Stesicoro

Per i colonizzatori dell’Italia meridionale il mito non rappresentava soltanto un veicolo per la sopravvivenza dei legami con la madrepatria, ma anche un modo per interpretare e giustificare l’impulso migratorio, collegando le storie di Eracle, degli Argonauti, di Diomede e degli altri reduci dalla guerra troiana alla scelta dei siti in cui le nuove colonie sarebbero sorte. In quest’ottica, l’eroe protettore della nuova comunità si configurava spesso come una sorta di proiezione del capo aristocratico (οἰκιστής) che aveva guidato la spedizione e che, con il tempo, avrebbe potuto diventare egli stesso oggetto di culto eroico. In più, il mito, con le tensioni implicite delle multiformi vicende degli eroi, permetteva di alludere attraverso figure e atteggiamenti esemplari ai problemi che agitavano l’attualità coloniale e in special modo a quei contrasti sociali forieri di στάσεις, che ben presto emersero all’interno delle nuove πολεῖς, dopo un iniziale momento egalitario della lotta per l’insediamento e dell’organizzazione del nuovo spazio territoriale.

Pittore anonimo. Un poeta (dettaglio). Pittura vascolare su un λήκυθος attico a figure rosse, c. 480 a.C. da Atene. Los Angeles-Malibu, Villa Getty Museum.

Massimo interprete della tradizione mitica all’interno del mondo magno-greco nelle forme, verosimilmente, della lirica citarodica fu Stesicoro (Στησίχορος), figlio di Eufemo (o di Euclide?). Gli antichi, in genere, associavano questo poeta alla siciliana Imera, dove si era presumibilmente trasferito dall’originaria Matauro (colonia locrese nell’Italia meridionale). Stesicoro avrebbe soggiornato anche in altre località magno-greche e siceliote (PMGF TA 8-13).

Le testimonianze antiche sulla sua cronologia sono alquanto incerte, forse perché lo si confuse con omonimi più tardi oppure perché fu considerato l’«inventore» (πρῶτος εὑρετής) della lirica corale: secondo la testimonianza del lessico Sud. σ 1095 (IV 433. 16-20 Adler = Stes. TA 10, 1-5 Ercoles1), il nome stesso Stesicoro sarebbe stato un epiteto derivato dal fatto che egli «per primo, istituì un coro con la citarodia, mentre il suo vero nome era Tisia» (πρῶτος κιθαρῳδίᾳ χορὸν ἔστησεν· ἐπεί τοι πρότερον Τισίας ἐκαλεῖτο).

Comunque stessero le cose, mentre è sicuramente da escludere la data registrata dal Marmor Parium (FGrHist. 239, 50 = PMGF TA 6, che riferisce di un suo arrivo nella Grecia continentale nel 485/4 a.C., in sincronia con la prima vittoria di Eschilo nei concorsi tragici e con la nascita di Euripide), sembra probabile una sua collocazione tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C.: nell’ultimo periodo, in particolare, Stesicoro doveva essere ancora in vita, se Aristotele (Rhet. 1393b) lo connetté con il tiranno di Agrigento Falaride (570-554 a.C.), da cui il poeta avrebbe invano cercato di mettere in guardia gli abitanti di Imera, quando essi gli si assoggettarono. Non lontana dal vero appare dunque la datazione già suggerita da Sud. σ 1095, che collocava la sua vita fra la XXXVII e la LVI Olimpiade, cioè fra il 632/629 e il 556/553, anche se andrebbe posticipata di poco la data di morte, se si presta fede alle testimonianze che collegano Stesicoro alla battaglia del fiume Sagra, combattuta fra Locresi e Crotoniati verso il 550 a.C. (cfr. [Luc.]Macr. 26, I 81 Macleod = PMGF TA 7, che riferisce che il poeta visse fino a 85 anni).

Più incerta è la notizia secondo cui il poeta avrebbe soggiornato per un certo tempo a Pallantio, in Arcadia, donde sarebbe tornato in Sicilia, a Catania. E a Catania (oppure a Imera) sarebbe morto.

Pittore di Dana. Scena musicale (dettaglio): due donne in atto di ascoltare una terza mentre canta e suona la lira. Pittura vascolare da un cratere a campana attico a figure rosse, c. 460 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

I componimenti di Stesicoro furono raccolti dai filologi alessandrini in 26 libri. Di questa produzione, di cui ora si sa con certezza che era davvero enorme e che aveva incontrato nel mondo antico una vasta diffusione, era nota fino al secolo scorso solo una cinquantina di versi (frammenti desunti da citazioni, per lo più assai brevi), mentre già si conosceva un buon numero di titoli (probabilmente stabiliti dai grammatici alessandrini), che per la maggior parte si riferiscono a fatti e personaggi della leggenda: Giochi per Pelia, Gerioneide, Elena, Palinodie per Elena, Distruzione di Ilio, Cerbero, Cicno, Ritorni, Orestea, Scilla, Cacciatori del cinghiale. Si confermava, comunque, la sentenza di Quintiliano (X 1, 62), secondo cui Stesicoro epici carminis onera lyra sustinentem («sostenne con la cetra il peso dell’epos»).

Parecchi studiosi contemporanei attribuiscono non a Stesicoro, ma a un omonimo imerese vissuto nel IV secolo a.C. altri carmi che, a giudicare dai titoli, trattavano storie d’amore a triste fine: Calica, Radina, Dafni (la storia del pastore che muore d’amore, nota dall’Idillio I di Teocrito). Stesicoro avrebbe infine composto, secondo la dubbia testimonianza di Ateneo (XIII 601a), anche carmi omoerotici.

Se nel 1936 il filologo inglese Cecil M. Bowra poteva parlare di Stesicoro come dell’«ombra indistinta di un grande nome agli inizi della poesia greca», oggi quest’ombra è certamente assai meno vaga, perché un considerevole incremento alla conoscenza dell’opera stesicorea è venuto da una serie di scoperte papiracee, che hanno restituito brani più o meno estesi inseribili nella Gerioneide (F S7-S87), nella Distruzione di Ilio (F S88-S147), nei Ritorni (PMGF 209) e nella Tebaide (PMGF 222b).

Pittore Nicone. Un poeta con barbiton. Pittura vascolare da un λήκυθος attico a figure rosse, c. 460-450 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

I nuovi frammenti papiracei hanno permesso di accertare le dimensioni davvero cospicue dei testi: un’indicazione sticometrica contenuta in P. Oxy. 2617, che conserva frammenti della Gerioneide, documenta che questo carme superava i 1.300 versi! In particolare, è ora possibile chiarire il rapporto di innovazione/continuazione, se non di concorrenzialità, che legava i carmi stesicorei con l’epica non solo a livello lessicale e stilistico, ma anche nella costruzione di ampi intrecci e di estese sezioni narrative, intercalate da scambi dialogici.

Discusse sono le modalità di esecuzione di queste composizioni, la cui struttura strofica, detta “triadica” (PMGF TA 19), era caratterizzata dalla ripetizione ad libitum di segmenti composti da una strofe, un’antistrofe (metricamente equivalente) e un epodo (metricamente autonomo, ma ritmicamente connesso alle precedenti) e dall’innovativo impiego dei metri dattilo-epitriti. Questa articolazione “triadica” è documentata al di là di ogni dubbio dalla testimonianza dei papiri e gli antichi ne assegnavano l’invenzione allo stesso Stesicoro.

Oggi l’opinione dei più è che l’esecuzione dei carmi non fosse (o almeno non sempre) realizzata da un coro, come si riteneva in passato, ma da un solista (di solito, il poeta in persona), che si accompagnava con la cetra alla maniera della citarodia lirica pre-omerica (della quale Stesicoro sarebbe stato un continuatore).

È pur vero che la stessa articolazione triadica rende probabile, insieme con le testimonianze antiche, la presenza di un coro, che doveva pertanto limitarsi a eseguire mute evoluzioni di danza destinate a porsi in un rapporto mimetico nei confronti dello sviluppo del tema mitico di volta in volta affrontato.

Quale luogo privilegiato delle esecuzioni dei carmi stesicorei Luigi Enrico Rossi (1983) individuò l’ambito di quelle gare citarodiche che si svolgevano all’interno delle riunioni festive diffuse in tutto il mondo greco arcaico: in tale contesto Stesicoro avrebbe cantato le sue composizioni di epica lirica “alternativa” fianco a fianco con rapsodi che recitavano brani di Omero o nuovi brani di epica esametrica. E con la necessità di soddisfare le richieste di un pubblico di cui dipendeva la vittoria agonale si spiegherebbe anche la frequente rifunzionalizzazione “regionale” del mito.

Pittore di Londra E. Apollo musico. Pittura vascolare dal tondo di una κύλιξ attica a figure rosse, c. 480-470 a.C. da Chiusi. London British Museum.

La proposta di Giocasta(PMGF 222b)

È la colonna meglio conservata (A II) di una serie di frustoli papiracei (P. Lille 76A II + 73 I) recuperati dal cartonnage di una mummia e pubblicati nel 1977 da G. Archer e C. Meillier nel Cahier de Recherches de l’Istitut de Papyrologie et d’Egyptologie de Lille 4, 287 ss. Contengono brani di un carme in triadi strofiche e nell’impasto linguistico tipico della lirica corale – attribuibile con quasi assoluta certezza a Stesicoro – sulla divisione dell’eredità paterna tra i figli di Edipo, Eteocle e Polinice: un soggetto trattato già nella Tebaide epica e poi ripreso ripetutamente dalla tragedia attica (Sette contro Tebe di Eschilo; Fenicie di Euripide, Edipo a Colono di Sofocle – sulla trattazione stesicorea della leggenda, cfr. A. Carlini, QUCC 25 [1977], 61-67, e Bremer 1987).

Il brano qui riprodotto inizia nel mezzo di una risposta della madre Giocasta all’indovino Tiresia, perché non voglia aggiungere nuovi mali a quelli esistenti. La soluzione prospettata dalla regina consiste nel proporre un sorteggio in base al quale uno dei fratelli otterrà il regno, mentre l’altro se ne andrà in esilio portando con sé i tesori paterni.

La colonna successiva (73 II + 76C I + 111C) a quella riportata qui doveva appunto contenere, come possiamo arguire dai miseri monconi superstiti, una rapida descrizione del sorteggio e della raccolta dei beni paterni da parte di Polinice, a cui la sorte assegnava l’esilio, seguita da uno scambio dialogico (cfr. v. 253 μῦθον ἔειπε), di cui non possiamo identificare gli interlocutori. Poi, nella colonna ancora seguente (76C II + B), l’indovino prediceva le nozze che Polinice avrebbe contratto in Argo con la figlia di Adrasto (vv. 274 ss.) e annunciava i mali che avrebbero colpito Tebe, se l’accordo fosse stato infranto. Dagli ultimi residui di testo (vv. 291 ss.) si deduce che, appena terminato l’ultimo intervento di Tiresia, Polinice partiva in direzione di Argo, giungendo all’Istmo di Corinto.

Scena tebana con Eteocle, Polinice, Giocasta, Antigone e Creonte. Rilievo, marmo, II sec. da un sarcofago in stile attico. Roma, Villa Doria Pamphilj.

(P. Lille 76 A II + 73 I Bremer 1987a)

‹Ἰοκάστη› (?)

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

ἐπ’ ἄλγεσι μὴ χαλεπὰς ποίει μερίμνας

μηδέ μοι ἐξοπίσω

πρόφαινε ἐλπίδας βαρείας.

οὔτε γὰρ αἰὲν ὁμῶς

θεοὶ θέσαν ἀθάνατοι κατ’ αἶαν ἱρὰν

νεῖκος ἔμπεδον βροτοῖσιν

οὐδέ γα μὰν φιλότατ’, ἐπὶ δ’ ἁμέρα‹ι ἐ›ν νόον ἀνδρῶν

θεοὶ τιθεῖσι.

μαντοσύνας δὲ τεὰς ἄναξ ἑκάεργος Ἀπόλλων

μὴ πάσας τελέσσαι[1].

αἰ δέ με παίδας ἰδέσθαι ὑπ’ ἀλλάλοισι δαμέντας

μόρσιμόν ἐστιν, ἐπεκλώσαν δὲ Μοίρα[ι,

αὐτίκα μοι θανάτου τέλος{ο}στυγερο[ῖο] γέν[οιτο,

πρίν ποκα ταῦτ’ ἐσιδεῖν

ἄλγεσ‹σ›ι πολύστονα δακρυόεντa ἀ[γεῖσαν

παίδας ἐνὶ μεγάροις

θανόντας ἢ πόλιν ἁλοίσαν.

ἀλλ’ ἄγε παίδες ἐμοῖς μύθοις φίλα[ τέκνα, πίθεσθε,

τᾶιδε γὰρ ὑμὶν ἐγὼν τέλος προφα[ίνω,

τὸν μὲν ἔχοντα δόμους ναίειν πό[λιν εὐκλέα Κάδμου,

τὸν δ’ ἀπίμεν κτεάνη

καὶ χρυσὸν ἔχοντα φίλου σύμπαντα [πατρός,

κλαροπαληδὸν ὃς ἄν

πρᾶτος λάχῃ ἕκατι Μοιρᾶν[2].

τοῦτο γὰρ ἂν δοκέω

λυτήριον ὔμμι κακοῦ γένοιτο πότμο[υ,

μάντιος φραδαῖσι θείου,

εἴ γε νέον Κρονίδας γένος τε καὶ ἄστυ [σαώσει

Κάδμου ἄνακτος

ἀμβάλλων κακότατα πολὺν χρόνον[, ἃ περὶ Θήβα]ς

πέπρωται γενέ[σ]θαι.

ὣς φάτ[ο] δῖα γυνά, μύθοις ἀγ[α]νοῖς ἐνέποισα,

νείκεος ἐμ μεγάροις π[αύο]ισα παίδας,

σὺν δ’ ἅμα Τειρ[ε]σίας τ[ερασπό]λος, οἱ δὲ πίθο[ντο[3].

Giovanni Silvagni, Il duello tra Eteocle e Polinice. Olio su tela, 1820. Roma, Galleria dell’Accademia di San Luca.

[1] vv. 201-210. La colonna A II inizia col terzultimo colon di un’antistrofe, nel corso della replica di Giocasta all’indovino Tiresia: «… “Non creare ansie opprimenti (χαλεπὰς… μερίμνας costituisce un nesso formulare arcaico estraneo a Omero, attestato in Hes. Erga 178 χαλεπὰς δὲ θεοὶ δώσουσι μερίμνας; Mimn. 1, 7 ἀμφὶ κακαὶ τείρουσι μέριμναι; Sapph. 1, 25 χαλέπαν …/ἐκ μερίμναν) in aggiunta ai dolori (presenti: forse si allude al lutto per la morte di Edipo, o più in generale alla sequela di sciagure che hanno colpito la regina tebana a partire dalla morte del marito Laio) e a me non predire (πρόφαινε: il verbo ha spesso questa accezione in relazione a oracoli e indovini: cfr. Soph. Trach. 849, Hdt. VII 37, 2; cfr. R. Tosi, MCr 13-14 [1978/1979], 125-142 [126] Bremer, 137) d’ora in poi (ἐξοπίσω) gravi attese (ἐλπίς ha generalmente connotazione positiva, “speranza”, ma di per sé è una vox media, “attesa”, e può essere associata ad aggettivi con qualificazione negativa, cfr. Soph. Ajax 606 κακὰν ἐλπίδ’ ἔχων). Né, infatti, sempre (αἰὲν = ἀεί) allo stesso modo (ὁμῶς) gli dèi immortali provocano (θέσαν = ἔθεσαν, aoristo gnomico: il nesso paretimologico θεοὶ θέσαν, che tende a prospettare gli dèi come coloro che, per definizione, dispongono degli eventi e degli uomini, è tradizionale) ai mortali sulla sacra (ἱρὰν = ἱεράν: l’aggettivo è spesso riferito nell’epica a singole località, non alla terra intera) terra discordia incessante, e neppure (οὐδέ γα μὰν = οὐδέ γε μὴν) concordia (la presenza della polarità νεῖκος/φιλότης, centrale nella cosmologia di Empedocle 31 B 17,7-20; 26,5-6; 33,3-13 D.-K., induceva J. Bollack a datare il nostro brano al V secolo a.C., negando l’attribuzione a Stesicoro; ma si è opportunamente osservato che già Esiodo include Φιλότης ed Ἔρις nel catalogo delle forze cosmiche in Th. 211 ss.), ma gli dèi dispongono la mente (τιθεῖσι di v. 208 riprende θέσαν 205) degli uomini secondo gli eventi del giorno (ἁμέριον = ἡμέριον, in contrasto con αἰὲν di v. 204). Ma il sire Apollo lungisaettante (ἄναξ ἑκάεργος Ἀπόλλων è clausola formulare, cfr. Il. XV 253; XXI 461, ecc.) non porti a compimento (τελέσσαι = τελέσαι, ottativo deprecativo, non infinito) tutte le tue (τεὰς = σὰς) profezie (μαντοσύνας, cfr. Emped. 31 B 112, 10 D.-K.)».

[2] vv. 211-224. «Ma se (αἰ = εἰ) è destino, e le Moire (le dee del destino, figlie di Zeus e di Themis: Cloto, Lachesi e Atropo, secondo Hes. Th. 904-906 Μοίρας θ’, ᾗς πλείστην τιμὴν πόρε μητίετα Ζεύς,/Κλωθώ τε Λάχεσίν τε καὶ Ἄτροπον, αἵ τε διδοῦσι/θνητοῖς ἀνθρώποισιν ἔχειν ἀγαθόν τε κακόν τε) hanno filato (l’immagine è ridondante dopo μόρσιμόν, ma tradizionale), che io veda i figli uccisi l’uno dall’altro, subito a me venga il termine (il modulo del “potessi morire prima di…” compare più volte in Omero) dell’odiosa morte (θανάτου…στυγεροῖο/-ροῦ rappresenta lo smembramento di una formula omerica, cfr. Od. XII 341 στυγεροὶ θάνατοι; XXIV 414 στυγερὸν θάνατον), prima di veder mai (ποκα = ποτε) queste molto lamentevoli (e) lacrimevoli (giustapposizione asindetica con effetto patetico) cose per i dolori (ἄλγεσ‹σ›ι = ἄλγεσι), i figli morti nel (ἐνὶ = ἐν) palazzo o (con riferimento alla profezia resa da Apollo a Laio, il dilemma stirpe/città ricomparirà in Aesch. Theb. 745-749 …Ἀπόλλωνος εὖτε Λάιος/βίᾳ, τρὶς εἰπόντος ἐν/μεσομφάλοις Πυθικοῖς/χρηστηρίοις θνῄσκοντα γέν-/νας ἄτερ σῴζειν πόλιν) la città conquistata (ἁλοίσαν = ἁλοῦσαν < ἁλίσκομαι). Suvvia, figli (παίδες = παῖδες), alle mie parole date ascolto, figli (τέκνα) diletti, io a voi (ὑμὶν = ὑμῖν) propongo (προφαίνω, con intenzionale antitesi, ma con diversa valenza semantica, rispetto al πρόφαινε di v. 203) questa (τᾶιδε = τῇδε, prolettico) soluzione: l’uno abiti ‹la celebre città di Cadmo› (πό[λιν εὐκλέα Κάδμου), tenendo (ἔχοντα) la reggia, l’altro se ne vada (ἀπίμεν = ἀπιέναι) tenendo (ἔχοντα, con ricercata simmetria dell’ἔχοντα di v. 220) il bestiame (κτεάνη) e tutto quanto l’oro di suo padre, colui che per primo (πρᾶτος = πρῶτος) per volere (ἕκατι = ἕκητι) delle Moire ottenga il verdetto col getto delle sorti (κλαροπαληδὸν, avverbio non attestato altrove, formato su *κλαροπαλέω; l’aggettivo κληροπαλής è presentein H. Herm. 129)». La relativaὃς…Μοιρᾶν è agganciata al secondo corno del dilemma essendo stato prefissato che colui la cui sorte fosse stata estratta per prima avrebbe preso la parte maggiore.

[3] vv. 225-234. «E ciò io credo (con δοκέω parentetico) che sarebbe per voi (ὔμμι = ὑμῖν) un riscatto (λυτήριον: è la prima attestazione del termine; cfr. Soph. Elect. 1489-1490 κακῶν/…λυτήριον) dal maligno destino, secondo i suggerimenti del vate divino, se il Cronide ‹proteggerà› (σαώσει) la nuova progenie (Eteocle e Polinice, opposti a Laio e a Edipo; cfr. Pind. Paean. IX, 20; Soph. OT 1) e la città di Cadmo sovrano, allontanando (ἀμβάλλων = ἀναβάλλων) per molto tempo la sventura, che è destinata (πέπρωται, forma di perfetto dalla radice * πορ-, donde l’aor. πορεῖν) ad abbattersi su Tebe”. Così disse (ὣς φάτο = ἔφατο, modulo frequentissimo nell’epica per chiudere la “cornice” di un discorso diretto) la donna divina (δῖα γυνά) parlando (ἐνέποισα = ἐνέπουσα) con miti parole, ricomponendo (π[αύο]ισα = παύουσα) la lite dei figli nel palazzo, e insieme (ἅμα) con Tiresia interprete di prodigi (τ[ερασπό]λος, integrazione su analogia con τερασκόπος, “profeta”, e ὀνειροπόλος, “interprete di sogni”), e quelli obbedirono».


Sette contro Tebe. Rilievo, marmo pario, II sec. da un sarcofago romano. Corinto, Museo Archeologico.

Il passo presenta un ritratto tutt’altro che convenzionale di una donna impegnata a prendere una decisione cruciale sotto la pressione di un forte e improvviso impatto emotivo prodotto in lei da una dolorosa profezia: Tiresia ha profetizzato che la contesa fra Eteocle e Polinice potrà risolversi solo con la mutua uccisione dei fratelli o con la distruzione di Tebe (cfr. vv. 214-217: alternativa – marcata dalla disgiuntiva ἢ – fra morte dei figli e città distrutta). Di fronte a questo dilemma soffocante la regina non si abbandona a uno sfogo patetico (anche il modulo, impiegato ai vv. 213 ss., del «potessi morire prima di…[se non…]» – cfr. p. es. Il. XXIV 244-246; Od. XVI 106-111; Mimn. F 1, 2 ss.; Theogn. 342-343 – non esprime una reale volontà di suicidio), bensì elabora una personale risposta intesa ad affrontare il problema sia sul piano ideologico che su quello operativo.

Quanto al primo, ella nega che esista alcunché di immutabile, tanto meno odio e amore, «sulla sacra terra»: tutto cambia e gli dèi adattano la mente degli uomini agli accadimenti che di giorno in giorno si verificano (il motivo compare già in Od. XVIII 136-137: «perché così è la mente degli uomini sopra la terra, /come l’ispira di giorno in giorno il padre dei numi e degli uomini»; e in Archil. F 131-132 West2: «Glauco, figlio di Leptine, l’indole degli uomini/ha la patina dei giorni che via via ci porta Zeus,/e all’azione che li impegna uniformano l’idea»). È una considerazione di sapore esistenziale che tuttavia – come ha opportunamente osservato A. Burnett, CA 7 (1988), 107-154 (114) – veniva ad assumere un’importante valenza politica in quanto rispondeva alle esigenze di una ristretta comunità oligarchica: significativa a questo proposito la possibilità di un confronto sia con una delle norme che si tramandano codificate da uno dei grandi “legislatori” arcaici, Zaleuco di Locri, secondo cui (cfr. Diod. XII 20, 3) «non bisogna avere nessuno dei concittadini come nemico inconciliabile, ma considerare l’inimicizia come se in futuro potrà di nuovo volgersi in riconciliazione e amicizia», sia con un passo dell’Aiace di Sofocle (vv. 678-683), dove il protagonista dichiara, sia pure con ironia, di aver preso consapevolezza del fatto che «i nemici odiati/ci potranno anche amare, più tardi,/e gli amici a cui farò del bene, non saranno amici per sempre; l’amicizia non è un porto sicuro per gli uomini».

Era un messaggio che, trasposto nella relazione fra Stesicoro e il pubblico delle città magnogreche presso il quale i suoi canti venivano eseguiti, poteva cooperare al tentativo, a cui anche le feste religiose e gli agoni poetici contribuivano, di frenare i contrasti tra le fazioni in lotta, secondo un ruolo del poeta e più in generale del “saggio” che le fonti antiche dichiarano esercitato proprio da Stesicoro a proposito di tensioni interne alla comunità di Locri Epizefiri.

Non meno significativa è la dimensione operativa della risposta elaborata dalla regina. Rispetto ai due schemi di sorteggio tradizionalmente usati nella Grecia arcaica – sorteggio attraverso cui si opera la divisione in lotti o porzioni uguali, ad esempio in occasione di un’eredità (cfr. Od. XIV 209-210) o della fondazione di una colonia, e sorteggio in cui si sceglie qualcuno all’interno di un gruppo – Giocasta cerca infatti di contaminare i due procedimenti, mirando simultaneamente a dividere i beni parteni fra beni immobili e beni mobili (oro e armenti) e a scegliere chi fra i due dovrà tenere i primi insieme con il regno e chi invece dovrà prendersi i secondi andando in esilio.

Si tratta di un’ingegnosa soluzione di compromesso, fondato su una personale «opinione» (δοκέω v. 225) che cerca di sfruttare le pieghe dei responsi, ma che sembra tuttavia condannata al fallimento. La simultanea salvezza della stirpe e della città può infatti realizzarsi solo temporaneamente: la stessa regina invoca da Zeus non l’eliminazione ma solo un «rinvio» (ἀμβάλλων v. 230) della rovina incombente. E nel contempo una tale spartizione non avrebbe fatto che esacerbare il figlio esiliato e insieme indebolire il regno di colui che restava (Eteocle): «regnare», nel mondo della monarchia eroica, comportava non solo autorità su uomini e cose, ma anche il disporre di armenti e di quel metallo che «voleva dire strumenti e armi», nonché disponibilità di κειμήλια (“tesori”), in quanto simboli di ricchezza e di prestigio (cfr. Finley, 70 s.).

Sul piano espressivo, dunque, è possibile cogliere nell’arte di Stesicoro una puntigliosa aderenza a moduli già noti dall’epica, ma non è possibile accertare in che misura essi derivino direttamente da quella tradizione o da una ancora più antica. D’altra parte, una tale impressione è verificabile solo nell’ambito del discorso diretto di Giocasta, mentre le sezioni narrative (come, p. es., quella della partenza e del viaggio di Polinice e dei suoi compagni alla volta di Argo) dovevano procedere con un ritmo molto veloce e una selezione estremamente sintetica dei dettagli. Si può, ancora, osservare, anche all’interno della replica di «Giocasta», che la dizione tradizionale, con un procedimento che si potrebbe definire “manieristico”, viene caricata e appesantita dalle Stesichori… graves Camenae di oraziana memoria. Si riscontra, infatti, la costante ricerca di un’enfasi espressiva che va spesso al di là della misura epica, determinata da fenomeni peculiari, come la ripetizione di nozioni già espresse, l’accumulo di sinonimi, la contrapposizione polare di concetti antitetici.

La lettura del testo evidenzia, insomma, uno stile che rende ora meglio comprensibile il giudizio di Quintiliano (X 1, 62), che se elogiava in Stesicoro la capacità di attribuire ai suoi personaggi l’appropriato rilievo sia nell’agire sia nel parlare (reddit enim personis in agendo simul loquendoque debitam dignitatem) ne sottolineava, d’altra parte, l’effusa ridondanza (sed redundat atque effunditur).

La Gerioneide (F S11; S13, 2-6; S15, col. II)

Non meno interessanti del brano della Tebaide appaiono i frammenti provenienti dalla Gerioneide, che presenta la rievocazione di una di quelle saghe legate all’esplorazione e alla colonizzazione di nuove terre occidentali. Generalmente, Gerione è rappresentato come un mostro gigante dotato di tre teste e tre busti (ma due gambe), che possedeva una mandria di buoi, custodita dal pastore Eurizione e dal cane a due teste Ortro. Nei suoi versi Stesicoro narrava della cattura da parte di Eracle, come una delle sue proverbiali fatiche, delle vacche di Gerione nell’isola di Erizia, situata nell’estremo Occidente presso Cadice, di fronte alla foce del fiume Tartesso, oggi Guadalquivir (cfr. Strab. III 2, 11).

Sia pure a costo di qualche lacuna, oggi, grazie a un fortunato ritrovamento papiraceo, possiamo leggere almeno tre parti: il dialogo fra qualcuno (probabilmente un guardiano delle mandrie, in genere chiamato Eurizione nella tradizione mitografica) che cerca di dissuadere il gigante dal battersi con Eracle e Gerione stesso che, sul punto di affrontare lo scontro, ne prevede l’esito mortale ma rifiuta di dar prova di viltà (F S11); la supplica della madre Calliroe a Gerione perché rinunci allo scontro (F S13, 2-6); infine la rappresentazione della morte patita dallo sventurato mandriano (F S15, col. II).

Pittori del Gruppo di Priceton. Il gigante Gerione. Pittura vascolare su anfora a collo con figure nere, 540-530 a.C. ca. dall’Attica. New York, Metropolitan Museum of Art.

S11

χηρσὶν δ[     τὸν

     δ᾽ ἀπαμ[ειβόμενος

ποτέφα̣ [κρατερὸς Χρυσάορος ἀ-

     θανάτοιο̣ [γόνος καὶ Καλλιρόας[1]·

«μή μοι θά[νατον προφέρων κρυόεν-

     τα, δεδίσκ[ε’ ἀγάνορα θυμόν,

μηδεμελ[

     Αἰ μὲν γὰ[ρ γένος ἀθάνατος πέλο-

μαι καὶ ἀγή̣[ραος ὥστε βίου πεδέχειν

     ἐν Ὀλύμπ[ῳ,

κρέσσον[ ἐ-

     λέγχεα δ̣[

καὶ τ[

κεραϊ[ζομένας ἐπιδῆν βόας ἁ-

     μετέρω[ν ἀπόνοσφιν ἐπαύλων

Αἰ δ᾽ ὦ φί̣[λε χρὴ στυγερόν μ᾽ ἐπὶ γῆ-

     ρας [ἱκ]έ̣σ̣θαι̣,

ζώ[ει]ν τ᾽ ἐν̣ ἐ̣[φαμερίοις ἀπάνευ-

     θε θ̣[ε]ῶ̣ν μακάρω[ν,

νῦν μοι πο̣λ̣ὺ̣ κ̣ά̣[λλιόν ἐστι παθῆν

     ὅ τι μόρσιμ[ον

καὶ ὀνείδε[     α

καὶ παντὶ γέ[νει                                     ἐξ-

     ὀπίσω Χρυς[άο]ρ̣ο[ς υ]ἱ̣ό̣ν̣·

μ]ὴ τοῦτο φ[ί]λ̣ον μακά̣[ρε]σσι θε[ο]ῖ-

     σι γ]ένοιτο

….].[.].κ̣ε[..].[.] περὶ βουσὶν ἐμαῖς

     ……………]

     ]κ̣λεος̣.[[2]

S13

     ……] ἐ̣γ̣ὼν̣ [μελέ]α καὶ ἀλασ-

     τοτόκος κ]αὶ ἄλ̣[ας]τ̣α̣ π̣α̣θοῖσα

…… Γ]αρυόνα γωνάζομα[ι,

     αἴ ποκ᾽ ἐμ]όν τιν μαζ[ὸν] ἐ̣[πέσχον[3]

S15

                   ]ων̣ στυγε[ρ]οῦ

     θανάτοι]ο ..[ ]

κ]ε̣φ[αλ]ᾷ πέρι̣ [ ] ἔ̣χων, πεφορυ-

     γ]μένος αἵματ[ι …..]..[..]ι̣ τε χολᾷ,

ὀλεσάνορος αἰολοδε[ίρ]ου

ὀδύναισιν Ὕδρας· σιγᾷ δ᾽ ὅ γ᾽ ἐπι-

     κλοπάδαν [ἐ]νέρεισε μετώπῳ·

διὰ δ᾽ ἔσχισε σάρκα [καὶ] ὀ̣[στ]έ̣α δαί-

     μονος αἴσᾳ·

διὰ δ᾽ ἀντικρὺ σχέθεν οἰ[σ]τ̣ὸς ἐπ᾽ ἀ-

     κροτάταν κορυφάν,

ἐμίαινε δ᾽ ἄρ᾽ αἵματι πο̣ρ̣φ̣[υρέῳ

     θώρακά τε καὶ βροτό̣ε̣ντ̣[α μέλεα·

ἀπέκλινε δ᾽ ἄρ᾽ αὐχένα Γ̣α̣ρ̣[υόνας

     ἐπικάρσιον, ὡς ὅκα μ[ά]κ̣ω̣[ν

ἅτε καταισχύνοισ᾽ ἁπ̣α̣λ̣ὸ̣ν̣ [δέμας     

αἶψ’ ἀπὸ φύλλα βαλοῖσα̣ ν̣[[4]

Pittore delle Iscrizioni. Eracle combatte contro Gerione e gli ruba il bestiame. Pittura vascolare da un’anfora calcidica a figure nere, c. 540 a.C. dall’Italia meridionale. Paris, Cabinet des Médailles.


[1] vv. 1-4. «… con le mani ‹…A lui› rispondendo diceva (ποτέφα = προσέφη: calco dell’omerico τὸν δ᾽ ἀπαμειβόμενος προσέφη) ‹il forte figlio di Crisaore› immortale ‹e di Calliroe› (la genealogia è quella già fissata da Hes. Th. 287 ss.; 979-983;Crisaore, “Spada d’oro” era balzato fuori dal capo di Medusa insieme con il cavallo Pegaso, quando Perseo le aveva mozzato latesta)».

[2] vv. 6-29: «“No, ‹preannunciando› a me una morte ‹agghiacciante› (κρυόεν-]|-τα), non cercare di terrorizzarmi ‹l’animo fiero›, né… Se (αἰ = εἰ), infatti, ‹fossi immune da morte› e da vecchiezza ‹così da vivere› sull’Olimpo, ‹sarebbe› meglio ‹…› e i biasimi… ‹osservare (ἐπιδῆν = ἐπιδεῖν) le mie vacche› razziate ‹via› dalle nostre ‹stalle›. Ma se, o mio caro, ‹mi tocca› arrivare alla vecchiezza e vivere tra ‹gli effimeri› (l’uso di ἐφήμεροι / ἐφημέριοι per indicare gli uomini – in quanto sottoposti agli influssi della sorte e dei loro stessi volubili pensieri e tali quindi da mutare condizione ogni giorno – non è omerico ma è attestato fra i lirici in Semon. F 1, 3 W2; Pind. Pyth. VIII 95; F 157, 1; 182, 1) lungi dagli dèi beati, ora per me è molto più nobile ‹patire› (παθῆν = παθεῖν) ciò che è mio destino patire e che il figlio di Crisaore ‹non attacchi› le infamie ‹ai suoi nati› e a tutta la stirpe futura (ἐξοπίσω, cfr. Sol. F 13, 32 W2): questo non sia caro agli dèi beati, che ‹…› per le mie vacche ‹…› la fama… (l’accento batte sul fatto che il κλέος è qualcosa di strettamente legato alla condizione mortale, che non conosce altra risorsa per affermare il proprio valore)».

[3] vv. 2-5. «… io, ‹misera› e che ho generato un figlio sventurato e sventure indimenticabili ho sofferto (παθοῖσα = παθοῦσα),… supplico (γωνάζομαι = γουνάζομαι, propriamente “stringo le tue ginocchia”, cfr. Od. XI 66 νῦν δέ σε τῶν ὄπιθεν γουνάζομαι) ‹te›, o Gerione, ‹se mai› (αἴ ποκ’ = εἰ ποτ’) ti (τιν = σοι) ‹porsi› il mio seno».

[4] vv. 1-17. «… ‹la freccia› che aveva intorno alla punta ‹il termine› della morte odiosa, intrisa del sangue e della bile ‹…› dell’Idra (l’Idra di Lerna, nell’Argolide, nata da Tifone e da Echidna, un serpente mostruoso dalle molte teste che ricrescevano ogni volta che fossero state mozzate: Eracle la uccise nel corso della seconda delle sue “fatiche” con l’aiuto del nipote Iolao, che diede fuoco a una vicina foresta, procurando all’eroe rami infuocati con cui l’eroe cicatrizzava la pelle dell’Idra, là dove ne aveva appena tagliato una testa) omicida dal collo screziato (altrove in età arcaica e classica αἰολοδείρος compare solo in Ibyc. PMGF 317a, 2, in relazione a delle anatre; l’accostamento con ὀλεσάνορος = ὀλεσήνορος crea un effetto di violento chiaroscuro) ‹…› per gli spasimi di dolore. In silenzio, furtivamente (ἐπικλοπάδαν, sonante avverbio formato su ἐπίκλοπος), essa si conficcò nella fronte e lacerò la carne ‹e› le ossa per volere di un nume (cfr. Od. XI 61 δαίμονος αἶσα κακὴ). Da parte a parte la freccia raggiunse (σχέθεν = ἔσχεν) l’apice del capo e macchiava di sangue purpureo (cfr. da un lato Il. IV 146 μιάνθην αἵματι μηροὶ; XVI 795796 μιάνθησαν δὲ ἔθειραι / αἵματι; dall’altro Il. XVII 360-361 αἵματι δὲ χθὼν / δεύετο πορφυρέῳ: Stesicoro fonde i due nessi omericicreando un’espressione più enfatica) la corazza e ‹le membra› (già) insanguinate (Stesicoro trasferisce alle membra un aggettivo che Omero riferiva alle “spoglie”, le armi tolte al nemico ucciso), e Gerione piegò il collo di lato,  come quando (ὅκα = ὅτε) un papavero, sfigurando (καταισχύνοισα = καταισχύνουσα: ἅτε conferisce al participio un tenue valore causale) la delicata ‹figura›, d’un tratto lasciando cadere (ἀπὸ …βαλοῖσα = ἀποβαλοῦσα) i petali…».


Ercole e Gerione. Rilievo, marmo, III sec. d.C. ca. Toulouse, Musée Saint-Raymond.

Soprattutto nel primo brano si trovano, come nella Tebaide, scansioni elaborate e simmetriche: il discorso diretto viene introdotto, omericamente, con l’espressione di dire e il nesso nome/epiteto del parlante; l’invito iniziale («non indurmi a temere la morte») viene allargato con una motivazione sviluppata attraverso due ipotesi in contrasto avviate rispettivamente da αἰ μὲν (v. 8) e αἰ δ’ (v. 16) in principio di colon metrico; infine balza agli occhi il parallelismo fra ἐλέγχεα (vv. 11-12) e ὀνείδε[α (v. 22) e tra κρέσσον (v. 11) e κά[λλιον (v. 20).

Di qui una “liricizzazione” che espande in calme geometrie un modello epico più energico ed essenziale che si può ravvisare nel discorso rivolto da Sarpedonte a Glauco in Il. XII 322-328: «Amico mio, se sfuggendo a questa battaglia potessimo vivere eterni senza vecchiaia né morte, certo non mi batterei in prima fila né spingerei te alla lotta gloriosa; ma poiché a migliaia incombono i destini di morte, e nessun uomo mortale può sfuggirli o evitarli, andiamo, dunque, daremo gloria ad altri o altri a noi la daranno» (tr. M. G. Ciani).

Anche nel secondo brano, relativo al dialogo fra madre e figlio, è riconoscibile la memoria di un modello epico illustre, ossia la supplica di Ecuba al figlio Ettore perché non affronti Achille in campo aperto (Il. XXII 82-85): «Ettore, figlio mio, rispetta questo seno; e abbi pietà di me che te lo offrivo un tempo per calmare il tuo pianto; ricordalo, figlio mio, e respingi il nemico restando dentro le mura, al riparo, non affrontarlo in campo» (tr. M. G. Ciani); d’altra parte, è presente anche la propensione stesicorea a variare l’epos con l’epos: il raffinato composto ἀλαστοτόκος («che ha generato ἄλαστα, cose indimenticabili», da ἀ- privativo e tema verbale di λανθάνω) non compare nella supplica di Ecuba a Ettore ma ha dietro di sé un diverso aggettivo epico, δυσαριστοτόκεια «che ha generato in modo sventurato [δυσ-] un figlio eccelso»), usato anch’esso per l’apostrofe di una madre a un figlio sventurato (Teti ad Achille in Il. XVIII 54).

Nel terzo brano, infine, il gesto di reclinare il collo e il paragone con il papavero richiamano la descrizione omerica della morte di Gorgizione figlio di Priamo, colpito per errore da una freccia scagliata da Teucro in Il. VIII 306-308 – «Come un papavero, in un orto, piega la corolla di lato sotto il peso dei semi e delle piogge primaverili, così si piegò la testa dell’eroe, sotto il peso dell’elmo» (tr. M. G. Ciani) –, e più genericamente tradizionale si più considerare l’osservazione analitica del percorso compiuto dal dardo, mentre nuovo sembra il tentativo di suggerire preliminarmente l’atmosfera della scena attraverso la giustapposizione iniziale degli avverbi σιγᾷ («in silenzio», v.6) e ἐπικλοπάδαν («furtivamente», vv. 6-7). Più in generale, appare innovativo nella Gerioneide soprattutto il dato per cui Stesicoro attribuisce a Gerione, un essere deforme che la tradizione letteraria e iconografica dipinge in genere come dotato di tre teste e tre busti (ma due gambe), lo statuto di eroe valoroso provvisto di un’acuta sensibilità umana, e dunque rifiuta implicitamente la concezione tradizionale per cui la bellezza fisica era componente essenziale dell’eroismo.

Pittore Eutimide. Elena rapita da Teseo (particolare). Anfora attica a figure rosse, V sec. a.C. ca., da Vulci. München, Staatliche Antikensammlung.

Le παλινῳδὶαι per Elena

L’atteggiamento assai libero di Stesicoro nei confronti della mitologia e la sua disponibilità a conformare le singole versioni di una storia al gusto dei diversi contesti di pubblico a cui erano destinati i suoi carmi sono eloquentemente documentati dai suoi interventi sulla figura di Elena (PMGF 192-193). Dell’eroina il poeta doveva aver narrato una prima volta la vicenda nella forma tradizionale (omerica), che presentava la donna come un’adultera e traditrice della patria Sparta. In un secondo momento, però, sullo stesso mito Stesicoro avrebbe composto due παλινῳδὶαι («ritrattazioni»), probabilmente perché sollecitato da un uditorio magno-greco insoddisfatto della memoria dell’eroina dorica. Secondo una tradizione aneddotica, il poeta avrebbe cercato per questa via di recuperare la vista perduta, dopo che l’eroina divinizzata, incollerita con lui, lo aveva reso cieco. È plausibile che questa leggenda si sia sviluppata a partire da qualche dichiarazione di Stesicoro stesso che, per giustificare il mutamento della versione e ammettere che «non era vero» il suo racconto precedente, aveva forse affermato di essere stato metaforicamente «accecato», perché non aveva saputo «vedere» la verità (così Cameleonte e Conone, FGrHist. 26 F 1, 18; e Ireneo, Haer. I 23, 2).

La prima delle due palinodie – ammesso che non si trattasse di una sola, articolata in due fasi –, che iniziava con δεῦρ’ αὖτε θεὰ φιλόμολπε («Orsù, di nuovo, o dea amica del canto», PMGF 193), rigettò la precedente presentazione della storia, condotta sulla falsariga di Omero, proponendo la versione per cui Elena partì da Sparta con Paride, ma non sarebbe mai andata a Troia: durante una sosta in Egitto, ella sarebbe stata sostituita da un εἴδωλον, un «fantasma» della bellissima donna, creato da Hera, che, desiderosa di scatenare la guerra fra Achei e Troiani, voleva anche vendicarsi di Paride, impedendogli di godere del premio promessogli da Afrodite. Perciò, il conflitto si sarebbe risolto per questa falsa immagine della regina spartana; questa, infatti, sarebbe stata ritrovata da Menelao al ritorno dalla guerra: si tratta di una versione del mito attestata per la prima volta in Esiodo, F 358 Merkelbach-West, e che si ritrova in seguito anche nell’Elena di Euripide.

La seconda palinodia, che iniziava con χρυσόπτερε παρθένε («O vergine dalle ali dorate», PMGF 193), doveva proporre un’ulteriore versione ancora più assolutoria, secondo la quale Elena non avrebbe mai messo piede sulla nave di Paride: non solo l’eroina non sarebbe mai giunta a Troia, ma non avrebbe neppure abbandonato Sparta. A questa seconda palinodia appartiene il tristico, costituito da due enopli (vv. 1 e 3) e da una pentapodia trocaica catalettica (v. 2), il cui principale testimone è Platone (Plat. Phaedr. 243a-b = PMGF 192):

οὐκ ἔστ’ ἔτυμος λόγος οὗτος,

οὐδ’ ἔβας ἐν νηυσὶν ἐυσσέλμοις

οὐδ’ ἵκεο πέργαμα Τροίας.

Non è veritiera questa storia:

tu non salisti sulla nave dai bei banchi,

né giungesti alla rocca di Troia.

Oltre al prologo dell’Elena e al finale dell’Ecuba euripidee, la retractatio stesicorea influenzò l’Encomio di Elena di Gorgia e quello di Isocrate, e a Roma le composizioni di Orazio (Hor. Carm. I 16, 34; Epod. 17, 37-45) e di Tibullo (Tib. I 5, 1-18).

Pittore di Amasis. Ricongiungimento fra Elena e Menelao. Pittura vascolare su anfora attica (lato B) a figure nere, 550 a.C. ca. München, Staatliche Antikensammlungen.

***

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Gli epigoni della poesia bucolica: Mosco e Bione

di Bɪᴏɴᴅɪ I., Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 365-366.

I principali prosecutori della poesia bucolica furono Mosco di Siracusa (metà del II secolo a.C.) e Bione di Smirne (fine II secolo a.C.), entrambi ricordati nel lessico bizantino Suda; le loro opere ci sono giunte nello stesso corpus che comprendeva anche quelle di Teocrito.

London, British Library. Add MS 11885 (XV sec.), f. 35v. Mosco di Siracusa, Europa.

Mosco fu considerato dal Suda «secondo a Teocrito». Egli unì, come molti autori del suo tempo, l’attività filologica a quella poetica. Probabilmente allievo del grande Aristarco, della sua opera di grammatico ci è rimasto solo un titolo, Sulle parole rodie, forse un lessico o una raccolta di termini rari. Giovanni Stobeo ci ha conservato tre frammenti di poesia bucolica, in dialetto dorico, in cui il motivo pastorale si intreccia a quello amoroso. Il primo svolge un tema caro alla poesia ellenistica: il confronto fra la piacevole vita del contadino e quella, ben più dura e travagliata, del pescatore. Di maggior ampiezza è un epillio intitolato Europa, contenuto nel corpus teocriteo: questo componimento, in esametri, narra il mito di Europa, rapita da Zeus in forma di toro, tema assai frequente anche nelle arti figurative. Il poemetto, di carattere prevalentemente descrittivo, è ambientato in una cornice di paesaggio che richiama il ratto di Persefone a opera di Ade, trattato nell’inno omerico A Demetra. Esso contiene però anche numerose concessioni al gusto ellenistico: il racconto di un sogno, l’ἔκφρασις del cesto d’oro in cui la principessa tiria depone i fiori appena raccolti, opera di Efesto, che vi ha raffigurato il mito di Io, e, infine, un episodio di carattere romanzesco, il rapimento della fanciulla sotto gli occhi delle compagne. La tradizione antica attribuisce a Mosco anche un carme in esametri, Eros fuggitivo, in cui la stessa Afrodite fornisce i connotati del terribile figlioletto, promettendo in compenso un bacio «e anche di più», a chiunque lo ritroverà. La graziosa descrizione insiste sul contrasto fra il delicato aspetto infantile di Eros, fanciullo «dalla voce di miele», e la sua crudele potenza, capace di far soffrire chiunque. Opera di livello inferiore e di dubbia autenticità è il poemetto Megara, in esametri, in cui la sposa di Eracle e sua madre Alcmena si confidano a vicenda le sofferenze sopportate a causa dell’eroe. Molto discutibile l’attribuzione a Mosco di un altro componimento della raccolta teocritea, il XXVII, Colloquio d’amore, in cui si descrive la seduzione di una fanciulla, per la verità non troppo restia, a opera di un pastore. Compositore colto e raffinato, Mosco esercitò una certa influenza su autori posteriori, come Nonno di Panopoli, che si ispirò a lui nelle Dionisiache, e Orazio, che ne imitò l’Europa in Odi III 27.

Pierre-Maximilien Delafontaine, Venere e Cupido. Olio su tela, 1860.

Poche e incerte sono anche le notizie circa Bione di Flossa, presso Smirne; da un elogio funebre in versi, opera di un suo sconosciuto discepolo (alcuni lo hanno attribuito, con poco fondamento, a Mosco), sappiamo che il poeta soggiornò a lungo in Sicilia e che morì avvelenato; ma la notizia è tutt’altro che certa. Giovanni Stobeo ci ha trasmesso sedici componimenti in dialetto dorico (alcuni sono forse epigrammi, altri parti di opere più ampie); il suo carme più esteso, l’Epitafio di Adone, che gli fu attribuito nel Rinascimento dall’umanista Camerario, proviene da altre raccolte. Il modello è l’idillio teocriteo sulla morte di Dafni; ciò risulta evidente anche dall’uso dell’ἐφύμνιον, il «ritornello», che Teocrito riprese forse dai lamenti funebri (θρῆνοι o γόοι) e che ha la funzione di scandire le varie fasi della lamentazione rituale. Il componimento di Bione è caratterizzato dall’insistita evidenza dei particolari, macabri ed erotici insieme: Afrodite, folle d’amore, supplica il giovane morente di non perdere coscienza, almeno fino al momento in cui ella raccoglierà dalle sue labbra, con un ultimo bacio, l’estremo respiro. Intanto, il sangue che sgorga dalla mortale ferita macchia il grembo e il seno della dea, le cui tenere carni sono state crudelmente lacerate dai rovi in mezzo ai quali ha vagato in cerca dell’amante. Sofferenza e sensualità, Eros e Thanatos, si fondono in questa descrizione, che ispirò al giovane Foscolo l’inizio dell’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo.

Pieter Paul Rubens, La morte di Adone. Olio su tela, 1614 c. Jerusalem, Israel Museum.

In età umanistica venne attribuito a Bione anche il frammento di una composizione intitolata l’Epitalamio di Achille e Deidamia, in cui si narravano, in una cornice bucolica, gli amori dell’eroe con la figlia di Licomede, re di Sciro, presso il quale egli era stato nascosto sotto mentite spoglie. Anche un frammento papiraceo, pubblicato nel 1932, e contenente un dialogo fra Pan e Sileno, è stato attribuito, per motivi stilistici, a Bione.

 

Achille sull’isola di Sciro. Mosaico, II-III sec. d.C. da Zeugma. Gaziantep, Mosaic Museum.

Il genere bucolico ebbe in seguito riconoscimento ufficiale con l’opera del grammatico Artemidoro, vissuto nel I secolo a.C., in età augustea, il quale raccolse in un’edizione miscellanea «le Muse bucoliche, prima disperse», come affermò egli stesso in un epigramma dell’Anthologia Palatina (IX 205); e fu probabilmente attraverso la sua silloge che Virgilio venne a conoscenza di questo genere letterario e dei suoi maggiori esponenti.

 

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Il “Far West” dei Greci

di D. MUSTI, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, 179-198.

La colonizzazione greca di età arcaica presenta caratteri del tutto nuovi rispetto alle frequentazioni di regioni del Mediterraneo orientale o occidentale di epoca micenea. È la stessa più antica tradizione storiografica a dare una chiara nozione della novità che compete alle fondazioni greche del secolo VIII e seguenti. Antioco di Siracusa o non conosce fondazioni micenee o almeno non stabilisce un rapporto di continuità tra le presunte colonie micenee e la storia delle città d’Italia e di Sicilia di cui parla. Un’anticipazione delle città coloniali all’epoca micenea (per Crotone, come per Metaponto, per Siri o per Taranto) è solo opera della storiografia più tarda: verosimilmente già di Eforo, certamente di Timeo e seguaci.

Lo storico moderno ha il dovere di raccogliere l’invito della storiografia greca più vicina a fatti e tradizioni di fondazione delle póleis coloniali, a cogliere lo stacco storico che quelle fondazioni rappresentano rispetto al passato, il valore di evento d’ordine politico-militare, che rompe, con la sua forza innovativa, la continuità di un fatto di lunga durata, routinier, quale la conversazione ininterrotta (e assai composita) fra le diverse rive del Mediterraneo, che i Greci riassumevano sotto la vaga formula dell’emporía (l’andar per mare, comunque probabilmente soprattutto per commerciare): insomma, quel sommesso, secolare scambio di uomini e cose fra le rive del Mediterraneo, che per i Greci, come per ogni uomo di buon senso, è appena lo sfondo ovvio di contatti, che non costituiscono di per sé né un evento politico né lo sbocco chiaramente individuabile di un processo socio-economico[1].

Tempio dorico greco di Era, a Selinunte (presso Castelvetrano, TP), noto anche come “Tempio E”.

La discussione sulla colonizzazione greca è rimasta a lungo impantanata nella fase alternativa tra l’interpretazione delle fondazioni come colonie commerciali e quella che ne fa colonie agrarie e di popolamento[2]. Di fronte al fenomeno coloniale converrà porsi diversi ordini di problemi: 1) le condizioni demografiche, socio-economiche e politiche, della madrepatria; 2) il fondamentale atteggiamento psicologico dei Greci di fronte al fatto della migrazione; 3) l’articolarsi e il rapportarsi delle diverse esigenze economiche, che sono inevitabilmente compresenti – benché in misura diversa nei diversi contesti – in tutte le colonie, e le nuove situazioni complessive che ne emergono; 4) il costituirsi di autentiche “aree di colonizzazione”, specie di entità macro-territoriali, al confronto con questa o quella pólis; 5) i rapporti con l’ambiente e con la popolazione locale; 6) i rapporti con la madrepatria.

È stato sempre notato come le aree più vitali in epoca micenea, e in particolare quelle che presentano strutture palaziali, non partecipino al moto coloniale dei secoli VIII e VII; si tratta dell’Attica, dell’Argolide, della Beozia (un caso a parte è quello della Messenia, ma in quanto oggetto della conquista spartana). Nella madrepatria sono soprattutto interessate le città dell’Istmo, Corinto e Megara, quelle euboiche dell’Euripo tra Eubea e Beozia/Attica, cioè Calcide ed Eretria, come anche (caso significativo e problematico) le città dell’Acaia; in Asia Minore, Rodi, Lesbo, Mileto e altre (ma queste inviano di forma colonie nel continente antistante e in aree contigue, e il fenomeno ha forse i caratteri dell’espansione, della costituzione di un impero coloniale, più che della migrazione).

Autore ignoto. La cosiddetta ‘Coppa di Nestore’. Kotyle LG II rodia, orientalizzante, dalla necropoli di San Montano a Lacco Ameno (Ischia), 720-710 a.C. ca. Museo Archeologico di Pithecusae.
Il reperto reca inciso su di un lato un’iscrizione retrograda in alfabeto eubolico; trattasi di un epigramma formato da tre versi, che alludono alla famosa coppa descritta in Il., XI 632 (una coppa appartenuta a Nestore, talmente grande che occorrevano quattro uomini per spostarla!):
«Νέστορος [εἰμὶ] εὔποτ[ον] ποτήριον
ὃς δ’ἂν τοῦδε πίησι ποτηρί[ου] αὐτίκα κῆνον
ἵμερος αἱρήσει καλλιστε[φά]νου Ἀφροδίτης».
«Di Nestore io son la coppa bella:
chi berrà da questa coppa subito
desiderio lo prenderà di Afrodite dalla bella corona».
Un ruolo particolare esercitano in Occidente Corinzi e Calcidesi. La loro espansione coloniale non dà luogo a competizione, ma piuttosto a una sorta di distribuzione di aree e a reciproca integrazione. Un carattere effimero, minoritario, da riportare verosimilmente a una minore intesa con le altre città colonizzatrici, ha la colonizzazione eretriese, di cui si conservano sporadici indizi: una presenza a Corcira, presto obliterata dalla colonia corinzia condotta, in sincronia con la fondazione di Siracusa (circa il 733), da Cheresicrate; una a Pitecussa, in cooperazione con i Calcidesi. Non è escluso che la guerra lelantina, che circa la seconda metà dell’VIII secolo (?) vide contrappose le due città dell’Eubea (e alleate, rispettivamente, Calcide con Samo e i Tessali, ed Eretria con Mileto), abbia posto fine all’espansionismo eretriese o all’intesa tra Eretria e Calcide, e provocato la crisi del moto coloniale eretriese, esaltando invece l’intesa tra Corinto e Calcide (che comunque può essere per sé anteriore al conflitto inter-euboico)[3].

Va intanto notato che i Greci che vanno a fondare colonie lontane dalla madrepatria tendono a “riprodurre” il paesaggio, la cornice ambientale e le opportunità strategiche della città di partenza. I Corinzi, che risiedono su un istmo, una striscia di terra che si affaccia su due mari e che perciò gode di almeno due porti, dispongono nella loro più famosa colonia d’Occidente, Siracusa, di due porti (Porto Grande e Laccio), e fondano una colonia sull’istmo della Pallene (Potidea). Se non altrettanto certo, è almeno probabile che un’analoga ricerca di condizioni e opportunità ambientali simili a quelle di partenza sia da leggere nel fatto che gli abitanti di Calcide d’Eubea, che si affaccia su un celebre stretto (l’Euripo), siano presenti nella fondazione di Zancle (Messina), come di Reggio, su più famoso stretto d’Occidente (del resto, in tema di analogie morfologiche, tra madrepatria e colonie, è stata già osservata la somiglianza tra la situazione di Focea e quella della sua colonia Marsiglia).

Isthmós (dalla radice i- di eîmi, «andare», come si addice a una «via» di terra) e porthmós (da póros e peírō, «attraversamento, attraversare», come si addice a un breve percorso di mare) sono due termini indicativi della mentalità dei coloni greci, che puntavano su posizioni strategiche da mettere a frutto camminando o attraversando.

Litra d’argento (0,58 gr.) da Nasso (Sicilia). 520–510 a.C. ca. Dritto – Testa arcaica di Dioniso, rivolta a sinistra; Rovescio – Grappolo d’uva.

Con la menzione della colonizzazione di Pitecussa (Ischia) abbiamo evocato quella che è stata considerata, con immagine pittoresca, l’«alba» della colonizzazione della Magna Grecia[4]. Un’alba che ha naturalmente colori alquanto diversi da quelli del giorno pieno della Magna Grecia, che si direbbe risplenda tra il VII e il VI secolo. La colonia greca di Lacco Ameno, databile a circa il 770 a.C., precede la fondazione di Cuma sul continente: si caratterizza per la scarsità del territorio (ritenuto tuttavia fertile, soprattutto per la produzione di vino) e la presenza di chryseîa, che sembra difficile interpretare come «miniere d’oro» e forse devono intendersi come «officine per la lavorazione dell’oro». A Pitecussa è stato messo in luce un quartiere di fornaci per la lavorazione di metalli, come il ferro proveniente dall’isola d’Elba[5]. È stato posto il problema se si tratti di una vera città o solo di uno scalo, di un emporio. Per Strabone era probabilmente una pólis: se noi ci poniamo il problema di definire diversamente, ciò è forse solo dovuto al fatto che pretendiamo di misurare il carattere di Pitecussa su quelle caratteristiche (territoriali, monumentali, urbanistiche, funzionali), che le altre póleis greche in àmbito coloniale assunsero nel corso del tempo, superando quella condizione di primo insediamento, che in genere solo un paio di secoli dopo appare pienamente superata[6]. Pitecussa è un insediamento gracile: non possiamo applicarle parametri di valutazione che, più o meno consapevolmente, derivano dall’assetto delle póleis «riuscite», quale conseguito nel VI secolo. La discussione su Pitecussa è un tipico caso di hýsteronpróteron storico e filologico.

Ingresso all’Antro della Sibilla, a Cuma.

Stando alla tradizione riflessa in Eusebio (da Eforo?), Cuma fu la prima colonia greca in Italia, fondata circa il 1050 a.C. Una cronologia così alta segnala di per sé quella prospettiva continuistica (che cioè non ammette soluzione di continuità, né differenze di qualità tra “presenze” greche di età micenea e “colonizzazione politica” di epoca arcaica), che si afferma da Eforo a Timeo. In realtà, date attendibili, che ci riportino a una più credibile cronologia di VIII secolo (Cuma fondata poco dopo Pitecussa), mancano per Cuma, come in generale per le colonie calcidesi d’Occidente (Zancle e Reggio sullo stretto tra la Sicilia e l’Italia, o Partenope e la stessa Neapolis), fatta eccezione per quelle colonie calcidesi di Sicilia (Nasso, Leontini, Catania), le cui fondazioni siano messe in una precisa relazione cronologica con la data di fondazione di Siracusa, come riflesso del fatto di essere state in qualche modo coinvolte nelle vicende siracusane. Nella storia, come nella cronologia, delle colonie greche d’Occidente la storiografia siceliota (anzi, essenzialmente, siracusana) appare determinante, e quella di V secolo (Antioco, come rispecchiato, tra l’altro, a quanto sembra, in Tucidide) fornisce indicazioni ad annum: 733 circa per Siracusa, e quindi 734 per la decana riconosciuta delle colonie greche di Sicilia, Nasso; 728/7 per Leontini, Catania (e giù di lì per Megara Iblea, fondazione di Megaresi di Grecia). Fluttuante, nella tradizione, anche la cronologia delle colonie delle altre aree coloniali, tranne che per un’eccezione (Crotone), data la sua presunta quasi-contemporaneità con Siracusa, e per gli eventuali annessi e connessi (Sibari nella tradizione antiochea preesiste – benché non ci sia detto di quanto – a Crotone; Metaponto, nella stessa tradizione, è posteriore alla fondazione di Taranto)[7].

Complessivamente, per le città del mar Ionio abbiamo dunque nella tradizione un doppio ordine di date: 1) quelle raccolte in Eusebio e Girolamo, che si avvicinano al 700 a.C., e 2) una data per Crotone, come una data possibile per Reggio, più alte e più vicine alle date delle fondazioni di Sicilia; si ha l’impressione che proprio in Antioco ci sia la tendenza ad avvicinare, a un livello cronologico piuttosto alto, le date dei processi coloniali in Sicilia e in Magna Grecia; è comunque certo che la tradizione cronografica tarda – che prende probabilmente le mosse da Eforo e seguaci – opera una forte divaricazione tra le fondazioni di Sicilia (di cui addirittura dà date più alte che in Antioco e Tucidide, come è il caso di Nasso, di Megara Iblea e della stessa Siracusa, che risalgono così a poco prima del 750 a.C.) e quelle della costa ionia d’Italia, che tale tradizione cronografica respinge nell’ultimo decennio dell’VIII secolo.

Mappa della Sicilia antica.

I problemi della cronologia si possono affrontare con l’occhio rivolto alle aree verso cui si dirigono i diversi moti coloniali. Pur senza trascurare le innegabili interferenze, e persino l’esistenza di colonie miste, ben note alla tradizione, occorre tenere in conto maggiore che per il passato l’esistenza di mete preferenziali delle diverse imprese coloniali, che tendono spesso a recuperare condizioni simili a quelle di partenza e a costituire aree di una qualche omogeneità, talora interrotte da enclaves ora più ora meno mal tollerate. È innegabile che da Crotone a Sibari a Metaponto si crei un’area achea, che ovviamente non sbocca nella creazione di un’unità territoriale e politica: le póleis restano autonome, ma costituiscono, o riscoprono puntualmente, nel corso del tempo, forme di solidarietà che sono di natura culturale, cultuale, economica e politica in senso lato.

Statere d’argento (8,1 gr.) da Sibari. 550-510 a.C. ca. Legenda – VM in exergo. Toro stante verso sinistra, con testa rivolta a destra. Dewing Coll. 406.

Il concetto stesso di Megálē Hellás, nelle sue diverse accezioni, ricopre comunque e sempre lo spazio occupato dalle colonie achee. Benché certamente non limitata a queste, in queste la nozione ebbe la sua humus fecondatrice[8]. Nel VI secolo le colonie achee tentano di eliminare l’enclave ionia di Siri, una città fondata da esuli di Colofone, che erano sfuggiti alla pressione lida, probabilmente al tempo del re Gige, intorno al 675 a.C. Circa un secolo dopo Siri fu distrutta e acaizzata da Metaponto, Crotone e Sibari. Secondo Antioco, l’aspirazione degli Achei a controllare la ricca Siritide, contendendone il possesso ai Tarentini (coloni di Sparta), risale all’VIII secolo e precede la fondazione della stessa Metaponto. Antioco sembra del resto realisticamente attento a quelle che potremmo chiamare “logiche territoriali”, che orientano l’espansione greca sul sito coloniale: gli Achei di Sibari mandano a chiamare (metapémpontai) altri Achei per occupare Metaponto, perché, occupando strategicamente l’altro punto estremo del territorio conteso (qual è, rispetto a Sibari, Metaponto), essi avrebbero controllato anche l’intermedia Siritide; così, per lo stesso autore furono gli Zanclei a chiamare (metapémpesthai) i loro consanguinei da Calcide, per fondare Reggio (si direbbe, in un’analoga prospettiva strategica di controllo calcidese dei due versanti dello Stretto): in Sicilia i Nassii, secondo Tucidide, nella loro espansione nell’area etnea, colonizzano prima la più lontana Leontini e solo successivamente l’intermedia Catania[9].

Ricostruzione assiometrica e pianta di un’abitazione sicula, nell’insediamento di Thapsos (Sicilia orientale).

Al loro arrivo in Sicilia i Greci trovavano già stanziate varie genti non greche, quale da più antica quale da più recente data, quale per un’estensione maggiore, quale concentrata in una zona più ristretta. Davano all’isola il nome e la facies culturale preminente i Siculi e i Sicani, i primi attestati nella parte orientale e centro-meridionale, i secondi nella parte occidentale. I primi erano stanziati alle spalle del territorio che fu di Zancle, e delle colonie calcidesi dell’area etnea (Nasso, Catania, Leontini), di Siracusa e Camarina, e lambivano certamente il territorio di Gela; loro centri, vivi ancora nel V secolo, erano Menai(non) (= Mineo?), il lago degli dèi Palici (= lago Naftia), e inoltre il sito che sotto il ribelle siculo Ducezio si ridenominò Morgantina. Identificati nella tradizione etnografica ora con gli Itali ora con gli Ausoni ora con i Liguri, e fatti provenire da punti diversi della penisola (da postazioni più settentrionali, al Lazio, o alla Campania e alla punta estrema d’Italia), i Siculi erano considerati dagli antichi – e lo sono dagli archeologi e storici moderni – strettamente imparentati con le popolazioni della penisola. Si tende tuttavia a distinguere tra una facies culturale ausonia, riscontrabile nelle Lipari e nel Milazzese già dal XIII secolo a.C., e una facies probabilmente sicula, documentabile a Pantalica, a Melilli, a Cassibile, solo alla fine, o dopo la fine, dell’età del Bronzo e del II millennio a.C. Ecateo colloca un insediamento a Nola. Io ho proposto, per l’etimologia di Ausoni, almeno come sentito dai Greci, la derivazione dalla radice au- di aúein, «ardere», con riferimento ai fenomeni vulcanici (fumo e fiamme) del Vesuvio e zone attigue. Finora rapporti con la cultura appenninica, tali da giustificare la tradizione di una migrazione, sembrano più forti per la civiltà ausonia che per la civiltà propriamente sicula (posto che si debba veramente distinguere tra le due; le fonti letterarie solo in parte consentono con una distinzione, che resta in certa misura convenzionale e provvisoria, pur se assai suggestiva)[10].

Protome bovina del centro siculo di Castiglione (Ragusa).

Nel corso del Tardo Bronzo, dal XVI/XV al XIII secolo a.C., è d’altronde verificabile nella Sicilia orientale (in particolare a Thapsos) come, e soprattutto, nelle isole Lipari, una presenza notevole di materiale miceneo (a Lipari persino tardo-minoico), che è sicura prova di frequentazioni. Mancano finora prove di veri e propri insediamenti micenei, cioè esempi di edilizia abitativa egea (benché tanto a Pantalica quanto a Thapsos sia dato riscontrare l’esistenza di edifici che per struttura, proporzioni, probabili funzioni fanno pensare a costruzioni di tipo palaziale e perciò in qualche misura di influenza egea)[11]. Quanto ai Sicani, già l’apparentemente comune radice del nome ha suscitato fra gli antichi e fra i moderni la tesi di una fondamentale affinità con i Siculi. Rispetto a questi, tuttavia, i Sicani mostrano minori caratteristiche indoeuropee, e perciò sono considerati o una popolazione pre-indoeuropea proveniente dall’area iberica, via mare o forse anche – il che crea nuove possibilità di interferenze storiche con i Siculi – via terra (salvo, naturalmente, per l’attraversamento dello stretto di Messina), o una popolazione indoeuropea, che ha perduto, col passaggio nell’isola, le sue caratteristiche originarie[12]. Accanto a Siculi e Sicani, gli Elimi, con i loro centri di Segesta, Erice (ed Entella, poi rapidamente oscizzata dal V secolo in poi), e i Fenici (con che Tucidide intendeva anche i Cartaginesi) insediati a Solunto, Panormo, Mozia, nell’area nord-occidentale. Agli Elimi si attribuiva un’origine dai Troiani, nonché da Focesi che avevano partecipato alla guerra di Troia; certo essi presentano connessioni con civiltà orientali, in particolare con l’ambiente cipriota e fenicio (culto di Afrodite Ericina) o siriaco e microasiatico; l’ellenizzazione aveva compiuto, verificabile nel V secolo, ma probabilmente anche prima, passi notevoli (basti pensare al tempio dorico superstite a Segesta, al rapporto di competizione e però anche di interazione con Selinunte, agli stretti rapporti con Atene, che con Segesta stipula un trattato poco prima della metà del V secolo, e in suo aiuto interviene in Sicilia, contro Selinunte e Siracusa, nel 427 e nel 415 a.C.)[13].

Il cosiddetto “Trono Ludovisi”: sul lato frontale spicca il bassorilievo che rappresenta Afrodite Anadyomene, che sta sorgendo dalle acque vestita da un leggerissimo chitone, che lascia intravedere le curve del corpo. Due Horai poste ai lati sorreggono un velo che nasconde la parte inferiore della scena. Il manufatto marmoreo è stato rinvenuto nei pressi del Tempio di Venere Erycina a Roma, e datato al 460-450 a.C. circa. Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps.

Si pone qui un problema di definizione della categoria di ellenizzazione, un po’ più rigorosa di quella che si adotta in generale. Ellenizzazione finisce col significare, nel linguaggio corrente, due cose profondamente diverse fra loro: acculturazione, perciò permeazione di elementi di cultura greca, per lo più consistenti in oggetti archeologici tipicamente “polisemici”, cioè suscettibili delle più diverse interpretazioni storiche; e controllo politico. Si pone l’ulteriore problema, se i Siculi siano stati in questo senso più ellenizzati dei Sicani. Se con ciò s’intende una maggiore infiltrazione di oggetti e di espressioni culturali greche di epoca arcaica, ciò, sembra potersi, allo stato della nostra informazione, affermare per i Siculi; benché nuove scoperte archeologiche

modifichino rapidamente il quadro anche per il territorio sicano. Se però per ellenizzazione s’intende controllo del territorio, è facile affermare il contrario. Basti pensare all’estensione del dominio territoriale all’interno dell’isola e attraverso di essa, da una costa all’altra, delle città greche più impegnate a costruirsi una chōra. Ora, tra il 488 e il 472 il tiranno di Agrigento, Terone, riuscì a costituirsi un dominio continuo, trasversale, e che perciò includeva o attraversava il territorio sicano, tra la sua città ed Imera, sita sulla costa settentrionale. Il territorio selinuntino confina d’altronde con quello segestano, e questo non può non aver comportato una qualche capacità di tenere sotto controllo la popolazione sicana dell’area o delle sue immediate vicinanze. In questa direzione avanzò certo già Falaride nel VI secolo; ma gli scontri che egli dovette affrontare (quando conquistò ad esempio la sicana Uessa) o la minaccia che i Sicani nel VI secolo potettero esercitare su Imera mostrano che ancora per una larga parte del VI secolo i Sicani erano capaci di una resistenza che viene meno nel secolo successivo[14].

Pittore di Edimburgo. Atena nella Gigantomachia. Pittura vascolare da una lekythos attica a sfondo bianco, da Gela. 500 a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

Più complessa, ma anche particolarmente istruttiva, la storia del rapporto di Siracusa e di Gela col proprio hinterland. Siracusa fonda nel 633 Acre (=Palazzolo Acreide) e nel 643 Casmene (probabilmente da identificare con Monte Casale): è evidente che, durante le prime tre generazioni di vita della grande colonia, il problema principale è per essa quello di un controllo del territorio in profondità, in primo luogo della valle dell’Anapo, che è via di penetrazione verso l’interno, ma anche sgradita minaccia dell’interno sulla costa. Nel 598 Siracusa “sfonda” sulla costa occidentale, dando vita a Camarina. Ormai il disegno siracusano appare più chiaramente quello della costituzione di un territorio ampio e continuo, con la conquista di un sito sulla costa occidentale dell’isola, già occupata, verso nord, da Gela (fondata da coloni rodio-cretesi nel 688) e da Selinunte (fondata da Megaresi di Megara Iblea, non senza l’apporto della madrepatria greca, da cui proveniva l’ecista Pammilo) intorno al 628 o al 650[15]; solo successiva alla fondazione di Camarina sembra la nascita di una sottocolonia geloa, Akragas (Agrigento), forse da collegare con fermenti politici interni a Gela, quali si addicono alle vicende delle colonie nel VI secolo, e come sembrerebbe suggerito dalla precoce instaurazione di una tirannide ad Agrigento, con Falaride.

Didracma d’argento (8, 37 gr.) da Agrigento. 480-470 a.C. ca. Dritto: aquila stante, verso sinistra, con attorniata dalla legenda AKRAC; rovescio: un granchio.

Caratteristica della tradizione emmenide (Terone e la sua stirpe) è comunque la provenienza diretta (o presentata come tale) da Rodi, con un certo ridimensionamento della componente culturale cretese[16]. Il rapporto di Siracusa con la popolazione del territorio appare caratteristico: questa viene asservita, ma costituisce uno strato sociale di particolare rilievo, se ha una sua denominazione particolare (Kyllýrioi, o Killi-[Kalli-]kýrioi), perciò un ruolo complessivo ben definito agli occhi della città, ed è inoltre capace di istituire forme di convivenza e alleanza politica con gli strati popolari della stessa Siracusa, con il suo dâmos, che nel V secolo costituisce documentabilmente già un popolo opposto a quello dei gamóroi (proprietari terrieri). Non è da trascurare il fatto che la colonia dorica di Siracusa adottasse, nei confronti della popolazione indigena, quel tipo di rapporto socioeconomico che le città doriche in Grecia realizzano verso le popolazioni del contado.

Ma quanto si estendeva il dominio territoriale di Siracusa, al di là di quei cunei strategici che essa riuscì presto a realizzare, o di quel dominio più compatto ed esteso, ma pur sempre limitato, che essai si era ormai creata all’inizio del VI secolo? Ci aiuta molto la considerazione dei compiti che ancora all’inizio del V secolo dovevano affrontare il tiranno di Gela, Ippocrate, morto nel 491, combattendo contro la sicula Ibla (= Ragusa? Paternò?), e il successore a Gela, Gelone (491-485/4), divenuto poi tiranno di Siracusa (485/4-478). Ippocrate assediò, nell’area etnea, Callipoli, Nasso, Leontini, più a nord Zancle, più a sud Siracusa e (significativo della complessità del rapporto di quest’ultima con gli indigeni) i di lei alleati Siculi. I tentativi di Ippocrate riescono con le città calcidesi, ma sono destinati a fallire contro Siracusa (del resto aiutata, dopo una sconfitta sul fiume Eloro, dai confratelli Corinzi e Corciresi) e contro i Siculi di Ibla. Il tentativo di Ippocrate di costituirsi un dominio continuo trasversale, dalla costa occidentale a quella nord-orientale, fallisce di fronte alla resistenza di indigeni e di parte dei Greci[17].

Apollónion di Ortigia, a Siracusa. Tempio dorico, eretto a partire dalla fine del VI secolo a.C.

Più concentrato su aree di tradizionale competenza siracusana o vicine a Siracusa appare l’impegno analogo, e pur diverso quanto a dimensioni, di Gelone: egli interviene a Siracusa in favore dei gamóroi esuli a Casmene, contro il dâmos e i Kyllýrioi, e, trasferito il centro del suo potere da Gela (che affida al fratello Ierone) a Siracusa, concentra in questa città tutti i Camarinesi, più di metà dei Geloi, e inoltre gli aristocratici di Megara (nonostante i loro sentimenti anti-siracusani) e gli Eubeesi di Sicilia, vendendo in schiavitù la parte più umile della cittadinanza delle città vinte[18]. Qui è all’opera in primo luogo un’idea di sviluppo demografico e urbano del centro-guida, Siracusa, che può avere solo l’effetto di obliterare o indebolire altri centri greci; naturalmente ciò comporta anche una concezione territoriale del dominio di Siracusa, che può costare il sacrificio di altre città greche, in favore dell’unica città. Sembra invece meno perseguito il disegno di un dominio territoriale indifferenziato sui centri siculi, quale aveva accarezzato Ippocrate.

Quando, poco dopo il 580, Pentatlo arriva in Sicilia con un manipolo di Cnidii, egli registra ormai nell’isola il “tutto esaurito”, rispetto alla possibilità di nuovi insediamenti greci, arricchitisi, nel 580, della nuova fondazione di Agrigento. Appellandosi alla sua discendenza da Ippote, a sua volta discendente di Eracle, Pentatlo cerca di insediarsi al Lilibeo e forse ad Erice, sostenendo Selinunte contro Segesta, ma è sconfitto (e ucciso) dagli Elimi e dai “Fenici”; i suoi seguaci occupano però le isole Eolie, fuori del territorio siciliano propriamente detto, scacciandone i pochi occupanti. Lipari diventa il centro cittadino; Iera (=Vulcano), Strongyle (= Stromboli) e Didima (=Salina) costituiscono il territorio agricolo. Moduli di proprietà privata saranno forse esistiti nella città, non certo nelle isole, che sono proprietà comune e più tardi diventano proprietà privata, ma limitata nel tempo (ogni vent’anni i titoli di proprietà si azzerano e si ha una redistribuzione del territorio).

Litra d’argento (0,6 gr.) da Siracusa. 470 a.C. ca. Testa di Aretusa rivolta a destra.

L’esperimento comunistico degli Cnidii a Lipari è sentito e sottolineato dalla tradizione antica come una singolarità. A spiegarla concorrono le condizioni ambientali (un territorio agricolo fisicamente separato dal centro urbano), ma forse anche le particolari tradizioni che caratterizzano gli ambienti dorici nei rapporti di proprietà della terra. Non sembra accettabile la tesi che scorge nel rafforzamento, o addirittura nella prima realizzazione, di una presenza cartaginese in Sicilia, militarmente organizzata, una reazione all’impresa di Pentatlo. Questi fu contrastato infatti da Elimi e “Fenici” (forse, nel linguaggio di Pausania, i Cartaginesi): non risulta che gli altri Greci l’abbiano realmente aiutato[19]. Non si può motivare la nascita di un fatto di tale significato e portata come l’epicrazia cartaginese in Sicilia con un episodio che sin dall’inizio si poneva come un tentativo senza prospettive e senza supporti, che violava un’intesa, oltre che una situazione di fatto, chiara a tutti gli occupanti stranieri della Sicilia. Il modificarsi della presenza cartaginese in Sicilia è da collegarsi in primissimo luogo con mutamenti della politica estera di Cartagine nel suo complesso, cioè con un’impostazione aggressiva verificabile in Africa, come in Sardegna, oltre che nella stessa Sicilia. Il contrasto greco-cartaginese è conseguente alle imprese di Malco (ca. 550), e al costituirsi all’interno del mondo greco – soprattutto ad opera dei tiranni – di nuove concezioni del rapporto con il territorio (il territorio degli indigeni, quello degli altri stranieri di Sicilia, quello degli stessi Greci): ed è realtà della fine del VI e soprattutto del V secolo[20].

Gli sviluppi politici interni alle colonie, tra la fondazione e il VI secolo, costituiscono uno dei capitoli più difficili della storia della grecità coloniale. le stesse origini sociali sono spesso avvolte nel buio: in particolare quelle di Taranto e di Locri Epizefiri, per le quali parte della tradizione parla della partecipazione, diretta o indiretta, di elementi servili: figli di iloti e di donne spartiate (Partenii, cioè figli di parthénoi, di donne legalmente “vergini”) nel primo caso, servi unitisi con le loro padrone nel secondo caso[21]. La presenza di elementi servili è attestata soprattutto nella tradizione più antica. Nella tradizione locale v’è diversità di comportamento delle due città: l’aristocrazia locrese sembra aver perpetuato la tradizione di un’origine ilotica e della nobiltà dei capostipiti femminili delle cento case più nobili; la presenza ilotica nelle origini di Taranto sembra invece complessivamente respinta dalla città[22].

Tempio dei Dioscuri, Agrigento. Ordine dorico, metà V secolo a.C.

I moderni assumono spesso atteggiamenti ipercritici e normalizzatori nei confronti di queste tradizioni; ma bisogna distinguere tra la forma leggendaria e la sostanza storico-sociale del racconto. Le origini socialmente complesse di una colonia, da una mistione di padroni e servi, sono, nella tradizione greca sempre produttrice di paradigmi, ricondotte alle guerre “servili” per eccellenza della storia greca arcaica, le guerre cioè per l’asservimento dei Messeni agli Spartani; guerre che d’altra parte vedono operare insieme o convivere, nel campo dei conquistatori, padroni e servi (a Sparta, gli iloti). Ma, fatta astrazione dai particolari della forma leggendaria, sarebbe difficile negare che un fenomeno così strettamente collegato con gli sviluppi demografici e i relativi contraccolpi sociali ed economici, come quello della colonizzazione, non abbia qualche volta interessato e coinvolto strati sociali inferiori. Se la tradizione non ne parlasse mai, probabilmente dovremmo sospettarlo: ora la tradizione ne parla, per Taranto e per Locri. Ne parla tuttavia solo in parte, ma sta di fatto che nelle tradizioni più antiche è fatto posto al dato scabroso della commistione di servi, mentre sembra avere origini e caratteristiche comuni la tradizione “normalizzatrice”, che espunge dalla storia delle origini delle città quell’imbarazzante presenza.

Così, per Taranto, Antioco attesta la nascita dei Partenii fondatori di Taranto (e dello stesso loro capo, Falanto)[23] dagli iloti (presentati tuttavia come Spartiati declassati per inadempienze di obblighi militari), mentre Eforo riduce gli iloti a comparse del complotto dei Partenii contro gli Spartiati, e soprattutto rende incomprensibile le ragioni della ribellione e del complotto dei Partenii, poiché questi, lungi dall’essere figli di iloti, sarebbero il frutto di unioni promiscue programmate dagli stessi Spartiati, che consentirono forse ai più giovani di unirsi anche con le mogli dei più anziani, per essere poi (incoerentemente) umiliati a un rango sociale inferiore, che li spinge alla rivolta. Al ruolo di Eforo nella storia delle origini di Taranto corrisponde quello di Timeo nella storia delle origini di Locri; questi infatti adduce, contro Aristotele, molti argomenti volti a negare l’origine semiservile dei Locresi; uno di tali argomenti è però palesemente mal posto. In antico, infatti, i Greci non avrebbero avuto schiavi comprati con denaro; ma, appunto, se c’è qualcosa di vero nella tradizione delle origini complesse di Locri, è chiamato in causa uno strato di servitù rurale e non uno di schiavi comprati.

Dai primi due secoli di vita delle colonie trapela qualcosa dell’attività dei legislatori, come Zaleuco di Locri o Caronda di Catania; ma del contenuto reale della loro opera ci impediscono di farci un’idea precisa le molte interferenze e sovrapposizioni (Caronda è legislatore a Catania, ma anche in altre città calcidesi, come Reggio) e soprattutto la manipolazione pitagorica, che di essi ha fatto altrettanto discepoli del maestro venuto in Italia solo intorno al 530 a.C. Trapela anche qualcosa dei rapporti con il territorio e con la popolazione indigena, che furono in diversi casi di sopraffazione, come mostra il cessare, qualche decennio dopo la fondazione greca, della vita di centri indigeni costieri, con eventuale conseguente spostamento degli indigeni più all’interno (ciò si verifica sul sito dell’Incoronata poco a ovest di Metaponto, in vari siti della Sibaritide, da Amendolara a Torre Mordillo a Francavilla Marittima, e nell’area locrese, come a Canale e Ianchina e in siti vicini). Che il modulo dei rapporti servili venisse trapiantato in area coloniale è più inducibile dall’esistenza della schiavitù in Magna Grecia e Sicilia, e dalla concomitante considerazione che di norma tali schiavi non dovevano essere Greci (la norma, in questo àmbito, conosce significative eccezioni, proprio nella politica dei tiranni del V secolo, che praticano consistenti violazioni dei principi greci, abolendo città e privando i loro abitanti della condizione primaria della libertà)[24].

La tradizione greca insiste, come si è detto, sugli aspetti territoriali e perciò agrari del fenomeno coloniale; in tale luce ci appare quindi anche il fenomeno delle sotto-fondazioni. Ma, come per il rapporto tra madrepatria e colonia va tenuto conto della creazione di un’area di tensione commerciale, cioè di una direttrice preferenziale di scambi (così è per esempio tra Corinto e Siracusa), così tra la Grecia propria e le zone coloniali si vanno costituendo aree minori, dove si esprime una determinata produzione artigianale o si fondano rapporti commerciali.

Metopa. Perseo decapita Medusa, assistito da Atena, dal Tempio C (Selinunte). VI secolo a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

I primi due secoli di vita delle colonie occidentali sono anche quelli in cui da un regime sociale tendenzialmente ugualitario, quale si postula (e in taluni casi, per esempio a Megara Iblea, si verifica)[25] per le prime due o tre generazioni di coloni, succede una sempre maggiore stratificazione sociale, e quindi si determina la possibilità di conflitti (stáseis), con seguenti espulsioni o pericolose secessioni di una parte del corpo civico. Di pericolosa secessione deve trattarsi nel caso dei Geloi che (forse alla fine del VII secolo) si rifugiarono a Maktorion (= Monte Bubbonia?), e che furono riportati in patria dall’antenato dei Dinomenidi, Teline, che, per la sua opera di mediatore, ottenne il privilegio della ierophantía (una sorta di sacerdozio legato ai riti misterici “delle dee”, cioè, di Demetra e Core). Da Siracusa, a metà del VII secolo, furono cacciati i cosiddetti Miletidi, che sostarono a Mile prima di partecipare, con gli Zanclei, alla fondazione di Imera (circa il 648 a.C.)[26].

È del tutto comprensibile che in taluni casi il conflitto non sboccasse nella sola espulsione di una parte e affermazione di quella rimasta in patria, ma che cambiassero anche le forme del regime. Le prime tirannidi di Sicilia a noi note sono quella di Panezio a Leontini (a cui può aver dato occasione qualche conflitto sociale determinandosi in relazione al controllo e alla distribuzione delle proprietà nella fertile piana) e quella di Falaride ad Agrigento. C’è una coincidenza complessiva con il quadro cronologico delle tirannidi della Grecia arcaica, che suscita fiducia nella tradizione. La precocità della tirannide di Falaride nella storia della città, fondata appena nel 580 a.C., risulta più accettabile, se si pensa che la stessa fondazione di Agrigento potrebbe riflettere conflitti all’interno della società geloa, che del resto in età arcaica fu turbata dalla stásis sedata da Teline. Queste prime tirannidi siceliote hanno dunque ancora motivazioni simili a quelle delle tirannidi arcaiche in genere: le tirannidi siceliote di fine VI e soprattutto V secolo hanno motivazioni e sbocchi ben più caratteristici[27]. […]


[1] Su questi temi, cfr. gli Atti del convegno Momenti precoloniali nel Mediterraneo antico, Ist. Civiltà fenicia e punica, Roma 1988; D. Musti, Strabone e la Magna Grecia. Città e popoli dell’Italia antica, Padova 1988; Id., in Storia di Roma I, Torino 1988, pp. 39 sgg.

[2] Per il tradizionale (e ormai obsoleto) dibattito sul carattere commerciale, o invece agrario e di popolamento, delle colonie greche, v. A. Gwynn, in «JHS» 38, 1918, pp. 88 sgg.; A.W. Byvanck, in «Mnemosyne» 1936/7, pp. 181 sgg.; A. Blakeway, in «ABSA» 22, 1932/3, pp. 170 sgg.; A.J. Graham, Colony and Mother-City in Ancient Greece, Manchester 1964; Id., in «JHS» 91, 1971, pp. 35 sgg.; D. Asheri, Storia della Sicilia. La Sicilia antica, a c. di E. Gabba – G. Vallet, I 1, 1979, pp. 98 sgg.

[3] Sulla cronologia e il contesto della guerra lelantina, una plausibile ricostruzione in B. d’Agostino, «Dial. di Archeologia» 1, 1967, pp. 20 sgg. Se si accettano le testimonianze di Esiodo, Opere e Giorni, ai vv. 650-662, e di Plutarco, Moralia 152d, sulla morte di Anfidamante di Calcide (per Plutarco avvenuta nel corso della guerra lelantina), se ne ricava un nesso cronologico tra la guerra stessa e la cronologia di Esiodo, che avrebbe partecipato alle gare funebri in onore di Anfidamente.

[4] D. Ridgway, L’alba della Magna Grecia (trad.it.), Milano 1984. Sulla “coppa di Nestore”, cfr. G. Buchner – C.F. Russo, in «RAL» 8, 1955, pp. 216 sgg.; D. Musti, Democrazia e scrittura, in «Scrittura e civiltà» 10, 1986, cit., pp. 21 sgg.

[5] Sui cryseîa di Pitecussa (miniere d’oro o oreficerie?), Strabone, V C. 247. Pitecussa sembra una pólis a tutti gli effetti per Strabone (cfr. ōikisan); ma v. Livio, VIII 22, 6 per un’altra concezione (i Cumani primo <in> insulas Aenariam et Pithecusas egressi, deinde in continentem ausi sedes transferre).

[6] Per es., sull’aspetto di Megara Iblea nel VI sec., v. G.Vallet – F.Villard – P. Auberson, Mégara Hyblaea. 1. Le quartier de l’agora archaïque, École Française de Rome 1976.

[7] Su Tucidide, VI 3-5, cfr. commento di K.J. Dover, in A.W. Gomme – A. Andrewes – K.J. Dover, A Historical Commentary on Thucydides IV, Oxford 1970, pp. 198-210 (sulla provenienza da Antioco e sulle cronologie). Per la vicinanza di Eusebio alle cronologie di Tucidide, J. De Waele, Acragas Graeca I, Rome 1971, p. 83.

[8] D. Musti, L’idea di Megálē Hellás, in «RFIC» 114, 1986, pp. 286-319 (= Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 61-94). V. ora D. Musti, Magna Grecia. Il quadro storico, Roma-Bari 2005, pp. 122 sgg.

[9] Cfr. FGrHist 555 Ff 12 e 9 (per Metaponto e Reggio) e lo stesso Antioco come probabile fonte di Tucidide, VI 3, 2 (v. il mio Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 40-42).

[10] Per la distinzione tra cultura ausonia e cultura sicula, L. Bernabò Brea, La Sicilia prima dei Greci, Milano 1985; G. Voza ne La Sicilia antica I, 1, cit. a n.45, pp. 28 sgg. Sull’etimologia di Ausoni, D. Musti, Ausonia terra 1, in «RCCM» 41, 1999, pp. 167-172; A. Pagliara, ibid., pp. 173-198. Sugli episodi di «seismós kaì pûr» (terremoto ed eruzione vulcanica) e sui fenomeni di maremoto che hanno interessato, in età antica, l’area campana, v. D. Musti, Lo tsunami di Pitecusa (IV secolo a.C.), in «Bollettino della Società Geografica Italiana» ser. XII, 10, 2005, pp. 567-575.

[11] Su Siculi, Sicani, Elimi, cfr. L. Braccesi in La Sicilia antica I, 1 cit., pp. 53 sgg.; E. Manni, Geografia fisica e politica della Sicilia antica, Palermo, 1981; L. Agostiniani, Iscrizioni anelleniche di Sicilia. I. Le iscrizioni elime, Firenze 1977.

[12] Sul rapporto tra Siculi e Sicani e tra i due gruppi (considerati entrambi indoeuropei) e gli Elimi (fondo mediterraneo), cfr. S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, Catania 1945, pp. 11-47.

[13] Sul trattato tra Atene e Segesta, H. Bengtson, Die Staatsverträge des Altertums II, München-Berlin 1962, pp. 41 sg. (per una data 458/7). Cronologie più basse vengono di quando in quando riproposte.

[14] Sul caso di S. Angelo Muxaro, identificabile con Camico, reggia di Cocalo e sede della tomba di Minosse, cfr. G. Rizza e AA.VV., in «Cronache di Archeologia» 18, 1979; sull’ellenizzazione dei centri indigeni della Sicilia occidentale, E. De Miro, in «Kokalos» 8, 1962, pp. 122 sgg.; «Bollettino dell’Arte» 1975, pp. 123 sgg.; Id., in AA.VV., Forme di contatto e processi di trasformazione delle società antiche, Cortona 1981, Pisa-Roma 1983, pp. 335 sgg.

[15] Sul problema della data di fondazione di Megara Iblea: G. Vallet – F. Villard, in «BCH» 76, 1952, pp. 289 sgg.; ibid. 82, 1958, pp. 16 sgg. (in favore di una cronologia 750 circa, anteriore a quella di Siracusa); ora però più disponibili per una data nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., in Megara Hyblaea… Guida agli scavi, a c. di G. Vallet – F. Villard – P. Auberson, École Française de Rome, 1983 (cfr. P. Vannicelli, in «RFIC» 115, 1987, pp. 335 sgg.).

[16] Tucidide è fra i principali e più decisi testimoni della compresenza rodia e cretese a Gela, e un testimone isolato (anche se autorevolissimo) per la fondazione di Agrigento da parte di Gela (VI 4, 4). Pindaro (in partic. Olimpica II, ma cfr. anche III, per l’insistito collegamento col mondo dorico-laconico) e gli scolii mettono in evidenza la provenienza dei fondatori di Agrigento dall’area delle doriche Sporadi meridionali (Rodi, Cos) e dal Peloponneso, con particolare riferimento alla provenienza degli Emmenidi, antenati di Terone, e tendenza a negare la tappa intermedia a Gela.

[17] Sulla campagna di Ippocrate in direzione di Zancle, Erodoto, VII 154, 2 -155, 1. Ippocrate tende a insediare nelle città suoi fiduciari.

[18] Sui sinecismi forzati operati da Gelone, cfr. Erodoto, VII 155, 2- 156; M. Moggi, I sinecismi interstatali greci, Pisa 1976, pp. 100 sgg.

[19] Cfr. Diodoro, V 9; Pausania, X 11, 3-5 (= Antioco, FGrHist 555 F 1). Lo stesso Diodoro, altrove, usa “Fenici” per “Cartaginesi”.

[20] Contro la cronologia alta di G. Maddoli, non sufficientemente motivata, cfr. quanto osservato in «Kokalos» 26/27, 1980/1, pp. 252 sgg., e 30/31, 1984/5, pp. 338 sg. La cronologia alta è ora seguita da S. Bianchetti, Falaride e Pseudo-Falaride. Storia e leggenda, Roma 1987, pp. 24 sg., con varie conseguenze sulla valutazione del senso dell’avanzata di Falaride nell’interno e in direzione di Imera, avanzata che diventerebbe la risposta a una politica di dominio territoriale cartaginese aperta dalla spedizione di Malco. Se un bersaglio immediato c’è, è piuttosto nei Sicani: a Malco (con Orosio, IV 6, 7) si colloca in un periodo di espansione cartaginese in Africa e Sardegna, oltre che in Sicilia, e dopo la battaglia di Alalia (del 540 circa) (cfr. anche H. Bengtson, Storia greca, trad. it., I, p. 221).

[21] Cfr. D. Musti, Sul ruolo storico della servitù ilotica. Servitù e fondazioni coloniali, in «Studi storici» 1985, pp. 587 sgg. (= Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 151 sgg.).

[22] Cfr. Polibio, XII 5-10; e il mio studio su Problemi della storia di Locri Epizefirii, in Atti Convegno Taranto 1976, Napoli 1977, pp. 37-65. Aristotele ha, sulle origini semiservili di Locri e, rispettivamente, di Taranto, posizioni diverse.

[23] Sullo statuto di Falanto, cfr. lo studio cit. in n. 21 (diversamente da G. Maddoli, in «MEFR» 95, 1983, pp. 555 sgg.). Sull’adulterio, Giustino, III 4, 1-11, probabilmente da Eforo.

[24] Va probabilmente ripensata e attenuata la netta contrapposizione, un tempo proposta (cfr. G. Vallet, in «Kokalos» 8, 1962, pp. 30 sgg.), fra l’espansione “pacifica” dei Calcidesi e quella aggressiva dei Siracusani in territorio siculo; la differenza di comportamento è piuttosto tra politica dei tiranni, volta alla costituzione di un compatto dominio territoriale, e politica delle libere póleis (calcidesi – cioè ioniche – o doriche che siano) nei confronti dei Siculi: questa è ispirata al principio dell’autonomia delle città, è anzi suscettibile di una qualche estensione al mondo indigeno. Ducezio non è un tiranno, nello stato siculo che crea; quest’ultimo appare come una realtà policentrica, una syntéleia, con forte coesione sacrale e istituzionale. E l’autonomia da Siracusa sarà garantita dai Cartaginesi ai Siculi, oltre che ad alcune città calcidesi, nel trattato del 405 con Dionisio I (Diodoro, XIII 114). Su Zaleuco, cfr. il mio studio cit. in n. 22, pp. 72-80; su Caronda, cfr. G. Vallet, Rhégion et Zancle, Paris 1958, pp. 313 sgg.; F. Cordano, in «MGR» 6, Roma 1978, pp. 89 sgg.

[25] Sulla storia di Megara Iblea, cfr. n. 6.

[26] Su Teline, Erodoto, VII 153 sg. Sui Miletidi, Tucidide, VI 5, 1; sulla storia e l’archeologia di Imera, N. Bonacasa, Il problema archeologico di Himera, in «ASAA» 43, 1984, pp. 319 sgg.; A. Adriani, N. Bonacasa, N. Allegro e AA.VV., Himera 1-2, Roma 1970-1976 (campagne di scavo 1963-1973), ecc.

[27] Per le fonti sulle tirannidi di Panezio a Leontini, di Terone figlio di Milziade e di Pitagora (Peithagoras) a Selinunte, di Falaride ad Agrigento, cfr. H. Berve, Die Tyrannis bei den Griechen cit., I, pp. 129, 137 e 129-132, rispettivamente. Panezio di Leontini e Terone di Selinunte (rispettivamente VII e VI sec. a.C.) sono comunque titolari di tirannidi effimere, e caratterizzate per giunta nel senso di una spiccata contrapposizione sociale (l’una appoggiata dal popolo contro i possidenti, l’altra agli stessi schiavi).

Una «civiltà capace di ‘grandezza’»

da D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Roma-Bari 1989, 296 ss.

Il VI secolo rappresenta il periodo di massima fioritura della Magna Grecia: al che corrispondono spinte espansionistiche, volte a modificare le delimitazioni areali originarie. Se la nozione di Megálē Hellás ha avuto realmente corso in epoca arcaica, il periodo a cui questa denominazione più si attaglia è certamente quello in cui le città achee si impegnarono a costituire un’area unitaria e a cancellare ogni traccia di intrusione. “Magna Grecia” è nozione che fa pensare a una comparazione con la Grecia propria. Tuttavia questa non è l’unica spiegazione possibile, e forse neanche la più probabile: l’espressione può stare a significare il dilatarsi verso Occidente della Grecità in quanto tale e, solo secondariamente, un’area coloniale specifica. La “grandezza” è al tempo stesso culturale e politica, secondo una concezione arcaica che certamente non conosce ancora l’opposizione di valutazioni materialistiche e spiritualistiche. Se ebbe davvero corso prima di Pitagora, l’espressione tuttavia non poté non avere una rinnovata diffusione proprio in epoca pitagorica, quando alla fama delle città dell’Italia meridionale, e in particolare di Crotone e di Metaponto, tanto contribuì la presenza, la dottrina, l’opera, l’influenza culturale e politica del Maestro e dei suoi discepoli; molto improbabile invece che l’espressione sia nata alla fine del V secolo, quando le città achee conoscono un’ultima fase di riorganizzazione, ma si avviano già al declino. Quando comparirà nei testi (Timeo?, Polibio), la definizione sarà solo un’espressione di nostalgia di una perduta e forse anche mitizzata grandezza. Megálē Hellás diventa dunque, presso gli autori del II e del I secolo a.C., una denominazione che evoca il passato, e che al passato appartiene; è la celebrazione nostalgica di una grandezza che è stata e che or non è più. Così si conclude la storia di una regione che all’origine (nel VI-V secolo a.C.) era stata un “oggetto del desiderio”, e che alla fine (nel II secolo a.C.), soprattutto a seguito dell’invasione dell’Italia da parte di Annibale, e per le connesse distruzioni e rovine, era quasi completamente deleta, pur avendo ospitato una civiltà capace di grandezza, dal punto di vista culturale, materiale e anche politico (1).

Resti del tempio di Hera Lacinia, con l’unica colonna superstite. Capo Colonna, presso Crotone.

La guerra combattuta e vinta dagli Achei contro Siri, e quella combattuta e perduta dai Crotoniati contro i Locresi, con la battaglia della Sagra (575 e 550 circa, rispettivamente?), hanno ancora l’aspetto di comuni conflitti territoriali; lo scontro tra Crotone e Sibari, che culmina nella presa e distruzione di Sibari e nell’acquisizione del territorio, si arricchisce, rispetto a quei più arcaici conflitti, di un motivo ideologico. A Sibari l’aristocrazia è oppressa dalla tirannide di Telys; 500 suoi rappresentanti chiedono e ottengono asilo a Crotone; ma Telys ne chiede a sua volta l’estradizione: da parte di Crotone, concederla significa acquiescenza, negarla significa la guerra. E Pitagora, che è ormai da anni il gran consigliere dell’aristocrazia crotoniate, che ha promosso il riarmo morale e materiale della città (impartisce lezioni a uomini, donne, giovani; ha formato un’associazione di trecento giovani eletti), spinge e convince alla guerra. La tirannide di Telys rappresenta uno dei non frequenti casi di tirannidi arcaiche di Magna Grecia. La struttura del territorio sibaritico, il rapporto particolare con gli indigeni, il forte coinvolgimento (quasi di tipo siceliota) dell’elemento locale nelle strutture sociali della città, i problemi sociali e militari che ne derivano, dànno sufficientemente conto della peculiarità del processo politico a Sibari. Altrettanto motivata ideologicamente è la reazione di Pitagora e del suo gruppo, un gruppo evidentemente aristocratico (il che però non equivale ad un’assoluta uniformità di vedute con l’aristocrazia proprietaria, reale, di Crotone). Quella pitagorica è un’aristocrazia ideologica, che mira a un regime di proprietà comunitaria (koinà tà tōn phílōn: «sono in comune i beni degli amici»), che in sopraggiunta risente molto del modello spartano.

Pitagora. Erma, marmo pario, I secolo d.C. Copia romana di un originale greco. Roma, Musei Capitolini.

Sibari viene assediata, e distrutta dopo un assedio di settanta giorni. La città, con una popolazione (o addirittura con un esercito) di 300.000 unità, è vinta dalla più piccola, ma moralmente e materialmente più sana, Crotone. Il grande successo e incremento territoriale ottenuto con la vittoria si ripercuote negativamente su Pitagora e i suoi: alla tesi degli estremisti (di tendenza oligarchica o di tendenza popolare) della necessità di distribuire le terre strappate ai Sibariti, si contrappone la tesi pitagorica di una gestione comunitaria della terra (teoria della “terra indivisa”). Apparentemente Pitagora ha dalla sua la città: ma il sostegno non dev’essere né convinto né, soprattutto, efficace, se la sede di Pitagora e dei suoi (il synḗdrion) viene data alle fiamme, e Pitagora è costretto a peregrinazioni, forse, in varie città dell’Italia, e alla fuga a Metaponto, dove morrà (subito, secondo Dicearco, o dopo un soggiorno di vent’anni, secondo un’altra tradizione, che forse vuole esaltare il ruolo di Metaponto nel primo periodo pitagorico). Formalmente, il motivo dei disordini anti-pitagorici va ricercato nel sospetto che Pitagora e i suoi 300 affiliati mirassero ad instaurare un regime tirannico (che ormai in questo periodo, in Grecia, equivale a un aspro conflitto con l’aristocrazia): segno dei tempi, e degli umori che li percorrono (2).
La tirannide sembra comunque una forma politica (o, a rigore, anti-politica) particolarmente adatta a determinati sviluppi territoriali; il principio opposto è quello dell’autonomia della pólis, il che equivale ad accettare il frazionamento territoriale, quel policentrismo che è caratteristico della mentalità cittadina dei Greci. Non c’è perciò da meravigliarsi che Tucidide (I 17) attribuisca, da un lato, ai tiranni greci una politica di breve respiro, volta ad assicurare il potere a sé e alla propria famiglia, e a costruire una posizione di forza della propria città solo nei confronti dei vicini (períoikoi), ma che affermi anche come a questa regola si sottraggano i tiranni di Sicilia, che epì pleîston echṓrēsan dynámeōs, cioè «si spinsero al massimo della potenza».
Valorizzando l’affermazione tucididea, proprio quanto al rapporto fra i due termini in questione (tirannide e dominio territoriale), potremmo dire che proprio le tirannidi di Sicilia si rivelano come la formula di governo più adatta alle prospettive di un incremento territoriale di alcune città in epoca post-arcaica (o tardo-arcaica). Così, Cleandro governa tirannicamente Gela per sette anni (circa 505-498) e poi per altri sette gli succede il fratello Ippocrate (498-491), che cerca di costituire, a danno dei Greci e dei Siculi, un dominio territoriale […]. La sua politica, con sensibili varianti, è proseguita da Gelone, capo della cavalleria, della stirpe dei Dinomenidi (un aristocratico, dunque, con esperienza e potere militare) (3). Che nelle tirannidi siceliote di V secolo i progetti espansionistici, le prospettive di ordine territoriale e militare prevalgano su eventuali scelte sociali anti-aristocratiche, è evidente dagli sviluppi successivi, e dal rapporto tutto positivo di Gelone con i proprietari terrieri. Quando il modello espansionistico viene assunto anche dall’agrigentino Terone, in un’area molto vicina a quella del dominio cartaginese, si capisce la reazione di Cartagine. Questa volta (non certo in risposta ai fragili tentativi di Pentatlo e dello spartano Dorieo, che circa il 510 tentò invano di affermarsi ad Erice, contro “Fenici” e Segestani) l’attivismo cartaginese in Sicilia appare già in larga misura come una risposta all’atteggiamento ormai veramente nuovo dei Greci verso il territorio (4). La nuova politica trovava espressione anche in alleanze che, senza fondare una diversa unità statale, tuttavia costituivano nuove forme di coesione territoriale, che rappresentavano di per sé un coagulo di potenza e una possibile minaccia per tutti gli altri occupanti la Sicilia. Così, Terone diede in moglie a Gelone la figlia Damarete (che dopo la morte di Gelone sarebbe divenuta la moglie di Polizalo), mentre sposava la figlia di Polizalo, il più giovane fratello di Gelone.

«Koùros della Reggio». Statua, VI-V sec. a.C. c. Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale.

Come giustamente osserva Beloch, «il movimento unitario dei Greci di Sicilia» (pur da intendere entro i limiti indicati) «non poteva lasciare indifferente Cartagine». Quando perciò Terillo, tiranno di Imera, cacciato da Terone, si rivolse appunto ai Punici, questi intervennero con un esercito di cittadini cartaginesi, di sudditi libici e di mercenari al comando di Amilcare, trovando come alleato Anassila di Reggio, genero di Terillo, e la stessa città di Selinunte. Va dunque tenuta in conto la sollecitazione che proviene da parte greca. Da Panormo, da dove era sbarcato, l’esercito punico mosse all’assedio di Imera, controllata ormai da Terone; l’intervento di Gelone sotto le mura della città significò lo scontro, e produsse l’annientamento dei Cartaginesi, avvenuto, secondo una tradizione siceliota raccontata già da Erodoto (VII 166), nello stesso giorno della battaglia di Salamina (estate 480); probabilmente già prima dello scontro, alcuni cavalieri siracusani avevano ucciso lo stesso comandante nemico, Amilcare, mentre stava compiendo un sacrificio (5).
Gli eventi che seguirono danno la misura della gradualità che Gelone, pur interessato a un’espansione territoriale, impose al processo, secondo un caratteristico limite storico dell’espansionismo territoriale greco; ai Cartaginesi (sembra anche in virtù dei buoni uffici di Damarete) fu concessa la pace, contro il pagamento di 2.000 talenti; Anassila di Reggio e Selinunte dovettero obbligarsi a seguire Gelone in guerra. Se Diodoro (XI 26, 4 sgg.) afferma che la ragione della fretta di concludere fu il desiderio di Gelone di intervenire in Grecia contro i Persiani, deluso dall’avvenuta vittoria di Salamina, si tratta di un abbellimento che fa torto alla comprensione dei limiti dell’impulso imperialistico greco, persino in coloro che fra i Greci lo rappresentano.
A Gelone, morto (478) un paio d’anni dopo il trionfo di Imera, non poteva succedere il figlio impubere; gli successe il fratello Ierone, che, nonostante il titolo attribuitogli da Pindaro e l’uso linguistico di Diodoro, non poté portare il titolo di basileús, che del resto non risulta essere stato assunto da alcuno dei Dinomenidi. Con Ierone si accentuano comunque gli aspetti personali del potere; intorno a lui si costituisce una vera corte, a cui partecipano i più grandi poeti greci come Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo, Senofane ed Epicarmo. La spinta espansionistica che era stata di Gelone viene ripresa da Ierone: anche in questo caso con la caratteristica gradualità ed eterogeneità delle soluzioni, a seconda dei territori in questione e della loro distanza da Siracusa. In rapporto ai diversi territori vale un diverso modulo di espansione e di dominio. Come già Gelone, Ierone osteggia le città calcidesi: assoggetta Catania, ne trasferisce i vecchi abitanti a Leontini, mentre ne sostituisce la popolazione con nuovi cittadini (in parte siracusani, in parte mercenari peloponnesiaci), ridenominandola “Etna”; ma, dopo la morte di Ierone (467/66), gli antichi abitanti tornarono a Catania (circa il 461), mentre gli Etnei dovettero migrare, all’interno, a Inessa (od. S. Maria di Licodia?), che veniva ribattezzata Etna. È chiaro l’intento di Ierone di concentrare l’elemento calcidese (i Catanesi come del resto anche i Nassi) a Leontini, più vicina a Siracusa e perciò più facilmente controllabile (oltre che, probabilmente, destinata a diventare il grande serbatoio alimentare di Siracusa stessa), mentre in Catania egli creava una sua roccaforte, concepita d’altra parte come regno del figlio Dinomene, in principio sotto la tutela dei cognati di Ierone, Cromio e Aristonoo.

Siracusa. Tirannide di Ierone (485-466 a.C.). Tetradramma. Ar 17, 32 g. Dritto: testa di Aretusa voltata a destra, con legenda ΣYRA-KOΣI-O-N, attorniata da delfini.

Negli anni di Ierone, Messana è ancora strettamente collegata a Reggio; ma, al di là dello Stretto e delle due città sorelle, non manca occasione a Ierone di far sentire la sua voce, appunto in difesa dei Locresi contro Anassila di Reggio (fu forse questo l’intervento che risparmiò ai Locresi l’assolvimento del voto di prostituzione delle sue fanciulle, pronunciato di fronte alla minaccia incombente da Reggio) e in difesa dei Sibariti (rifugiatisi probabilmente a Lao e Scidro), contro Crotone, nel 476 a.C. (6) Ma, via via che si allontana dall’area etnea, la politica espansionistica di Ierone si presenta in definitiva come intervento occasionale, impegno militare circoscritto, manifestazione di presenza e ricerca di posizione egemonica, non annessione territoriale. Nel 474, intervenendo in favore di Cuma, egli sconfisse duramente la flotta etrusca in una battaglia che ebbe conseguenze storiche decisive per Greci ed Etruschi di Campania. Nulla più che un episodio fu l’installazione a Pitecussa (Ischia) di un presidio siracusano, presto rimosso a causa degli incessanti fenomeni tellurici; a Pitecussa sopraggiunse il dominio di Neapolis; meno dimostrabile la tesi che la Neapolis (città nuova), fondata sul sito dell’antica Partenope (ora divenuta Palaípolis, città vecchia), debba la sua fondazione all’impulso del tiranno siracusano.
Il fenomeno storico della tirannide di Sicilia non si caratterizza solo per le spinte (pur di limitato respiro) all’espansione territoriale e per i trasferimenti di popolazione, ma anche per l’insediamento in Sicilia di mercenari di varia origine, che costituiscono una caratteristica della tirannide dei Dinomenidi, e un problema dopo l’abbattimento e la cacciata dell’ultimo di essi, Trasibulo (nel 465 a.C.). Gelone aveva insediato a Siracusa più di 10.000 mercenari; alla fine della tirannide ne restavano più di 7.000 (Diodoro, XI 72). Sotto Ierone, Siracusa appariva come una caserma, come osserva Beloch in base alla descrizione di Pindaro, Pitica II 1 («Siracusa, santuario del bellicoso Ares, divina sede di uomini e cavalli che gioiscono del ferro»): mercenari in città, una flotta da guerra nell’arsenale; per di più, con Ierone si instaura a Siracusa un regime poliziesco. La tirannide perde in popolarità anche per effetto dei contrasti nella famiglia dei tiranni, riprova dell’accentuarsi dei caratteri personalistici del regime. Si susseguono: il conflitto tra Ierone e Polizalo, che, cacciato da Gela, si rifugia presso Terone di Agrigento, il rientro di Polizalo, quand’era ancora vivo Terone, e, dopo la morte di quest’ultimo (472), la guerra scoppiata tra il figlio e successore di Terone, Trasideo (inviso al popolo di Agrigento come a quello di Imera) e Ierone, che conseguì su di lui una vittoria a costo di forti perdite. Le due città del dominio di Trasideo (Agrigento e Imera) si liberarono del tiranno, esiliandolo (7). Dopo la morte di Ierone, nuove discordie minarono la tirannide siracusana: a Trasibulo, succeduto al fratello, si opponeva un partito di seguaci del figlio ormai adulto di Gelone. Siracusa insorse contro il tiranno che, dopo soli undici mesi di governo, battuto per mare e per terra dagli insorti, dovette lasciare la città, per trasferirsi a Locri (in buoni rapporti con Siracusa tradizionalmente e, in particolare, nel periodo dei Dinomenidi) (8).

***

Note:

[1] Sull’idea di Megálē Hellás cfr. D. Musti, L’idea di Μεγάλη Ἑλλάς, in «RFIC» 114, 1986, pp. 286-319 (= Strabone e la Magna Grecia. Città e popoli dell’Italia antica, Padova 1988, pp. 61-94). Vd. ora D. Musti, Magna Grecia. Il quadro storico, Roma-Bari 2005, pp. 122 sgg.
[2] Per l’atteggiamento dei Pitagorici sul problema della proprietà, D. Musti, Strabone e la Magna Grecia cit., pp. 47 sgg. Sul dominio di Sibari, Strabone, VI C. 263 (forse da Timeo).
[3] Erodoto, VII 154-156: Ippocrate punta su Callipoli, Nasso, Zancle, Leontini, Siracusa e il territorio dei barbari, e muore combattendo contro la sicula Iblea; Gelone contiene la sua politica di espansione territoriale essenzialmente in àmbito greco (Casmene, Siracusa, Camarina, Megara Iblea e i misteriosi Eubeesi di Sicilia, che sembrano rinviare a una città di nome Eubea – cfr. Strabone, VI C. 272 e X C. 449, però senza aggiunta di dati specifici –, se non si tratta semplicemente dei Calcidesi di Sicilia).
[4] È il nuovo atteggiamento verso il territorio, nei tiranni sicelioti degli inizi del V secolo. Lo stesso Falaride, nel secolo precedente, pur espandendo il dominio di Agrigento sulla costa e in direzione dell’interno, in area sicana, e pur puntando verso Imera, non riesce a impadronirsi di quest’ultima, anzi, ove si tenga conto anche dei più spinti avamposti che gli possono attribuire, ne resta di fatto distante decine di chilometri. Quanto poi alla politica cartaginese di interventi armati, non va dimenticato come la stessa grande spedizione del 480, comandata dall’Amilcare scomparso a Imera (forse suicida, forse ucciso dai cavalieri del siracusano Gelone), fosse provocata da conflitti interni al mondo greco: da un lato, sono Terone di Agrigento e il genero Gelone di Siracusa, dall’altro Terillo di Imera e Anassila di Reggio, che reagivano alla politica territoriale di Agrigento e di Siracusa. Su Dorieo, Erodoto, V 43-48; Diodoro, IV 23; Pausania, III 16.
[5] Erodoto, VII 165-167; Diodoro, XI 1 e 20-25; Polieno, I 27, 2-28. La battaglia fu combattuta, secondo Erodoto (166) nello stesso giorno di Salamina, per Diodoro (24) già in quello delle Termopili. La tradizione, in particolare diodorea, enfatizza i meriti di Gelone rispetto a quelli dello stesso Terone. Per il giudizio citato di Beloch, cfr. GG2 II 1, p. 71.
[6] Pindaro, Pitica II 35, con i relativi scoli (intervento a favore di Locri); Diodoro, XI 48 (intenzione di Ierone di intervenire con un esercito a difesa dei Sibariti – forse, all’epoca, quelli delle sottocolonie tirreniche di Scidro e Lao – contro Crotone); 49 (sui fatti di Catania e Nasso).
[7] Sul rischio di conflitto tra Trasideo (figlio di Terone e governatore di Imera) e Ierone, determinato dall’appello degli Imeresi a Ierone stesso, e sulla cinica decisione del tiranno siracusano di denunciare presso Terone gli Imeresi, al fine di ristabilire con il tiranno agrigentino i buoni rapporti di un tempo, che erano stati turbati dalla fuga ad Agrigento del fratello di Ierone, Polizalo, cfr. Diodoro, XI 48, 3-8; Timeo, FGrHist 566 F 93. Dopo la morte di Terone (472), lo scontro tra Ierone e Trasideo torna a farsi inevitabile: ne segue una battaglia in cui Ierone ha la meglio sulle imponenti forze (20.000 uomini) dell’avversario. Le popolazioni di Agrigento e Imera nel 471 si ribellano a Trasideo, che va in esilio (Diodoro, XI 53; 68, 1; 76, 4; Pindaro, Olimpica XII); Agrigento torna a libertà repubblicana, dapprima di stampo oligarchico: cfr. Diogene Laerzio, VIII 66.
[8] Diodoro, XI 67 sg.; Aristotele, Politica V 1312b.

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Teocrito di Siracusa

di B.M. PALUMBO STRACCA, Introduzione a Teocrito, Idilli e Epigrammi, BUR, Milano 2004, 5-25.

 

Teocrito appartenne a quella generazione di poeti e uomini di cultura che, nel mutato quadro politico e sociale che si era venuto configurando a seguito della storica impresa di Alessandro Magno, contribuirono a ridisegnare in modo radicale le linee portanti della civiltà letteraria greca. Alessandro aveva tentato l’impossibile: unire l’Oriente e l’Occidente in una nuova realtà politica e culturale profondamente nuova. Quel sogno grandioso, che era lontano anni luce dagli insegnamenti del suo maestro Aristotele, svanì con la sua morte, ma dopo quell’esaltante esperienza niente fu come prima. Sulle macerie dell’impero conquistato con le armi da Alessandro si formarono i grandi regni ellenistici, caratterizzati da un forte potere centrale e da una burocrazia vigile ed efficiente; in essi la cultura della 𝑝𝑜́𝑙𝑖𝑠, per sua natura incentrata su un rapporto stretto e vitale tra l’individuo e la comunità, non aveva più ragione di esistere; al suo posto nasceva una nuova civiltà letteraria, profondamente diversa da quella che l’aveva preceduta.

Un ruolo di grandissimo rilievo nel passaggio dal vecchio al nuovo fu assunto dai monarchi ellenistici, i quali mirarono a fare delle capitali dei loro regni dei centri di cultura, che potessero in qualche modo raccogliere l’eredità di Atene; in particolare, i Tolomei, in Egitto, attuarono una lungimirante politica di promozione delle arti e delle scienze, grazie alla quale la nuova città di Alessandria divenne ben presto il principale polo d’attrazione per l’𝑖𝑛𝑡𝑒𝑙𝑙𝑖𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖𝑎 del tempo. Beninteso, il mecenatismo dei sovrani ellenistici non era una novità nel mondo greco: già i tiranni di Siracusa, di Agrigento, di Samo, qualche secolo prima avevano provveduto ad assicurare la loro protezione agli uomini di cultura del loro tempo, ma ciò che caratterizza il mecenatismo ellenistico è propriamente la sistematicità e l’ampiezza delle iniziative culturali. Istituzioni quali la Biblioteca e il Museo (una sorta di “Accademia” con specifici fini di ricerca e d’insegnamento) stanno a dimostrarlo. Il fatto è che quando Tolomeo I Sotere si trovò a ereditare il Regno d’Egitto, dopo le confuse vicende che seguirono alla morte di Alessandro, non si occupò soltanto di questioni amministrative e politiche, ma operò nel senso di una vera e propria rifondazione culturale dello Stato, attuata attraverso il reclutamento di uomini di cultura provenienti da ogni parte del mondo greco, e soprattutto da Atene, che, pur in declino sotto il profilo politico, costituiva pur sempre la capitale culturale del momento. Il personaggio più di spicco in tale operazione di trapianto della civiltà greca in terra egiziana fu senza dubbio Demetrio del Falero, che alle notevoli doti politiche e manageriali univa una competenza di prim’ordine in campo filosofico e letterario. Il 𝑏𝑎𝑐𝑘𝑔𝑟𝑜𝑢𝑛𝑑 di Demetrio, come di altri personaggi con cui il re fu in contatto (ad esempio, Stratone di Lampsaco), era di marca aristotelica. Fu così che il progetto culturale del nuovo regno fu improntato alle scelte di fondo del Peripato. Questo dato rimane incontrovertibile, benché la critica oggi abbia spesso sottolineato, e forse esasperato, i motivi di diversità; anche il concetto de “𝑙’𝑎𝑟𝑡 𝑝𝑜𝑢𝑟 𝑙’𝑎𝑟𝑡” (il dato più significativo e vitale della cultura alessandrina), che peraltro trova la sua principale giustificazione in un diverso ruolo della poesia, non più composta per essere eseguita nei momenti e negli spazi celebrativi comunitari, ma destinata alla fruizione di un pubblico scelto d’intenditori, trova le sue salde premesse nella riflessione aristotelica. Quando Aristotele dichiara ad apertura del suo aureo libretto che intende occuparsi della poetica «per se stessa», e delle leggi che le sono proprie, afferma un principio che a noi oggi può apparire ovvio, ma che ai suoi tempi rappresentava un’autentica novità, in contrapposizione alla concezione platonica dell’arte, così densa di motivazioni ontologiche ed etiche. Parallelamente si sviluppa in ambito aristotelico il concetto di poetica come τέχνη, e ancora una volta il punto di vista appare diametralmente opposto a quello platonico della poesia come ispirazione divina ed estasi.

Consapevolezza dell’autonomia dell’arte e poesia intesa come mestiere sono per l’appunto i cardini della poetica elaborata dai poeti filologi dell’età ellenistica, poetica che conosciamo soprattutto attraverso Callimaco; sul piano operativo ciò si traduce in una poesia riflessa, scaltrita, che spesso sotto un’apparente semplicità nasconde le insidie di una defatigante complessità formale. Nei contenuti è una poesia che predilige temi e personaggi tratti dalla realtà borghese o persino popolare, tanto più apprezzati dai suoi raffinati ed elitari lettori, quanto più distanti dal loro abituale 𝑠𝑡𝑎𝑛𝑑𝑎𝑟𝑑 di vita.

Un dato ricorrente nella poetica degli Alessandrini è la programmatica insofferenza nei confronti della tradizione. Ed è significativo che, proprio nel momento in cui, di pari passo con l’imponente opera di catalogazione e di sistemazione dei libri della Biblioteca, nasce la moderna nozione di “letteratura”, e si fa un bilancio complessivo e definitivo di quanto era stato prodotto nel passato, si avverta l’esigenza di superare le angustie di schemi che agli occhi di molti apparivano ormai obsoleti. Per Teocrito, per Callimaco, la poesia del genere epico di stretta imitazione omerica sapeva irrimediabilmente di stantio; se la nuova arte voleva continuare a vivere, doveva basarsi su principi totalmente differenti.

Theodoor Galle, Ritratto di Teocrito. Incisione 1598-1606. 13 Geom (142). Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek [link].
Cenni biografici

Nell’opera di Teocrito non sono frequenti i richiami a personaggi e a eventi contemporanei che ci consentano un ancoraggio cronologico sicuro. In gran parte ciò dipende dalla tipologia stessa dei carmi: infatti i componimenti bucolici si collocano in una atemporalità ideale, mentre i poemetti epico-mitologici sono ovviamente proiettati in un lontano passato. D’altro canto, le fonti biografiche esterne non ci dicono quasi nulla di più rispetto a ciò che è ricavabile dall’opera stessa, e dunque appaiono di scarsa utilità[1]. Come principali fonti interne valgono due carmi encomiastici (XVI e XVII) dedicati rispettivamente a Ierone II di Siracusa e a Tolomeo Filadelfo, per la composizione dei quali i contini cronologici sono da porre tra il 275 e il 270, con possibilità di ulteriore determinazione; per la biografia di Teocrito sono poi importanti anche i carmi XIV e XV, che rivelano dimestichezza con l’Alessandria tolemaica, e soprattutto il carme VII, ambientato a Cos, in cui si dibattono questioni letterarie negli stessi termini in cui le conosciamo da Callimaco, e si fa riferimento a poeti di quel tempo, come Filita e Asclepiade. Altri elementi biografici sono più evanescenti, e in ogni caso è da evitare la tentazione di far coincidere sistematicamente l’io narrante con l’autore; ma sull’origine siracusana del poeta non possono esservi dubbi (vd. gli espliciti riferimenti di XI 7 e XXVIII 17).

Che Teocrito, come Callimaco, abbia goduto del favore e della protezione dei sovrani d’Egitto, è indiscutibile, ed è provato dai suoi accenni encomiastici a Tolemeo II Filadelfo e alla sua famiglia[2]; tuttavia, a differenza di Callimaco, Teocrito non ebbe, per quanto ne sappiamo, incarichi ufficiali nelle istituzioni culturali promosse dai sovrani; a rigore non possiamo neanche essere certi che soggiornò a lungo e in maniera continuativa ad Alessandria. Dalle ℎ𝑦𝑝𝑜𝑡ℎ𝑒𝑠𝑖𝑠 delle 𝑇𝑎𝑙𝑖𝑠𝑖𝑒 (p. 76 Wendel) siamo informati di un soggiorno a Cos, avvenuto al tempo in cui il poeta era in viaggio per Alessandria (ma la notizia potrebbe essere autoschediastica), e c’è anche chi ritiene che tale soggiorno sia durato tanto a lungo da consentirgli di comporre colà una sezione organica di carmi bucolici[3]. A tale proposito, è stato anche osservato che la conoscenza che Teocrito mostra di possedere in ambito botanico sembra riflettere la realtà del Mediterraneo orientale, e non della nativa Sicilia, ancorché l’ambientazione sia di norma in Occidente[4]. Non v’è dubbio che l’isola di Cos, che in quell’epoca era un centro di cultura fiorentissimo, potesse esercitare un forte richiamo sul poeta: in stretti rapporti, sia politici sia culturali, con l’Egitto tolemaico, era la patria di Filita, il raffinato poeta-filologo cui era stata affidata l’educazione del Filadelfo, ed era sede di una celebre scuola di medicina, legata al culto di Asclepio. Teocrito nelle 𝑇𝑎𝑙𝑖𝑠𝑖𝑒 mostra di avere una conoscenza diretta e precisa dei luoghi e delle persone più in vista di Cos, ed è significativo che in quest’isola sia ambientato uno dei suoi carmi più ispirati e pregnanti.

La Sicilia, invece, è la terra delle sue radici: nato a Siracusa, in quella città aveva sperato di poter realizzare i suoi progetti di vita e di carriera, ma Ierone, che era uomo d’armi più che di cultura, fu sordo alle richieste del poeta. La Sicilia è prepotentemente presente nell’opera di Teocrito, ma assume i contorni del “luogo poetico” per eccellenza, affascinante proprio perché lontana, rivissuta nella fantasia piuttosto che rappresentata nella sua realtà. L’ispirazione teocritea rifugge, com’è noto, da atmosfere nostalgiche o sentimentali, ma la “distanza” è un dato che va comunque tenuto presente, per comprendere appieno il senso di ciò che si suole definire il “realismo” di Teocrito.

Paris, Bibliothèque nationale de France. Ms. grec. 2835 (1501-1600), Theocritus, Idyllia [link].
 

Gli “Idilli” e la mistione dei generi in età ellenistica

Il termine Εἰδύλλια, che è stato adoperato dai commentatori antichi per designare le poesie di Teocrito, pastorali e non, è un vocabolo di oscuro significato, che forse non vuol dire nient’altro che «componimenti, poesie», con in più una 𝑛𝑢𝑎𝑛𝑐𝑒 di diminutivo che appare perfettamente in linea con le tendenze estetiche dell’età ellenistica[5]. Ma «idillio» per noi vuol dire un’altra cosa: indica una composizione di carattere generalmente campestre, pervasa da un’atmosfera serena e incantata; e se il termine si è caricato di pregnanza semantica, ciò si deve per l’appunto alla straordinaria fortuna che la poesia pastorale di Teocrito ha avuto nella letteratura europea.

Ma a prescindere dall’opportunità o meno di usare oggi per il canzoniere teocriteo un termine che non corrisponde più al significato originario, importa sottolineare come la sostanziale genericità del vocabolo si giustifichi con il carattere composito della raccolta e con l’assoluta novità, sul piano dei contenuti e delle forme, di gran parte delle composizioni, che pertanto non potevano essere raggruppate sotto etichette tradizionali. Poiché Teocrito, a differenza di Callimaco, non fu editore di se stesso, è evidente che quell’aspetto multiforme dipende in ultima analisi da colui che ha messo insieme, in un’edizione complessiva, opere composte in circostanze e tempi distinti; però è altrettanto evidente che il principio tutto alessandrino della ποικιλία opera anche all’interno del singolo componimento, impedendo di fatto ogni tentativo di classificazione secondo le categorie tradizionali. La contaminazione di generi letterari diversi è prassi costante nella tecnica compositiva di Teocrito, come di altri poeti alessandrini[6]; peraltro, soltanto ora era possibile superare la rigida canonicità dei generi letterari, che nel passato aveva imposto ai poeti norme precise riguardo al metro, al colore dialettale, ai contenuti stessi delle opere. Finché la letteratura si era mantenuta legata ai momenti ufficiali della vita cittadina, l’adesione al genere letterario si configurava come una norma del tutto funzionale alla situazione, nel senso che la struttura, con tutto quello che ha di convenzionale, era un supporto insostituibile, accettato dall’autore e atteso dal suo pubblico. Quando però, in conseguenza delle mutate condizioni politiche e sociali, la letteratura da pragmatica si fa libresca, l’adesione alle convenzioni del genere letterario non ha più nulla di funzionale, e diventa possibile tentare nuove vie. Perciò, quando nel canzoniere teocriteo parliamo di carmi bucolici, di mimi, di epilli, di inni, di epitalami, di encomi, non dobbiamo dimenticare che, in realtà, questi generi sono trattati da Teocrito in maniera assolutamente innovativa, con spericolate incursioni di un genere nell’altro.

Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea. Codex II, 155 (1336-37 c.), Teocrito, Idilli con gli scholia di Manuele Moscopulo, f. 14r.

La poesia bucolica

È buona norma, nella critica letteraria, evitare di parlare di “nascita” di un genere poetico, e di un autore come l’”inventore”, nella consapevolezza che nulla nasce all’improvviso e a opera di un solo individuo; tuttavia, riguardo alla poesia pastorale, si può ben dire che Teocrito fu l’iniziatore di un genere letterario destinato ad avere una lunghissima storia e a incidere profondamente nella cultura europea. Al più ci si potrà chiedere quanto nella sensibilità del poeta il “genere bucolico” fosse una categoria autonoma e chiaramente definibile rispetto al resto della sua produzione, ma pur tenendo nel debito conto la più marcata stilizzazione della poesia bucolica posteriore, si dovrà convenire che la consapevole codificazione del genere prende l’avvio con Teocrito stesso[7]. Per la poesia pastorale si può, dunque, parlare di precedenti letterari solo in un’accezione molto limitata e circoscritta: in questo senso ristretto è lecito richiamare a confronto gli elementi bucolici della poesia omerica, o il forte interesse per la campagna che si manifesta nell’ambito del dramma satiresco, o magari la figura di Dafni, così come era stata tratteggiata da Stesicoro alcuni secoli addietro[8]. Ma assolutamente nulla, nella poesia del passato, può costituire un precedente per quella che è l’essenza della poesia pastorale, vale a dire il 𝑐𝑙𝑖𝑐ℎ𝑒́dei pastori-poeti che in un paesaggio fortemente idealizzato (il 𝑙𝑜𝑐𝑢𝑠 𝑎𝑚𝑜𝑒𝑛𝑢𝑠) compongono melodie e le eseguono, ora in forte competizione tra loro, ora semplicemente per la gioia del canto. Sotto questo rispetto assai più feconda appare la ricerca delle fonti nell’ambito delle tradizioni popolari, e si può ben immaginare un Teocrito che dalle usanze della vita rustica siciliana trae motivo d’ispirazione per composizioni di alta stilizzazione formale, destinate ad avere un successo senza pari presso il raffinato pubblico cittadino di Alessandria[9].

Al mondo bucolico teocriteo è del tutto estranea la componente cultuale e religiosa; perciò risulta in qualche modo sorprendente il quadro prospettato nel trattatello sulla genesi della bucolica premesso nei codici ai carmi di Teocrito e attribuibile a Teone[10]. Qui sono indicate tre differenti versioni sull’origine della poesia pastorale, ma un elemento comune è costituito dalla connessione dei canti dei contadini con il culto di Artemide, circostanza che riporta la bucolica a una dimensione prettamente religiosa[11]. Comunque si voglia interpretare questa testimonianza – è stato sostenuto con buoni argomenti che l’aristotelico Teone esponga qui una propria idea personale, con l’obiettivo di spiegare l’origine della poesia pastorale in maniera analoga al modo in cui Aristotele aveva spiegato l’origine della poesia drammatica[12] – , è del tutto evidente che, se pure vi fu nella fase preletteraria della poesia bucolica una componente religiosa e culturale, in Teocrito non ne rimane traccia alcuna.

Paul Peel, La pastorella. Olio su tela, 1892.

 

I “mimi”

Sul piano propriamente compositivo, è da rilevare che i carmi bucolici, di norma, sono strutturati in forma drammatica, come se si trattasse di opere destinate a essere rappresentate sulla scena; peraltro, la presenza in alcuni casi di sezioni narrative la dice lunga sulla loro destinazione, che si deve supporre libresca. In ogni caso, da una parte la forma dialogica, dall’altra la propensione a rappresentare scene della vita quotidiana, avvicinano questi carmi all’antico genere del mimo, vale a dire a quella forma popolare di teatro che si era sviluppata due secoli prima in Sicilia, e che aveva avuto in Sofrone il suo esponente di punta. Ma i carmi bucolici hanno una connotazione così peculiare ed esclusiva, che sembra difficile incardinarli 𝑡𝑜𝑢𝑡 𝑐𝑜𝑢𝑟𝑡 in quella tradizione; si parlerà piuttosto di una più generale attitudine “mimetica”, che peraltro, a diversi livelli, opera in quasi tutte le composizioni teocritee, persino nei poemetti d’impianto epico-narrativo: la sticomitia del carme XXII ne è un esempio rilevante.

Vi sono, invece, nel canzoniere teocriteo alcune composizioni (II, XIV, XV) che possiamo a buon diritto definire «mimi», sia per la struttura drammatica, che è integrale – a rigore sarebbero rappresentabili, anche se si tende a escluderlo[13] – , sia per i personaggi e le situazioni, che riflettono il gusto per la rappresentazione realistica della vita di tutti i giorni. L’esistenza di uno specifico rapporto con il mimo siciliano del V secolo a.C. trova effettivamente qualche riscontro nei pur scarsi frammenti sofronei, e inoltre tale rapporto è esplicitamente indicato dai commentatori antichi; ma naturalmente, dato il quasi completo naufragio dell’opera di Sofrone, non possiamo sapere fino a che punto si sia spinta l’imitazione da parte di Teocrito; certo, i mimi teocritei appaiono così pervasi di spirito alessandrino, così ricchi di riferimenti a fatti e personaggi contemporanei all’autore, che si può tranquillamente ritenere che Teocrito trasse dal suo modello nulla più che qualche spunto.
Il mimo, almeno alle sue origini, era una forma popolare di teatro, destinato a un uditorio vasto e di poche pretese. Si deve tuttavia supporre che già con Sofrone si fosse attuata una forte spinta in senso letterario (i mimi di Sofrone erano molto ammirati da Platone!); con Teocrito l’elemento popolare si cala in una forma altamente stilizzata e consapevole. A ben vedere, non c’è nulla di più provocatorio che adoperare il sonante esametro epico per argomenti e situazioni della vita quotidiana. E l’esametro si piega a tutte le movenze del discorso parlato, acquista un andamento sinuoso, assume pause che sarebbero impensabili nel verso epico, si spezza in due, in tre, nel gioco del dialogo.

 

William-Adolphe Bouguereau, Idillio. Olio su tela, 1852.

 

Considerazioni sull’epillio

«Epillio» è il termine con cui in età moderna si è inteso designare quel particolare tipo di poesia epico-narrativa in esametri, che si sviluppò nel clima culturale alessandrino, prendendo le mosse da Omero, ma a Omero volutamente contrapponendosi. Sono considerati “epilli” in senso stretto i carmi XIII, XXIV e XXV del 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑢𝑠 teocriteo, l’𝐸𝑐𝑎𝑙𝑒 di Callimaco e l’𝐸𝑢𝑟𝑜𝑝𝑎 di Mosco; in ambito latino il 𝐶𝑢𝑙𝑒𝑥 e la 𝐶𝑖𝑟𝑖𝑠 pseudo-virgiliani e il carme LXIV di Catullo. È bene sottolineare, comunque, che l’uso del vocabolo per indicare un genere letterario autonomo non ha alcun fondamento nell’antichità[14]: quando ricorre, ἐπύλλιον significa semplicemente 𝑣𝑒𝑟𝑠𝑖𝑐𝑢𝑙𝑢𝑠 (Aristoph. 𝐴𝑐ℎ. 398; 𝑅𝑎𝑛. 924; 𝑃𝑎𝑥 532; Clem. Alex. 𝑆𝑡𝑟𝑜𝑚. III, 3,24); solo in un passo di Ateneo (II 65b) ha il valore di 𝑏𝑟𝑒𝑣𝑒 𝑐𝑎𝑟𝑚𝑒𝑛, ma dal contesto risulta evidente che non si allude affatto a un genere letterario specifico. Si tratta dunque di un uso moderno, e si deve far risalire alla filologia del secolo scorso, come ha chiarito E. Wolff (𝑆𝑢𝑟 𝑙𝑒 𝑚𝑜𝑡 «𝑒𝑝𝑦𝑙𝑙𝑖𝑜𝑛», RPh 62, 1988, 299-303). Ma è veramente legittimo tale uso? A tale proposito, una posizione risolutamente negativa è stata assunta da W. Allen jr. (𝑇ℎ𝑒 𝐸𝑝𝑖𝑙𝑙𝑖𝑜𝑛, 1940), il quale ha sottolineato come spesso siano state corrivamente raggruppate sotto la generica etichetta di “epilli” opere di differente origine e struttura, che riflettono piuttosto la propensione degli alessandrini per la mistione dei generi. Gli argomenti di Allen sono in buona parte condivisibili: per limitarci a Teocrito, è del tutto evidente il carattere proteiforme dell’𝐼𝑙𝑎 (carme XIII), che Wilamowitz intendeva come un παιδικόν, ma che d’altro canto presenta anche le caratteristiche dell’epistola poetica, e per di più incorpora elementi descrittivi di carattere bucolico[15]; e si deve anche rilevare che l’𝐸𝑟𝑎𝑐𝑙𝑖𝑛𝑜 (carme XXIV) si chiude inaspettatamente come se fosse un inno. Pertanto, se si vuole continuare a usare il termine “epillio” – e non v’è dubbio che si tratti di un termine efficace e incisivo – bisognerà farlo con la consapevolezza che esso si adatta a «all poems in the new narrative style as opposed to the Homeric epics»: una generalizzazione quanto mai opportuna, ma che non impedisce l’individuazione di tratti specifici comuni, che servono a delineare il genere, nonostante tutto[16]: la miniaturizzazione dell’epos antico, il carattere episodico, gli inizi 𝑒𝑥 𝑎𝑏𝑟𝑢𝑝𝑡𝑜, il modo di procedere non uniforme, la rinuncia alla formularità, la drastica diminuzione delle comparazioni, l’ampio spazio concesso ai discorsi, l’inclusione di quadretti di carattere familiare e bucolico.

 

Polifemo e Galatea in un paesaggio bucolico. Affresco, fine I sec. a.C. dalla villa di Agrippa Postumo a Boscoreale. New York, Metropolitan Museum of Art.

 

Lingua, stile, metro

Nel tempo in cui Teocrito andava componendo i suoi carmi, la variegata realtà dialettale che fin dalle origini aveva caratterizzato il mondo greco nei suoi molteplici aspetti, politici, sociali, culturali, aveva ceduto ormai di fronte all’espandersi di una “lingua comune” (la cosiddetta κοινή), che si proponeva come unico e funzionale strumento di comunicazione per una realtà che aveva assunto un carattere statale e internazionale. Ma la κοινή non divenne la lingua della poesia: era la lingua della conversazione quotidiana, dei commerci, della burocrazia, degli atti ufficiali; dunque, nella coscienza dei poeti non poteva sostituirsi a quei dialetti antichi che – è bene ricordarlo – avevano dato vita a lingue letterarie di grandissimo prestigio. I poeti alessandrini si sentirono eredi e continuatori di quell’illustre tradizione, e ricercarono i loro modelli nella grande poesia del passato, ma operando in un modo nuovo e sorprendente, in un gioco continuo di imitazione e di innovazione.

Un dato assolutamente caratteristico della civiltà letteraria greca era stato lo stretto vincolo che si era venuto a creare tra dialetti e generi poetici, nel senso che la coloritura dialettale era condizionata dall’appartenenza al genere, e non dall’idioma nativo dell’autore; in età ellenistica quel vincolo si allenta (anche per la crisi che investe i generi tradizionali per se stessi), ma permane, e anzi si rafforza, il ruolo dei dialetti come forte elemento di stilizzazione. Nel contempo si accentua la tendenza, già presente in antico, alla mistione dialettale: sotto questo profilo, la lingua del canzoniere teocriteo è un vero mosaico, e anche tenendo nel debito conto le alterazioni che possono essere intervenute nel corso dei secoli, durante la lunga fase della trasmissione del testo, non v’è dubbio che la scelta stilistica della mistione dei dialetti si debba far risalire all’autore stesso. Quindi, quando parliamo di carmi “dorici”, o di carmi “ionico-epici”, dobbiamo dunque tener presente che vi sono infiltrazioni, anche massicce, di un dialetto nell’altro, e si arriva al punto che in certi casi i due dialetti sono sostanzialmente bilanciati. Solo nei carmi eolici sembra che Teocrito abbia seguito fedelmente la lingua di Saffo e di Alceo, anche se, in confronto ai suoi modelli, è da registrare un’incidenza più massiccia di forme epicheggianti.

Nella scelta del dialetto dominante, Teocrito si è sostanzialmente attenuto alla tipologia dei carmi[17]: per la poesia bucolica, che non aveva un referente letterario, la scelta del dorico fu dettata verosimilmente anche dal desiderio di evocare, sotto forme stilizzate, la lingua dei pastori di Sicilia, ma la 𝑓𝑎𝑐𝑖𝑒𝑠 dorica dei mimi trova senza dubbio il suo modello nel teatro siciliano di Sofrone ed Epicarmo, e non è escluso che tale modello abbia esercitato la sua influenza anche sulla poesia bucolica, che con il genere mimico ha più di un aspetto in comune; la lingua dorico-epica degli encomi per Ierone e per Tolomeo è nella tradizione del genere corale, e la lingua epica dell’inno ai Dioscuri si inquadra nella tradizione degli inni omerici; c’è poi l’eolico dei carmi composti “alla maniera di” Saffo e Alceo; in altri casi la scelta del colore dialettale appare meno immediatamente giustificabile.

In un quadro generale, comprendente anche i carmi di contestata autenticità, questa è la situazione[18]:

 

  • dorico: I-XI, XIV, XV, XVIII-XXI, XXIII, XXVI, XXVII;
  • dorico e ionico-epico: XIII, XVI, XVII, XXIV;
  • ionico-epico: XII, XXII, XXV;
  • eolico: XXVIII-XXXI.

 

Non sorprende di certo la netta prevalenza del dialetto dorico in un poeta di origine siracusana, ma la conclusione che se ne potrebbe trarre, di un uso del dialetto nativo, deve essere accantonata[19]; difatti, dall’idioma siracusano il dorico teocriteo si distacca per una divergenza fondamentale, in quanto adotta generalmente gli esiti aperti della 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑠 𝑠𝑒𝑣𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟 (gen. -ω, acc. -ως), laddove il siracusano adotta gli esiti chiusi della 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑠 𝑚𝑖𝑡𝑖𝑜𝑟 (gen. -ου, acc. -ους)[20], e non basta inseguire il fantasma di un “siracusano letterario” per spiegare il comportamento teocriteo[21]. Ciò che rende problematica la valutazione del dorico di Teocrito è la presenza in esso di alcuni tratti peculiari, che non sembrano appartenere al dorico 𝑠𝑡𝑎𝑛𝑑𝑎𝑟𝑑, e si registrano invece nella 𝐾𝑢𝑛𝑠𝑡𝑠𝑝𝑟𝑎𝑐ℎ𝑒 della poesia corale: si tratta delle forme dittongate del tipo -οισα, -αισα, della grafia σδ per ζ, della terminazione -εσσι dei dativi plurali della flessione atematica, delle forme geminate nei pronomi personali. E se per taluni di questi elementi si può far ricorso all’ipotesi degli epicismi, per le forme dittongate e per la grafia σδ, che non appartengono alla lingua dell’epica, il referente letterario non può che essere la lingua della corale, dove peraltro questi elementi “eolici” costituiscono già per se stessi un problema.

Su questa base si era fondata l’efficace definizione di 𝑆𝑎𝑙𝑜𝑛𝑑𝑜𝑟𝑖𝑠𝑐ℎ data da Wilamowitz al dorico teocriteo; ma ora la questione sembra porsi su un piano differente, perché le forme dittongate sono emerse come un elemento di lingua corrente nelle iscrizioni della Cirenaica[22], e ciò ha consentito a C.J. Ruijgh[23] di postulare per Teocrito l’adozione di un dialetto di tipo “cirenaico”, rispecchiante l’idioma, già in qualche modo influenzato dalla κοινή, che si parlava nella comunità cirenaica insediata nella città di Alessandria: un’ipotesi attraente, anche se taluni argomenti di ordine strettamente dialettologico, per ammissione dello stesso studioso, appaiono alquanto evanescenti[24]; ma non mi pare da condividere il presupposto che ne è alla base, cioè che il contenuto «réaliste» richiedesse un «dialecte vivant», e non solo perché ciò non rientra per nulla nei canoni della civiltà letteraria alessandrina, ma anche in ragione della sostanziale uniformità del dorico teocriteo, che è lo stesso sia nei carmi bucolici e nei mimi, sia nei carmi di registro alto, come il XVIII e il XXVI; né può costituire un elemento a favore il fatto che Callimaco di Cirene adotti lo stesso tipo di dorico, ove si consideri che il raffinato poeta alessandrino mai avrebbe adottato 𝑡𝑜𝑢𝑡 𝑐𝑜𝑢𝑟𝑡 per i suoi inni l’idioma nativo[25]. A conti fatti, mi pare che l’approccio letterario di Wilamowitz conservi tutto il suo valore, e non posso essere corrivamente abbandonato; dopo tutto, non bisogna dimenticare che anche la scelta dell’esametro procede nel senso di un contrasto, e non di un’aderenza al dato realistico.

C’è poi il problema degli epicismi, che in misura più o meno massiccia troviamo inseriti nei carmi dorici[26]. Il linguaggio epico era tradizionalmente sinonimo di stile elevato, ma ritenere che Teocrito abbia introdotto espressioni omeriche con puro fine di ornamento sarebbe quanto meno semplicistico. Certo, l’impiego dell’esametro comporta, quasi per una sorta di trascinamento, l’uso di locuzioni omeriche, ed è vero che in taluni casi la maggior incidenza di tratti epici corrisponde a un effettivo innalzamento del tono, come avviene ad esempio nell’elaborato carme che apre la raccolta, ma non di rado quei flosculi omerici, accortamente accostati a colloquialismi e volgarismi nel linguaggio delle persone semplici che agiscono nei mimi, hanno un sapore sottile d’ironia, e marcano la distanza che il poeta pone intenzionalmente tra se stesso e i personaggi da lui creati. È il caso della serenata del capraio nel carme III, in cui la rilevante presenza di omerismi contribuisce a dare un tocco umoristico all’intera scena.

Contrariamente alla scelta della varietà nelle tematiche, nei dialetti, nei generi poetici, la scelta metrica di Teocrito non va nel senso della polimetria: infatti, se si escludono i carmi eolici che ripropongono i metri di Saffo e Alceo, alcuni epigrammi in metri vari, e il carme VIII (di contestata autenticità) con la sua sezione in distici elegiaci, le poesie di Teocrito sono tutte composte in esametri dattilici. Ho già avuto occasione di sottolineare il paradosso insito nella scelta dell’esametro per il genere bucolico e mimico: ma i lettori di Teocrito certamente apprezzavano come una gradita novità l’impiego del magniloquente verso dell’epica per rappresentare l’umile vita dei pastori o il piccolo mondo borghese cittadino; e soprattutto apprezzavano la virtuosistica destrezza con cui il poeta era riuscito a piegare alla discorsività del dialogo il verso che era stato definito da Aristotele il più lontano di tutti dalla lingua parlata, affidando, di fatto, all’esametro lo stesso ruolo del trimetro giambico nella commedia[27]. È così che si spiegano certe violazioni alle norme del raffinato esametro alessandrino: nel linguaggio “staccato” che caratterizza i dialoghi delle 𝑆𝑖𝑟𝑎𝑐𝑢𝑠𝑎𝑛𝑒 si registrano pause anche nell’ultimissima parte del verso (vv. 1,3; 14; 40; 60), in un’evidente ricerca di ben precisi effetti stilistici. In generale, comunque, laddove non sussistano esigenze di discorsività, il verso ha la forma stilizzata ed elegante che contraddistingue l’esametro alessandrino, pur presentando, nella struttura compositiva, un minor numero di norme restrittive rispetto agli esametri callimachei, e si caratterizza per tutta una serie di espedienti stilistici (anafore, ripetizioni, omeoteleuti, allitterazioni), che contribuiscono a renderlo armonioso e in qualche modo cantabile; talvolta compare persino una struttura strofica, a suggerire, per il verso recitativo per eccellenza, un’ideale 𝑝𝑒𝑟𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑛𝑐𝑒 canora.[28]

Jean Charles Cazin, Teocrito. Olio su tela, 1885. Chicago, Art Institute.

 

Carattere della poesia teocritea

L’uso sapiente e scaltrito dello strumento linguistico e metrico è uno dei mezzi attraverso i quali Teocrito realizza la sua operazione poetica. La critica ha spesso sottolineato, e giustamente, la connotazione realistica della sua poesia; ma è bene sottolineare come il realismo di Teocrito non significhi affatto aderenza alla vita dei ceti umili borghesi: vi si oppone da un lato, come si è visto, la stilizzazione nella scrittura, che rivela una forte e rigorosa attenzione al dato specificatamente letterario, dall’altro un atteggiamento di consapevole distanza di fronte all’oggetto della sua arte. Teocrito non s’immedesima mai nei suoi personaggi; al contrario, li osserva, di solito con indulgente ironia, talora anche con partecipazione, ma senza mai lasciarsi interamente travolgere dalle loro passioni. È questa disposizione d’animo che fa sì che l’ironia non diventi mai sarcasmo: il sarcasmo nasce da eccesso di passione, e invece Teocrito, per inclinazione naturale, e per norma d’arte, procede sulla via del “sottrarre”, non dell’”aggiungere”. Allo stesso modo, il calore dei sentimenti non si tramuta mai in scomposta passione, e quando la commozione sta per traboccare, interviene a smorzarla il superiore sorriso del poeta. In questa leggerezza di tono, in questa consapevole smorzatura degli affetti consiste la sostanza della sua ispirazione. Perciò, a mio parere, non si può insistere troppo sul carattere umoristico, e persino satirico, della poesia di Teocrito, che è lieve per sua natura, e mai pungente o mordace, quand’anche riprenda i moduli aggressivi della poesia popolare[29]. D’altro canto va anche accolto con cautela l’approccio di quella parte della critica che carica Teocrito di un’intricata rete di simboli[30]: un tempo andava di moda, sulla scia di Reitzenstein, scorgere allegoricamente dietro questa o quella figura di pastore personaggi reali della cerchia poetica teocritea[31]; la fitta simbologia che oggi si è andata addensando sulla poesia di Teocrito rischia, ancora una volta, di incrinare quel tocco leggero che costituisce il segno inconfondibile dell’arte del poeta.

Per una bibliografia aggiornata, si vd. il sito 𝐴 𝐻𝑒𝑙𝑙𝑒𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐 𝐵𝑖𝑏𝑙𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦.

 

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Note:

[1] Sono elencate e discusse in Gᴏᴡ, I, xᴠ ss.

[2] Vd. in particolare W. Mᴇɪɴᴄᴋᴇ, 𝑈𝑛𝑡𝑒𝑟𝑠𝑢𝑐ℎ𝑢𝑛𝑔𝑒𝑛 𝑧𝑢 𝑑𝑒𝑛 𝑒𝑛𝑘𝑜𝑚𝑖𝑎𝑠𝑡𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐺𝑒𝑑𝑖𝑐ℎ𝑡𝑒𝑛 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑘𝑟𝑖𝑡𝑠, Diss., Kiel 1965, e T.F. Gʀɪꜰꜰɪᴛʜs, 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑢𝑠 𝑎𝑡 𝐶𝑜𝑢𝑟𝑡, Leiden 1979 [books.google].

[3] È un’ipotesi prospettata da G. Lᴀᴡᴀʟʟ, 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑢𝑠’ 𝐶𝑜𝑎𝑛 𝑃𝑎𝑠𝑡𝑜𝑟𝑎𝑙𝑠. 𝐴 𝑃𝑜𝑒𝑡𝑟𝑦 𝐵𝑜𝑜𝑘, Cambridge MA 1967 [archive.org].

[4] A. Lɪɴᴅsᴇʟʟ, 𝑊𝑎𝑠 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑢𝑠 𝑎 𝐵𝑜𝑡𝑎𝑛𝑖𝑠𝑡?, G&R 6 (1937), 78-93.

[5] È per l’appunto con tale valenza che 𝑖𝑑𝑦𝑙𝑙𝑖𝑎 è adoperato da Plinio (𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 4, 14), e tuttavia mal si comprende in che modo εἶδος (= «aspetto», e quindi «specie», «tipo») possa assumere il significato di «poema» 𝑡𝑜𝑢𝑡 𝑐𝑜𝑢𝑟𝑡. Come osserva Gᴏᴡ (I, ʟxxɪ), se, a rigore, si può accettare che il plurale εἴδη indichi una collezione di poemi di vario tipo, non si giustifica l’uso di εἶδος per il singolo componimento.

[6] Sull’argomento vd. L.E. Rᴏssɪ, 𝐼 𝑔𝑒𝑛𝑒𝑟𝑖 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑖 𝑒 𝑙𝑒 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑙𝑒𝑔𝑔𝑖 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑒 𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑒 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐ℎ𝑒, BICS 18 (1971), 69-94 [unica.it].

[7] Su tale problematica vd. in particolare B. Eꜰꜰᴇ, 𝐷𝑖𝑒 𝐺𝑒𝑛𝑒𝑠𝑒 𝑒𝑖𝑛𝑒𝑟 𝑙𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐺𝑎𝑡𝑡𝑢𝑛𝑔: 𝑑𝑖𝑒 𝐵𝑢𝑘𝑜𝑙𝑖𝑘, Konstanz 1977 e D.M. Hᴀʟᴘᴇʀɪɴ, 𝐵𝑒𝑓𝑜𝑟𝑒 𝑃𝑎𝑠𝑡𝑜𝑟𝑎𝑙: 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑢𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝑡ℎ𝑒 𝐴𝑛𝑐𝑖𝑒𝑛𝑡 𝑇𝑟𝑎𝑑𝑖𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑜𝑓 𝐵𝑢𝑐𝑜𝑙𝑖𝑐 𝑃𝑜𝑒𝑡𝑟𝑦, New Haven 1983.

[8] Tra le raffigurazioni dello scudo di Achille (𝐼𝑙. XVIII) vi sono due scene in cui l’elemento musicale è associato alla sfera bucolica: in una sono rappresentati due pastori che seguono le greggi e le mandrie di buoi suonando la 𝑠𝑦𝑟𝑖𝑛𝑥 (vv. 525 ss.); nell’altra, che è una scena di vendemmia, è raffigurato un ragazzo che canta al suono della cetra, attorniato da fanciulle e giovani danzanti (vv. 569 ss.). Più in generale, l’elemento pastorale fa da cornice all’episodio di Polifemo (𝑂𝑑. IX).

[9] Un forte impulso in questo senso è stato impresso dal saggio di R. Mᴇʀᴋᴇʟʙᴀᴄʜ, ΒΟ𝑌ΚΟΛΙΑΣΤΑΙ (𝐷𝑒𝑟 𝑊𝑒𝑡𝑡𝑔𝑒𝑠𝑎𝑛𝑔 𝑑𝑒𝑟 𝐻𝑖𝑟𝑡𝑒𝑛), RhM 99 (1956), 97-133.

[10] Teone è il grammatico di età augustea a cui si attribuisce, sulla scia di Wilamowitz, l’edizione del 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑢𝑠 teocriteo. Gli argomenti contenuti nel trattato furono successivamente ripresi dai grammatici latini, nell’ambito dei loro interessi per la poesia bucolica di Virgilio. Tutti i testi si trovano raccolti in C. Wᴇɴᴅᴇʟ, 𝑆𝑐ℎ𝑜𝑙𝑖𝑎 𝑖𝑛 𝑇ℎ𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑢𝑚 𝑣𝑒𝑡𝑒𝑟𝑎, Lipsiae 1914, 1-22 [archive.org].

[11] La prima versione si colloca in Laconia all’epoca dell’invasione persiana, quando i contadini si sostituirono alle vergini nel compito di cantare inni in onore di Artemide Cariatide; la seconda s’intreccia con la vicenda di Oreste, giunto a Tindari con il simulacro di Artemide trafugato dalla Tauride: in tale occasione i nativi onorarono la dea con canti. Infine, c’è la versione siracusana, che, secondo l’autore, è quella che coglie nel segno (ἀληθής λόγος): scoppiata una sommossa a Siracusa, e tornata successivamente la pace, furono organizzati festeggiamenti in onore di Artemide, durante i quali i contadini del contado ingaggiavano gare di canto; e chi rimaneva sconfitto andava in giro per le campagne circostanti, elemosinando cibo e cantando canti di buon augurio.

[12] Vd. E. Cʀᴇᴍᴏɴᴇsɪ, 𝑅𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑖 𝑡𝑟𝑎 𝑙𝑒 𝑜𝑟𝑖𝑔𝑖𝑛𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑜𝑒𝑠𝑖𝑎 𝑏𝑢𝑐𝑜𝑙𝑖𝑐𝑎 𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑜𝑒𝑠𝑖𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑖𝑐𝑎 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑡𝑟𝑎𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑝𝑎𝑡𝑒𝑡𝑖𝑐𝑎, Dioniso 21-22 (1958-59), 109-122.

[13] A mio parere, sarebbe accettabile anche per i mimi teocritei la soluzione prospettata da Mastromarco per i 𝑀𝑖𝑚𝑖𝑎𝑚𝑏𝑖 di Eronda (𝐼𝑙 𝑝𝑢𝑏𝑏𝑙𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝐸𝑟𝑜𝑛𝑑𝑎, Padova 1979): rappresentazioni sceniche tenute a corte, o nelle case delle famiglie più facoltose e colte della società alessandrina, basate su una concezione antologica dello spettacolo.

[14] Vd. W. Aʟʟᴇɴ ᴊʀ., 𝑇ℎ𝑒 𝐸𝑝𝑖𝑙𝑙𝑖𝑜𝑛: 𝐴 𝐶ℎ𝑎𝑝𝑡𝑒𝑟 𝑖𝑛 𝑡ℎ𝑒 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑦 𝑜𝑓 𝐿𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑦 𝐶𝑟𝑖𝑡𝑖𝑐𝑖𝑠𝑚, TAPhA 71 (1940), 1-26.

[15] Vd. L.E. Rᴏssɪ, 𝐿’Ila 𝑑𝑖 𝑇𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑜: 𝑒𝑝𝑖𝑠𝑡𝑜𝑙𝑎 𝑝𝑜𝑒𝑡𝑖𝑐𝑎 𝑒𝑑 𝑒𝑝𝑖𝑙𝑙𝑖𝑜, in 𝑆𝑡𝑢𝑑𝑖 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐𝑖 𝑖𝑛 𝑜𝑛𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑄. 𝐶𝑎𝑡𝑎𝑢𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎, vol. 2, Catania 1972, 279-293.

[16] Essi sono stati limpidamente messi in luce da G. Pᴇʀʀᴏᴛᴛᴀ, 𝐴𝑟𝑡𝑒 𝑒 𝑡𝑒𝑐𝑛𝑖𝑐𝑎 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝑒𝑝𝑖𝑙𝑙𝑖𝑜 𝑎𝑙𝑒𝑠𝑠𝑎𝑛𝑑𝑟𝑖𝑛𝑜, A&R 4 (1923), 213-229, ora anche in B. Gᴇɴᴛɪʟɪ, G. Mᴏʀᴇʟʟɪ, G. Sᴇʀʀᴀᴏ (eds.), 𝑃𝑜𝑒𝑠𝑖𝑎 𝑒𝑙𝑙𝑒𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐𝑎. 𝑆𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑖 𝑚𝑖𝑛𝑜𝑟𝑖 𝐼𝐼, Roma 1978, 34-53.

[17] Come è noto, la questione della corrispondenza tra dialetti e generi era stata polemicamente sollevata sul piano teorico da Callimaco nel giambo XIII. Il libro dei 𝐺𝑖𝑎𝑚𝑏𝑖 è in se stesso un esempio di programmatica infedeltà all’antica norma; e la “trasgressione” investe persino il venerando genere degli inni, che la tradizione voleva composti in lingua epica e in esametri dattilici: infatti, due dei sei 𝐼𝑛𝑛𝑖 callimachei, il quinto e il sesto, presentano una 𝑓𝑎𝑐𝑖𝑒𝑠 dorica, e il quinto svaria anche nel metro, che è un distico elegiaco.

[18] Dopo quanto si è detto a proposito della mistione dialettale, risulta chiaro che qualsiasi classificazione comporta un certo rischio di semplificazione: infatti anche i carmi “ionico-epici” contengono dorismi, così come i carmi “dorici” contengono epicismi, e non è facile determinare in che misura tale mescolanza sia da attribuire all’autore, e quanto invece sia da imputare alla tradizione manoscritta. È il caso, in particolare, dei carmi XII e XXII, che sono indicati come “ionici” nei codici stessi, ma che contengono un certo numero di dorismi, generalmente trascurati nella 𝑟𝑒𝑐𝑒𝑛𝑠𝑖𝑜.

[19] Se Alessandria, città nuova e cosmopolita, aveva adottato decisamente come strumento di comunicazione la κοινή, la dorica Siracusa al tempo di Teocrito conservava ancora tracce consistenti dell’antico idioma encorico, come risulta evidente dalla documentazione epigrafica.

[20] L’ormai cronica distinzione tra 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑠 𝑠𝑒𝑣𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟 e 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑠 𝑚𝑖𝑡𝑖𝑜𝑟 risale a H.L. Aʜʀᴇɴs, 𝐷𝑒 𝑔𝑟𝑎𝑒𝑐𝑎𝑒 𝑙𝑖𝑛𝑔𝑢𝑎𝑒 𝑑𝑖𝑎𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑠, II, Gottingae 1843.

[21] L’ipotesi di una 𝐾𝑢𝑛𝑠𝑡𝑠𝑝𝑟𝑎𝑐ℎ𝑒 siracusana, operante in Sicilia e in Magna Grecia, fu formulata per la prima volta in maniera organica da M. Magniem (𝐿𝑎 𝑠𝑦𝑟𝑎𝑐𝑢𝑠𝑎𝑖𝑛 𝑙𝑖𝑡𝑡𝑒́𝑟𝑎𝑖𝑟𝑒 𝑒𝑡 𝑙’𝑖𝑑𝑦𝑙𝑙𝑒 𝑋𝑉 𝑑𝑒 𝑇ℎ𝑒́𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑒, MSL 21, 1919, 49-85), ed è stata accolta con grande favore, malgrado offra il fianco a non poche obiezioni. Una ragionata critica alla costruzione del Magniem è stata avanzata da G. Iᴀᴄᴏʙᴀᴄᴄɪ, 𝐼𝑙 “𝑠𝑖𝑟𝑎𝑐𝑢𝑠𝑎𝑛𝑜 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑖𝑜”: 𝑢𝑛’𝑖𝑝𝑜𝑡𝑒𝑠𝑖 𝑑𝑎 𝑟𝑖𝑣𝑒𝑑𝑒𝑟𝑒, PhD. th. 1992.

[22] I testi sono raccolti in RFC 1928; vd. inoltre G. Oʟɪᴠᴇʀɪᴏ, 𝐼𝑠𝑐𝑟𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑐𝑖𝑟𝑒𝑛𝑎𝑖𝑐ℎ𝑒, QAL 4 (1961), 3-54, SEC, Annuario della scuola archeologica di Atene, 23-24 (1961-62), a cura di G. Pᴜɢʟɪᴇsᴇ Cᴀʀʀᴀᴛᴇʟʟɪ, e 𝑆𝐸𝐺 26 (1976-77), 412 ss.

[23] 𝐿𝑒 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑒𝑛 𝑑𝑒 𝑇ℎ𝑒́𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑒 : 𝑑𝑖𝑎𝑙𝑒𝑐𝑡𝑒 𝑐𝑦𝑟𝑒́𝑛𝑖𝑒𝑛 𝑑’𝐴𝑙𝑒𝑥𝑎𝑛𝑑𝑟𝑖𝑒 𝑒𝑡 𝑑’𝐸𝑔𝑦𝑝𝑡𝑒, Mnemosyne 37 (1984), 56-88 [jstor.org].

[24] È bene sottolineare che la maggior parte delle caratteristiche del dorico teocriteo sono comuni a tutta l’area occidentale, e quindi non sono di alcuna utilità per l’individuazione di un idioma specifico locale. Vi sono poi alcuni tratti più particolari, che appartengono, è vero, al cirenaico, ma appartengono anche ad altre aree del dominio dorico, nonché alla lingua letteraria (ἦνθον = ἦλθον, accusativi plur. in -ας e in -ος, desinenze d’infinito in -εν per -ειν, ἔνδοι = ἔνδον, ἴσαμι = οἶδα, e naturalmente gli esiti aperti della 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑠 𝑠𝑒𝑣𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟). Rimangono come elementi peculiari, secondo Ruijgh, -οισα = -ουσα, il suffisso avverbiale -θε = -θεν, la seconda persona dell’indicativo presente in -ες per -εις, σδ = ζ, Di questi elementi, il più significativo è -οισα, che effettivamente figura nel cirenaico come un tratto di lingua parlata, ma è un dato che semmai riapre la discussione sulla provenienza delle forme dittongate nella lingua della corale, e non basta a stabilire un asse: cirenaico → Teocrito. Quanto a σδ = ζ, la sua presenza nel cirenaico parlato può essere supposta in via ipotetica, dal momento che la documentazione epigrafica non ne serba traccia. Noto infine che la forma -θε per -θεν figura già in Pindaro, e che i casi di -ες per -εις sono pochi e non controllabili metricamente; in ogni caso si tratterebbe di una concordanza troppo labile per essere significativa.

[25] L’approccio di Ruijgh ripropone per diversa via l’antico argomento del carattere «rustico» del dorico teocriteo, ripreso anche in età moderna, soprattutto nel secolo scorso; ma vd. le giuste osservazioni di V. Dɪ Bᴇɴᴇᴅᴇᴛᴛᴏ, 𝑂𝑚𝑒𝑟𝑖𝑠𝑚𝑖 𝑒 𝑠𝑡𝑟𝑢𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑚𝑒𝑡𝑟𝑖𝑐𝑎 𝑛𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑖𝑑𝑖𝑙𝑙𝑖 𝑑𝑜𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑑𝑖 𝑇𝑒𝑜𝑐𝑟𝑖𝑡𝑜, ASNSP 25 (1956), 49 ss.

[26] Vd. Bᴇɴᴇᴅᴇᴛᴛᴏ, 𝑂𝑚𝑒𝑟𝑖𝑠𝑚𝑖…, 48-60.

[27] 𝑃𝑜𝑒𝑡. 1449a 26.

[28] È in particolare il caso del primo e del secondo carme, nei quali il 𝑟𝑒𝑓𝑟𝑎𝑖𝑛 funge da separatore di gruppi regolari di versi, ma anche il carme III ha un’evidente struttura tristica.

[29] L’ironia è il filo conduttore dell’analisi della poesia teocritea da parte di G. Giangrande e della sua scuola.

[30] L’interpretazione “simbolica” si è esercitata soprattutto sul carme VII, ma non solo. Tra i principali esponenti di questo 𝑡𝑟𝑒𝑛𝑑 ricordiamo Ch. Segal, G. Lawall, J.-H. Kühn, M. Puelma, U. Ott.

[31] 𝐸𝑝𝑖𝑔𝑟𝑎𝑚𝑚 𝑢𝑛𝑑 𝑆𝑘𝑜𝑙𝑖𝑜𝑛, Giessen 1893.