che essa sia stata scritta in contrapposizione al libello antisocratico del sofista Policrate, che circolava fra il 395 e il 390. Alcuni concetti presenti in questa apologia sono poi stati sviluppati più ampiamente nei primi capitoli dei Memorabili.
Socrate. Busto, copia romana in marmo, II sec. d.C. Toulouse, Musée Saint-Raymond.
I Memorabili di Socrate| Anche quest’opera, suddivisa in quattro libri, si inserisce nel filone della letteratura nata in difesa di Socrate, contro libelli che ne diffamavano la memoria, sostenendo che il suo insegnamento aveva un peso importante nel discutibile comportamento politico di alcuni suoi discepoli, come Crizia e Alcibiade. Come già nell’Apologia, Senofonte non si cura di approfondire gli aspetti filosofici del pensiero socratico, ma difende con energia e convinzione l’onestà, la correttezza morale e la profonda religiosità del maestro, domandandosi come sia stato possibile diffondere sul suo conto calunnie tanto infamanti. A proposito del contenuto dei Memorabili, è stato notato che i primi due capitoli del primo libro sembrano costituire una parte a sé per il loro carattere strettamente apologetico, mentre il rimanente dell’opera ha un andamento piuttosto narrativo e descrittivo, e rievoca numerosi episodi, dai quali si ricava un ritratto di Socrate vivace e umanissimo, che testimonia la simpatia e l’affetto del suo antico discepolo. Questa diversità ha fatto supporre che l’opera sia stata composta in due periodi diversi: i primi capitoli intorno al 390, a poca distanza dalla morte di Socrate, per difenderne la memoria, il resto assai più tardi. L’ipotesi più probabile è che il primo progetto di Senofonte riguardasse solo la difesa di Socrate contro le diffamazioni di cui si è detto; poi, forse negli ultimi anni di vita, dopo il ritorno temporaneo ad Atene, l’autore ampliò il nucleo primitivo con i molti ricordi che aveva del suo maestro, scegliendo, secondo il suo gusto, quelli che meglio si adattavano a una descrizione vivace e piacevole. Si venne così delineando un profilo di Socrate che, pur lontanissimo dalla profondità morale del ritratto che ne fa Platone, nella sostanza non è però in contrasto con esso. Questa parte dell’opera mostra chiaramente l’impronta stilistica di Senofonte maturo: lo stile è discorsivo, brillante, con una certa tendenza alla digressione, la più famosa delle quali è quella che racconta il mito di Eracle al bivio, desunto da Prodico.
Il Simposio | Alla vena agile e descrittiva di Senofonte si adatta particolarmente bene il soggetto di quest’opera, scritta fra il 365 e il 362, e omonima del dialogo platonico. In essa si descrive un banchetto, offerto dal ricco ateniese Callia per festeggiare il suo favorito, Autolico, vincitore di una gara di pancrazio alle Panatenee. Gli argomenti trattati dai convitati sono consoni alla gaia atmosfera del convito; Socrate discute sull’amore, sia dei sensi che dello spirito, con una superficiale giocondità che contrasta con la serena profondità del dialogo platonico. Degna di nota la conclusione, in cui si descrive una rappresentazione mimica, molto vivace e realistica, dell’incontro fra Dioniso e Arianna, testimoniando così che il mimo come genere di spettacolo era in uso ben prima dell’Ellenismo.
Pittore Nicia. Simposiasti intenti al gioco del kottabos e ragazza che suona l’aulos. Pittura vascolare da un cratere a campana attico a figure rosse, 420 a.C. ca.
L’Economico | Quest’opera, uno dei più pregevoli documenti della prosa di Senofonte, si colloca, per il suo contenuto, in una posizione intermedia fra gli scritti “socratici” e quelli di carattere tecnico.
Interessante è anche per la sua struttura narratologica, il meta-racconto (cioè un racconto inserito in un altro che gli fa da cornice, come il Fedone di Platone). Socrate e il giovane Critobulo conversano sull’amministrazione domestica; ma quasi subito il filosofo afferma di voler riferire al giovane un lungo colloquio avuto con Iscomaco, un ricco e affabile proprietario terriero, che gli ha dato molte utili indicazioni sulla coltivazione e sull’amministrazione delle proprietà fondiarie. In questa parte dell’opera traspare l’esperienza in materia che l’autore aveva accumulato durante il lungo soggiorno a Scillunte, e anche il suo apprezzamento per l’agricoltura, considerata un’attività produttiva e rasserenante, utile al corpo e allo spirito, educativa e adatta a un uomo libero, più di qualunque mestiere artigiano. Ma il brano più interessante è quello che delinea, con le loro caratteristiche e i loro compiti ben distinti e separati, le figure dei due coniugi proprietari del podere. Poiché la natura ha dato all’uomo la forza fisica, la capacità di sopportare i disagi, il coraggio e lo spirito d’iniziativa, e alla donna invece la timidezza, il pudore, il senso della maternità e l’attaccamento alla casa, è necessario che entrambi collaborino, integrandosi a vicenda, per il benessere comune. Questo è lo scopo del matrimonio e su di esso si fonda l’armonia fra l’uomo e la donna: come l’ape regina sovrintende all’alveare e alle sue componenti, è lei che dovrà occuparsi della gestione della casa e della servitù con operosa attenzione, oltre a curarsi, naturalmente, del marito e dei figli che verranno. Si è ancora lontani da una condizione di pari dignità fra coniugi, perché in questa coppia così affiatata il marito appare come l’educatore della moglie, e le dà consigli perfino su come vestirsi e adornarsi, esortandola a evitare trucchi e cosmetici e a mostrarsi nel suo aspetto più naturale. Inoltre, anche per quanto riguarda la fedeltà coniugale, mentre è escluso in assoluto che la donna possa venir meno a questo principio, il marito si limita a garantirle quella posizione di preminenza che le deriva, nella casa, dalla sua posizione di sposa legittima, riservandosi, per il resto, la più completa libertà.
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Ms. Strozzi 51 (metà XV sec.), f. 3r. Dedica a papa Niccolò V nella traduzione latina dell’Economico di Senofonte a opera di Lampugnino Birago.
5. Le opere tecniche
L’Ipparchico, Sull’ippica e il Cinegetico | Il primo di questi tre opuscoli tecnici (l’ultimo, il Cinegetico, presenta qualche dubbio di attribuzione) trae spunto dalla diretta esperienza di Senofonte come cavaliere; è infatti un trattatello che riguarda i compiti dell’ἵππαρχος («comandante di cavalleria»), verso il quale l’autore è prodigo di consigli sul modo di disporre i cavalieri in battaglia, su come evitare gli agguati e le insidie del nemico e su come disporre i propri uomini affinché facciano bella figura nelle feste e nelle parate. Tutte queste esortazioni sono rivolte a un giovane cavaliere, in cui alcuni hanno voluto identificare uno dei figli dello scrittore.
Strettamente complementare a questo è il trattato Sull’ippica, che contiene le modalità su come formale un efficiente corpo di cavalleria ateniese, accompagnate da istruzioni sulle qualità dei cavalli, sul modo di allevarli e addestrarli. Lo stesso Senofonte mise in evidenza lo stretto rapporto dell’Ipparchico con quest’opera, rimandando direttamente a essa (Eq. 12, 14) per la trattazione dei compiti dell’ipparco. Oltre che alla propria esperienza, l’autore attinse anche all’opera di un altro esperto nel settore, Simone, di cui sono giunti i frammenti del trattato Sull’aspetto e sulla selezione dei cavalli.
Cavallo e stalliere etiope. Stele funeraria, marmo pentelico, IV-I sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Il Cinegetico, invece, riguarda la caccia e l’allevamento, l’addestramento e le caratteristiche dei cani adatti all’attività venatoria, che Senofonte considerava uno svago signorile, ma anche un allenamento molto utile per prepararsi alle fatiche della guerra. Vivacemente descrittiva, e degna delle migliori capacità narrative di Senofonte, la scena della caccia alla lepre (Cyn. 5).
Le Entrate | Qualche parola a sé merita questo libello di carattere molto specifico, che riguarda le fonti della ricchezza pubblica (i πόροι, appunto) di Atene. Scritto sicuramente dopo il 355, perché si accenna all’abbandono del santuario di Delfi da parte dei Focesi, che avvenne in quell’anno, esso dimostra una solida e approfondita conoscenza dei problemi economici della città, con qualche suggerimento per restaurare le finanze pubbliche ormai quasi del tutto esaurite. Interessante, pur nell’aridità della trattazione, il piano di risanamento proposto dall’autore, che si fonda soprattutto su un’adeguata organizzazione dello sfruttamento delle risorse minerarie (cave di marmo e miniere d’argento) con l’uso di manodopera servile, dato che la sconfitta di Atene, la decadenza del suo impero commerciale e l’insuccesso della seconda Lega navale avevano molto impoverito le sue tradizionali risorse economiche. In questo quadro l’agricoltura, che pure Senofonte apprezzava molto, passa un po’ in secondo piano, mentre viene dato forte risalto alla necessità di una pace duratura che, dopo il crollo dei sogni egemonici, permetta l’esecuzione pratica di un piano di lavoro teso a eliminare, da Atene e dal resto della Grecia, situazioni di malcontento causato dall’estrema indigenza, in cui Senofonte coglieva, con acuta concretezza, un perenne rischio di instabilità per la πολιτεία.
Pittore Evergide. Un cane laconico che si spulcia. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 500 a.C. ca. Oxford, Ashmolean Museum.
6. La fortuna di Senofonte
Il giudizio degli antichi e dei moderni | La fortuna di Senofonte fu notevole in tutta l’antichità, soprattutto per le qualità stilistiche e per la purezza del linguaggio (Dɪᴏɢ. II 57, lo definì Ἀττικὴ Μοῦσα, «musa attica»). Questi pregi, però, si rivelano più nelle strutture sintattiche che nel lessico, un attico elegante e colto, ma non privo di forme doriche e ioniche, con caratteri che preludono alla κοινή διάλεκτος, la lingua dell’Ellenismo. Già noto fra i contemporanei, l’autore fu apprezzato fino all’età bizantina; ammirato dagli Stoici, trovò un diretto imitatore in Arriano di Nicomedia (95-175 d.C.), che, nella sua Anabasi di Alessandro (I 12, 3), affermò di considerarsi «un nuovo Senofonte».
Nel mondo romano, lo scrittore fu assai stimato da Catone il Vecchio, da Sallustio, da Cesare e da Cicerone, che lo definì melle dulcior, mentre Quintiliano ne lodò la iucunditatem inadfectatam, «lo stile semplice e gradevole» (Inst. X 1, 82). In età moderna, piuttosto che essere valutato per lo stile, per i contenuti, o come fonte storica, Senofonte fu ritenuto l’archetipo dei generi letterari largamente diffusi, come la biografia, il diario di guerra, il romanzo storico.
Pittore Eufronio. Giovinetto a cavallo; scritta ΛΕΑΓΡΟ[Σ] ΚΑ[Λ]ΟΣ («Leagro è bello»). Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 510-500 a.C. da Vulci, München, Staatliche Antikensammlungen.
7. La novità di Senofonte
Un profilo diverso diuomo e di scrittore | Le varie e avventurose vicende della vita di Senofonte e la sua poliedrica attività di scrittore lo distinguono notevolmente dagli altri personaggi del suo tempo, mettendo in luce caratteristiche che, se da un lato appaiono ancora tradizionali, dall’altro fanno intuire una mentalità aperta più verso il futuro che verso il passato. Gli ideali politici, per esempio, appaiono dominati dall’orgoglio di classe e dal rifiuto della democrazia, che Senofonte riteneva responsabile della decadenza di Atene; a questo regime egli contrapponeva l’arcaica severità della costituzione spartana, non mancando di osservare, però, che nemmeno la città laconica aveva saputo salvarsi dal declino, iniziato appunto quando l’antico rigore aveva cominciato ad attenuarsi. Se ci si limitasse a queste osservazioni, Senofonte apparirebbe come un rigido conservatore, una specie di “vecchio oligarca”; in realtà, la tendenza a dare un amaro risalto ai difetti attuali delle due più grandi città elleniche, i cui aspetti positivi appartenevano a un passato ormai definitivamente concluso, fa intuire in lui un’apertura nuova, volta al superamento dei confini ormai troppo angusti della πόλις. Ciò trova conferma, come si è già accennato, all’ammirazione per il personaggio di Ciro il Grande e per una forma di governo che valica tradizioni e barriere nazionali, per unire popoli di costumi, lingue e tradizioni profondamente diversi, eppure capaci di coesistere sotto la guida illuminata di un unico sovrano, anticipando l’ottica che sarebbe stata propria di Alessandro il Macedone.
La passione per la caccia, per le armi e per i cavalli, altro aspetto essenziale del carattere di Senofonte, testimonia la sua educazione aristocratica, secondo uno schema anch’esso appartenente al passato; ma lo spirito di avventura che dominò tutta la sua esistenza è invece un segno dei tempi nuovi. Se è vero che il viaggiare fu un aspetto tipico della stirpe ellenica, tanto che, da questo punto di vista, si è soliti identificare l’uomo greco con Odisseo, è però altrettanto vero che, nella maggior parte dei casi, questa tendenza fu dovuta a motivi pratici di espansione, commercio, conoscenza o semplice curiosità, e si concluse di solito con un ritorno alla madrepatria, o comunque alla Grecia, considerata superiore a qualunque altra nazione; soprattutto negli Ateniesi, l’attaccamento alla patria fu sempre un sentimento fortemente radicato. Eppure, Senofonte avvertì in misura minore questa limitante caratteristica; benché la sua partenza da Atene avesse anche un motivo contingente nella situazione politica della città, poco favorevole in quel momento a posizioni conservatrici, la decisione di Senofonte scaturì soprattutto dal desiderio di conoscere Ciro il Giovane (un barbaro, secondo l’ottica ateniese), di seguirlo in un paese sconosciuto, non certo per la bramosia di denaro e di potere che dominavano Menone o per sfogare la propria innata aggressività, come Clearco, ma per venire a contatto con una realtà diversa dalla propria e per confrontarsi con essa, con uno spirito di cosmopolitismo che prelude a quello tipico dell’età ellenistica.
di G. REALE, Il pensiero antico, Milano 2001, pp. 83-102.
I. La questione socratica e il problema delle fonti.
Socrate. Testa, marmo, copia romana di I-II sec. d.C. da un originale di Lisippo (?). Paris, Musée du Louvre.
Prima di svolgere un qualsivoglia discorso su Socrate è necessario, sia pure molto brevemente, tracciare un quadro della «questione socratica»[1].
Socrate non scrisse nulla. Per conoscere il suo pensiero e valutarne l’importanza e la portata, dobbiamo ricorrere alle testimonianze dei contemporanei o a fonti che da quelle mediamente derivano. Ma queste notizie (e di qui nascono tutte le difficoltà) sono solo discorsi e, in alcuni casi, sono addirittura radicalmente opposte fra loro, al punto da annullarsi a vicenda.
La fonte più antica riguardante Socrate è Aristofane con la commedia Nuvole, che è, beninteso, non solo una parodia del filosofo, ma anche un violentissimo atto di accusa contro il suo insegnamento e i suoi nefasti influssi sulla gioventù: Socrate viene trattato alla stregua di un sofista e, anzi, in un certo senso, il peggiore dei sofisti; a un tempo, egli viene considerato filosofo naturalista (professante dottrine che riecheggiano quelle di Diogene di Apollonia). Per queste ragioni, Aristofane, per molto tempo, non fu calcolato e le Nuvole furono giudicate pura opera di fantasia del tutto sprovvista di valore storico.
La seconda fonte, in ordine cronologico, è Platone, il quale fa di Socrate il protagonista della maggior parte dei suoi dialoghi e gli mette in bocca tutte le idee filosofiche che egli via via svolge, eccetto una parte della dottrina dialettica degli ultimi dialoghi, la cosmologia del Timeo e la dottrina delle Leggi. Ma la testimonianza platonica è condizionata da due presupposti, che ne compromettono strutturalmente la credibilità storica. In primo luogo, Platone ha trasfigurato e trasformato la figura del maestro in un simbolo: Socrate assurge ad eroe morale, è il santo, il forte, il temperante, il saggio, il giusto, l’educatore più autentico degli uomini, l’unico vero politico che in Atene ci sia mai stato (sarebbe difficilissimo pensare a due figure più antitetiche del Socrate descritto nelle Nuvole e di quello raffigurato nel Fedone: eppure, si riferiscono a un medesimo uomo). In secondo luogo, l’autore mette in bocca a Socrate pressoché tutta la propria dottrina: quella della giovinezza, quella della maturità e parte di quella della vecchiaia (Filebo); ed è certo che, per la maggiore, queste dottrine sono solo in parte di Socrate; sono ripensamenti, amplificazioni e anche nuovissime creazioni di Platone. Come separare ciò che è socratico da ciò che non lo è negli scritti platonici? Esiste un qualche criterio che permetta di far questo? La risposta è che la separazione è, se non del tutto impossibile, perlomeno difficilissima.
Il terzo autore è Senofonte, con i suoi Detti memorabili di Socrate e altri scritti minori in cui il maestro è protagonista. Ma Senofonte fu solo per brevissimo tempo suo uditore da giovane e compose, invece, i suoi scritti socratici solo da vecchio. Per di più, a costui fanno difetto il rigore speculativo e la tempra del pensatore e il suo Socrate risulta assai meno addomesticato. Sarebbe stato certamente impossibile che gli Ateniesi potessero avere motivo di mandare a morte un uomo quale Senofonte pretende sia stato Socrate.
La quarta fonte è data da Aristotele, che parla di Socrate solo occasionalmente, ma dice di lui cose ritenute importanti. Ma Aristotele non fu un contemporaneo: egli poté bensì accertare in vari modi quanto ci riferisce di lui, ma gli mancò quel contatto diretto con il personaggio, che, nel caso di Socrate, risulta insostituibile e mediamente non recuperabile.
Ci sono poi i fondatori della cosiddette Scuole socratiche minori, dei quali ci è pervenuto poco e in quel poco che abbiamo si vede solo un raggio filtrato attraverso prismi deformatori.
Tutto questo è sufficiente a far comprendere l’enorme difficoltà cui va incontro ogni tentativo di ricostruzione del pensiero di Socrate e anche l’ampio margine di aleatorietà e di ipoteticità che fatalmente è destinato a rimanere in tutte le ricostruzioni, dato che le stesse fonti cui attingiamo sono, ciascuna, non un’obiettiva descrizione, ma un’interpretazione.
Allo stato attuale degli studi, è risultato ormai chiaro che, da un lato, nessuna fonte può ritenersi privilegiata e che, d’altro canto, nessuna informazione può essere trascurata: lo stesso Aristofane, che per molto tempo è stato considerato del tutto trascurabile come prova storica, è risultato invece, esaminato in controluce, contenere numerosi elementi reali di grande importanza per comprendere Socrate. E viceversa Aristotele, che da molti era stato ritenuto il giudice imparziale e quindi la fonte capace di fornirci il criterio per ridimensionare tutte le altre, dai recenti studi è stato rimesso in discussione ed è stato dimostrato che egli attribuiva a Socrate alcune cose che sono, invece – come vedremo – acquisizioni posteriori. Perciò, una ricostruzione di Socrate può essere fatta solamente tenendo conto di tutte le fonti e considerando non solo quanto esse tramandano, ma altresì quanto tacciono, leggendo l’una alla luce dell’altra e viceversa, e altresì filtrando ciascuna di esse in controluce e utilizzando il tutto con vigile senso critico.
Per la verità, un criterio per valutare le varie testimonianze esiste. Noi costatiamo che, a partire dal momento in cui Socrate agì in Atene, la letteratura in genere e quella filosofica in particolare registrano una serie di novità di assai considerevole portate, che poi sarebbero rimaste, nell’ambito dello spirito della grecità, acquisizioni irreversibili e punti costanti di riferimento. Ma c’è di più: le fonti di cui sopra abbiamo detto (e anche altre, oltre quelle menzionate) indicano concordemente proprio Socrate come autore di quelle novità, sia in modo esplicito sia, anche, in modo implicito, ma non per questo meno chiaro. Queste due circostanze, che reciprocamente si rafforzano e si avvalorano, ci offrono il filo di Arianna che ci permette di districarci nella selva della questione socratica. Noi potremmo dunque far risalire a Socrate, non con certezza totale, ma con assai elevato grado di probabilità storica, appunto quelle dottrine che le nostre fonti riferiscono a lui e che i documenti in nostro possesso confermano essere novità che la cultura greca recepisce a partire appunto dal momento in cui Socrate agisce.
Riletta con questi criteri, la filosofia socratica risulta avere avuto un peso decisivo nello svolgimento del pensiero greco e, in genere, nello sviluppo del pensiero occidentale.
Marcello Bacciarelli, Alcibiade a lezione da Socrate (dettaglio). Olio su tela, 1776 c.
II. L’etica socratica
Socrate nei confronti della filosofia della φύσις– Abbiamo già visto quale sia stato l’atteggiamento dei sofisti nei confronti della filosofia della φύσις: si tratta di un punto di vista negativo, al quale aveva dato forma paradigmatica Gorgia nel suo trattato Sulla natura, o sul non-essere (come abbiamo sopra veduto), in cui il filosofo cercava di dimostrare la strutturale incommensurabilità fra l’essere (la φύσις), da un lato, e il pensiero e la parola umana, dall’altro. L’atteggiamento di Socrate fu analogo, ma più complesso e più articolato e fondato, più che sulle dialettiche deduzioni di tipo gorgiano, sul rilievo della reciproca contraddittorietà dei vari sistemi di filosofia della natura che erano stati via via proposti, i quali pervenivano a conclusioni che puntualmente si annullavano a vicenda e che, dunque, mostravano, in questo loro contraddirsi, la propria incapacità a pervenire a valide conclusioni.
La scienza del cosmo è inaccessibile all’uomo: chi a essa dedica le proprie energie tenta vanamente di acquisire una conoscenza, che solo un dio può possedere. Infine, secondo Socrate, chi si dedica a queste ricerche, tutto assorbito in esse, dimentica se stesso, ossia quello che più conta: l’uomo e i problemi dell’uomo. Di questo diremo più avanti; prima dobbiamo ancora mostrare come queste precise conclusioni di Socrate non siano tanto un punto di partenza iniziale, quanto, piuttosto, un travagliato e laborioso guadagno, che può verosimilmente essere fatto risalire, per quanto concerne la cronologia, a metà circa della sua vita (cfr. Xen., Memor. I 1; IV 7).
Sui trent’anni sappiamo che Socrate era legato ad Archelao (il quale, come abbiamo visto, riproponeva dottrine di Anassagora in modo piuttosto eclettico). Quanto siano durate queste esperienze naturalistiche di Socrate non è possibile stabilire con sicurezza: Aristofane, che, come abbiamo detto, lo rappresenta a quarant’anni, gli attribuisce ancora una serie di legami (talora anche abbastanza precisi) con certe dottrine dei Fisici. Una cosa, tuttavia, sembra certa, e cioè che Socrate non fu mai soddisfatto di queste ricerche e che, di conseguenza, non le fece mai oggetto del proprio insegnamento, come tutte le fonti concordemente ci riferiscono.
Socrate. Affresco (dettaglio), I-II sec. d.C. Efeso, Museo Archeologico.
Socrate, dunque, spostò interamente dalla natura all’uomo tutti i suoi interessi e solo a questo punto egli iniziò il suo magistero in Atene. In ogni caso, è certo che, quando Senofonte e Platone incominciarono a frequentarlo, egli era già da qualche lustro saldamente ancorato a questa precisa posizione.
E Platone, nell’Apologia, mette in bocca a Socrate quest’affermazione, che è un programma: «Per la verità, o Ateniesi, io per nessun’altra ragione mi sono procurato questo nome, se non a causa di una certa sapienza. E qual è questa sapienza? Tale sapienza è precisamente la sapienza umana: e di questa sapienza veramente può essere che io sia sapiente» (20d ss.). Ed eccoci così giunti al punto focale: che cos’è questa «sapienza umana».
La scoperta dell’essenza dell’uomo – Torniamo alla linea di sviluppo del pensiero sofistico, che abbiamo interrotto. Abbiamo visto che tutte le contraddizioni, le aporie, le incertezze dei sofisti e, infine, lo scacco matto cui andarono incontro tutti i tentativi da essi esperiti, dipendevano sostanzialmente dall’aver parlato dei problemi dell’uomo senza aver indagato in modo adeguato la natura o l’essenza dell’uomo, o comunque dall’averla determinata in maniera del tutto inadeguata. Ebbene, diversamente dai sofisti, Socrate riuscì a far questo e vi riuscì in una misura tale da poter dare alla problematica dell’uomo un significato decisamente nuovo.
Che cos’è dunque l’uomo? La risposta del filosofo è finalmente inequivoca: l’uomo è la sua anima, dal momento che è l’anima che distingue l’uomo da qualsiasi altra cosa.
Si obietterà che la letteratura e la filosofia greca avevano da secoli parlato di ψυχή: ne avevano parlato Omero, gli Orfici, i Fisici e altresì i poeti lirici e tragici. Ma nessuno prima aveva inteso per anima ciò che, invece, intese Socrate e, dopo di lui, tutto l’Occidente. Per Omero, l’anima era lo spirito nel senso di «fantasma», che abbandonava l’uomo alla sua morte, per andarsene come larva vana e inconsapevole a vagolare senza scopo nell’Ade; per gli Orfici, era, invece, il dèmone che espiava in noi la colpa e che era tanto più se stesso quanto più si staccava dall’io consapevole, ed era tanto attivo quanto più si affievoliva e scompariva la nostra coscienza (quindi, nel sonno, nello svenimento e nella morte); per i Fisici, era, invece, il principio o un momento del principio (quindi, acqua, aria, fuoco); infine, per i poeti, essa restava qualcosa di assai indeterminato e, comunque, mai teoreticamente definito. Di contro, l’anima, per Socrate, vien fatta coincidere con la nostra coscienza pensante e operante, con la nostra ragione e con la sede della nostra attività pensante ed eticamente operante.
Pietro della Vecchia, Socrate e due studenti (Lo specchio che rivela). Olio su tela, 1626.
Precisazioni e documenti relativi alla nuova concezione socratica di ψυχή – Tutta la dottrina socratica può riassumersi in queste proposizioni convergenti: «conoscere se stessi» e «aver cura di se stessi». E conoscere «se stessi» non vuol dire conoscere il proprio nome né il proprio corpo, ma esaminarsi interiormente e conoscere la propria anima – così come curare se stessi vuol dire non già curare il proprio corpo, bensì la propria anima. Insegnare agli uomini a conoscere e a curare se stessi è il compito supremo di cui Socrate ritenne di essere stato investito dal dio.
Su questo punto la testimonianza platonica è chiarissima, soprattutto nei dialoghi della giovinezza, che sono quelli più vicini a Socrate e quindi storicamente più degni di fede.
«Cittadini ateniesi, vi sono grato e vi voglio bene; però, ubbidirò più al dio che a voi; e finché abbia fiato e sia in grado di farlo, io non smetterò di filosofare, di esortarvi e di farvi capire, sempre, chiunque di voi incontri, dicendogli quel tipo di cose che sono solito dire, ossia questo: “Ottimo uomo, dal momento che sei ateniese, cittadino della città più grande e più famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze per guadagnare il più possibile e della fama e dell’onore e, invece, non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità e della tua anima, in modo che diventi il più possibile buona?”. E se qualcuno di voi dissentirà su questo e sosterrà di prendersene cura, io non lo lascerò andare immediatamente, né me ne andrò io, ma lo interrogherò, lo sottoporrò a esame e lo confuterò. E se mi risulta che egli non possegga virtù, se non a parole, io lo biasimerò, in quanto tiene in pochissimo conto le cose che hanno maggior valore e in maggior conto le cose che ne hanno poco. E farò queste cose con chiunque incontrerò, sia con chi è più giovane, sia con chi è più vecchio, sia con uno straniero, sia con un cittadino, ma specialmente con voi cittadini, in quanto mi siete più vicini per stirpe. Infatti, queste cose, come sapete bene, me le comanda il dio. E io non ritengo chi sia per voi, nella città, un bene maggiore di questo mio servizio al dio. Infatti, io vado intorno facendo nient’altro se non cercare di persuadere voi, e più giovani e più vecchi, che non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e con maggiore impegno che dell’anima, in modo che diventi buona il più possibile, sostenendo che la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini, e in privato e in pubblico» (29b-30b).
Alcibiade. Busto idealizzato, copia in marmo di età romana da originale greco di IV sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.
Ma a più riprese Platone ribadisce questo concetto. Nell’Alcibiade maggiore si legge: «Socrate – Che cos’è dunque l’uomo? / Alcibiade – Non so dire. / Socrate – Questo, però, puoi dirlo, che egli è ciò che si serve del corpo. / Alcibiade – Sì. / Socrate – E che altro è ciò che si serve del corpo, se non l’anima? /Alcibiade – Non è altro […]. / Socrate – L’anima, quindi, ci ordina di conoscere chi ci ammonisce: “Conosci te stesso”» (cfr. 128d-130e).
Ma anche Senofonte (Memor. III 10), a più riprese, concorda, in ultima analisi, con quanto ci dice Platone; egli afferma, infatti, che, per Socrate, l’anima è ciò che in noi più partecipa del divino e che è ciò che in noi ha il dominio. Ci narra addirittura che Socrate spiegava ai pittori e agli scultori che, per ritrarre adeguatamente l’uomo, essi non dovevano limitarsi a ritrarne il corpo, ma dovevano giungere a ritrarne l’anima. Ampie conferme si desumono altresì dai socratici minori.
Risulta, dunque, certo che, per Socrate, l’essenza dell’uomo va ricercata nella sua ψυχή. È questo il suo contributo più significativo, che indica il preciso posto che Socrate occupa nella storia spirituale dell’Occidente.
Il nuovo significato di ἀρετή e la rivoluzione della tavola dei valori– Abbiamo visto che i sofisti sostanzialmente non seppero raggiungere lo scopo che si erano prefissi e che le tecniche di educazione che essi posero in atto, messe in mano ai discepoli, immediatamente degenerarono, con gli esiti che sopra abbiamo ampiamente illustrato. E la ragione era, giova ripeterlo, che i sofisti non avevano saputo individuare quale fosse la vera natura dell’uomo e per questo avevano ignorato quale fosse il fine ultimo e più autentico e, di conseguenza, la vera ἀρετή dell’uomo. Socrate, invece, avendo compreso che l’uomo si distingue da ogni altra cosa per la sua anima, ha potuto anche determinare in che cosa consiste l’ἀρετή umana: essa non può essere se non ciò che permette all’anima di essere buona, ossia di essere quale per sua natura deve essere. Così, coltivare l’ἀρετή vorrà dire far essere l’anima ottima, vorrà dire realizzare pienamente l’io spirituale, vorrà dire raggiungere il fine proprio dell’uomo interiore e, con questo, anche la felicità.
Che cos’è la virtù? La risposta di Socrate è ben nota: la virtù (ciascuna e tutte le virtù) è «scienza» o «conoscenza», e il contrario della virtù, cioè il vizio (ciascuno e tutti i vizi), è privazione di scienza e di conoscenza, vale a dire «ignoranza». Tutte le nostre fonti concordano perfettamente su questo punto, e più avanti lo documenteremo in modo particolare. Del resto, questa affermazione è in perfetta coerenza con la premessa su cui essa si basa: se l’uomo è contraddistinto dalla sua anima e se l’anima è l’io cosciente, consapevole e intelligente, allora l’ἀρετή, ossia ciò che pienamente attua questa coscienza e intelligenza, non può se non essere appunto la conoscenza.
Gustave Doré, La parola di Socrate. Disegno, 1868.
Socrate rivoluziona così la tradizionale tavola dei valori cui tutta la grecità si era fino allora attenuta e che i sofisti stessi non avevano sostanzialmente intaccato. Infatti, i valori fondamentali della tradizione erano principalmente quelli legati al corpo: la vita, la salute, la vigoria fisica, la bellezza, oppure i beni esteriori o legati all’esteriorità dell’uomo, quali la ricchezza, la potenza, la fama e simili. Ora, la netta sovraordinazione gerarchica dell’anima rispetto al corpo e l’identificazione del vero uomo con l’anima e non più con il corpo, comportava il ribaltamento in secondo piano, se non l’annullamento, di quei valori fisici ed esteriori e il conseguente emergere in primo piano dei valori interiori dell’anima e, in particolare, del valore della scienza che tutti li assomma (cfr. Plat. Euthyd. 281d-e; Xen. Memor. IV 2).
I “paradossi” dell’etica socratica – La tesi socratica dell’identità di virtù e scienza implicava, in primo luogo, l’unificazione delle tradizionali virtù, come la sapienza, la giustizia, la saggezza, la temperanza, la fortezza in una sola virtù, appunto perché, nella misura in cui sono virtù, ciascuna e tutte si riducono essenzialmente a conoscenza. Inoltre, essa implicava la riduzione del vizio, che è il contrario della virtù, all’ignoranza, che è il contrario della conoscenza; e implicava, infine, la conclusione che chi fa il male (che è ignoranza) lo fa, appunto, solo per ignoranza e non già perché vuole il male, sapendo che è male (cfr. Xen. Memor. III 9).
Questi due principi socratici a) che la virtù è scienza e b) che nessuno pecca volontariamente, i quali in vario modo condizioneranno tutta quanta la speculazione etica del mondo greco, sono stati oggetto di innumerevoli discussioni e polemiche. A molti studiosi è sembrato che Socrate, fondando l’etica interamente sulla conoscenza e sulla ragione, pecchi di «intellettualismo» e misconosca quasi del tutto il ruolo che ha la volontà nell’azione morale e, in genere, il peso di tutte quante le componenti alogiche e arazionali, che entrano in gioco nell’agire umano. Altri hanno cercato, invece, di dimostrare che, a un esame approfondito, l’accusa di intellettualismo non regge e che, in realtà, i due principi socratici sono assai meno paradossali di quanto non sembrino di primo acchito.
A nostro modo di vedere, c’è del vero sia nelle affermazioni dei primi, sia in quelle dei secondi e, perciò, vogliamo ricavare le giuste istanze fatte valere da ambo le parti.
José Aparicio, Socrate insegna a un giovane. Olio su tela, 1811.
Ora, certamente l’affermazione che la virtù è scienza e il vizio è ignoranza, per l’uomo moderno – che nell’indagine sui moventi del comportamento umano ha conoscenze assai più profonde degli antichi e che intende «scienza» e «conoscenza» in modo del tutto nuovo – suona paradossale. Ma suona meno paradossale, se cerchiamo di spogliarci un poco della nostra mentalità e di vedere tale affermazione nelle precise dimensioni del pensiero socratico. L’opinione comune e gli stessi sofisti (che pure pretendevano essere maestri di virtù) vedevano nelle diverse virtù (giustizia, santità, prudenza, temperanza, saggezza) una pluralità, e non coglievano affatto il nesso che è comune a esse: quel nesso che le fa essere precisamente virtù e che giustifica, quindi, la loro comune denominazione con il termine virtù. E per virtù gli uomini comuni (e, in gran parte, gli stessi sofisti) intendevano quello che avevano inteso la tradizione e i poeti: dunque, qualcosa fondato più sul costume, le abitudini e le convinzioni della società greca, ma non fondato e giustificato su rigorose basi razionali. Ora, Socrate nei confronti della virtù e della vita morale dell’uomo fa esattamente quello che i Presocratici avevano fatto nei confronti della natura (e che i sofisti avevano incominciato a fare, ma non sempre con successo, nei confronti dell’uomo): tenta di sottoporre al dominio della ragione la vita umana, così come quelli avevano sottoposto il mondo esterno al dominio della ragione umana. Per lui la virtù non è e non può essere semplice adeguarsi ai costumi, alle abitudini e nemmeno alle convinzioni generalmente accolte: deve essere qualcosa di motivato razionalmente, di giustificato e fondato sul piano della conoscenza. E, in questo senso, egli dice senz’altro che virtù è conoscenza. Evidentemente, non una qualsivoglia conoscenza (non, per esempio, la conoscenza che è propria delle varie tecniche o arti), ma la più alta ed elevata conoscenza: la scienza di ciò che è l’uomo e di ciò che è bene ed utile per l’uomo (oggi diremmo: dei supremi valori etici). Che, poi, questa conoscenza dell’uomo e dei valori morali Socrate non l’abbia concretamente condotta fino in fondo, è cosa che non toglie affatto valore alla sua scoperta essenziale.
Socrate dice, in sostanza, che non è possibile essere virtuosi senza la conoscenza, perché non si può fare il bene senza conoscerlo: e fin qui tutto corre; ma egli ritiene, altresì, che non sia possibile conoscere il bene senza farlo: ed è questo il punto che non regge. La conoscenza del bene, per Socrate, è non solo condizione necessaria, ma altresì sufficiente per essere virtuoso. Ora, noi diciamo che è vero che la conoscenza del bene è necessaria, ma non possiamo ammettere che sia sufficiente. Nell’azione morale, ossia nell’esercizio della virtù, la volontà (del bene) ha un peso e una rilevanza almeno altrettanto importanti quanto la conoscenza del bene. Ora, questa illimitata fiducia nella ragione e nell’intelligenza e il rilievo quasi nullo dato alla volontà è esattamente ciò che ha meritato l’accusa di intellettualismo all’etica socratica. E, in effetti, è giusto parlare di intellettualismo, ma solo operando le opportune precisazioni. In realtà, Socrate, come la critica storicamente educata viene oggi a riconoscere, non ha ancora distinto le varie facoltà dello spirito umano e la loro complessità. Socrate, insomma, ha di fronte all’animo umano quella stessa visione unilaterale che ha Parmenide di fronte all’essere. E sarà Platone che, come compirà il famoso «parricidio di Parmenide», scoprendo l’imprescindibilità del non-essere, così scoprirà la complessa struttura dell’animo umano, e mostrerà come, accanto alla razionalità, ci siano in noi l’irascibilità e la concupiscenza e come l’azione morale consista in un delicato equilibrio di queste forze, che vede l’irascibilità (il volere) allearsi e cooperare con la ragione.
Autodominio, libertà interiore e autarchia – Le cose che abbiamo detto riceveranno ulteriore luce dalla particolare calibrazione di alcuni concetti da Socrate introdotti per la prima volta nella problematica etica.
Josef Abel, Socrate e i suoi discepoli. Disegno, 1801-1807.
In primo luogo, risulta particolarmente relativo il concetto di “autodominio”, espressamente detto «il bene più eccellente per gli uomini» (Xen. Memor. IV 5). La creazione di questa nozione con il relativo termine (ἐγκράτεια) risale certamente a Socrate stesso e questo lo possiamo affermare sulla base dello stesso procedimento metodologico che ci ha portato ad attribuire a lui la nuova concezione di ψυχή. Infatti, come è stato ben notato, il concetto e il termine compaiono contemporaneamente in Senofonte e in Platone, che li attribuiscono a Socrate medesimo, nonché in Isocrate, che già sappiamo aver assorbito molte idee socratiche. L’ἐγκράτεια è “dominio di sé” negli stati di piacere e dolore, nelle fatiche, nell’urgere degli impulsi e delle passioni. In una parola, essa è dominio sulla propria animalità. Procurarsi l’ἐγκράτεια nell’anima significa fare dell’anima stessa la signora del corpo, della ragione signora degli istinti, come risulta da tutti gli esempi che Senofonte fa e come in modo chiarissimo conferma Platone, specialmente nel Gorgia. Viceversa, la mancanza di dominio di sé rende padrone il corpo e i suoi istinti e, dunque, lascia l’uomo del tutto privo di virtù, facendolo simile agli animali più selvaggi.
Ma c’è di più. Socrate ha espressamente identificato la libertà con l’ἐγκράτεια. Ciò facendo, egli apriva una prospettiva nuovissima: infatti, prima di lui, la libertà aveva un significato quasi esclusivamente giuridico e politico; ora, essa assume il valore morale di dominio della razionalità sull’animalità.
In connessione con questi concetti di ἐγκράτεια e di ἐλευθερία, Socrate dovette svolgere anche il concetto di αὐτάρκεια, ossia di autonomia della virtù e dell’uomo virtuoso. Nel concetto di “autarchia” vi sono due note caratteristiche: a) l’autonomia rispetto ai bisogni e agli impulsi fisici tramite il controllo della ragione e b) l’essere sufficiente della sola ragione al raggiungimento della felicità. Chi si abbandona al soddisfacimento dei desideri e degli impulsi, è costretto a dipendere dalle cose, dagli uomini e dalla società, gli uni e l’altra in varia misura necessari per procurarsi l’oggetto che appaga i desideri: diventa bisognoso di tutto ciò che è difficilissimo procurare e diviene vittima di forze da lui non più controllabili, perdendo la propria libertà, la propria tranquillità e la propria felicità.
Il piacere, l’utile e la felicità– Nel Protagora, Platone fa dire a Socrate che il piacere e il bene coincidono, mentre negli altri dialoghi il maestro non solo non opera tale identificazione, ma esclude, proprio al contrario, che il piacere sia il bene. Ora, l’affermazione del Protagora – che alcuni interpreti hanno assurdamente preso per buona – in realtà, rientra nel gioco ironico-dialettico di questo dialogo ed ha, non già un valore autonomo, ma solo di presupposto comunemente accettato: ha il senso di un “dato, ma non concesso”. In altri termini, seguendo un metodo a lui peculiare (di cui diremo più avanti), Socrate, per portare gli uditori ad ammettere i propri paradossi etici, muove da quella convinzione che a tutti è comune e che nessuno, in realtà, contesta (e cioè, in questo caso, che il bene e il piacevole siano la stessa identica cosa), e, muovendo da detta premessa, sui cui di fatto tutti concordano, dimostra che, in ogni caso, non l’abbandono al piacere come tale può dare la felicità, bensì un avveduto calcolo del piacere, una sapiente misurazione del piacere che adeguatamente sappia discriminare e dosare. E, se così è, emerge come veramente sovrana e salvatrice l’arte del misurare il piacere che è o implica ragione e scienza. E, dunque, emerge, anche partendo dal comune presupposto edonistico, che la virtù (la suprema abilità umana) è scienza.
Jean-Léon Gérôme, Socrate incontra Alcibiade a casa di Aspasia. Olio su tela, 1861.
Analogo discorso va fatto anche per l’utile. Per la verità, chi legge gli scritti socratici di Senofonte trae l’impressione che Socrate identificasse il bene con l’utile. E anche Platone – sia pure su differente registro – attribuisce a Socrate l’identificazione del bene con il giovevole e, dunque, con l’utile. Si spiega, pertanto, come molti interpreti abbiano considerato utilitaristica l’etica di Socrate. Ma se questa fosse davvero tale, non si sfuggirebbe dalla conclusione che, in ultima analisi, il fondamento della vita morale per Socrate è l’egoismo. In realtà, non è affatto così; ancora una volta, è il concetto di ψυχή che tronca le innumerevoli discussioni su tale questione. Infatti, l’utile di cui Socrate parla è sempre (o prevalentemente) l’utile dell’anima, mentre l’utile del corpo gli interessa solo in funzione dell’utile dell’anima. Anzi, potremmo ulteriormente precisare che il parametro dell’utilità è dato non da altro che dalla ἀρετή dell’anima, ossia dalla scienza e dalla conoscenza.
Diverso è il discorso che concerne la felicità (εὐδαιμονία). Che Socrate tendesse al raggiungimento di questa e che il suo filosofare volesse arrivare, in ultima analisi, a insegnare agli uomini ad essere veramente felici è fuori discussione. Egli, dunque, è decisamente eudemonista: tutti i filosofi greci, d’altronde, furono eudemonisti. Ma dire che Socrate è eudemonista e che insegnava a raggiungere la felicità non significa nulla, finché non si precisi in che cosa egli additasse la felicità – e anche per stabilire questo occorre rifarsi alla ψυχή e alla sua ἀρετή. La felicità non è data né dai beni esteriori né da quelli del corpo, bensì da quelli dell’anima, ossia dal perfezionamento della stessa mediante la virtù, che è conoscenza e scienza. Perfezionare l’anima con la virtù significa – come si è visto – attuare la propria natura più autentica, essere pienamente se stessi, realizzare il pieno accordo di sé con sé – è esattamente questo che porta ad essere felici. La felicità è ormai interamente interiorizzata, è sciolta da ciò che viene dal di fuori e perfino da ciò che viene dal corpo; è posta nell’animo dell’uomo, e, dunque, consegnata al suo pieno dominio. La felicità dipende non dalle cose e dalla fortuna, ma dal λόγος umano e dall’interiore formazione che con il λόγος l’uomo può darsi (cfr. Plat. Gorg. 470e; Apol. 30d ss.).
Un ultimo punto va chiarito prima di chiudere questo argomento. Non solo la felicità non ha bisogno di nulla che venga dal di fuori dell’uomo, ma nemmeno dal di sopra. La virtù è autarchica e non ha bisogno di un premio nell’aldilà, avendo già in sé il proprio premio – ossia la felicità. Si capisce, quindi, come mai Socrate non abbia sentito il bisogno di risolvere la questione dell’immortalità dell’anima a livello teoretico. Egli dice al riguardo che il morire o è come un non andare nel nulla, o è una specie di migrazione dell’anima da questo luogo quaggiù ad un altro. A livello di ragione, le due ipotesi gli sembrano ambedue plausibili, anche se, a livello di fede, egli piega per la seconda. A livello di ragione, egli non poteva dimostrare l’immortalità dell’anima perché gli mancavano le categorie metafisiche occorrenti all’uopo. Ma quello che è importante è che egli proclamò, senza mezzi termini, la possibilità per l’uomo di essere felice, a prescindere dalle sue sorti dopo la morte, e la totale autonomia della vita mortale. All’uomo virtuoso non può capitare nulla di male, perché la virtù è la più radicale difesa da ogni male. Con questa convinzione, egli bevve serenamente la cicuta che gli diede la morte, e la bevve serenamente perché convinto che la morte uccide il corpo, ma non la virtù dell’uomo; distrugge la vita, non averla ben vissuto.
L’Accademia di Platone. Mosaico, I sec. a.C., dalla Casa di T. Siminio Stefano a Pompei. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
La politica– Socrate non ebbe simpatia per la politica militante, anzi sentì per essa una forte avversione. Nell’Apologia egli afferma addirittura che la partecipazione attiva alla vita politica gli era stata vietata dal suo «segno divino» (di cui diremo più avanti). Egli criticò la prassi democratica, che affidava all’estrazione a sorte funzioni e oneri che avrebbero dovuto essere, invece, distribuiti sulla base delle competenze e del valore degli individui. Ma non per questo egli simpatizzò per gli oligarchici. E, in effetti, fu perseguitato sia dai democratici sia dagli oligarchici e per l’identica ragione, ossia perché egli non esitò mai a criticare le malefatte degli uni e degli altri; anzi, per opporsi all’ingiustizia, giunse a mettere addirittura in pericolo la vita. Tuttavia, il suo insegnamento fu ben lungi dall’essere apolitico. L’orizzonte socratico restò quello della polis greca: al servizio di Atene egli concepì e presentò tutto il proprio magistero.
Non c’è dubbio che egli tendesse alla formazione di uomini che nel modo migliore potessero poi occuparsi della cosa pubblica: e non c’è dubbio nemmeno sul fatto che la maggior parte dei suoi amici lo frequentassero proprio a questo scopo. Del resto, sia Senofonte sia Platone concordano nel rilevare la natura politica (nel senso greco del termine, naturalmente) dell’insegnamento socratico. Si potrebbe dire che come il Socrate ironico affermò di sé che il dio volesse che restasse privo di sapere, ma che fosse capace di estrarlo “maieuticamente” dall’animo altrui, così avrebbe potuto affermare che il dio volesse che non fosse politico (militante), ma lo volesse capace di far politici gli altri. È chiaro, da quanto abbiamo fin qui detto, che il vero politico per Socrate non poteva che essere l’uomo perfetto moralmente, ossia che il politico doveva essere politico nella dimensione dell’anima e capace di curare le anime degli altri. Platone farà dire al maestro che il «buon politico» ha da essere colui che si prende cura dell’anima degli uomini e nel Gorgia (504d-521d) non esitò a proclamare Socrate l’unico «vero uomo politico» che la Grecia avesse mai avuto.
Tempio di Athena Parthenos (Partenone). Acropoli di Atene.
La rivoluzione della non-violenza – Sulle ragioni che meritarono a Socrate la condanna a morte si è molto discusso. È chiaro che, su basi strettamente giuridiche, il reato imputatogli sussisteva: Socrate non credeva negli dèi della città e, inoltre, induceva altri a fare altrettanto. Ma è chiaro che, dal punto di vista morale, il giudizio si capovolge e i veri colpevoli risultano essere gli accusatori e i giudici.
Resta, in ogni caso, il fatto che Socrate fosse un rivoluzionario, e che lo fu in tutti i sensi. Ma due sono i modi con cui le rivoluzioni si realizzano: con l’ausilio della forza e della violenza, oppure con la non-violenza. Ora, Socrate non solo attuò questo secondo tipo di rivoluzione, ma ne fu altresì il teorico in modo chiarissimo. L’arma della sua rivoluzione non violenta fu la persuasione: non solo nei confronti degli uomini, ma altresì nei riguardi dello Stato. Messo a morte ingiustamente, gli fu offerta la possibilità di fuggire: egli respinse questa possibilità in maniera categorica, perché la giudicò violenta contro le leggi (cfr. Plat. Crit. 51b).
Una sola più alta forma di rivoluzione non-violenta conoscerà l’umanità dopo Socrate, quella dell’amore: ma questa alla grecità rimase totalmente sconosciuta, cosicché quella socratica fu la più alta nel mondo pagano.
III. La teologia socratica e il suo significato
Apollo Musagete. Statua, marmo, II sec. d.C. dalla Villa di Cassio (Tivoli). Città del Vaticano, Museo Pio-Clementino.
La posizione di Socrate nei confronti del problema teologico – Il primo capo d’accusa mosso contro il filosofo nel processo – come abbiamo già detto – riguardava esattamente l’aberrante atteggiamento che lui aveva tenacemente mantenuto per tutta la vita nei confronti della credenza ufficiale negli dèi, e così suonava: «Socrate è reo di non credere negli dèi in cui crede la città e di introdurre nuovi culti» (Xen. Memor. I 1; Plat. Euthyphr. 2c). Evidentemente non si trattò di un’accusa di ateismo, perché non poteva essere ateo chi fosse stato reo di introdurre nuove divinità e, in quanto tale, fosse stato riconosciuto; piuttosto, diremmo con terminologia moderna che si trattò di un’accusa di eresia (nei confronti della religione di Stato). La posizione di Socrate nei confronti del divino, dunque, non solo aveva obiettivamente nulla in comune con quelle dei sofisti, le quali sfociavano (mediatamente o immediatamente) nell’agnosticismo o nell’ateismo, ma questo era riconosciuto addirittura da coloro che avevano trascinato il filosofo in tribunale e che fra lui e i sofisti, per altro verso, non facevano differenze.
Ma per quale motivo Socrate respingeva la religione di Stato? Perché gli ripugnava profondamente il pesante antropomorfismo, sia fisico sia morale, di cui era inficiata. Indirettamente, da alcune testimonianze su Antistene, sappiamo che questo filosofo – ispirandosi proprio al maestro – sostenne che «il dio non rassomiglia a nessuno e che, pertanto, nessuno può conoscerlo da una figura», e che «non si può vedere con gli occhi»: e questo significava esattamente contestare qualsiasi possibilità di raffigurarsi un dio in forme umane o in una qualunque altra forma fisica. E nell’Eutifrone platonico, al sacerdote che gli narra (a prova della propria sapienza nelle cose divine) le lotte, le contese e le furibonde ire di dèi contro altri dèi, Socrate espressamente afferma: «Ma è proprio questa la ragione per cui sono accusato: perché, quando uno mi narra cose simili intorno agli dèi, io non me la sento di accettarle» (6a). Ciò significa che Socrate (come già Senofonte) riteneva assurdo anche e soprattutto l’antropomorfismo morale e negava che agli dèi potessero venire attribuiti passioni, sentimenti e costumi umani.
Riesce Socrate, sulla base delle categorie della filosofia, a fondare teoreticamente una concezione di dio? I Fisici, come vedemmo, avevano identificato il divino con il principio cosmogonico e, in ogni caso, lo avevano interpretato in funzione delle proprie categorie cosmogoniche; ma Socrate, che aveva respinto in blocco la filosofia della φύσις, non poteva, evidentemente, avvalersi di alcuna categoria che non fosse desunta da tale filosofia. D’altro canto, non potendo disporre di ulteriori nozioni metafisiche, che solo dopo la «seconda navigazione» platonica saranno acquisite, era fatale che Socrate potesse parlare di dio (se non esclusivamente, almeno prevalentemente) a livello intuitivo. Nei confronti del problema di dio, in ultima analisi, Socrate ritrovò la stessa difficoltà incontrata a proposito della questione dell’anima: e come per definire quest’ultima egli, non potendo dire che cosa essa fosse ontologicamente, la giustificò in funzione delle sue operazioni, così si comportò anche nel parlare di dio e del divino.
Giovanni Lanfranco, Providentia. Incisione su rame, 1600-1625 c. Universitätsbibliothek Salzburg.
Dio come Intelligenza finalizzatrice e come Provvidenza– Meglio di tutti, sulla concezione socratica del dio, ci informa Senofonte, in alcuni passi dei Memorabili (I 4; IV 3).
Un primo passo che riferisce di un dialogo che Senofonte afferma di aver udito personalmente fra Socrate e Aristodemo, è una vera e propria dimostrazione dell’esistenza di Dio, imperniata sui seguenti punti: 1) ciò che non è semplice opera del caso, ma risulta costituito per raggiungere uno scopo e un fine, postula un’intelligenza, che l’ha prodotto a ragion veduta; 2) in particolare, se osserviamo l’uomo, notiamo che ciascuno e tutti i suoi organi sono finalizzati in modo tale da non poter essere spiegati se non come opera di un’intelligenza (che ha espressamente voluto quest’opera); 3) contro questo ragionamento non vale obiettare che quest’intelligenza non si vede, mentre si vedono gli artefici di quaggiù accanto alle loro opere: infatti, anche la nostra anima, ossia la nostra intelligenza, non si vede, eppure nessuno affermerebbe che per questo non facciamo nulla con la riflessione, ma tutto a caso; 4) inoltre, è possibile stabilire, sulla base dei privilegi che l’uomo ha rispetto a tutti gli altri esseri (struttura fisica più perfetta e soprattutto il possesso dell’anima, ossia dell’intelligenza), che l’artefice divino ha cura dell’uomo in modo del tutto particolare.
Due caratteristiche rivelano i tratti tipici del socratismo: in primo luogo, il nesso che viene istituito fra Dio e ψυχή, ossia fra Intelligenza divina e intelligenza umana; in secondo luogo, il forte antropocentrismo (tutte le prove a favore del finalismo sono desunte dalla struttura del corpo, mentre è assente ogni considerazione di tipo cosmologico; l’uomo è visto come la più cospicua opera di Dio e come l’essere di cui egli ha più cura).
Il δαιμόνιον di Socrate – Sempre nel capo di accusa principale mosso contro Socrate (in connessione, cioè, all’accusa di non credere negli dèi in cui crede la città e, anzi, a riprova della medesima) – come abbiamo già detto – si asseriva che il filosofo introdusse «nuovi δαιμόνια», che gli accusatori intendevano, senz’altro, come nuove «divinità».
Costoro si riferivano al fatto che Socrate, ripetutamente, aveva asserito di avvertire in sé, in determinate circostanze, un fenomeno divino e soprannaturale – che egli chiamava appunto δαιμόνιον. Platone costantemente ripete questo ogni qualvolta chiama in causa il δαιμόνιον socratico: si tratta di un “segno”, o di una “voce”, che il maestro diceva essere voce divina, cioè una voce che veniva a lui da Dio stesso (Apol. 31c-d). Anche Senofonte dice la stessa cosa e discorda da Platone solo in quanto ritiene che il δαιμόνιον dicesse a Socrate non soltanto ciò che non doveva fare, ma altresì positivamente, ciò che doveva fare. È chiaro che il δαιμόνιον fosse per Socrate un privilegio del tutto eccezionale elargitogli dalla divinità e, insomma, un’esperienza che, in qualche modo, trascendesse i limiti dell’umano.
Innanzitutto, è da rilevare che δαιμόνιον è un neutro e che, quindi, non indica un dèmone-persona, ossia un essere personale (una specie di angelo o di genio), bensì un fatto, evento o fenomeno divino: in effetti, mai – né in Platone né in Senofonte – il δαιμόνιον è detto dèmone, ma è detto «segno» o «voce divina».
Tale «segno divino» doveva comunque venire a Socrate tramite un dèmone; tuttavia, egli evitò questa parola e non è corretto tradurre senz’altro δαιμόνιον con «dèmone», perché, così facendo, si esplicita ciò che da Socrate fu volutamente lasciato nell’indeterminato: egli, infatti, preferì attenersi a ciò che sentiva in sé e qualificare come “divino” questo fenomeno, senza approfondire il modo con cui esso avveniva e per quale mediazione.
Ma c’è ancora un punto da chiarire ai fini di una corretta comprensione del δαιμόνιον e cioè l’ambito in cui si colloca la sua influenza. In primo luogo, è da rilevare che il δαιμόνιον non aveva nulla a che veder con l’ambito delle verità filosofiche: la «voce divina» non rivelava affatto a Socrate la «sapienza umana», né gli suggeriva alcuna delle proposizioni generali o particolari della sua etica. Per Socrate, i principi filosofici traevano per intero la propria validità dal λόγος e non da una divina rivelazione: gli atteggiamenti profetici di Pitagora, di Empedocle o anche di Parmenide erano quasi del tutto estranei al nostro filosofo.
Il δαιμόνιον agiva soltanto nell’ambito delle azioni e degli eventi particolari della vita di Socrate, come tutti i testi sul δαιμόνιον socratico a nostra disposizione attestano. Il segno divino, di volta in volta, impediva di compiere determinate azioni (di andarsene da un luogo, di attraversare un fiume, di accogliere nella propria cerchia determinate persone, ecc.) e il non fare quelle azioni risultava poi essere di grande vantaggio. Il più consistente dei divieti rivolti a Socrate fu senza dubbio quello – cui già accennammo – di non occuparsi di politica militante (cfr. Plat. Apol. 33c; Xen. Memor. I 1).
Il δαιμόνιον, con i suoi divieti, rendeva manifesto a Socrate esattamente ciò che gli dèi si erano riserbati per loro e che, talora, rivelavano mediante gli oracoli; ciò era dunque inteso da Socrate come una sorta di oracolo interiore, con tutte quelle implicazioni che abbiamo chiarito.
Socrate. Busto, copia romana in marmo, II sec. d.C. Toulouse, Musée Saint-Raymond.
IV. La dialettica socratica
La funzione protrettica del metodo dialogico – Anche per una corretta interpretazione del “metodo” socratico del filosofare è al nuovo concetto di ψυχή che occorre rifarsi: all’anima e alla cura dell’anima, infatti, tende in modo perfettamente consapevole la dialettica di Socrate con tutti i complessi mezzi di cui essa si avvale.
In primo luogo, è il riferimento alla nuova idea di ψυχή che spiega la drastica rottura con il metodo dei sofisti e il suo capovolgimento. Comune a tutti quanti i sofisti, senza eccezione, era il sistema di insegnamento delle loro dottrine mediante discorsi di parata, vere e proprie arringhe che potevano essere protratte a piacimento – le quali incantavano gli uditori con il fascino della fluente parola, che sembrava inesauribile. E in questi discorsi si alternava sovente la prova logica alla citazione della testimonianza di poeti e, anzi, spesso la citazione teneva il posto della prova logica; con effetto (capziosamente calcolato) di pronta e sicura presa sul pubblico.
Eppure, l’anima dell’uomo non si cura arringando masse di uditori, in cui l’individualità di chi ascolta è quasi del tutto trascurata e ignorata e non si cura con discorsi a senso unico del maestro o di chi tale si crede: la singola anima si cura soltanto con il dia-logo, ossia con il λόγος, che, procedendo per domanda e risposta, coinvolge fattivamente il maestro e il discepolo in un’esperienza spirituale unica di ricerca in comune della verità. Al “discorso lungo” di parata – che è monologo chiuso – si sostituisce così il “discorso breve”, come lo chiama Socrate, che è appunto il dialogo aperto, pronto via via a piegarsi alle esigenze più profonde di coloro che, insieme, ricercano e che mettono a confronto, per così dire, anima con anima.
È dunque evidente che la finalità del metodo dialogico socratico sono, fondamentalmente, di natura etica ed educativa, e secondariamente e mediatamente di natura logica e gnoseologica. La dialettica socratica mira all’esortazione della virtù, a convincere l’interlocutore che l’anima e la sua cura siano il massimo bene per l’individuo, a purificare l’anima saggiandola a fondo appunto con domande e risposte, per liberarla dagli errori e disporla alla verità (cfr. Plat. Lach. 187d ss.; Charm. 154d-e; Apol. 39c-d).
Franc Kavčič, Socrate e Diotima. Olio su tela, 1810.
Il non-sapere socratico – Nella misura in cui rivoluzionario è il fine della dialettica socratica, così, altrettanto rivoluzionario è il suo punto di partenza. Socrate muoveva costantemente dall’affermazione di non-sapere, ponendosi nei confronti dell’interlocutore nella posizione di chi aveva tutto da imparare anziché in quella di chi aveva da insegnare. Anzi, si può dire che fosse precisamente questa affermazione iniziale di non-sapere a rovesciare il “discorso di parata”, ossia il monologo sofistico, e ad aprire la possibilità al dialogo.
Su questo non-sapere si è molto equivocato, fino a vedervi addirittura il principio dello Scetticismo. In realtà, esso va inteso in una chiave del tutto differente, ossia come affermazione di rottura nei confronti del sapere e della speculazione dei Fisici e dei sofisti – e, in genere, della cultura tradizionale – e come apertura a quella nuova forma di sapere che Socrate stesso chiamava «sapienza umana» e che espressamente ammetteva di possedere. L’affermazione socratica del non-sapere nei confronti del sapere dei Fisici significava, come già s’è visto, la denuncia di voler porre in atto un’impresa che andasse oltre le forze e le capacità umane e che, nel vano tentativo di conoscere le segrete leggi del cosmo, trascurasse l’uomo, e così nella vacua ricerca dell’altro da sé dimenticava proprio l’uomo. Nei confronti dei sofisti significava, invece, la denuncia di una presunzione di sapere pressoché sconfinato. Gorgia affermava, con una baldanza che sfiorava l’impudenza, di essere in grado di rispondere a qualunque cosa gli si fosse domandato e che nessuno gli avesse, in realtà, saputo porre domande veramente nuove. Protagora, con altrettanta alterigia, sosteneva di saper rendere ogni giorno migliore colui che lo frequentasse, insegnandogli la virtù politica. Ippia si vantava di sapere e di saper fare di tutto; e così gli esempi si potrebbero moltiplicare. Nei confronti del tradizionale presunto sapere proprio dei politici, dei poeti e dei cultori delle varie arti, infine, l’affermazione socratica del non-sapere significava denunciare un’inconsistenza pressoché totale, derivante dall’essere rimasti alla superficie dei problemi o dal procedere per puro intuito e naturale disposizione, o dalla presunzione di sapere tutto per il solo fatto di dominare una singola arte (cfr. Plat. Apol. 21b-22e).
Ma c’è di più. Il significato dell’affermazione del non-sapere socratico si calibra esattamente solo se lo si mette in relazione, oltre che con il sapere degli uomini, anche con il sapere divino. Già vedemmo sopra come, per Socrate, il dio fosse onnisciente, estendendosi la sua conoscenza dall’universo all’uomo, senza restrizione di sorta, fino ai più reconditi pensieri dell’animo umano. Ebbene, è proprio paragonandolo alla statura di questo sapere divino che il sapere umano si mostra in tutta la sua fragilità e pochezza, e non solo quell’illusorio sapere di cui abbiamo discorso sopra, ma anche la stessa sapienza umana socratica risultano un non-sapere (cfr. Plat. Apol. 23a-b).
Infine, sono da rilevare la valenza e la funzione ironica che l’affermazione del non-sapere gioca all’interno del metodo socratico. Non solo quando era implicata l’affermazione di principio con le precise derivazioni sopra esaminate, ma anche quando c’erano di mezzo anche questioni particolari che Socrate conosceva bene, ma si fingeva “ignorante”. Questa “finzione”, nel caso particolare, provocava l’analogo effetto della proclamazione di principio generale: suscitava l’urto benefico sull’interlocutore da cui nasceva la scintilla del dialogo.
E siamo così giunti a quell’«ironia» che costituì l’elemento più caratteristico del metodo socratico, che ora dobbiamo illustrare.
François-André Vincent, Alcibiade a lezione da Socrate. Olio su tela, 1776.
L’ironia socratica – Ironia significa, in generale, dissimulazione e, nel nostro caso specifico, indica il gioco molteplice e vario di travestimenti e di finzioni che Socrate metteva in atto per costringere il suo interlocutore a dare conto di sé. Nelle sue dissimulazioni il filosofo fingeva addirittura di assumere in proprio idee e metodi della controparte (specie se questi era un uomo di cultura e, in particolare, se un sofista!), per ingrandirli fino al limite della caricatura, oppure per rovesciarli con la stessa logica che era loro propria ed inchiodarli nella contraddizione. Al di sotto delle varie maschere, che via via Socrate indossava, erano sempre visibili i tratti di quella principale, quella del non-sapere e dell’ignoranza (nel senso che abbiamo sopra chiarito). Si può anzi dire che, in fondo, le policrome maschere dell’ironia socratica non erano altro che delle varianti di quella principale e che, con un multiforme gioco di dissolvenze, mettevano sempre a capo questa. Ed era precisamente questa che mandava gli avversari su tutte le furie: la maschera dell’ignoranza che Socrate assumeva era sempre il mezzo più efficace per smascherare l’apparente sapere degli altri e per rivelarne la radicale ignoranza. Ma era altresì questa che, nel modo più efficace, aiutava coloro che, con piena disponibilità, si affidavano al magistero socratico e accettavano di render conto di sé.
Poiché l’ironia, nel senso chiarito, era consustanziale al metodo socratico e lo pervadeva interamente, si può senz’altro dire che la dialettica di Socrate, in quanto tale, può chiamarsi «ironia». E poiché senza dialogo, per il maestro, non c’è filosofia, si può anche asserire che l’ironia è la cifra stessa del filosofare socratico.
William Blake, Socrate, una mente visionaria. Disegno, 1820.
Confutazione (ἔλεγχος) e maieutica – Il primo momento dell’ironia costituiva, per così dire, la pars destruens – cioè il momento in cui Socrate portava colui con cui dialogava a riconoscere la propria presunzione di sapere, e quindi la propria ignoranza. Egli costringeva a definire l’oggetto intorno a cui verteva l’indagine; poi, scavava in vario modo nella definizione, esplicitava le manchevolezze, le contraddizioni a cui essa portava; invitava, quindi, a tentare una successiva definizione e, con il medesimo procedimento, la confutava; così, di seguito, fino al momento in cui l’interlocutore si riconosceva ignorante (cfr. Plat. Soph. 230b-e).
Fu proprio con questo momento confutatorio del proprio metodo che Socrate si procacciò le più vivaci avversioni e le più dure inimicizie, che, al limite, gli valsero la condanna a morte. Ed è chiaro come i mediocri dovessero reagire negativamente a questa confutazione: essi partivano da un’acritica certezza e sicurezza di sapere, venivano più volte messi in scacco fino all’esaurimento di tutte le loro risorse; per conseguenza, si produceva in loro una crisi che derivava, da un lato, dall’improvviso annebbiarsi di ciò che prima rimaneva inconcusso e, dall’altro, dalla mancanza di nuove certezze cui potersi aggrappare. E poiché la superbia impediva loro di ammettere di non sapere, accusavano Socrate di confondere loro le idee e di intorpidirli. Di qui, l’accusa contro Socrate di essere un seminatore di dubbi e, quindi, un corruttore (cfr. Plat. Men. 80a-b). Ma, se sui mediocri, che non ammettevano di riconoscersi ignoranti, era questo l’effetto che produceva la confutazione, ben altro esito essa produceva sui migliori. Essa purificava, in quanto distruggeva non già autentiche certezze, ma apparenti e false convinzioni e, quindi, conduceva non a una perdita, bensì a un guadagno. E ciò consisteva in questo: finché nell’anima ci fossero state false opinioni e false certezze sarebbe stato impossibile raggiungere la verità; eliminate, invece, queste, l’anima restava purificata e pronta a raggiungere, se ne fosse gravida, la verità.
E così passiamo al secondo momento del metodo ironico.
Abbiamo detto che, per Socrate, l’anima poteva raggiungere la verità solo «se ne fosse gravida»; egli, infatti – come abbiamo visto – si professava ignorante e, quindi, negava recisamente di essere in grado di comunicare agli altri un sapere o, per lo meno, un sapere costituito da determinati contenuti. Ma come la donna che è gravida nel corpo ha bisogno dell’ostetrica per partorire, così il discepolo, che aveva l’anima gravida della verità, aveva bisogno di una sorta di spirituale arte ostetrica, che aiutasse questa verità a venire alla luce, e questa era appunto la «maieutica» socratica, che Platone ha descritto nel Teeteto in pagine esemplari (148e-151d).
Arte ostetrica rivolta alla ψυχή, dunque: ecco come Socrate stesso definiva la propria arte ironico-maieutica; e meglio non si potrebbe dire, né meglio si potrebbe rappresentare il ruolo svolto dalla dialettica socratica.
Reyer J. van Blommendae, Santippe versa l’acqua in testa a Socrate. Olio su tela, 1655.
Socrate fondatore della logica? – È stato per lungo tempo un luogo comune l’affermazione che Socrate fosse stato il creatore o lo scopritore del concetto, e che, di conseguenza, fosse stato il fondatore della logica occidentale. Già gli elementi che siamo via via venuti rilevando intorno al metodo ironico socratico sarebbero di per sé sufficienti a togliere ogni plausibilità e fondatezza storica a questa affermazione.
Nel corso del XX secolo è stato messo bene in luce come Aristotele vada sempre preso con estrema cautela come fonte storica, perché egli, più che riferire il pensiero degli autori di cui parla, lo interpretava e lo sistemava in funzione delle proprie categorie. In particolare, la tesi secondo cui Socrate, scoperto l’universale, la definizione e il procedimento induttivo (Metaph. I 6; XIII 4), non potesse essere in alcun modo vera, per il semplice motivo che tali scoperte postulavano tutta una serie di categorie logico-metafisiche (universale-particolare, essenza-concetto, deduzione-induzione) che non solo non erano a disposizione del maestro, ma nemmeno del primo Platone.
Con la domanda «Che cos’è?», con cui Socrate martellava gli interlocutori – come oggi, a livello di studi specializzati, si va riconoscendo –, voleva mettere in moto il processo ironico-maieutico e non voleva affatto giungere a definizioni logiche in modo sistematico. Socrate aprì la via che doveva portare alla scoperta del concetto e della definizione e, prima ancora, alla scoperta dell’essenza (l’εἶδος platonico) ed esercitò anche un notevole impulso in questa direzione, ma non stabilì quale fosse la struttura del concetto e della definizione, mancandogli tutti gli strumenti necessari a questo scopo, che, come già abbiamo detto, risultano scoperte posteriori.
In sintesi, possiamo dire quanto segue:
Socrate ricercava il «che cos’è» delle cose e abituava a fare altrettanto. E ciò non significa affatto che egli avesse scoperto la natura ontologica dell’essenza o – come diceva Aristotele – la natura logica dell’universale e della definizione (di un concetto).
Socrate insegnava che la dialettica procedeva «distinguendo per generi», o «classificando per generi»; anche può ben essere vero (purché, ovviamente, si intenda il termine «genere» in senso non tardo-platonico o aristotelico), giacché il classificare per generi rientrava nel procedimento che mira ad individuare «che cos’è» una cosa.
Socrate, quando voleva risolvere una questione, procedeva discutendo sulla base di quei principi che erano da tutti concordemente accettati (anche se lui stesso eventualmente non li condividesse) e da essi muoveva per trarre le sue conclusioni. Ciò è perfettamente confermato dai dialoghi platonici. L’esempio più eloquente è il Protagora, in cui Socrate, per poter dimostrare che la virtù è scienza – come abbiamo già detto – partiva dal principio da tutti ammesso che il bene e il piacere coincidessero (cosa che lui, personalmente, non ammetteva), traendo da esso una serie di conclusioni (sulle quali aveva cura di garantirsi l’assenso degli uditori) per poter ricavare la propria tesi.
Questo modo di proceder di Socrate si spiega perfettamente soltanto tenendo presente la funzione protrettica della sua dialettica. E lo stesso vale anche per tutti quegli artifici, talora visibilmente capziosi, che ritroviamo specialmente nei primi dialoghi platonici – i quali ricevono la loro giusta interpretazione solo in questa prospettiva. Socrate fu un formidabile ingegno logico, ma non elaborò una logica a livello teoretico; nella sua dialettica si trovano i germi che avrebbero poi portato a future importanti scoperte logiche, ma non consapevolmente formulate.
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Note
[1] Di Socrate conosciamo con certezza la data di morte, che avvenne nel 399 a.C., in seguito a una condanna «per empietà» (egli fu accusato formalmente di non credere negli dèi della città e di corrompere i giovani con le sue dottrine; ma dietro tale accusa si nascondevano risentimenti di vario genere e manovre politiche, come Platone ben dice nell’Apologia di Socrate e nel prologo dell’Eutifrone). Poiché lo stesso Platone ci dice che, al momento della morte, Socrate era sui settant’anni, se ne desume che egli fosse nato nel 470/469 a.C. Suo padre ebbe nome Sofronisco e pare che fosse stato scultore, la madre aveva nome Fenarete ed era stata una levatrice. Socrate si sposò con Santippe (la cui fama di donna insopportabile fu, almeno in gran parte, una posteriore invenzione: la prima notizia sul suo carattere insopportabile proviene da Antistene, che la definisce come la donna «più fastidiosa di quelle che sono, furono e saranno» [Xen., Symp. II 10]; ma si sa quanto i Cinici fossero avversi all’istituzione del matrimonio, come del resto avremo modo di vedere). Al momento della morte, Socrate aveva ancora due figli in giovane età e un figlioletto infante (cfr. Plat. Phaed. 60a) e, dunque, egli doveva aver contratto il matrimonio con Santippe già in età avanzata. Una tradizione posteriore parla anche di un’altra donna di Socrate, di nome Mirto (Diog. Laert. II 26). Se la notizia fosse esatta, si potrebbe pensare che Mirto fosse stata la prima moglie e Santippe la seconda. Socrate non si mosse mai da Atene, se non perché chiamato a partecipare a imprese militari (combatté a Potidea, ad Anfipoli e a Delio). Non volle prender parte alla vita politica, giudicando negativamente i metodi con cui veniva amministrata la cosa pubblica. Ebbe un fisico fortissimo, capace di resistere alle più dure fatiche e di sopportare scalzo e con leggero mantello i rigori del freddo più intenso. Dovette avere momenti di concentrazione assai più vicini a rapimenti estatici, come ci attesta Platone, il quale nel Simposio parla di uno di questi fatti protrattosi un giorno e una notte durante la campagna di Potidea (cfr. Symp. 220c). Di aspetto era brutto e aveva un viso sgraziato da sileno con occhi all’infuori, ma possedeva un fascino assolutamente eccezionale, come un’irresistibile forza che poteva essere e di attrazione e di repulsione. Circa il «démone», o «voce divina», che egli diceva di sentire dentro di sé, diremo nel corso dell’esposizione: già fin d’ora, però, è possibile sottolineare, in base agli elementi che abbiamo addotti, il carattere fortemente religioso dell’uomo Socrate. Nella sua vita sembra ormai sempre più chiaro che vadano distinti due momenti (sia pure in modo molto sfumato): un primo, in cui, partecipando alla cultura filosofica dell’Atene di quei tempi, si occupò dei Fisici. Come già sappiamo, e come vedremo anche più avanti, ci è attestato che Socrate era stato discepolo di Archelao (scolaro di Anassagora). Fino a che punto egli abbia seguito le dottrine di questi Fisici non è possibile dire: del resto, le loro dottrine, allora, attraversavano il momento della crisi finale. E una crisi dovette avere anche Socrate, che, beneficiando della nuova tematica sofistica e, a un tempo, polemizzando con le tesi sofistiche, maturò lentamente quel pensiero che conosciamo da Platone e da Senofonte. Se così è stato, non è estraneo che Aristofane ci presenti un Socrate diversissimo da quello platonico e senofonteo: nel 423 a.C. (anno in cui vennero rappresentate le Nuvole di Aristofane) Socrate aveva quarant’anni; invece, il filosofo che Platone e Senofonte rappresentano è il Socrate della vecchiaia, fra i sessanta e i settant’anni (Platone aveva oltre quarant’anni meno di Socrate). Del resto, i due presunti momenti della vita di Socrate hanno radici, oltre che nei fatti che abbiamo indicato, nello stesso momento storico in cui egli visse. Scrive giustamente A.E. Taylor (Socrates, London 1933; traduzione italiana, Firenze 1952, p. 24): «Non possiamo neanche cominciare a comprendere storicamente Socrate fino a che non abbiamo chiarito a noi stessi che la sua giovinezza e la prima maturità trascorsero in una società separata da quella in cui Platone e Senofonte crebbero, dallo stesso abisso che divide l’Europa pre-bellica da quella post-bellica».
di D. Mᴜsᴛɪ, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 480 sgg.
L’esposizione che Senofonte fa degli episodi militari, che portano al rientro dei democratici, è ricca di dettagli per tutte le fasi del racconto; e questo, strutturalmente, dà alla narrazione senofontea un carattere diverso dai testi di Aristotele e Diodoro[1]. Questi ultimi, infatti, danno una particolare espansione alla prima fase del rientro. Il momento di File, come del resto anche quello del Pireo, ha estensione e ruolo particolari. Proprio il rilievo ideologico del rientro, le condizioni in cui se ne determina la possibilità, l’accorrere di varia gente che va ad ingrossare le file democratiche, sono l’elemento costitutivo del racconto di Aristotele e di Diodoro; più rapida invece l’esposizione dei fatti militari, che seguono agli scontri di File e del Pireo. Si può dire insomma che, nella parte finale, il racconto di Aristotele e quello di Diodoro siano molto contratti. In Senofonte più della metà del racconto riguarda il seguito dello scontro del Pireo, con particolari che si riferiscono soprattutto alla parte ateniese oligarchica, e alla parte spartana; il che può dare l’idea della posizione che in questo momento occupa l’autore. Dopo lo scontro del Pireo si raccolgono i morti, e un lungo discorso dell’araldo dei mýstai di Eleusi, Cleocrito, fa presente agli uomini dell’altra parte – anch’essi impegnati nell’opera pietosa – quanto sia folle il combattersi, quanto male abbiano fatto i Trenta che, per i loro vantaggi, in otto mesi hanno ucciso più Ateniesi di quanto i Peloponnesiaci abbiano fatto in dieci anni[2]. Questa indicazione è importante, perché permette di collocare cronologicamente gli eventi: gli otto mesi, secondo Beloch[3], vanno considerati dal momento della capitolazione e pace, avvenute nell’aprile del 404; e perciò aiuterebbero a collocare tutti questi fatti nel novembre-dicembre del 404. A rigore, potremmo scalare un paio di mesi ancora, perché la vera e propria installazione del regime dei Trenta tarda un paio di mesi ed è soltanto verso giugno: quindi noi dovremmo datare la battaglia del Pireo verso febbraio. Questo però si accorda male con il fatto che la prima spedizione dei Tiranni contro File fu scoraggiata da una nevicata imprevista; ora l’episodio di File, stando alla dinamica degli eventi, si colloca circa tre settimane prima della battaglia del Pireo, in cui cade Crizia; potrebbe perciò essere conveniente sistemare la battaglia del Pireo verso novembre-dicembre del 404, più che a febbraio del 403, quando la neve doveva essere qualcosa di prevedibile. Dobbiamo allora forse considerare gli otto mesi dal momento in cui non c’era ancora formalmente il regime dei Trenta Tiranni, ma, con la capitolazione di Atene, se ne erano create le premesse.
Atene. Tetradramma, Ar. 17,27 g. 454-404 a.C. ca. Recto: Testa paludata di Atena verso destra, con orecchino, collana ed elmo attico crestato decorato con foglie di olivo.
Lo scontro del Pireo rappresenta una svolta, perché ora i Trenta vengono indotti a rimettere il potere a un nuovo collegio di magistrati, i Dieci, che devono esperire le vie della pace; cosa che il collegio non fa, secondo Diodoro; segue un collegio di Dieci, che saranno fra i veri autori della riconciliazione[4].
Nel racconto senofonteo c’è un dato importante per la collocazione dell’autore. Senofonte afferma che il giorno dopo lo scontro del Pireo (intorno al novembre-dicembre, secondo Beloch, del 404), i Trenta residui, ormai privi delle loro guide, Crizia e Carmide, erano riuniti in sinedrio, soli e abbandonati, perché i Tremila, che avrebbero dovuto essere il loro naturale supporto, si riunivano in luoghi diversi, per discutere la situazione. «Quanti avevano commesso qualche violenza, e per questo avevano ragione di temere, dicevano con forza che non bisognava cedere a quelli del Pireo; ma quanti erano convinti di non aver commesso alcun torto, consideravano per sé, e agli altri facevano presente, che non c’era nessun bisogno di tutti questi mali, e dicevano ancora che non bisognava obbedire ai Trenta, né permettere che la città andasse in rovina. Da ultimo, decisero di metter fine al loro governo, e di eleggerne altri; e ne elessero dieci, uno per tribù» (Elleniche II 4, 23). Se veramente Senofonte avesse avuto qualcosa di grave sulla coscienza, egli non avrebbe in nessun modo parlato in questi termini; la cosa che più doveva passare sotto silenzio è che, intorno al dicembre del 404, ci fosse fra i Tremila qualcuno che aveva delle colpe, e qualcuno che non ne aveva. Egli avrebbe potuto semplicemente dire: «I Tremila decisero di metter fine al regime dei Trenta»; ma evidentemente egli ritiene di essere tra coloro che non avevano nulla di particolarmente grave da rimproverarsi.
Filosofo. Busto, marmo pario, II-III sec. d.C. Museo Archeologico di Delfi.
I Trenta, dopo la sconfitta del Pireo, si ritirarono ad Eleusi; i Dieci sono molto preoccupati, e Senofonte descrive la diuturna guardia esercitata dai cavalieri per il timore di attacchi da parte di quelli del Pireo. Anche quelli del Pireo, intanto, si vanno organizzando e vanno promettendo l’isotéleia agli stranieri, che continuino a combattere dalla parte dei democratici. L’isotéleia è la condizione di colui che si trova a partecipare di télē (obblighi fiscali in primo luogo) dei cittadini; si tratta di una categoria privilegiata di meteci. Esiste il problema se l’isotelia equivalga semplicemente a immunità dal pagamento del metoíkion, cioè della tassa, probabilmente mite, di dodici dracme, versata dai meteci, o se invece significhi un più sostanziale adeguamento, senza che ci sia identificazione totale, alla condizione di cittadini.
Segue l’intervento spartano, condotto da Lisandro, che protegge gli oligarchici, e dal re Pausania II, che, per ragioni personali, oltre che per intima convinzione, contrasta i disegni di Lisandro, e in un primo momento deve attaccare, e sconfigge, quelli del Pireo, insieme con gli alleati peloponnesiaci (esclusi Beoti e Corinzi). Poi Pausania invita segretamente i democratici del Pireo a mandargli ambascerie di pace, e fa opera di convincimento anche con “quelli della città”; ambascerie delle diverse parti ateniesi giungono a Sparta. La pace è fatta, con un’amnistia (è a questo punto che Aristotele, almeno come Diodoro, colloca l’adozione del principio del mḕ mnēsikakeîn, il «non recriminare»), che esclude solo i Trenta, gli Undici (di giustizia) e i Dieci del Pireo; gli oligarchi che non lo vogliano possono ritirarsi ad Eleusi[5]. Archino riduce il numero dei giorni della decisione per trattenere in città gli incerti: misura abile, che si pone apparentemente contro i candidati al cambiamento di domicilio, cioè contro gli oligarchi, ma ha invece l’effetto reale di trattenerli nella cittadinanza. È chiaro che il risultato è quello che si addice a un rappresentante del filone moderato della rinata democrazia. Non a caso Aristotele lo colloca fra i rappresentanti della pátrios politeía e gli attribuisce tre misure, tutte dello stesso tenore: 1) l’opposizione al decreto di Trasibulo che finiva col premiare, fra i combattenti per la restaurazione democratica, anche gli schiavi con la concessione della cittadinanza; 2) la fermezza nel volere la condanna a morte di un cittadino che aveva osato «recriminare», cioè contravvenire al principio dell’amnēstía, del mḕ mnēsikakeîn, nei riguardi di coloro che appartenessero ai collegi governanti nel periodo dei Trenta; 3) l’abile riduzione del tempo concesso per l’opzione della residenza ad Eleusi, come già si è detto. Agli occhi di Aristotele, egli è un campione dell’homónoia, l’ideale moderato della concordia, che ormai si afferma ad Atene e nel mondo greco[6]. Per Senofonte (Elleniche II 4, 43) un grave episodio turba e chiude la vita effimera di Eleusi nel 401: insospettiti per notizie di intenzioni aggressive, gli Ateniesi con Trasibulo attaccano Eleusi; in un colloquio vengono uccisi a tradimento i generali oligarchici; solo ora (401) ci sono, per Senofonte, la pace e l’amnistia.
[1] Senofonte, Elleniche II 4, 1-43; Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 34-40; Diodoro, XIV 32-33.
[2] Senofonte, Elleniche II 4, 20 sgg., in part. 21 sugli “otto mesi”.
[3]GG2 III 2, pp. 209 sgg., e in generale 204-211.
[4] Sul secondo collegio di Dieci succeduto a quello dei Trenta, J.K. Beloch, GG2 III 1, p. 12 n. 1, in base ad Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 38, 3; Androzione, FGrHist 324 F 10.
[15] In un primo tempo Crizia[1] condivideva le idee di Teramene e gli era amico; ma quando, più tardi, il primo si mostrò sempre più incline ad uccidere molte persone, poiché non dimenticava l’esilio subito durante la democrazia, Teramene gli si oppose, in quanto riteneva irragionevole l’uccisione di un uomo per la sola colpa di essere stato onorato dal popolo (dēmos), senza che avesse commesso alcuna ingiustizia nei confronti dei gentiluomini (kaloí kaì agathoí): «Poiché sia io – diceva – che tu abbiamo detto e fatto molto per riuscire graditi alla città». […] [23] I Trenta, a questo punto, ritenendolo un ostacolo alle loro azioni, incominciarono a tramare alle sue spalle; si incontravano in privato con i buleuti e lo accusavano di voler sovvertire il regime (politeía). Diedero istruzioni a un gruppo di giovani, che sembravano loro particolarmente audaci, di trovarsi sul posto con un pugnale sotto l’ascella, e convocarono il Consiglio (boulḗ)[2]. [24] Quando anche Teramene fu presente, Crizia si alzò e tenne il seguente discorso:
Assemblea degli dèi. Bassorilievo, marmo, 530-525 a.C. ca., dal Tesoro dei Sifni, Santuario di Apollo Delfico. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.
«Membri del Consiglio, se qualcuno di voi è convinto che le nostre esecuzioni hanno superato il dovuto, consideri che questo è normale ovunque avvengano mutamenti costituzionali; è inevitabile che qui gli avversari dell’oligarchia siano molto più che numerosi perché la nostra città è la più popolosa della Grecia e poiché il popolo è vissuto più a lungo in libertà (eleuthería). [25] Noi, dunque, ben sapendo come la democrazia sia per gente come noi e come voi un regime odioso (chalepḕn politeía), e convinti anche che il popolo mai sarà amichevole nei confronti degli Spartani, nostri salvatori, mentre i migliori (béltistoi) continueranno ad essere leali; per questi motivi, per l’intesa con gli Spartani, abbiamo imposto l’attuale costituzione. [26] E per quanto è in nostro potere, ci sbarazzeremo di chiunque scopriremo che si opponga all’oligarchia; ma soprattutto ci sembra legittimo, se è uno di noi a violare l’ordinamento costituito, fargli pagare il fio. [27] Ebbene, constatiamo che il qui presente Teramene stia cercando di rovinare con tutti i mezzi possibili noi e voi. Vi renderete conto che questa è la verità, se ci fate attenzione, che nessuno più di questo Teramene critica (pségōn) la situazione presente o fa opposizione (enantioúmenos) tutte le volte che vogliamo liberarci di qualche demagogo. Se fin dall’inizio avesse manifestato questo atteggiamento, sarebbe stato un nemico, tuttavia non potrebbe essere legittimamente considerato disonesto. [28] Invece, dopo essere stato il promotore dell’intesa e dell’amicizia con gli Spartani, nonché dell’abbattimento della democrazia, e avervi in modo particolare indotto a punire quelli che inizialmente erano portati in giudizio davanti a voi, ora, poiché sia voi che noi siamo divenuti nemici palesi del popolo, non approva più ciò che accade, per mettersi di nuovo al sicuro, facendo ricadere solo su di noi la responsabilità di quanto accaduto. [29] Sicché conviene che sia punito non solo come nemico, ma anche come traditore vostro e nostro. Il tradimento è infatti ben più pericoloso dell’ostilità, perché è più difficile guardarsi da ciò che è nascosto che da ciò che è evidente, e ben più odioso, poiché con i nemici gli uomini concludono trattati e tornano ad essere amici, mentre con un traditore, se lo scoprono, nessuno stringerebbe mai accordi, né gli concederebbe fiducia per il futuro. [30] E perché sappiate che costui non fa nulla di nuovo, ma che per natura è un traditore (phýsei prodótēs estín), vi ricorderò le sue azioni passate[3]. Costui, inizialmente stimato dal popolo grazie al padre Agnone[4], divenne il più determinato a trasformare la democrazia nel regime dei Quattrocento e ne divenne uno dei primi esponenti (eprōteuen en ekeínois). Quando però si rese conto che si stava realizzando una certa opposizione all’oligarchia, fu il primo a diventare capo del popolo (ēgemōn tōi dēmōi) contro di essa. Di qui gli deriva il soprannome di “Coturno”[5]: [31] e difatti il coturno sembra adattarsi † a entrambi i piedi. Ma, Teramene, l’uomo degno di vivere (áxion zēn) non deve mostrarsi capace di guidare i compagni soltanto nelle situazioni critiche, per ritirarsi subito indietro se sorge qualche difficoltà, ma, come su una nave, deve faticare finché non si alza il vento favorevole; altrimenti, come potrebbero arrivare a destinazione, invertendo la rotta ad ogni ostacolo? [32] I rivolgimenti costituzionali (metabolaì politeiōn) comportano sempre delle vittime, ma tu, per i tuoi voltafaccia[6], sei corresponsabile dell’uccisione di moltissimi uomini tra gli oligarchici per mano del popolo, come pure di un numero altissimo tra quelli della democrazia da parte dei migliori. Egli è colui che, incaricato dagli strateghi di recuperare i naufraghi nella battaglia navale nelle acque di Lesbo[7], non solo non li recuperò, ma accusò gli strateghi, mandandoli alla morte per salvarsi la vita. [33] Colui che si mostra in ogni circostanza preoccupato del proprio vantaggio personale, senza preoccuparsi minimamente della propria dignità e degli amici, perché dovremmo risparmiarlo? Come non prendere delle precauzioni, conoscendo i suoi voltafaccia, per impedirgli di comportarsi allo stesso modo con noi? Pertanto noi lo sottoponiamo al vostro giudizio, perché cospira contro di noi e tradisce sia noi che voi. Quanto al fatto che agiamo fondatamente, ponete attenzione anche a quanto segue. [34] Quella degli Spartani risulta essere la costituzione più bella (kallístē politeía)[8]: là, se un eforo, anziché rispettare le decisioni della maggioranza, si desse a criticare il governo e facesse ostruzionismo, non presumete che gli efori stessi e la città intera lo riterrebbero degno della massima pena? Voi dunque, se siete saggi, avrete dei riguardi non per costui, ma per voi stessi, perché la sua salvezza potrebbe incoraggiare i vostri oppositori, mentre da morto toglierebbe loro ogni speranza, dentro e fuori la città».
[35] Quello, detto questo, si sedette; si alzò allora Teramene[9], che prese la parola: «Per prima cosa, concittadini, mi riferirò a quanto egli ha detto su di me in ultima istanza. Dice infatti che, accusandoli, io abbia mandato a morte gli strateghi. Ma di certo non ho incominciato io a sollevare la questione contro di loro, bensì essi dichiararono che io non raccolsi le vittime dello scontro presso Lesbo, malgrado gli ordini che mi avevano impartito. E io, dicendo in mia difesa che a causa della tempesta era impossibile navigare né, tantomeno, recuperare i naufraghi, diedi alla città la sensazione di dire cose plausibili, mentre essi sembravano accusarsi da sé. Sostenendo a parole che era possibile salvare gli uomini, dopo averli abbandonati alla morte, si allontanarono con le navi. [36] Non mi meraviglia che Crizia sia male informato: quando infatti accaddero queste cose, egli non era presente, ma in Tessaglia insieme a Prometeo instaurò la democrazia e armò i penesti[10] contro i loro padroni; [37] speriamo che nulla di ciò che ha fatto laggiù capiti qui! Su di un punto, tuttavia, sono d’accordo con lui, ed è che, se qualcuno vuole porre fine al vostro potere e rafforzare coloro che ordiscono contro di voi, è giusto che costui riceva la massima pena; chi sia colui che sta comportandosi in questo modo, penso che possiate giudicarlo nel modo migliore se riflettete sull’operato passato e presente di ciascuno di noi. [38] Finché si trattò di insediarvi nella boulḗ, di designare le magistrature e di citare in giudizio quanti erano, secondo l’opinione comune, dei sicofanti[11], tutti concordavamo; ma quando costoro incominciarono ad arrestare persone stimate e rispettabili (kaloí kaì agathoí), anch’io cominciai a dissociarmi dal loro modo di pensare. [39] Infatti, con la morte di Leonte di Salamina[12], uomo di fama e capacità reali e riconosciute e che non aveva mai compiuto neppure un’azione ingiusta, sapevo che le persone simili a lui avevano paura e che, impaurite, avrebbero avversato questo regime. Riconobbi altresì che, dopo l’arresto di Nicerato, figlio di Nicia[13], persona facoltosa e che, come suo padre, non aveva mai fatto alcunché per ingraziarsi il popolo, gli uomini come lui sarebbero stati mal disposti nei nostri confronti. [40] Così anche dopo aver condannato a morte Antifonte, che in guerra aveva allestito due ottime triremi, sapevo che anche quanti erano stati devoti alla città, ci avrebbero tutti guardati con sospetto. Mi opposi anche quando dissero che ognuno di noi doveva arrestare un meteco: era infatti evidente che, giustiziati costoro, anche tutti i meteci sarebbero diventati ostili al regime. [41] E mi opposi anche quando disarmarono il popolo, non ritenendo che si dovesse indebolire la città; vedevo che neppure gli Spartani avevano voluto salvarci per questo, perché, ridotti in pochi, non potessimo essere loro di nessuna utilità: infatti, se fosse stato questo il loro progetto, sarebbero stati in grado di non lasciare in vita nessuno, prostrandoci con la fame ancora per qualche tempo. [42] E neppure ero d’accordo di stipendiare le guardie, dal momento che era possibile avvalersi del servizio degli stessi cittadini, finché avevamo facilmente il controllo di quanti governavamo. Poiché vedevo in città molti insofferenti a questo governo, molti costretti all’esilio, ancora una volta, non mi sembrava opportuno esiliare Trasibulo, Anito[14], Alcibiade; sapevo bene, infatti, che in questo modo l’opposizione sarebbe stata forte[15], se si davano alla massa (tò plḗthos) capi efficienti e a chi aspirava al potere un gran numero di sostenitori. [43] Ma colui che esprimeva queste opinioni apertamente dovrebbe essere considerato a buon diritto persona responsabile o traditore? No, Crizia, non è impedendo ai nemici di diventare più numerosi né mostrando come procurarsi più sostenitori a rendere forti gli oppositori, ma è proprio confiscando ingiustamente i beni e uccidendo chi non ha commesso alcuna colpa, che si aumenta il numero degli avversari e che si tradisce, oltre agli amici, se stessi per ignobile avidità. [44] Se non c’è altro modo per dimostrarvi che dico la verità, riflettete su questo: credete che Trasibulo, Anito e tutti gli altri esuli preferirebbero che si realizzasse qui ciò di cui io sto parlando o ciò che stanno compiendo costoro? Secondo me, infatti, ritengono che qui ormai abbiano sostenitori ovunque; ma se ci fosse favorevole la parte più considerevole della città, troverebbero difficile anche solo mettere il piede sul nostro territorio. [45] Quanto all’affermazione secondo cui io sarei sempre pronto a cambiar opinione, considerate anche quanto segue. Com’è noto, il popolo stesso votò la costituzione dei Quattrocento[16], consapevole che gli Spartani si sarebbero fidati di qualsiasi forma di governo, esclusa la democrazia. [46] Poiché quelli non recedevano in nulla, e fu chiaro che Aristotele, Melanzio e Aristarco con gli altri strateghi costruivano un forte sul promontorio[17] per fare entrare il nemico e ridurre così la città in loro potere e dei loro sostenitori, se io, che ero al corrente del piano, l’ho impedito, significa che ho tradito gli amici? [47] Mi dà poi del “Coturno”[18] perché cerco di adattarmi agli uni e agli altri. Ma chi non va bene né a una parte né all’altra, come bisogna chiamarlo, per gli dèi? Tu, infatti, sotto la democrazia tu eri considerato il peggior nemico del popolo, mentre sotto il regime oligarchico sei diventato il peggior nemico degli aristocratici. [48] Quanto a me[19], Crizia, mi sono sempre opposto a quanti ritengono che non vi possa essere una buona democrazia finché non siano resi partecipi del potere gli schiavi e i morti di fame che venderebbero la pólis per una dracma; ma sono sempre stato anche nemico di chi pensa che non ci possa essere una buona oligarchia finché non sia ridotta la città a subire la tirannide di pochi[20]. Governare la pólis insieme a coloro che sono in grado di difenderla con i cavalli e con gli scudi: ecco il programma[21] che ho sempre considerato migliore e che non intendo modificare[22]. [49] E se tu, Crizia, puoi citare qualche caso in cui, con i democratici o con gli tirannici, io abbia intrigato per togliere la cittadinanza alle persone perbene e rispettabili, parla: se mi si troverà colpevole d’averlo fatto ora o in passato, ammetterò di meritare una giusta morte fra i più atroci tormenti!».
Iscrizione di un decreto del Consiglio (boulḗ) e dell’Assemblea (ekklēsìa), del 450 a.C. Ricostruzione di Webster, 1913.
[50] Non appena concluse il discorso dicendo queste parole, il Consiglio si mostrò chiaramente favorevole; Crizia, rendendosi conto che, se avesse permesso la votazione sulla questione al Consiglio, quello sarebbe stato assolto, e ritenendo ciò intollerabile, alzatosi e avvicinatosi ai Trenta, scambio qualche parola con loro, quindi uscì e ordinò a quelli armati di pugnale di mettersi bene in vista di fronte al Consiglio, vicino ai cancelli[23]. [51] Quando rientrò chiese di nuovo la parola: «Membri del Consiglio, ritengo sia compito di un capo degno del suo nome, quando vede gli amici sbagliare, non permetterlo. Anch’io farò proprio così! Ora, quelli che stanno là[24] affermano che non ci lasceranno fare se intendiamo prosciogliere un uomo che cerca palesemente di abbattere l’oligarchia. In base alle nuove leggi, nessuno di coloro che appartengono ai Tremila può essere condannato a morte senza il vostro voto, mentre, per quelli che sono esclusi, i Trenta hanno pieni poteri di farli giustiziare. Io – disse – con approvazione unanime, cancello il qui presente Teramene dalla lista. Costui – concluse – noi lo condanniamo a morte!»[25]. [52] A queste parole, Teramene balzò sull’altare di Estia e così parlò: «E io, concittadini, vi supplico con le cose più legittime in assoluto: che Crizia non abbia facoltà di cancellare né me, né chi voglia di voi, ma che in base a quelle leggi che costoro scrissero in merito alle persone della lista, proprio in base a queste leggi sia emessa la sentenza per me e per voi. [53] So bene – disse –, per gli dèi, che questo altare non mi servirà a nulla, eppure voglio dimostrarvi che costoro non solo stanno commettendo la massima violazione della giustizia umana, ma anche la peggiore empietà contro gli dèi! Mi meraviglio che voi – proseguì – cittadini rispettabili e stimati, non difendiate voi stessi, in quanto sapete che il mio nome non è affatto più facile da cancellare di quello di ciascuno di voi!» [54] Immediatamente l’araldo dei Trenta ordinò agli Undici[26] di arrestare Teramene. Entrati costoro con i loro agenti guidati da Satiro[27], un individuo assai violento e crudele, Crizia sentenziò: «Vi consegno Teramene, giudicato in conformità della legge. Catturatelo e conducetelo nel luogo prescritto; quindi agite secondo la procedura». [55] A queste parole, Satiro, con l’aiuto degli agenti, strappò Teramene dall’altare, tra le sue grida che invocavano a testimoni gli dèi e gli uomini. Il Consiglio non si mosse, intimidito dalla vista dei tizi, in tutto simili a Satiro, a ridosso della cancellata e dal cospicuo numero di guardie presenti nell’aula (bouleutḗrion), che si sapevano armati di pugnale. [56] Teramene fu trascinato attraverso l’agorà mentre, protestando a gran voce, attirava l’attenzione sulla sorte che subiva. Di lui, si cita anche questa frase: non appena Satiro lo minacciò che, se non avesse taciuto, avrebbe passato dei guai, Teramene chiese: «E se starò zitto, non ne avrò?». Per morire fu costretto a bere la cicuta e si racconta che gettasse per terra l’ultima goccia, come nel gioco del còttabo, accompagnando il gesto con queste parole: «Alla salute del mio bel Crizia!»[28]. So bene che una battuta del genere non meriti neppure di essere menzionata, ma trovo ammirevole in quell’uomo che, neppure nell’imminenza della morte, abbia perso il senso dell’ironia e dell’umorismo.
Pittore Pamfaio. Simposiasta che gioca al kóttabos. Pittura vascolare da un tondo di kylix attica a figure rosse. 510 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
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Testo greco da Xenophontis Opera Omnia, ed. E.C. Marchant, Oxford 1900.
Note e traduzione, in parte di G. Daverio Rocchi, in parte mie e di mia elaborazione.
[1] Fu il più rappresentativo dei Trenta, di famiglia aristocratica. Implicato nella mutilazione delle Erme (cfr. Senofonte, Elleniche I 4, 14), era stato in seguito prosciolto. Dopo l’abbattimento del governo dei Quattrocento, nel quale ebbe un ruolo di scarso rilievo, con la restaurazione della democrazia andò in esilio, ritirandosi in Tessaglia, dove, secondo la testimonianza di Senofonte, collaborò con i penesti (Elleniche II 3, 36) contro i loro padroni. È ricordato anche come allievo di Socrate e scrittore. Compose poemi elegiaci e tragedie di cui rimangono alcuni frammenti.
[2] La boulḗ, in regime democratico, espletava alcune funzioni giurisdizionali. Qui, peraltro, si tratta di un istituto che sopravvisse svuotato di ogni reale carattere democratico. Per la sua composizione cfr. Senofonte, Elleniche II 3, 11.
[3] Paragrafi 30-31: la stessa accusa di trasformismo politico sarà poi da Teramene rivolta a Crizia (paragrafo 36).
[4] Ricoprì più di una strategia e nel 437 fu inviato a fondare la colonia di Anfipoli (Tucidide, IV 102); nel 413 fu tra i dieci magistrati eletti dopo il disastro in Sicilia (Lisia, Contro Eratostene XII 65), la cui attività, si può dire, preparò la rivoluzione dei Quattrocento.
[5] Il coturno è il calzare portato dagli attori nelle rappresentazioni tragiche per comparire più grandi sulla scena. Poteva essere infilato indifferentemente su entrambi i piedi.
[6] La carriera di Teramene presenta mutamenti e ambiguità tipici di molti personaggi dell’epoca. È soprattutto in ambiente oligarchico che sorge l’immagine del traditore, del “coturno”, della banderuola; all’interno di quel gruppo, egli non ha avuto rispetto delle regole della solidarietà (questa è la posizione di Crizia nei suoi confronti).
[8] Crizia effettivamente aveva descritto sia in versi sia in prosa la costituzione spartana e secondo una tradizione storiografica “laconizzò” in maniera eccellente. L’ammirazione di Crizia si inserisce nella idealizzazione della costituzione di Sparta, che verso la fine del V secolo accompagnò lo stesso ripensamento sulla costituzione ateniese del passato. A Sparta c’è un’assoluta compattezza di comportamento all’interno del governo: quel che è approvato dalla maggioranza degli efori, è eseguito anche dalla minoranza (una regola che, ad Atene, Teramene finirà con il violare, ricorrendo a strumenti che nella democrazia erano consentiti, cioè il “criticare” e l’“opporsi”).
[9] Teramene che aveva contribuito all’instaurazione del nuovo regime, ne divenne presto una delle vittime più illustri. La sua autodifesa è tanto appassionata quanto inutile ad evitargli il destino che lo attende.
[10] I penesti, verso la metà del V secolo, durante i rivolgimenti politici e sociali connessi con l’abbattimento del potere delle grandi aristocrazie terriere, erano stati affrancati dai loro proprietari, senza peraltro ottenere una completa parificazione politica con i cittadini. Di conseguenza, le lotte che opposero le classi agiate urbane, i cavalieri, alle aristocrazie, non comportarono un’integrazione dei penesti nella comunità politica. Nelle tensioni che precedettero il conflitto si deve collocare, in base a testimonianze desumibili da altre fonti, un’insurrezione di penesti, che fu strumentalizzata dagli Aleuadi di Larissa per opporre questi ceti ai cavalieri. Gli Aleuadi avevano spesso ospitato filosofi ateniesi; i frammenti delle opere letterarie di Crizia rivelano una perfetta conoscenza della vita lussuosa dei nobili tessali, che lascerebbe presupporre un’esperienza diretta.
[11] In mancanza di una pubblica accusa istituzionale, in Atene ognuno era tenuto a denunciare al popolo chi minacciasse la sicurezza della comunità o fosse colpevole di cospirazione. Furono chiamati sicofanti coloro che ne fecero una professione, sicché tale libertà finì con il costituire l’abuso, la degenerazione del diritto. Il profilo che ne tracciano gli autori contemporanei è quello di uomini poveri, senza educazione, relativamente giovani, cittadini ateniesi, individui che calunniano gli innocenti, accusano soprattutto i ricchi, al solo scopo di ricavarne il guadagno delle ammende o delle confische. Allo stesso modo i sicofanti erano accusati di volere la guerra a tutti i costi per riempire le casse pubbliche, spogliando e vessando gli alleati. In realtà, con il regime dei Trenta, la sicofantia non scomparve, ma fu strumentalizzata, per fini personali, dagli esponenti del nuovo governo.
[12] Forse da identificare con uno degli strateghi del 407/6 (cfr. Senofonte, Elleniche I 5, 16). I motivi della sua esecuzione restano sconosciuti, ma il provvedimento ebbe vasta eco in Atene.
[13] Figlio di Nicia, lo stratego della spedizione di Sicilia con Alcibiade e Lamaco, ed esponente della democrazia moderata nella seconda metà del V secolo.
[14] Anito, ricco cittadino, eletto stratego nel 409/8, è uno dei capi della restaurazione democratica del 403/2.
[15] Secondo Aristotele (Costituzione degli Ateniesi 35, 4) e Isocrate (Areopagitico VII, 67), i cittadini furono millecinquecento. I Trenta, d’accordo con Lisandro, redigeranno perfino una lista di sospetti, destinati a morte.
[16] Teramene giustifica la propria posizione politica alla luce degli eventi del 411. Senza dubbio, egli doveva essere tra i promotori del “coup d’État” dei Quattrocento, ma fu il popolo a volerlo per imbonirsi gli Spartani.
[17] Si riferisce ai lavoro di fortificazione di Eetioneia, la punta settentrionale del Pireo (cfr. Tucidide, VIII 90, 4).
[19] Teramene ribatte a Crizia la propria coerenza politica, che, almeno sul piano teorico, sta nel senso dell’istaurazione e del rispetto della pátrios politeía.
[20] In sostanza, come osserva D. Musti (Storia greca, Milano 2010, p. 473), nella sua apologia, Teramene definisce in termini negativi la propria posizione come contraria agli estremismi, nei confronti dei quali si pone al centro.
[21] Intende instaurare un oplitismo costituzionalmente definito.
[22] Sono esposti qui i principi di una democrazia moderata, destinati ad incontrare successo nella rielaborazione ideologica e nel pensiero politico del IV secolo. Quanto questo discorso contenga delle reali parole pronunciate da Teramene è difficile dire, ma, ideologicamente, concorda con il programma politico che Aristotele (Costituzione degli Ateniesi 33) attribuisce al nostro. Quale sostenitore di siffatto programma politico, Teramene appare da questi discorsi in una luce positiva, in contrasto con le valutazioni negative o ambigue di Senofonte, Elleniche I 6, 35; 7, 31; II 2, 16 (cfr. Diodoro, XIV 3, 5-6).
[23] Il bouleutḗrion di Atene, sede della boulḗ, era una sala quadrata con quattro colonne agli angoli e cinque colonne in antis sulla facciata. Lo spazio tra le colonne era chiuso da barriere metalliche sigillate alle colonne e provviste di pannelli mobili attraverso i quali si accedeva alla sala. I congiurati non si trovavano all’interno dell’aula, ma presso le barriere, a scopo intimidatorio (paragrafo 55). Le barriere, prima ancora di proteggere, avevano lo scopo di delimitare lo spazio politico destinato ai buleuti, che era anche spazio sacrale, dove si trovavano gli altari delle divinità protettrici.
[25] La descrizione delle azioni di Crizia, che va da un punto all’altro dell’edificio, crea un certo senso di suspense, e quindi termina in questa sentenza finale. Si tratta naturalmente di una procedura irregolare, che contribuisce a connotare Crizia “tirannicamente”.
[26] Importanza particolare vennero a rivestire gli Undici, nel passato sorveglianti delle prigioni ed esecutori delle sentenze capitali (cfr. Senofonte, Elleniche I 7, 10), ora uno degli strumenti essenziali del potere.
[27] Satiro acquistò una triste fama di carnefice; al suo comando c’erano i cosiddetti mastigophóroi, cioè agenti armati di sferza, le guardie dei Trenta.
[28] La fine di Teramene ha molti tratti in comune con quella di Socrate, e gli procurò l’ammirazione dello storico.
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