L’elegia dell’addio (Prop. III 25)

di F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina – 2. Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004, pp. 319-322.

 

 

È l’elegia del congedo, «viva come un corpo ferito e sanguinate» (A. La Penna), da alcuni studiosi considerata un tutt’uno con l’elegia precedente (in effetti, solo il codice N distingue la XXIV dalla XXV), e comunque con questa tematicamente unita in un «dittico dedicato al distacco» (M. Citroni).

Dopo cinque anni – tale è la durata della storia d’amore per Cinzia – viene il momento del discidium, anche se questo termine tecnico (indicante l’interruzione del rapporto e l’incamminarsi degli amanti per strade diverse) è qui del tutto assente. La donna, volubile e infedele, non ha mai osservato la fides nei confronti del foedus, il sacro patto degli amanti. I suoi continui tradimenti hanno reso il poeta lo zimbello dei salotti del bel mondo. Ma ora egli è deciso a troncare, per quanto dolore ciò gli costi, né l’artificioso pianto della puella potrà fargli cambiare idea. La motivazione sintetica della renuntiatio amoris è espressa al v.8, tu bene conveniens non sinis ire iugum. È la denuncia di un rapporto non simmetrico, fatta attraverso la metafora del giogo d’amore. È la constatazione di una disarmonica relazione e la conseguente rinuncia tenere ancora il collo sotto lo stesso giogo. Dopo lo struggente saluto rivolto alla porta dell’amata, testimone di crudeli repulse e di notti trascorse in lacrime all’addiaccio (secondo lo schema topico del paraklausìthyron), Properzio fa una previsione, che ha tutto il sapore delle maledizioni (dirae). Cinzia perderà presto la sua bellezza e, a causa delle rughe e dei capelli bianchi, sarà anch’essa respinta dai giovani amanti. Allora subirà a sua volta l’altero disprezzo che un tempo inflisse al poeta.

Donna. Mosaico, III sec. d.C. Pedrosa de la Vega (Palencia), Villa de La Olmeda.

L’invito finale a meditare in anticipo sul carattere effimero della bellezza fisica (eventum formae disce timere tuae!), espresso con parole nude come in un’epigrafe sepolcrale, ripete il miracolo di certe formule catulliane, pregnanti e definitive. Qui la gnome elegiaca assume un pathos altissimo dovuto, oltre che alla forma spoglia e lapidaria, alla collocazione particolare. Il cupo monito, in cui si condensa tutto il succo della quinquennale vicenda d’amore, non conclude solo l’elegia, conclude bensì tutto il III libro. Ma il II e il III libro, uniti al primo, costituivano «una raccolta che poteva figurare come pendant elegiaco dei tre libri delle Odi di Orazio, appena pubblicati» (M. Citroni); insomma, rappresentavano un corpus unitario (il IV libro ha tutt’altra ispirazione e fa parte a sé). Dunque, questo ultimo verso chiude il “canzoniere” di Properzio. E come l’ode oraziana conclusiva del III libro riprende la dedica proemiale a Mecenate in chiave autocelebrativa e ottimistica («Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo», III 30, 1), così quest’ultima elegia si collega alla prima del Monòbiblos, ma in termini di un desolato pessimismo: elegia della conquista la prima, elegia della renuntiatio amoris o dell’abbandono l’ultima, bilancio amaro di tutta l’esperienza passata. Più cupo di Orazio, ma anche di Catullo (del quale sembra richiamare qui il carme VIII), Properzio sigilla l’opera sua con un monito che sembra anticipare le espressioni buie del pessimismo medievale, dove il tema del vanitas vanitatum dell’Ecclesiaste trascorre nell’altro tema cristiano del memento mori (memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris).

 

 

SEXTI PROPERTII ELEGIARUM LIBER III

XXV

 

Risus eram[1] positis inter convivia mensis[2],

et de me poterat quilibet esse loquax[3].

Quinque tibi potui servire fideliter annos[4]:

ungue meam morso saepe querere fidem[5].

5         Nil[6] moveor lacrimis: ista sum captus[7] ab arte[8];    semper ab insidiis, Cynthia, flere soles.

Flebo ego discedens[9], sed fletum iniuria vincit[10]:

tu bene conveniens non sinis ire iugum[11].

Limina iam nostris valeant lacrimantia verbis,

10            nec tamen irata ianua fracta manu[12].

At te celatis aetas gravis urgeat annis[13],

et veniat formae ruga sinistra tuae!

Vellere tum cupias albos a stirpe capillos[14],

a! speculo rugas increpitante tibi[15],

15        exclusa inque vicem[16] fastus[17] patiare superbos,

et quae fecisti facta queraris anus!

Has tibi fatalis cecinit[18] mea pagina diras[19]:

eventum formae disce timere tuae![20]

 

 

Ero oggetto di riso nei banchetti, quando le tavole

erano imbandite, e chiunque poteva sparlare su di me.

Ho potuto servirti fedelmente per cinque anni:

spesso rimpiangerai la mia fedeltà mordendoti le unghie.

Per nulla mi lascio commuovere dalle lacrime: già troppe volte mi sono lasciato

catturare da questa tua arte; sempre sei solita, Cinzia, piangere per gli inganni.

Io sì che piangerò andandomene, ma l’offesa vince il pianto:

sei tu che non permetti che il nostro legame proceda ben equilibrato.

Addio soglia lacrimante per le mie parole,

addio porta, malgrado tutto, non abbattuta dalla mia mano irata.

Ma ti tormenti l’età tarda con i molti anni, pur celati,

e vengano le rughe infauste per la tua bellezza!

Allora possa tu voler strappare dalla radice i capelli bianchi,

mentre lo specchio, ahimè, ti rinfaccerà le rughe,

e possa tu, a tua volta respinta, sopportare la superba arroganza,

e, da vecchia, possa tu lamentarti delle cose che anche tu hai fatto!

La mia pagina ti ha vaticinato questa funesta sorte:

impara a temere la fine della tua bellezza!

 

Coppia di amanti a conversazione. Statuetta, terracotta, 150 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Coppia di amanti a conversazione. Statuetta, terracotta, 150 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

 

La fides in Properzio

 

Consideriamo due definizioni di fides.

«La fides è in senso proprio il “credito” di cui si gode presso il partner. Dal fatto che fides designa la fiducia che colui che parla ispira al suo interlocutore, e della quale gode presso di lui, si sviluppa fides come nozione soggettiva: non più la fiducia che uno risveglia in qualcuno, ma la fiducia che si mette in qualcuno»[21].

«La fides significa l’abbandonarsi, fiducioso e completo, di una persona a un’altra. Essa interviene come salvaguardia del vincolo sociale e in tutti i rapporti che collegano l’individuo ai suoi simili, sia che si tratti del matrimonio, dei vincoli tra il cliente e il suo patrono, oppure di un tutela, o dei contratti che istituiscono una società e stipulano delle vendite. Fides significa dunque tributare a ciascuno ciò che gli è dovuto, nel rispetto degli accordi stabiliti»[22].

«Fides compare, in Properzio, trentadue volte. Fra tutti gli usi, diciassette esprimono la fedeltà in amore, gli altri designano la lealtà, la confidenza o la credibilità in altri campi. Questa frequenza significativa prova che la fides è uno dei temi maggiori della sensibilità del poeta, ma, contemporaneamente, ci rivela un pensiero poco chiaro sulla fedeltà amorosa. Animo instabile, esprime una concezione della fides che oscilla fra quella di Catullo e quella di Tibullo. Come il primo, fuori da ogni possibilità di porre il suo amore sotto la tutela della legge, ritiene gli amanti legati da un contratto non scritto, ma si augurerebbe che i “patti” fossero stipulati davanti agli altari! Nel libero amore Properzio ricerca, come Catullo, la sicurezza della coppia ideale attraverso una fides che leghi un solo uomo e una sola donna per sempre. Questa idea si ritrova espressa nelle sue elegie sotto numerose formule, la più celebre delle quali è Cynthi prima fuit, Cynthia finis erit. La fides si presenta, allora, come un destino che può essere tragico, se l’essere amato non lo condivide, e che sfocia nel servitium amoris, trascinandosi dietro uno stato in cui l’uomo che ama si annienta per essere la “cosa” dell’amante. Questo succede a Properzio, perché Cinzia rifiuta di essere la sua univira. Non c’è dunque reciprocità, Properzio è il solo a praticare la fides. Ma la rottura di questa da parte di uno degli amanti non affranca l’altro dal suo legame. Né la morte, né il piacere con un altro liberano da un’unione la cui importanza non è diminuita dall’assenza di sanzione legale. Questo è il senso dei rimproveri del fantasma di Cinzia al suo amante d’un tempo e della sua affermazione di fedeltà. Nello scambio della fides, egli privilegia l’unione fisica sull’unione delle anime. Questo lo avvicina piuttosto a Tibullo che a Catullo, di cui ha l’impeto, non le esigenze»[23].

 

***

 

Note:

[1] Risus eram: «Ero oggetto di riso»; risus è sostantivo, non participio. Ancora un esordio ex abrupto; è posta bruscamente in incipit la parola che riassume la penosa condizione del poeta, divenuto lo zimbello di tutti.

[2] positis… mensis: «nei banchetti, quando le tavole erano imbandite». Nota l’iperbato.

[3] et de me… loquax: «e chiunque poteva sparlare su di me». loquax sviluppa un significato peggiorativo di loquor, cioè «non parlar d’altro», e vuol dire «chiacchierone» (cfr. loquacitas, loquaculus).

[4] Quinque… annos: la durata della relazione con Cinzia è di cinque anni, probabilmente dal 29 al 25 a.C. Si noti l’iperbato che incornicia, presentandolo come ormai concluso, il lungo e fedele servitium. servire fideliter: sono espressioni chiave dell’ideologia amorosa di Properzio e degli elegiaci. Servire richiama il servitium amoris, formula che equipara il rapporto amoroso a quello esistente tra padrone e schiavo. Si tratta di un nucleo tematico che genera metafore indicanti la subalternità dell’innamorato nei confronti della domina dispotica e volubile, che impone servizi più umili, infligge punizioni, esige dall’amante una dedizione cieca. Fideliter anticipa fidem del verso seguente.

[5] ungue… fidem: «spesso rimpiangerai la mia fedeltà mordendoti le unghie». Ungue…morso, ablativo assoluto; ungue, singolare collettivo; querere, futuro apocopato di queror = quereris. Cfr. elegia II 4, 3 et saepe immeritos corrumpas dentibus ungues. fidem: in posizione di risalto, è parola chiave in Properzio e Catullo. Indica la lealtà nei confronti del foedus (il sacro patto garantito dagli dèi), alla quale sottostà l’amore coniugale. A tale valore (oltre che alla castitas e al pudor) Properzio pretenderebbe d’improntare il proprio rapporto con una cortigiana libera e spregiudicata. In I 6, 18 afferma che nihil infido durius esse viro («non c’è nulla di peggio di un uomo infido», cioè di un amante che non onora la fides); in II 26, 27 la fides è associata all’altro valore tipicamente romano della constantia: multum in amore fides, multum constantia prodest. Cfr. anche CAT. 76, 3 dove il poeta dichiara di essere sempre stato leale verso la propria donna (nec sanctam violasse fidem) e LXXXVII Nulla fides nullo fuit umquam foedere tanta / quanta in amore tuo ex parte reperta mea est, dove fides è associata a foedus.

[6] Nil ( = nihil): «Per nulla», accusativo avverbiale.

[7] sum captus: capio è verbo tecnico della lingua militare, dove significa «catturare», «fare prigioniero». Trasferito nell’ambito della militia amoris (in base alla metafora che assimila l’more alla guerra e l’amante al soldato), indica l’irretimento amoroso. Dall’idea della militia amoris, che implica una visione dell’amore come sentimento conflittuale e violento, discende tutto il repertorio di metafore militari comuni nell’elegia d’amore latina. Ma il topos era già presente nella lirica greca sia ellenistica sia arcaica.

[8] ab arte: l’uso di ab con un sostantivo astratto nel complemento di causa efficiente non è raro in Properzio; qui dà maggior risalto e concretezza, quasi personificando la nozione astratta. Ars indica un’abilità acquisita con lo studio o la pratica (Ernout), una conoscenza tecnica anche nociva (cfr. VERG. Aen. II 152 ille dolis instructus et arte Pelasga). La sfumatura di senso negativo è presente in artificium, artificiosus e ancor più nei derivati italiani: «artificio, artificiale, artificioso». All’abbandono, Cinzia reagisce sempre in modo isterico e plateale, cfr. I 6, 15 ss. dove copre d’insulti il poeta e si graffia rabbiosamente il viso; in IV 8, sorpreso Properzio a banchetto con due etere, lo colpisce violentemente, obbligandolo a giurare eterna fedeltà.

[9] Flebo ego discendens: il verbo flere in incipit e il pronome personale contrappongono il pianto vero del poeta a quello artificioso e scenografico di Cinzia: «Io sì che piangerò andandomene».

[10] sed fletum… iniuria vincit: «ma l’offesa vince il pianto», nel senso che la violazione alla legge (iniuria, da in + ius) rappresentata dal foedus amoris è un motivo per lasciare Cinzia più forte del dolore dell’abbandono. Iniuria è termine del lessico della poesia erotica.

[11] tu bene… iugum: costr. tu non sinis ire iugum bene conveniens, e cioè: «(sei) tu (che) non permetti che il (nostro) legame proceda ben equilibrato», letter. «non permetti un giogo che si adatti bene (ad entrambi)». Si noti la posizione enfatica di tu, contrapposto a ego del verso precedente. La metafora del giogo che grava equamente sui due buoi (metafora campestre e matrimoniale, giacché iugum è in con-iunx e in con-iungo) allude a un rapporto amoroso paritetico, nel quale entrambi i contraenti del foedus s’impegnano con pari diritti e doveri. Cfr. I 1, 32, dove il poeta augura agli amici proprio questa parità: sitis… in… amore pares. Ma la nozione stessa di servitium amoris implicava la dissimmetria del rapporto.

[12] nec… ianua fracta manu: il «lamento davanti alla porta chiusa» dell’amata è codificato nello schema letterario del paraklausìthyron, diffuso nella poesia erotica, cfr. TIB. I 1, 56 sedeo duras ianitor ante foras; I 1, 73 frangere postes / non pudet et rixas inseruisse iuvat. Quest’ultima citazione mostra come l’escluso poteva reagire violentemente, dando in escandescenze, buttando giù la porta, picchiando il portinaio. Ma Properzio ricorda di non avere mai trasceso, pur avendone i motivi (tamen). In II 5, 21 aveva condannato le intemperanze topiche previste in questo schema letterario come proprie di un rusticus, indegne di un poeta: «Io non strapperò le vesti dal tuo corpo di spergiura, né la mia ira infrangerà la tua porta chiusa. / Neanche oserei, adirato, afferrarti per i capelli elegantemente annodati, / tantomeno graffiarti con le dure unghie dei pollici. / Un bifolco, di cui l’edera non cinse mai il capo, / cerchi questi litigi talmente turpi».

[13] At… annis: «Ma ti tormenti l’età tarda con i molti anni, pur celati». Difficile dire se celatis… annis abbia valore strumentale, sia un ablativo assoluto con valore concessivo («sebbene tu celi gli anni») o un participio congiunto dipendente da gravis («opprimente per gli anni, pur celati»). Ma il senso concessivo di celatis è fuori discussione. At: ha valore enfatico (apre spesso le exsecrationes) piuttosto che avversativo, a meno che non contrapponga il comportamento signorilmente civile del poeta che si è astenuto da ogni violenza, alla crudeltà della vecchiaia che, invece, non risparmierà Cinzia. Per una cortigiana, per una donna che vive della propria bellezza, la vecchiaia è una realtà spaventosa. urgeat: congiuntivo ottativo come il seguente veniat.

[14] Vellere… capillos: «Allora possa tu voler strappare dalla radice i capelli bianchi», reazione topica della bella donna che scopre sul suo corpo i segni della vecchiaia, cfr. TIB. I 8, 45 tollere cum cura est albos a stirpe capillos.

[15] a! speculo… tibi: «mentre lo specchio, ahimè, ti rinfaccerà le rughe». Increpito, intensivo di increpo «sgridare ad alta voce, rinfacciare», implica la personificazione dello specchio. Il verdetto dello specchio diverrà un topos (si pensi alla regina cattiva di Biancaneve: «Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?»).

[16] exclusa inque vicem: «a tua volta respinta». «Siamo addirittura in presenza di un paraklausìthyron alla rovescia, in quanto è la donna ad essere esclusa» (P. Fedeli).

[17] fastus: usato metaforicamente, indica il disprezzo (cfr. fastidium e fastidire), l’orgoglio, l’arroganza del vincitore, cfr. VERG. Aen. III 326-327 stirpis Achilleae fastus iuvenemque superbum / tulimus. Nella poesia erotica è un termine tecnico per indicare la durezza d’animo, lo sguardo fermo e sprezzante di chi non cede all’amore. In I 1, 3 tum mihi constantis deiecit lumina fastus, «allora abbassò il consueto orgoglio del mio sguardo», indica la condizione del poeta prima di cedere al servitium amoris.

[18] cecinit: cano, termine della lingua augurale e magica le cui formule erano melopee ritmate (carmina), ha il significato originario di «vaticinare», «predire».

[19] diras: dirus, -a, -um appartiene alla lingua religiosa e significa «di cattivo augurio, sinistro». Il sostantivo dirae, -arum significa «cattivo presagio, maledizione». Dirae, «le Furie», è il titolo di un poema in esametri falsamente attribuito a Virgilio. Il termine indica anche un sottogenere della letteratura greca e latina.

[20] eventum… tuae: «impara a temere la fine della tua bellezza». Il monito cupo espresso con concisione oracolare o, meglio, epigrafica ha un sapore medievale.

[21] E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, tr. it. Einaudi, Torino 1981, pp. 87 ss.

[22] M. MESLIN, L’uomo romano, Mondadori, Milano 1981, p. 216.

[23] D. FASCIANO, La notion de fides dans Catulle et les élégiaques latins, RCCM 240 (1982), 24-25.

Properzio e l’amore per Cinzia

di E. Paratore, La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea, BUR, Milano 1993, 471-482.

[Properzio] ci ha tramandato quattro libri di elegie, numero corrispondente a quello dei libri di Cornelio Gallo per Licoride; poiché il libro II è inusitatamente lungo (34 elegie, quasi tutte di rispettabile estensione), il Lachmann credette di potervi ravvisare la fusione di due libri e perciò lo spezzò in due, inaugurando la divisione in cinque libri dell’opera properziana. Ma alla fine del secolo scorso si è tornati alla divisione tradizionale, cui non c’è alcuna valida ragione di non avere fede.
Anche sulla famiglia di Properzio si abbatté la iattura della spartizione di terre ai veterani della battaglia di Filippi. Ma a questa per lui se ne aggiunse un’altra, introducendo nell’animo del ragazzo sensibile una nota di profonda amarezza, la quale durò quanto la sua vita: la guerra di Perugia, che devastò la sua terra, stroncò la vitalità della civiltà etrusca (della quale sembra che il poeta abbia un alto concetto, orgogliosamente campanilistico) e seminò il lutto anche nella sua famiglia. Di questo particolare una misteriosa traccia è rimasta nelle due ultime elegie del libro I, ove Properzio ha voluto porre, alla maniera degli Alessandrini, il suo sigillo, la sua σφραγίς al libro ed ha alluso, con alessandrina reticenza e oscurità, alla sua patria, alla sua famiglia e alle sue vicende; un suo parente, Gallo, fu ucciso durante la fuga da Perugia e la sua ombra dà notizie di sé a un soldato fuggiasco anche lui, che sembra essere il marito di sua sorella o il fratello di sua moglie (la madre di Properzio?). La seconda parte della prima elegia del libro IV (che alcuni vogliono considerare un componimento distinto dalla prima parte) fornisce quasi tutte le altre scarse notizie che possediamo sulla vita di Properzio: in essa il poeta immagina che Apollo si rivolga a lui, come già aveva fatto nell’elegia III,3 e come aveva fatto con Virgilio nell’egloga VI, per esortarlo a essere felice ai suoi usi abituali e a lui più adatti, ma ricordi anche le vicende della sua giovinezza. Il padre gli era morto in età in cui di solito i figli «non devono raccogliere le ossa del padre», e la madre lo aveva condotto a Roma dove, assunta la toga virile, egli si dedicò alla poesia, perché Apollo gli vietò «di far rimbombare parole nel tumultuoso Foro»; forse, oltre alle irresistibili inclinazioni del giovane, influì sulla sua scelta la povertà cui la famiglia era ridotta, e quindi all’impossibilità che il giovane riuscisse a pagarsi un buon maestro di retorica. L’ombra delle sciagure patrie e familiari gravava sull’animo suo: ancora al tempo della sua maturità, componendo la decima elegia del libro IV sulle origini del culto di Giove Feretrio, egli alluse alla caduta di Veio, creando, fra i tanti motivi originali della sua arte, la poesia delle rovine […], ma fece chiaramente trasparire […] la sua amarezza per la devastazione di Perugia e della sua terra […].
Su questa sensibilità amareggiata e raffinata, desta a ogni stimolo che la ferisse, piombò la folgore dell’amore per Cinzia, donna più anziana di lui, che Apuleio ci dice si chiamasse Hostia, matrona dissoluta, ma distinta, intenditrice di poesia, esperta nella musica e nella danza. Si ripeteva la tormentosa avventura di Catullo con Lesbia, anche se la donna amata da Properzio, la quale sembra abitasse nella Suburra, aveva più palese comportamento e metodo da cortigiana. Il poeta forse aveva già conosciuto l’amore con la schiava Licinna, che lo aveva amato con sincerità, come egli racconta nell’elegia III,15 (mentre nell’elegia I,1 aveva affermato di non aver conosciuto altro amore), tanto che poi la biografia del Volscus ha fantasticato di suoi precedenti carmi per la giovane schiava. Ma Cinzia fu poi tutta la sua vita: com’era avvenuto anche in Catullo, l’amore, riconciliandolo con la vita, gli aveva infuso anche fiducia di sé, gusto per la vita mondana ed elegante, simpatia per la poesia ellenistica e neoterica sussurranti erotiche seduzioni, ed anche un pizzico di raffinato cerebralismo, che si alterna nella sua poesia con i tratti di più appassionata spontaneità e ne costituisce il polo negativo. Nella prima elegia del libro II egli afferma che la sua poesia non gli è ispirata dalle Muse o da Apollo, ma dal suo amore: «la mia donna crea il mio ingegno». Questo verso potrebbe servire da epigrafe al libro I, il celebre Monobiblos, pubblicato forse intorno al 28 a.C., che lo consacrò alla fama e attirò su di lui l’attenzione di Mecenate. L’amore per Cinzia riempie veramente tutto il libro, salvo le due elegie finali in cui canta liberamente l’altro sentimento che domina il suo spirito, il dolore per la patria e la famiglia distrutte. Anche quando rimprovera all’amico Pontico di scrivere carmi epici, anche quando rifiuta l’invito dell’amico Tullo di partecipare alla spedizione contro i Parti, anche quando s’intrattiene con l’amico Gallo, che è scettico in amore, il pensiero dominante è quello di Cinzia: esso costituisce il metro per ogni altro giudizio; «plus in amore valet Mimnermi versus Homero», dice egli a Pontico, e a Tullo dichiara, con una strana intrusione anche della tristezza per la sua adolescenza infelice: «Lascia che io, cui la Fortuna decretò di rimanere sempre prostrato, dedichi l’anima mia alla più assoluta dappocaggine. Molti si sono consumati spontaneamente in un costante amore; fra questi la terra ricopra anche me; io non sono nato alla gloria, non sono nato alle armi; i fati vogliono che io mi assoggetti a questa milizia ». È il medesimo concetto che abbiamo visto in Tibullo; ma qui esso è reso con un tono più scontroso e amaro; vi si sente un’anima più complessa e vigorosa. Le favole mitologiche d’amore, che in copia gli forniva la diletta poesia ellenistica, entrano a fiotti nei suoi carmi, ma non come bagaglio inerte; esse servono a lievitargli la fantasia, accesa dalla passione amorosa, gli fanno vivere la sua avventura nella luce esaltante delle avventure di dèi ed eroi. Come gli ambiziosi, gli uomini d’arme traggono stimolo dalle leggende eroiche e s’inorgogliscono quando le loro imprese possono evocare il ricordo di quelle, così il poeta nutre il suo singolare orgoglio nel constatare che egli ama come hanno amato gli dèi e gli eroi del mito: questo diviene perciò la misura del suo sentire, il respiro stesso della sua poesia. Parimenti anche i motivi topici sono rivissuti con tanta foga, che non riusciamo a distinguere se si tratti di finzioni letterarie o di avventure realmente vissute. Avviene il contrario di quello che avviene con Tibullo: lì la consueta freddezza del sentimento amoroso nella maggioranza dei casi trova conferma nei motivi topici, qui il fuoco di passione che riscalda i versi riesce a rendere nuovi i motivi topici, innalzandoli al grado di personali esperienze. Così avviene per i viaggi marittimi di Cinzia, così per i suoi viaggi in fredde terre lontane, a proposito dei quali ritorna la preoccupazione espressa da Cornelio Gallo per il gelo che potrebbe offendere i piedini della donna amata.
Ovidio chiamerà «ignes» i versi di Properzio, alludendo alla veemenza di passione in essa contenuta (e il termine del resto appare già tipico del gergo della poesia erotica): già nel Monobiblos questo carattere esplode in tutta la sua potenza. Già comincia a manifestarsi quella caratteristica tutta properziana di iniziare un carme ex abrupto, con una movenza piena di uno slancio quasi cupo per la sua intensità, spesso con una di quelle subitanee interrogazioni che sembrano partire dal profondo […]. A questo intimo fuoco divoratore si adegua la temperie espressiva, robusta fino all’oscurità, densa fino al preziosismo, ma pur improntata a una sua particolare, severa eleganza. Properzio non è trasparente come Tibullo; la sua fantasia non ama snodarsi in torpide volute ricorrenti, ma anzi si concentra con forza sopra un argomento, e lo sviscera e lo matura con una fiamma sottile che sembra incendiare le immagini. Di qui quel corposo che hanno in lui i vocaboli, i costrutti, i nessi ordinatori dell’insieme, quell’organizzarsi dei particolari in blocchi contrapposti, cui si adegua il ritmo rigidamente pendolare del distico: sicché tutto quell’aggrumarsi di particolari risentiti trova la sua disciplina in un procedere insistente e serrato, che ha la sua aspra, singolare eleganza, un che di frizzante e di acre che solletica la fantasia del lettore senza cessar di cullarla in un ritmo fortemente scandito. Ciò comporta una sintassi scabra, in cui i nessi si tendono sin quasi a spezzarsi e l’espressione si torce e si ripiega su se stessa in scorci audaci. Anche i vocaboli spesso assumono un significato diverso da quello abituale, e l’espressione ne risulta ancor più enigmatica e ricca di pregnanza. Queste caratteristiche dello stile properziano si sono volute ricondurre in blocco alla sua velleità d’essere il Romanus Callimachus, come malintesa programmatica tendenza a riprodurre il carattere secco, puntuale e laboriosamente allusivo ed erudito dell’espressione del poeta di Cirene. La tradizione manoscritta di Properzio, i cui principali rappresentanti sono il […] Codex Neapolitanus del sec. XII e il Laurentianus del sec. XIV, è fra le più difficili e controverse della latinità; esso è un tempo causa ed effetto della difficoltà del testo […].

Auguste J. B. Vinchon, Properzio e Cinzia a Tivoli. Olio su tela, 1815.

Sembra strano che Mecenate abbia voluto presso di sé il giovane poeta che recava l’eredità di un gusto e di una sensibilità politica così distanti, l’uno e l’altra, da quel che egli si prefiggeva: forse la sua simpatia fu stimolata dai vincoli sentimentali che legavano Properzio all’Etruria, da cui anch’egli proveniva. […] Ma nel libro II, che fu poi pubblicato nel 25 a.C. e fu dedicato a Mecenate come il libro III, l’intenzione di trattare altri argomenti è solo accennata come una possibilità che il poeta giudica conveniente, ma inadatta alle sue capacità. Il lunghissimo libro è ancora pieno di Cinzia: quella che nel Monobiblos era stata la prima gioiosa esplosione, ora si arricchisce di più complesse esperienze, si articola in una storia d’amore, i cui palpiti, i cui affanni determinano nel cuore del poeta quella profondità di umana consapevolezza che lo rende conscio di tutti i misteri della vita. Al pensiero che la sua donna possa meditare di nuovo un viaggio trasmarino, egli propone: «Molto giova in amore la fedeltà, molto la costanza: chi può dar molto, può amare molto». Siamo già vicini al precetto evangelico che a chi molto avrà amato, molto sarà perdonato; c’è già sicuramente l’esaltazione dell’amore come capacità di dar tutto all’essere amato, come virtù di sacrificio. E il poeta soggiunge: «Se la mia donna medita di andare per lo sconfinato mare, la seguirò, e lo stesso lido sarà il giaciglio dei nostri sonni, lo stesso albero ci coprirà e spesso ci disseteremo alla stessa acqua» […]. Che anche Cinzia sia dedita ai misteri di Iside, che anche lei giochi con il poeta il classico gioco delle finzioni non stupisce […], non ci fa sentire il chiuso dell’artificio letterario: Properzio l’ha vigorosamente designata come una scaltrita mondana, la terribile romana che esige, nella sua serena impudicizia, il sacrificio dei cuori innamorati. Ma se essa recita col poeta la commedia delle lagrime, ecco uscire dal suo cuore un grido fra i più disperati e patetici che l’amore abbia dettato a un poeta: «Qualunque diceria mi sia riferita sul tuo conto troverà sordi i miei orecchi: basti che tu non dubiti della mia serietà. Te lo giuro per le ossa di mia madre, per le ossa di mio padre (e se mento, le ceneri di entrambi mi pesino sul cuore!), che io ti rimarrò fedele, o mia vita, sino alle tenebre della morte: lo stesso giorno ci porterà via stretti nello stesso vincolo». Se Cinzia si ammala, egli rivolge a Giove questa desolata preghiera: «O Giove, abbi finalmente pietà della mia fanciulla ammalata: che una donna così bella venisse a morire, sarebbe un delitto da parte tua» […]. Altrove effonde il suo animo in questa nota di così viva universalità: «Solo chi ama sa quando dovrà morire e di quale morte, e non teme né il soffio di Borea né le armi. Anche se fosse davanti a lui il rematore seduto sotto i giunchi dello Stige ed egli scorgesse la lunga vela della barca infernale, se solo l’aria gli recasse l’eco della sua donna che lo richiamasse indietro, saprebbe ripercorrere la strada che a nessuno dei mortali è lecito ripetere». Anche se la sua fantasia indulge alla visione ellenistica degli amorini che di notte lo sorprendono per via e lo vogliono impiccare per punirlo per non essere presso la sua bella ed egli sul far del giorno si reca da Cinzia e la trova sola ad aspettare, c’è tale fuoco di passione sotto la delicata fantasia, che essa si colloca agevolmente nel tono dell’insieme, appassionato e quasi cupo per troppo ardore. […]
Con Orazio ci fu […] sorda ostilità, trapelata in varie punzecchiature reciproche: nell’epistola seconda del libro II il Venosino, che si gloriava di essere il nuovo Archiloco e il nuovo Alceo, cioè di aver assuefatto la poesia latina ai metri e allo spirito dei grandi poeti greci dell’età classica, canzona apertamente Properzio, che nelle elegie prima e terza del libro III aveva proclamato di voler essere il Callimaco e il Filita di Roma […], cioè aveva tentato di perpetuare il culto di quei poeti ellenistici da cui ci si voleva staccare […].
Nel libro III, pubblicato intorno al 22, Properzio, dopo altre riluttanze, fa le viste di avvicinarsi ai temi che Mecenate si attendeva di vedere svolti da lui: ma tratta soprattutto quelli più consoni all’intonazione elegiaca, come l’epicedio del giovane Marcello, il nipote di Augusto, la cui morte immatura Virgilio compiangeva nel frattempo in un episodio aggiunto a Eneide IV; e per il resto dedica qualche nota svagata e svogliata alla celebrazione delle gesta di Augusto, come quando la nuova spedizione contro i Parti suscita in lui solo immagini di mondano godimento, per esempio quella del trionfo che egli contemplerà, «appoggiato al fianco della diletta fanciulla», o reazioni di pacifismo a sfondo epicureo […].
Ma anche quel poco che egli concede alla poesia officiosa è dovuto al progressivo raffreddamento della sua vena di poeta erotico, sotto il colpo delle delusioni inflittegli da Cinzia: è sintomatico che ora egli confessi alla sua donna di aver avuto un altro amore prima del suo, quello di Licinna. Nell’amarezza del distacco, con cui il libro si chiude, Properzio ritrova una nota di universale risonanza, scopre che nell’amore noi ci figuriamo la donna amata come la desideriamo, la arricchiamo dei pregi che solo la nostra fantasia le conferisce […]
Nacque perciò, con lenta gestazione, il libro IV. Qui finalmente Properzio appaga la lunga attesa di Mecenate; e nella prima elegia rievoca i tempi leggendari di Evandro, per porne a confronto la frugalità con gli splendori della Roma contemporanea; e nella seconda introduce a parlare il dio Vertumno, il dio capriccioso e birichino dei perpetui mutamenti; e nella quarta rievoca la leggenda di Tarpea, nella sesta torna a celebrare la vittoria di Azio, prendendo le mosse dalla consacrazione del tempio di Apollo sul Palatino, nella nona la leggenda di Ercole e Caco; nella decima canta le origini del culto di Giove Feretrio. La grande ombra di Virgilio è presente in molte di queste sue divagazioni patriottico-erudite; ma il suo intento precipuo e confessato è di imitare Callimaco anche come cultore di poesia eziologica, di essere il Callimaco romano sotto tutti gli aspetti. Così era aperta la via ai Fasti ovidiani e nello stesso tempo, pur con i modi di una tradizione non classica ma ellenistica, si veniva incontro formalmente al programma religioso di Augusto. Era un’arte precisa, accurata, spesso acuta nel cogliere i profondi motivi di un fatto politico o culturale, come per esempio l’elemento apollineo della religiosità augustea, che nessun altro poeta ha saputo così chiaramente additare come Properzio; ma era un’arte fredda, compassata, talvolta persino stucchevole […]. Ma la spinta precipua a questa nuova mirabile fioritura di poesia amorosa è offerta nel cuore del poeta da un evento luttuoso: la morte di Cinzia. La bella donna infedele, ora che è morta, non suscita più rancori, ma riaccende nello spirito generoso e sensibile del poeta l’ardore di un tempo, trasfigurato dal cordoglio […]. Il libro fu pubblicato intorno al 14 a.C., e forse nel medesimo anno Properzio morì. […] La sua morte sembra chiudere la breve, ardente estate della lirica romana; e con lui si spegne una delle personalità più complesse e più alte della poesia latina. Ovidio ne intese e ne esaltò il valore, traendo spunti da lui più che da qualsiasi altro poeta latino, Virgilio compreso […].

Properzio, Elegia I, 1 – Cinzia, primo amore

in F. Piazzi, A. Giordano Rampioni, Multa per aequora – Letteratura, antologia e autori della lingua latina, vol. 2: Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004, pp. 295-303.

L’elegia proemiale del Monòbiblos mette subito in primo piano la vicenda sentimentale del poeta, amante non corrisposto che cerca la liberazione dalla malattia d’amore. Ciò sembra contrastare con la consuetudine della poesia alessandrina, che assegnava alla prima composizione di una raccolta una funzione programmatica e metaletteraria (indicazioni riguardo alle scelte formali, al ruolo del poeta, al lettore privilegiato). Così il Liber di Catullo si apriva con una composizione, dedicata a Cornelio Nepote, che illuminava la poetica dell’autore. In realtà, neanche Properzio si sottrae alla convenzione: infatti, questa elegia fornisce tutta una serie di coordinate di poetica, implicitamente indica i modelli letterari, dichiara il legame con la tradizione neoterica (riallacciandosi all’alessandrinismo patetico e sentimentale di Meleagro, di cui è ripreso un epigramma nei vv. 4-5), dà le chiavi di lettura anche delle composizioni seguenti. Come in un’overture, sono qui polifonicamente condensati temi, motivi, topoi che, variati, ritorneranno in tutta la raccolta: l’amore come centro esclusivo di ogni interesse esistenziale del poeta; l’innamoramento causato dalla bellezza degli occhi (v.1); Eros lottatore invincibile (v.4) e, come nella poesia greca, astuto tessitore di trame (v.17); l’amore come furor (v.7), forza invincibile, malattia dell’animo (v.26) in conformità con l’ideologia elegiaca; la vita sbandata e “negativa” dell’amante non più illuminata dalla ragione (nullo uiuere consilio, v.6); l’amore come seruitium, disponibilità ad affrontare ogni tipo di labores pur di vincere la resistenza dell’amata (v.9); il pallore e la consunzione fisica come “indici figurali” dell’amore infelice; l’esperienza mitica – l’exemplum e contrario di Milanione – intesa come paradigma del vissuto (vv.9-18); i vari remedia amoris: il ricorso alla magia per fare innamorare la donna (vv.19-24), l’appello agli amici perché aiutino il poeta a guarire dalla passione disperata (vv.25-30), la commutatio loci o viaggio terapeutico in terre remote (v.29); l’ira dell’amante come segno della fine del seruitium amoris e la conquista della parrhesìa, cioè della libertà di parola prima negata allo schiavo d’amore (v.28); il topos del poeta praeceptor amoris che, guarito ormai dall’insana passione, dona consigli agli amici identificati con il pubblico della sua opera (vv.31-38). E poi c’è, emergente dall’intera composizione, la contraddizione già catulliana (Carmen 75) tra la convinzione che un amore così non meriti d’essere vissuto e la difficoltà, forse l’impossibilità, di porvi fine. C’è, come già in Catullo, il valore ideologico della passione amorosa, che crea un sistema di valori alternativo a quello tradizionale, in contrasto con la morale “benpensante” basata sulla priorità del negotium sull’otium, del matrimonio su un legame non regolato dalla legge: questo è evidente soprattutto nel v.5. Da questo punto di vista l’elegia proemiale si configura come una Priamel – schema retorico che opponeva il proprio all’altrui genere di vita (bios) – abbreviata e rovesciata. La topica dell’àristos bios (“la vita migliore”) riconduceva la varietà delle propensioni umane alle quattro classi seguenti: vita consacrata al potere, alla ricchezza, al piacere, alla sapienza. Nell’elegia properziana, la vita del saggio è esclusa (nullo uiuere consilio, v.6), quelle per il potere e la ricchezza sono unificate nel bios cui è destinato il dedicatario Tullo. Rimane la vita per il piacere (philènos bios), che sembrerebbe la più congeniale alle propensioni naturali del poeta, anche se, in base al codice elegiaco, questo piacere si traduce in infelicità (v.1, miserum me), passione devastante (v.7, furor), malattia (v.26, non sani pectoris), mentre l’oggetto del desiderio si rivela essere un male (v.35, malum). La rassegna delle forme di vita altrui (Lebensbilder) contrapposte alla propria ricorre in altri luoghi della poesia properziana, ad esempio in II 1, 43 ss: «Il marinaio narra dei venti, il contadino dei tori, / il soldato conta il numero delle ferite, il pastore delle pecore; / io invece canto le lotte combattute in un angusto letto: / ognuno consumi il giorno nell’arte che conosce» (trad. it. L. Canali).

 

     Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis,

contactum nullis ante cupidinibus[1].

tum mihi constantis deiecit lumina fastus

et caput impositis pressit Amor pedibus,

5   donec me docuit castas odisse puellas

improbus, et nullo uiuere consilio[2].

et mihi iam toto furor hic non deficit anno,

cum tamen aduersos cogor habere deos[3].

Milanion nullos fugiendo, Tulle, labores

10 saeuitiam durae contudit Iasidos[4].

nam modo Partheniis amens errabat in antris,

ibat et hirsutas ille uidere feras[5];

ille etiam Hylaei percussus uulnere rami

saucius Arcadiis rupibus ingemuit.

15 ergo uelocem potuit domuisse puellam:

tantum in amore preces et bene facta ualent[6].

in me tardus Amor[7] non ullas cogitat artis,

nec meminit notas, ut prius, ire uias.

at uos, deductae quibus est fallacia lunae

20 et labor in magicis sacra piare focis,

en agedum dominae mentem conuertite nostrae,

et facite illa meo palleat ore magis[8]!

tunc ego crediderim uobis et sidera et amnis

posse Cytaeines ducere carminibus[9].

25 et uos, qui sero lapsum reuocatis, amici,

quaerite non sani pectoris auxilia[10].

fortiter et ferrum saeuos patiemur et ignis,

sit modo libertas quae uelit ira loqui[11].

ferte per extremas gentis et ferte per undas,

30 qua non ulla meum femina norit iter:

uos remanete, quibus facili deus annuit aure,

sitis et in tuto semper amore pares[12].

in me nostra Venus[13] noctes exercet amaras,

et nullo uacuus tempore defit Amor.

35 hoc, moneo, uitate malum: sua quemque moretur

cura, neque assueto mutet amore locum.

quod si quis monitis tardas aduerterit auris,

heu referet quanto uerba dolore mea![14]

 

Pinax degli sposi. Affresco parietale, fine I sec. a.C. – inizi I sec. d.C., dall’ambiente 3 della Domus del Lararium, Assisi.

 

Cinzia, per prima ha fatto prigioniero me, sventurato, coi suoi occhi,

io che mai prima ero stato toccato dalla passione.

Da allora Amore mi fece abbassare gli occhi ostinatamente alteri

e mi calcò il capo, premendovi sopra i piedi

finché m’insegnò, crudele (qual è), a detestare le fanciulle perbene

e a condurre una vita senza senno.

E già da un anno intero questa follia non m’abbandona,

mentre sono costretto ad avere gli dèi avversi.

Milanione, accettando ogni prova, o Tullo

piegò la crudeltà dell’insensibile Iaside.

Infatti, ora si aggirava fuori di sé per le grotte del Partenio,

ora andava a scovare le fiere irsute;

anche lui, colpito dalla clava di Ileo,

ferito, rivolse il suo lamento alle rupi d’Arcadia.

Così poté domare la rapida fanciulla:

tanto in amore valgono le preghiere e le buone azioni.

Nel mio caso, invece, l’Amore pigro non riesce ad escogitare espedienti,

e non si ricorda di percorrere, come prima, le note vie.

Ma voi, che fate credere di aver tirato giù la luna,

e vi affannate a compiere riti propiziatori su magici altari,

suvvia, cambiate i sentimenti della mia donna

e fate che il suo viso impallidisca più del mio!

Allora io potrei credere che poi possiate indirizzare il corso

degli astri e dei fiumi con incantesimi della Cytea.

E voi, amici, che troppo tardi richiamate indietro chi è caduto,

cercate dei rimedi per il mio cuore malato.

Sopporterò con coraggio sia il bisturi sia le crudeli cauterizzazioni,

purché io abbia la libertà di dire ciò che l’ira mi suggerisce.

Portatemi fra genti e mari remoti,

dove nessuna donna conosca il mio cammino:

voi, a cui il dio annuì con orecchio benevolo, restate

e siate sempre concordi in amore tranquillo.

Quanto a me, la mia Venere agita le mie notti amare,

e Amore non mi lascia neppure per un momento.

Vi avverto, evitate questo male: ciascuno resti fedele

alla propria amata né si allontani dal suo consueto amore.

Ché se qualcuno troppo tardi presterà attenzione ai miei ammonimenti,

con quanto dolore, ahimé, ricorderà le mie parole!

(trad. it. F. Cerato)

 

Scena erotica. Mosaico, I sec. d.C. da Centocelle. Berlin, Kunsthistorisches Museum.

 

L’elegia I 1 e l’epigramma di Meleagro

 

Come abbiamo accennato sopra, ha un carattere programmatico la citazione, fatta fin dai primi versi, di un epigramma di Meleagro di Gadara, autore prediletto dai neoteroi e da Catullo, ed espressione dell’alessandrinismo più tipico. Scrive A. La Penna: «Properzio implicitamente dichiara il suo legame con la tradizione neoterica e mostra al suo pubblico dotto di saper utilizzare anche l’alessandrinismo più aggiornato e moderno. Tuttavia, egli cerca di piegare la grazia dell’epigrammista verso un pathos più vigoroso e più alto»[15].

 

 

τόν με Πόθοις ἄτρωτον ὑπὸ στέρνοισι Μυΐσκος

ὄμμασι τοξεύσας, τοῦτ᾽ ἐβόησεν ἔπος·

“τὸν θρασὺν εἷλον ἐγώ· τὸ δ᾽ ἐπ᾽ ὀφρύσι κεῖνο φρύαγμα

σκηπτροφόρου σοφίας ἠνίδε ποσσὶ πατῶ”.

τῷ δ᾽, ὅσον ἀμπνεύσας, τόδ᾽ ἔφην

“φίλε κοῦρε, τί θαμβεῖς;

καὐτὸν ἀπ᾽ Οὐλύμπου Ζῆνα καθεῖλεν Ἔρως”.

 

Il mio petto non era stato ancora ferito dai desideri.

Fu Musco a colpirlo con gli strali degli occhi, e gridava:

«Ho catturato l’audace! Ecco: calpesto coi piedi

il suo orgoglio di sapientone austero».

E io, ripreso fiato un istante: «Di che ti stupisci, caro ragazzo?

Eros ha cacciato anche Zeus giù dall’Olimpo»[16].

 

Pittore del Bacio (attribuito). Scena erotica. Pittura vascolare dal frammento di una kylix attica a figure rosse, 450 a.C. ca. New York, Metropolitan Museum of Art.

 

La differenza con il testo properziano è soprattutto nella chiusa arguta (la pointe epigrammatica), dove la constatazione che perfino Zeus è stato vinto da Eros sdrammatizza la situazione dell’amante non corrisposto. In tal modo l’assenza di reciprocità in amore è presentata come una condizione normale. Invece, l’elegia properziana assume toni di grande drammaticità. Al dialogo subentra la confessione dolente fatta dall’io lirico del poeta, che fin dal primo verso comunica la propria irrimediabile infelicità (v.1, miserum me). Anche l’adozione del mito di Milanione, che ha un esito opposto a quello della vicenda di Properzio, e l’apostrofe agli innamorati felici esaltano, isolandola, la disperazione del poeta. La differenza di tono tra le due composizioni implica il «carattere accessorio» (E. Lefèvre) dell’elemento greco, che certo non ha determinato la genesi dell’elegia, ma deve considerarsi solo un «motto», un motivo di decorazione, un élément de culture, come è possibile osservare anche in Orazio.

 

Lingua e antropologia

 

Secondo S. Alfonso, nell’elegia I 1 alcune scelte lessicali rendono con precisione il senso della caduta morale e sociale di Properzio. Prima di cedere al servitium amoris egli era un fortis civis, come si deduce dal v.3 (tum mihi constantis deiecit lumina fastus), cioè possedeva la constantia, la saldezza di chi non si lascia scuotere dagli eventi. Si tratta di una virtù eminentemente romana, associabile alla saggezza (cfr. Cic. Off. I 40: fortis… animi et constantis est non perturbari) e nel campo amoroso congiunta alla fides (cfr. Prop. II 26, 27: multum in amore fides, multum constantia prodest). Dopo l’incontro con Cinzia la situazione di partenza si rovescia: alla constantia subentra il furor, cioè il suo contrario (cfr. Sall. Cat. II 25: hinc constantia, illinc furor [la prima attribuita agli ottimati, il secondo ai catilinari]). Il primitivo orgoglio – reso dal termine fastus usato metaforicamente (cfr. Verg. Aen. III 326-327: stirpis Achilleae fastus iuuenemque superbum / tulimus) e da lumina indicante lo sguardo balenante e baldanzoso – è piegato dagli ocellis seducenti di Cinzia. La quale, nell’azione della cattura (v.1, cepit), cede il posto ad Amore, con questo in parte identificandosi. Infatti, «la posizione posticipata di Amor induce a considerare Cynthia come soggetto non solo di cepit, ma anche di deiecit e di pressit, sino al momento in cui viene menzionato il vero soggetto»[17]. Il senso della caduta fatale dall’elevata condizione originaria è bene espresso da deicere (Th.L.L.: «deorsum iacere, praecipitare, de superiore loco detrudere») che, unito a lumina, significa imporre all’avversario l’abbassamento dello sguardo, segno trasparente di sottomissione. Anche nell’elegia I 13 l’innamoramento si traduce, in questo caso non per Properzio ma per Gallo, in una caduta che non consente di praeteritos… succedere fastus («risalire alla primitiva baldanza»).

 

Scena erotica. Affresco parietale, ante 79 d.C., dalla Casa del Ristorante. Pompei, Parco Archeologico.

 

Chi era Cinzia?

 

Properzio non la descrive con precisione. Solo ne delinea i tratti salienti della figura e l’incedere maestoso: II 2, 3, fulua coma est longaeque manus et maxima toto / corpore et incedit uel Ioue digna soror («Ha fulva la chioma, lunghe le braccia, grande  / la persona, e incede quasi sorella degna di Giove», trad. it. L. Canali). Accenna agli occhi neri e alle movenze sensuali (II 12, 23-24: lumina nigra… / molliter ire), alla toilette minuziosa (I 15, 5 ss. «puoi ravviare con le mani i capelli pur ieri acconciati, / studiare il tuo volto con lungo indugio, / adornare il petto con gemme orientali…»), al trucco esotico dernier cri che prevedeva tatuaggi azzurri alla moda britannica e parrucche bionde: II 18, 23, «Ora, o dissennata, imiti anche i Britanni con il volto dipinto / e ti diverti a colorare i capelli d’uno splendore / straniero?». Frequenti sono i cenni all’esuberanza sessuale: I 2, 13, «lotta nuda con me, strappata la tunica»; II 15, 4 ss., «quante battaglie d’amore abbiamo ingaggiato, / allontanato il lume. Infatti, ella ora lottava con me / a seni nudi, ora indugiava a lungo coperta dalla tunica […] / come abbiamo intrecciato le braccia in diverse forme d’amplesso!». Cinzia è anche colta, gareggia in poesia con Corinna, maestra di Pindaro, danza come Arianna, suona la lira: II 3, 16 ss., «Ella danza leggiadramente, portato il vino, pari ad Arianna… / tenta i carmi con il plettro eolio, / è dotta al pari delle Muse nell’accordarli alla lira / … compete con gli scritti dell’antica Corinna». Le doti di fascino, sensualità, raffinatezza richiamano la Lesbia di Catullo e la Sempronia di un celebre ritratto di Sallustio. Ma secondo A. La Penna[18], Cinzia non è confrontabile con queste aristocratiche simili a cortigiane per i loro costumi disinibiti, ma che non dovevano guadagnarsi da vivere. Cinzia doveva essere mantenuta per soddisfare i suoi lussi e capricci, e quindi avere degli amanti, che Properzio in un “canto della gelosia” le attribuisce in numero superiore a quello dei frequentatori delle cortigiane famose: II 6, 1 ss., «Non a tal punto riempivano la casa di Laide… / né tanto numerosa un tempo fu la turba / di Taide con la quale si trastullò il popolo ateniese / né trasse intenso piacere da tanti uomini Frine». Cinzia non doveva essere proprio una prostituta (meretrix), ma una cortigiana di alto bordo (amica), qualcosa di simile alle cortigiane colte del Rinascimento. Che fosse di ceto sociale inferiore a quello di Properzio lo dimostra l’elegia II 7, nella quale i due amanti esultano per il ritiro, da parte di Augusto, di una legge matrimoniale che avrebbe costretto il poeta a sposare Cinzia, e quindi a lasciarla. Infatti, non poteva prendere in moglie legalmente una donna di rango sociale più basso, probabilmente una liberta (e certamente liberte erano anche la donna cantata da Gallo e le donne di Tibullo, Delia e Nemesi). Ma c’è anche chi suppone che Cinzia fosse una matrona scostumata (come Lesbia) con la quale il poeta avrebbe avuto una relazione adulterina e c’è perfino chi ne nega l’esistenza.

 

Scena di amplesso (symplegma) fra una prostituta e il cliente. Statua, marmo, I sec. d.C. Monaco, Glyptothek.

 

Note:

[1] vv. 1-2, Cynthia… cupidinibus: la menzione in incipit di Cinzia, referente principale della poesia di Properzio, funge da senhal, parola che nella lirica provenzale indica il nome fittizio della persona amata o il tema dominante dell’opera. La centralità di Cinzia è rafforzata dalla collocazione di ocellis (i begli occhi della donna) in excipit, altra posizione forte dopo quella iniziale. Così Cinzia è emblematicamente all’inizio e alla fine del primo verso (quello che nella poesia antica conferiva la massima memorabilità, al punto da divenire, come in questo caso, il titolo dell’opera). Cinzia è inizio e fine, come Properzio dirà in I 12, 9: Cynthia prima fuit, Cynthia finis erit. Lo pseudonimo Cynthia è da collegare (come anche la Delia di Tibullo), attraverso il monte Cinto sull’isola di Delo, ad Apollo e alla poesia. Apuleio svela la convenzione letteraria: «Catullo cantò Lesbia invece di Clodia… Properzio celò Ostia col nome di Cinzia, Tibullo cantò in versi Delia, ma nel cuore aveva Plania» (Apol. 10). Questi pseudonimi miravano a «proiettare le protagoniste della vita galante romana sullo sfondo greco del mito e della letteratura» (Labate). prima… ocellis: prima (predicativo) non indica che Cinzia fu la prima relazione amorosa in senso assoluto, ma il primo (e l’ultimo) vero amore; ocellus, diminutivo di oculus con forte valore affettivo, piuttosto che riduttivo (cfr. Cat. 3, 18: flendo…rubent ocelli), implica anche una capacità subdola di seduzione, una leggiadria apparentemente inoffensiva; cfr. Prop. I 15: …ocellis, / per quos saepe mihi credita tua perfidia est («gli occhi per i quali ho spesso creduto alla tua perfidia»); II 26, 13: quod si tuos uidisset Glaucus ocellos, / esses Ionii facta puella maris («Se Glauco avesse visto i tuoi occhi, saresti divenuta ninfa del mare Ionio»). L’innamoramento che nasce dalla bellezza degli occhi è in Omero (Il. XIV 294 – Zeus, vedendo Era sul monte Ida, avverte lo stesso sentimento d’amore provato nella prima unione), in Saffo (fr. 31 V.), è teorizzato in Platone (Phaedr. 251a) e sarà un topos della lirica amorosa europea, stilnovistica in particolare (vd. ad es. G. Cavalcanti, Voi che per li occhi mi passaste ‘l core). suis… ocellis: iperbato a cornice; l’arma (gli occhi di Cinzia) iconicamente e graficamente imprigiona la vittima, miserum me, che è condizione topica, nella poesia elegiaca, dell’amante, il quale spesso si autocompiange per un amore infelice; cfr. Cat. 8, 1: Miser Catulle, desinas ineptire. cepit: l’irretimento amoroso è reso graficamente dall’iperbato che chiude la frase; l’amore è assimilato alla guerra, l’amante al soldato. L’idea della milita amoris implica una visione dell’amore come sentimento conflittuale e violento e giustifica il vasto repertorio di metafore militari comuni nella poesia elegiaca. Ma il topos era già presente nella lirica greca sia ellenistica sia arcaica. contactum… cupidinibus: contactum, da contingere, significa «colpito, ferito» (cfr. Th.L.L. contingere: «telo apprehendere») dalle frecce di Cupido, al quale può alludere cupidinibus. Ma potrebbe anche significare «contagiato» (Th.L.L.: «inficere, contaminare») dato il valore negativo di morbus devastante che la passione amorosa assume agli occhi di Properzio. Ma le due interpretazioni, l’amore come ferita e l’amore come malattia, non si escludono a vicenda. cupidinibus: è difficile stabilire se vada scritto con l’iniziale maiuscola, riconoscendo nelle Cupidines, la personificazione degli Amorini (Erotes), armati di frecce, della tradizione ellenistica (cfr. cfr. Cat. 3, 1: Iugete, Veneres Cupidinesque) – nel qual caso andrebbe inteso come dativo d’agente – oppure se il termine indichi invece il concetto astratto della passione amorosa. Del resto, nell’elegia II 29 una turba di Amorini, che dichiara di essere stata assoldata da Cinzia, circonda Properzio ubriaco, minacciandolo di sottoporlo ad atroci sevizie per la sua infedeltà.

 

Amorino guerriero. Mosaico, III sec. d.C. Pafo, Casa di Perseo.

 

[2] vv. 3-6, tum… consilio. constantis… fastus, genitivo di qualità, indica la perduta fierezza del vinto; fastus prima che «sontuosità» significa «orgoglio», «disprezzo» (cfr. fastidium e fastidire): è il termine tecnico della poesia erotica e indica la durezza d’animo, lo sguardo fermo e sprezzante di chi non è stato assoggettato al potere di Amore. L’abbassarsi degli occhi esprime soggezione, ma anche impossibilità di incontrare lo sguardo dell’amata, quindi assenza di reciprocità amorosa. et caput… pedibus: come il gladiatore o il soldato vincitore sull’avversario; cfr. Verg. Aen. X 495: laeuo pressit pede, dove Turno infierisce sul vinto Pallante. Ancora una metafora bellica, questa volta per indicare la guerra tra l’innamorato e Amore, dio terribile possessore di armi infallibili. Di fronte allo strapotere del dio, chi ama è destinato a soccombere. È questo il topos, comune nella poesia erotica alessandrina, di Eros lottatore. I vv.4-5 imitano, come si è accennato nell’introduzione, un epigramma di Meleagro, un autore prediletto dai neoteroi e da Catullo. donec… consilio: è qui presente il topos ellenistico dell’éros didáskalos («Amore che insegna»); cfr. Verg. Buc. VIII 47-48: saeuus Amor docuit natorum sanguine matrem / commaculare manus («il feroce Amore insegnò alla madre a macchiare le mani col sangue dei figli»). Ma il contenuto dell’insegnamento non è chiaro e le interpretazioni sono almeno due: l’amore per Cinzia, donna libera e spregiudicata, induce il poeta a una vita disperata precludendogli il matrimonio con una ragazza seria e di buona famiglia; oppure, il poeta ha imparato a odiare le ragazze sorde all’amore e inaccessibili come Cinzia (dando a castas il senso di «dure, restie»). Ma, considerando che Cinzia doveva essere una cortigiana, anche se di alto bordo, risulta più convincente la prima interpretazione: «Scegliendo l’elegia d’amore, il poeta sceglie l’isolamento nell’universo elegiaco e la schiavitù d’amore, che comporta l’abbandono del decoro sociale, la rinuncia a una carriera, per una vita socialmente inattiva e sterile, la nequitia» (Gazich). nullo… consilio: l’iperbato accresce il pathos dell’espressione. La sconsideratezza può consistere, a seconda del senso dato a castas puellas, nel detestare le fanciulle virtuose o nel fissarsi su un amore non corrisposto. Si tratta comunque di una condizione disperata, come si ricava dal richiamo fatto subito dopo al mito di Milanione. Lachman interpretava nullo uiuere consilio come un periodo di sfrenatezza sessuale. D’altro avviso è Fedeli: «Nullo uiuere consilio significa vivere sine ratione e rappresenta uno stato d’animo analogo all’amentia (v.11) di Milanione».

[3] vv. 7-8, et… deos. Furor, contrapposto a consilium precedente, è l’amore-passione che toglie il senno. È il topos, comune alla poesia erotica ellenistica, dell’amore come male della mente (furor, insania); cfr. Verg. Buc. X 60: haec sit nostri medicina furoris (riferito a Cornelio Gallo). Ma furor è una condizione che implica l’emarginazione e la pericolosità sociale. In Tusc. III 11, Cicerone chiarisce che nei confronti di chi è in preda al furor si prendevano provvedimenti drastici (come l’interdizione dall’uso del patrimonio personale) non previsti per l’insania, cioè la moderata follia congiunta a stoltezza. Dunque, chi è in preda al furor amoroso è anche posto ai margini della società e privato della dignità di civis. cum… deos: la proposizione avversativa si giustifica col fatto che il poeta, proprio per l’intensità e sincerità del suo amore, si attenderebbe di godere del favore degli dei, cioè di essere ricambiato da Cinzia. In realtà, la condizione di furor in cui il poeta si trova lo pone in una condizione di miseria che implica la contrarietà degli dei, cfr. Cat. 76, 11-12: quin tu animo offirmas atque istinc teque reducis / et dis inuitis desinis esse miser? cogor: esprime lo stato di soggezione in cui Amore ha ridotto il poeta, ma anche «la consapevolezza che la situazione in cui si è cacciato lo porta ad avere gli dei aduersi» (S. Alfonso).

[4] vv. 9-10, Milanion… Iasidos: come di consueto, Properzio confronta la propria esperienza con quella di un personaggio mitico, per sublimarla rendendola paradigmatica. Con gusto alessandrino, trasceglie la versione meno nota (quella arcade) del mito: Milanione difende Atalanta, vergine cacciatrice, figlia di Iaso, dalla violenza dei centauri Reto e Ilèo, restando ferito da una freccia di quest’ultimo e riuscendo, infine, a conquistare l’amore della fanciulla. Secondo la versione beotica (la più nota) del mito, Atalanta, contraria alle nozze, sfida alla corsa i pretendenti, promettendosi al vincitore. È vinta da Ippòmene che, durante la gara, getta in terra delle mele d’oro che la fanciulla si attarda a raccogliere. Naturalmente il parallelismo tra il poeta e Milanione è solo parziale, perché il primo consegue l’oggetto del desiderio, il secondo rimane inappagato. Le analogie tra Cinzia e Atalanta riguardano la duritia e «l’atteggiamento che infrange le regole di comportamento del personaggio femminile, perché è la donna a dominare sull’uomo e ad imporre le sue leggi» (S. Alfonso). nullos… labores: è un altro topos della poesia erotica; l’innamorato è pronto ad affrontare ogni travaglio pur di vincere la ritrosia dell’amata. Tulle: amico di Properzio, nipote di Volcacio Tullo (cos. 33 a.C. insieme con Ottaviano Augusto) e dedicatario del monòbiblos. A lui il poeta si rivolge altre volte nel corso dell’opera (I 6; I 14; I 22). saeuitiam: è sempre, nella poesia erotica, la crudeltà di chi disdegna l’amore (cfr. Hor. Carm. II 12, 26): Properzio, che sopporta pene non inferiori a quelle sofferte da Milanione, non riesce, tuttavia, a conquistare Cinzia, che si rivela più dura di Atalanta.

 

Nicolas Colombel, Atalanta e Ippomene. Olio su tela, 1680

 

[5] vv. 11-12, nam…feras: versi tormentati, che spiegano (nam) quali fossero i labores affrontati da Milanione con devozione eroica. La difficoltà è nella correlazione non usuale modo…et (invece di modo… modo, «ora… ora»). Si è ipotizzata la perdita, tra questi versi, di un distico che contenesse un secondo membro ugualmente introdotto da modo. La traduzione possibile con questo testo è: «Infatti ora si aggirava fuori di sé nelle grotte del Partenio e andava a scovare le fiere irsute». Il Partenio è un monte dell’Arcadia, coerentemente con l’adozione della versione arcadica del mito. Su questo monte, Iaso aveva fatto esporre Atalanta; il fatto che tale circostanza non venga chiarita prima solleva ulteriori dubbi sull’integrità del testo. amens, parola chiave della poesia erotica, riprende il tema del furore amoroso richiamando la condizione del poeta, che da quando ha conosciuto Cinzia trascorre la vita nullo consilio (v.6). L’aggettivazione favorisce l’identificazione del poeta con l’exemplum mythicum: «quanto maggiore sarà l’analogia tra i due innamorati, tanto più sorprendente risulterà l’esito rovesciato dell’esperienza properziana» (P. Fedeli).

[6] vv. 15-16, ergo… ualent: ergo evidenzia, come il nam del v.11, il legame esistente tra i servigi resi ad Atalanta e il premio ottenuto (l’amore della donna), implicitamente rilevando l’iniquità della sorte toccata al poeta, per il quale solo non pare valere il nesso tra benefacta e ricompensa. La contrapposizione tra i due destini è espressa in modo esplicito nei versi successivi. Come spesso nell’elegia il mito è un termine di confronto con l’esperienza personale del poeta. Però, in questo caso, il confronto non è per analogia, ma per contrasto, per antitesi: Atalanta cede, Cinzia invece resiste (exemplum e contrario). tantum… ualent: verso d’intonazione gnomica che sintetizza una “legge” dell’amore, che però non vale per Cinzia.

[7] v. 17, in me: segna il passaggio dall’exemplum mitologico alla sfera personale. Fedeli ha notato «la complessità strutturale del carme il cui focus narrativo si sposta da una condizione di carattere generale alla condizione personale del poeta innamorato». tardus Amor: solo per il poeta Amore è “pigro” e non sa trovare un mezzo per fare innamorare Cinzia. Eppure, è un dio velocissimo e alato, che solitamente scocca dardi fulminei. È qui rovesciato il topos ellenistico della tempestività di Amore.

[8] vv. 19-22, at uos… magis! Il poeta supplica le maghe che facciano innamorare Cinzia. la forma dell’apostrofe è quella della preghiera: invocazione con indicazione delle prerogative magiche (vv.19-20), richiesta d’aiuto (vv.21-22), promessa di ricompensa (vv.23-24). Il ricorso alla magia è un topos della poesia erotica greca e latina. Secondo S. Alfonso, la ricerca di remedia esterni spiega il diverso esito della vicenda del poeta rispetto a quella di Milanione. Mentre l’amentia di questo è congiunta all’audacia, Properzio non trova in se stesso la constantia e l’ardire necessari. quibus… lunae: il poeta non sembra credere troppo in questa capacità soprannaturale, spesso indicata tra le prerogative delle maghe (cfr. Verg. Buc. VIII 69: carmina [«le formule magiche»] uel caelo possunt diripere lunam). In particolare, le maghe tessale godevano di tale fama (Apul. Met. I 3). La sua pare piuttosto una sfida: se davvero sanno prodursi in una performance tanto spettacolare, allora facciano anche innamorare Cinzia. Inoltre, la disperazione giustifica il ricorso a questo estremo rimedio, tema caro agli alessandrini. facite… magis: dato che il pallore è sintomo dell’innamoramento (cfr. Ovid. Ars am. I 729: palleat omnis amans: hic est color aptus amanti), Properzio prega che Cinzia s’innamori di lui più perdutamente di quanto lui ama lei. Il trascolorare del viso come «indice figurale» dell’innamoramento è riscontrabile nella poesia erotica alessandrina, nella commedia latina e greca, e già Saffo scriveva: «sono più verde dell’erba».

 

Fattucchiera e due donne. Mosaico, ante 79 d.C. Pompei, Villa di Cicerone. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

[9] vv. 23-24, tunc… carminibus; et sidera et amnis… ducere: sono alcuni degli exploits spettacolari tradizionalmente attribuiti alle streghe. Cfr. Apul. Met. I 8: Saga… potens… fontes durare… sidera extinguere («Una strega capace di rendere di sasso i corsi d’acqua e di spegnere le stelle»). Si noti l’ironia del polisindeto (et… et…). Cytaeines: «la donna di Cytae». Cytae, in Colchide sul Mar Nero, è la città di Medea, maga per eccellenza ed esperta di ogni farmaco (panphàrmakos). Figlia di Eeta, re di Colchide, aiuta Giasone a conquistare il vello d’oro e lo segue lasciando la patria e il padre. Come narra Euripide nella tragedia Medea, ella è abbandonata dall’eroe, che intende sposare Glauce, figlia del re di Corinto. La vendetta di Medea consisterà nell’uccidere la futura sposa con una veste preziosa che uccide chi la tocca. Poi fugge sul carro del sole (e questo particolare del mito spiega la connessione della figura di Medea con il culto di Helios). Di Medea Apollonio Rodio nelle Argonautiche scrive: «ferma le acque dei fiumi… incanta le stelle» (III 532). Anche Tibullo la ricorda: «si dice che lei sola abbia le erbe malefiche di Medea» (Eleg. I 2, 53).

[10] vv. 25-26, et uos… auxilia: la richiesta fatta dall’amante infelice agli amici, perché lo aiutino a guarire dal male d’amore è un topos della poesia erotica, ma qui sembra logicamente incompatibile con il precedente appello, rivolto alle maghe, di fare innamorare Cinzia; o si prega di essere ricambiati o s’invoca la liberazione. Per rendere alternative le due richieste, si è pensato di correggere il tràdito et con aut. A meno di non considerare la preghiera alle maghe come una sorta di adynaton, cioè come la richiesta di una grazia considerata impossibile (Labate).

[11] vv. 27-28, fortiter… loqui. Le cauterizzazioni (saeuos igni) e le incisioni praticate col bisturi (ferrum) nella scienza medica rinviano ancora alla metafora della malattia d’amore (non sani pectoris, v.26), per guarire la quale occorrono interventi radicali e dolorosi. Cfr. Ovid. Rem. Am. 229 ss.: ferrum patieris et ignes. La sintassi spezzata rende la concitazione dell’animo. Inoltre, ferro e fuoco sono comuni metafore della passione nella poesia amorosa. libertas… loqui: libertas loquendi; la riconquista della libertà d’espressione propria di un uomo libero (parrhesìa), finora repressa dalla domina, segna la fine del servitium amoris. Anche questo è un topos della poesia erotica.

[12] vv. 29-32, ferte… pares. L’iterazione dell’imperativo ferte esprime l’abbandono fiducioso nelle mani degli amici, ma anche l’urgenza di attuare tale remedium. È la variante amorosa del topos della commutatio loci (mutamento di luogo per curare i mali dell’animo); cfr. Cic. Tusc. IV 77: loci… mutatione tamquam aegroti non conualescentes saepe curandum est («bisogna curarlo con cambiamenti di luogo, come si fa con i malati che non si rimettono»). Nella poesia erotica, è spesso unito al topos dell’amicizia come disponibilità ad accompagnare in capo al mondo l’amico malato d’amore; cfr. Cat. 11 e, per la vastità degli spazi, 101, 1: multas per gentes et multa per aequora uectus. La “terapia” è codificata anche da Ov. Rem. am. 214: i procul et longas carpere perge uias. Anche nell’elegia III 21 Properzio esprime l’intenzione di partire per Atene per liberarsi dell’amore, definito grauis e turpis. ferte… ferte: più espressivo di ducite, rende l’idea del corpo inerte e senza più volontà, che gli amici devono trasportare quasi materialmente sollevandolo. L’anafora esprime il senso della gravità del male e dell’urgenza dell’intervento. La determinazione dell’innamorato a liberarsi dal giogo del servitium amoris è un motivo ricorrente nell’elegia. qua… iter: il risentimento per Cinzia si estende iperbolicamente a tutte le donne. Si noti il quasi dispregiativo feminae: per gli elegiaci le altre donne sono solo feminae, mentre la loro donna è domina o, più affettuosamente, puella. L’iperbato meum… iter prolunga la distanza che Properzio intende frapporre tra sé e le donne del mondo. uos… pares: il poeta ora si rivolge agli amanti fortunati in genere.

 

John William Waterhouse, Giasone e Medea. Olio su tela, 1907.

 

[13] v. 33, nostra Venus ha avuto varie interpretazioni: «Venere nostra signora» (di tutti gli amanti, felici e infelici); «la mia Venere» (ben diversa dalla Venere degli amanti fortunati); «la mia dea» (cioè Cinzia). La seconda sembra essere la più convincente, perché s’intona con il sentimento vittimistico di dolorosa diversità espresso nei versi precedenti.

[14] vv. 35-38, hoc…mea: la fine dell’elegia rispecchia la condizione attuale del poeta che, ormai guarito dall’insana passione, è generoso di insegnamenti agli amici. Egli ammonisce gli innamorati fortunati a rimanere accanto alla loro donna, se non vogliono soffrire come lui. La conclusione didascalica non è estranea alla natura gnomica originaria dell’elegia e ricalca il motivo, comune nella poesia erotica, del poeta praeceptor amoris. L’apostrofe ai giovani amanti definisce il tipo di pubblico: «Properzio pensa ai giovani innamorati e sa bene che solo conquistando il loro favore riuscirà ad assicurare la giusta lode ai propri carmi. Ciò è evidente in particolare in I 7, 23-24: “… allora / avrò il mio posto tra i talenti di Roma; i giovani / sul mio sepolcro non potranno non dire: ‘Sei qui / grande poeta della nostra passione’”» (P. Fedeli).

[15] A. La Penna, L’integrazione difficile, Torino 1997, p. 125.

[16] Anth. Pal. XII 101, trad. it. G. Guidorizzi.

[17] S. Alfonso, Cinzia, gli occhi, la cattura del poeta. Properzio I 1 e la svolta d’amore, Aufidus 10 (1990), pp. 19-51.

[18] A. La Penna, op. cit., Torino 1977, p. 18.