ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
La ricerca storiografica moderna non si è occupata di nessun’altra coppia concettuale in modo tanto più intenso e incontrastato di quanto non abbia fatto con «dominio» (Herrschaft) e «seguito» (Gefolgschaft), stravolgendola con impegno ideologico e dilettantismo polemico. Un trattamento simile hanno conosciuto le categorie di «parentela» (Sippe) ed «esercito tribale» (Stammesheer). Nelle fonti letterarie, da Cesare a Wulfila, ai testi altomedievali del continente, delle isole britanniche e della Scandinavia, si parla piuttosto di «potere militare» e «seguito», ma questi concetti richiedono una spiegazione più esaustiva.
Che fra le popolazioni germaniche vigesse una monarchia o un’oligarchia, c’era pur sempre un’élite che deteneva il potere, o meglio un legittimo diritto sulle azioni altrui. Questa rivendicazione di potere si basava sulla maggiore ricchezza e coinvolgeva sia gli uomini liberi sia quelli non liberi e meno ricchi. Il potere era prima di tutto sulla casa, cioè l’autorità di comando sulla propria famiglia e sui propri dipendenti, ed era esercitato su un gruppo di persone libere da incombenze quotidiane che, come soldati addestrati, agivano in base agli ordini del loro signore. Quando Arminio assediò il suocero Segeste per liberare la moglie Thusnelda, due gruppi abbastanza numerosi di seguaci si affrontarono per espugnare la casa di Segeste, evidentemente ben fortificata; quando Arminio attaccò il re dei Marcomanni, egli era a capo di un esercito multietnico di seguaci che combattevano schiere di guerrieri strutturate in modo simile da Marobodo, alle quali si erano aggiunti anche lo zio di Arminio e il principe cherusco Inguiomero con il loro seguito (Tac. Ann. I 57-59).
Arminio. Illustrazione di A. Gagelmann.
I resoconti di Cesare e di Tacito, che si riferiscono in modo sistematico a un «seguito» germanico, non presentano vuote astrazioni, ma sono molto concreti: sono i resoconti della vita di una società arcaica, naturalmente, come mostrano i confronti fra le istituzioni germaniche e quelle non germaniche. Le fonti latine si riferiscono al «seguito» con il termine comitatus, un fenomeno sociale che si affermò pienamente durante l’epoca delle migrazioni (IV-V secolo), come mostrano le varie espressioni per indicarlo: þiudans in gotico, fylgja in norreno, þeod in sassone, Truste in franco e Gasindium in longobardico.
Ogni capo militare degno del suo rango aveva il suo «seguito», le dimensioni del quale variavano in proporzione alla fama, al prestigio e al carisma: disporre di un gran numero di seguaci era naturalmente motivo di vanto e la dimostrazione pratica della propria competenza militare. I guerrieri accompagnavano il loro condottiero in ogni occasione, sia in guerra sia nelle adunanze pubbliche, vivendo insieme a lui e per lui, quasi fosse la sua scorta armata personale. Tacito (Germ. 13, 3) lo spiega molto chiaramente: haec dignitas, hae vires: magno semper electorum iuvenum globo circumdari in pace decus, in bello praesidium. Nec solum in sua gente cuique, sed apud finitimas quoque civitates id nomen, ea gloria est, si numero ac virtute comitatus emineat; expetuntur enim legationibus et muneribus ornantur et ipsa plerumque fama bella profligant («Questa è la dignità, questa la manifestazione di forza: essere sempre seguiti da una folta schiera di giovani scelti, decoro in tempo di pace, difesa in tempo di guerra. Per ciascun capo militare è motivo di gloria e di onore, non soltanto presso la sua gente ma anche tra le tribù limitrofe, distinguersi per la consistenza e per il valore del proprio seguito; infatti, essi sono richiesti per incarichi diplomatici, sono gratificati con donativi e combattono vittoriosamente le guerre soprattutto grazie alla propria fama»).
Fondamentale era il rapporto di subordinazione del seguace al comandante, rapporto sancito da un solenne giuramento, che regolava i legami e i vincoli di fiducia fra il signore e gli uomini sotto il suo comando. Tacito (Germ. 14, 1), infatti, osserva che principes pro victoria pugnant, comites pro principe («I condottieri combattono per la vittoria, i seguaci combattono per i capi»). I meriti personali conseguiti dal membro del «seguito» sul campo e la considerazione goduta presso il proprio comandante consentivano ad alcuni di distinguersi dal resto del gruppo: questi gregari erano spesso investiti di importanti responsabilità, prove e missioni. A ciò va aggiunto che il condottiero precedeva i suoi in battaglia, ma anche che il suo «seguito» aveva l’obbligo morale di non sopravvivergli: Cum ventum in aciem, turpe principi virtute vinci, turpe comitatui virtutem principis non adaequare (Tac. Germ. 14, 1, «Non appena si viene alle armi, è vergognoso per un capo essere superato in valore e altrettanto turpe per il gruppo non emulare il proprio condottiero»). Il guerriero doveva al suo capo valore e coraggio, difesa e protezione: sopravvivergli in battaglia era motivo di infamia che poteva pesare sulla coscienza per il resto della vita.
Cavaliere germanico. Disco decorativo, bronzo, VI secolo, da una tomba alamannica a Bräunlingen. Karlsruhe, Badisches Landesmuseum.
Se i comites costituivano la milizia privata del condottiero, anche costui era tenuto a osservare alcuni obblighi, fra i quali garantire fama e ricchezza ai suoi uomini, condurli alla vittoria in guerra e consentire loro di vivere dignitosamente in pace (Tac. Germ. 14, 2): Exigunt enim principis sui liberalitate illum bellatorem equum, illam cruentam victricemque frameam; nam epulae et quamquam incompti, largi tamen apparatus pro stipendio cedunt («Infatti, dalla generosità del loro condottiero i gregari richiedono come ricompensa o quel particolare cavallo da guerra o quella speciale lancia insanguinata e vittoriosa, mentre i pasti e il vitto nel suo complesso, semplice seppur abbondante, costituiscono la loro paga»).
Il peso economico rappresentato dal «seguito» doveva essere ragguardevole, considerata la povertà dell’economia germanica, fondata sull’agricoltura; perciò, soltanto condottieri molto potenti potevano permettersi di supportare un «seguito». La munificenza dei condottieri, pertanto, derivava soprattutto dal bottino razziato ai vicini, che veniva spartito equamente tra i guerrieri in base all’onore riconosciuto a ciascuno (Germ. 15, 2): Mos est civitatibus ultro ac viritim conferre principibus vel armentorum vel frugum, quo pro honore acceptum etiam necessitatibus subvenit. Gaudent praecipue finitimarum gentium donis, quae non modo a singulis, sed et publice mittuntur, electi equi, magnifica arma, phalerae torquesque («È usanza delle tribù offrire spontaneamente e a titolo personale ai condottieri bestiame e prodotti agricoli, che, accolti come segno di distinzione, sopperiscono anche alle loro necessità. Si compiacciono particolarmente dei doni ricevuti dalle tribù vicine, inviate non solo da singole persone, ma anche a nome di tutta la comunità: cavalli di razza, splendide armi, decorazioni militari e monili»).
Guerriero franco. Pietra tombale, VII secolo, da Niederdollendorf (Königswinter). Bonn, Rheinisches Landesmuseum.jpg
D’altra parte, l’adesione al comitatus era volontaria, per il puro piacere di fare la guerra (Tac. Germ. 14, 2): Si civitas, in qua orti sunt longa pace et otio torpeat, plerique nobilium adulescentium petunt ultro eas nationes, quae tum bellum aliquod gerunt («Se la comunità in cui sono nati s’infiacchisce in un prolungato periodo di pace, molti giovani delle famiglie nobili si trasferiscono presso altre popolazioni, che in quel momento sono impegnate in qualche conflitto»). In una società arcaica come quella dei Germani la mera capacità di comando non assicurava di per sé il potere; chi intendeva detenerlo doveva disporre di qualcuno che lo precedesse o lo seguisse. Ogni individuo occupava un certo posto all’interno di un ordine gerarchico ed era tenuto a mantenerlo, persino migliorarlo, se non voleva rischiare di perdere la propria posizione (Germ. 13, 3): Gradus quin etiam ipse comitatus habet, iudicio eius quem sectantur; magnaque et comitum aemulatio, quibus primus apud principem suum locus («Il seguito ha dei gradi, secondo le disposizioni del capo; c’è una certa competizione tra coloro che ne fanno parte, per vedere a chi tocchi il primo posto nella considerazione del capo»).
Analogamente a questo senso di aemulatio, un giovane poteva diventare capo: secondo una concezione tipicamente germanica, l’età decideva di rado l’ordine gerarchico degli individui. L’esperienza militare non era un prerequisito necessario, mentre contavano di più insignis nobilitas aut magna patrum merita («la ragguardevole nobiltà o i grandi meriti dei padri»), che facevano risalire fino ai capostipiti divini il carisma personale e il «credito» che nasceva dal capo. Tra l’altro, i guerrieri più giovani ceteris robustioribus ac iam pridem probatis adgregantur, nec rubor inter comites aspici (Tac. Germ. 13, 2, «si aggregavano ai più forti e ai più esperti e non era motivo di vergogna mostrarsi parte di un seguito»).
La tecnica di combattimento della fanteria germanica, simile alla falange. Illustrazione di A. Gagelmann.
In origine, come per la maggior parte dei barbari, anche la disposizione in battaglia dei Germani era ordinata per famiglie, Sippen e gruppi tribali, ma le forme di organizzazione del seguito finirono per sconvolgere e modificare gli assetti tradizionali. La scelta dei membri del seguito era una decisione che naturalmente spettava a un capo carismatico: coloro che lo avrebbero accompagnato, percorrendo un tratto di strada insieme, costituivano la «compagnia» (das Gesinde < ant. norr. Sinni, «che partecipa a una spedizione, gregario»; a.a.t. sind, «strada, cammino, direzione»).
Senza tutte le premesse materiali, e soprattutto senza il successo in battaglia, il credito e il capitale avevano vita breve. La costituzione di un «seguito» attorno alla figura di un capo carismatico era un atto volontario che comportava, però, determinati obblighi di reciprocità. I guerrieri e il loro leader esercitavano l’uso delle armi, nella convinzione che facilius inter ancipitia clarescunt magnumque comitatum non nisi vi belloque tueare («fosse più facile acquisire fama in mezzo ai pericoli dei conflitti e si potesse mantenere un seguito numeroso solo con la forza e per mezzo della guerra»).
Guerriero cherusco (I secolo d.C.). Illustrazione di Pablo Outeiral.
Presso gli antichi popoli germanici era consuetudine che i ragazzi non assumessero le armi fin quando non ne fossero stati degni: si trattava di un diritto ottenuto compiendo con successo una prova, un rito di passaggio, che consisteva generalmente nell’uccisione di una fiera e nel riportarne la carcassa al cospetto degli anziani per dimostrare l’effettivo superamento della prova. Non era raro che all’abbattimento di un animale feroce si sostituisse l’uccisione del primo uomo in combattimento. Per esempio, si può citare questa usanza presso i Chatti, verso le doti belliche dei quali Tacito mostra una certa ammirazione (Germ. 30, 3): Omne robur in pedite, quem super arma ferramentis quoque et copiis onerant: alios ad proelium ire videas, Chattos ad bellum («La loro forza militare risiede interamente nella fanteria, che oltre alle armi caricano anche di arnesi da lavoro e vettovaglie: gli altri li vedi andare in battaglia, i Chatti in campagna militare»). Da loro vigeva l’uso di lasciarsi crescere barba e capelli nel corso dell’adolescenza, per poi radersi al primo avversario ucciso in battaglia (Germ. 31, 1): Super sanguinem et spolia revelant frontem, seque tum demum pretia nascendi rettulisse dignosque patria ac parentibus ferunt («Sul cadavere insanguinato si radono il volto e solo allora ritengono di aver pagato il prezzo della loro nascita e si considerano degni della patria e dei genitori»). Parimenti, il giovane guerriero doveva ritenersi degno della nuova comunità e del nuovo padre (il princeps) solo dopo aver dimostrato il proprio valore sul campo. Sempre presso i Chatti Tacito informa dell’esistenza di una consorteria di guerrieri, un gruppo ristretto e a carattere iniziatico, che richiedeva ai suoi membri il superamento di una certa prova: Fortissimus quisque ferreum insuper anulum (ignominiosum id genti) velut vinculum gestat, donec se caede hostis absolvat. […] Haec prima semper acies, visu nova: nam ne in pace quidem vultu mitiore mansuescunt («Chiunque sia particolarmente forte tra loro indossa un anello di ferro – motivo di vergogna presso questa gente –, come se si trattasse di un simbolo di servitù, finché non se ne libera uccidendo un nemico […]. A costoro spetta l’inizio di ogni combattimento: la loro schiera è sempre la prima, terribile a vedersi; neppure in tempo di pace si addolciscono assumendo un aspetto più mansueto»).
Le battaglie erano situazioni nelle quali era particolarmente richiesto l’aiuto divino e per questo motivo si ricorreva a rituali di culto. Perciò, i membri di una consorteria guerriera dovevano assumere un aspetto spaventoso e terribile sia nei confronti dei nemici umani sia contro ostili forze soprannaturali. A tal proposito, Tacito (Germ. 43, 5) fornisce un’interessante descrizione dei guerrieri arii orientali, i quali truces insitae feritati arte ac tempore lenocinantur: nigra scuta, tincta corpora; atras ad proelia noctes legunt ipsaque formidine atque umbra feralis exercitus terrorem inferunt, nullo hostium sustinente novum ac velut infernum aspectum («truci d’aspetto, accrescono la loro naturale ferocia con l’arte e con la scelta del tempo: portano scudi neri e corpi tinti di scuro; per combattere scelgono le notti senza luna e il solo orrore e l’ombra di questo esercito di fantasmi bastano a seminare il panico, perché non esiste avversario capace di sostenere il loro aspetto insolito»). Il fatto che alcuni Arii si mascherassero come un esercito di fantasmi per la battaglia va visto come un gesto eminentemente sciamanico: se da una parte, come la maggior parte dei guerrieri germanici, non disponevano di proprietà personali, non curavano la propria casa, ma campavano sulle spalle degli altri, dall’altra la loro condizione garantiva loro il privilegio di una vita separata rispetto al resto del*þeuda («popolo»), e di ricevere un addestramento segreto, grazie al quale scendevano in battaglia in preda a un’estasi particolare. Certamente, il loro comportamento non era mera espressione di una ritualità ancestrale, ma il simbolo di un forte legame fra uomini che tendeva a rompere l’ordine gerarchico della Sippe.
Placche di Torslunda. Lamine con rilievi a sbalzo, bronzo, c. VI-VIII secolo, da Torslunda (Öland, Svezia). Stockholm, Historiska museet.
Quanto all’estasi del guerriero (ciò che i Romani chiamavano furor), presso i popoli germanici i casi emblematici furono quelli dei cosiddetti cosiddetti berserkir («vestiti da orsi») e ulfedhnar («teste di lupo») – divenuti assai popolari soprattutto in età vichinga (IX-X secolo). Con ogni probabilità, si trattava di varianti dei guerrieri d’élite arii e chatti: erano soliti andare in battaglia completamente nudi, difesi da uno scudo e coperti dalla pelliccia del loro animale totemico. Dopo essersi consacrati al dio *Wōdanaz (Wuoðan), prima della battaglia, questi guerrieri cadevano in uno stato mentale di furia (berserksgangr), ringhiando, ululando e perfino mordendo gli scudi; probabilmente, il rituale prevedeva l’assunzione di sostanze psicotrope, tali da renderli particolarmente feroci e insensibili al dolore e alla fatica e da convincerli di trasformarsi nella fiera di cui indossavano le pelli. Nella mischia i guerrieri invasati dimostravano una forza sovrumana, non avvertendo il dolore delle ferite subite e, incapaci di distinguere tra amici e nemici, massacravano chiunque capitasse loro a tiro.
Sulla panoplia del guerriero germanico, Tacito (Germ. 6) riferisce queste informazioni: Ne ferrum quidem superest, sicut ex genere telorum colligitur. rari gladiis aut maioribus lanceis utuntur: hastas vel ipsorum vocabulo frameas gerunt angusto et brevi ferro, sed ita acri et ad usum habili, ut eodem telo, prout ratio poscit, vel comminus vel eminus pugnent. et eques quidem scuto frameaque contentus est, pedites et missilia spargunt, pluraque singuli, atque in immensum vibrant, nudi aut sagulo leves. nulla cultus iactatio : scuta tantum lectissimis coloribus distinguunt. paucis loricae, vix uni alterive cassis aut galea. equi non forma, non velocitate conspicui. sed nec variare gyros in morem nostrum docentur: in rectum aut uno flexu dextro agunt, ita coniuncto orbe ut nemo posterior sit. in universum aestimanti plus penes peditem roboris; eoque mixti proeliantur, apta et congruente ad equestrem pugnam velocitate peditum, quos ex omni iuventute delectos ante aciem locant. definitur et numerus: centeni ex singulis pagis sunt, idque ipsum inter suos vocantur, et quod primo numerus fuit, iam nomen et honor est. acies per cuneos componitur. cedere loco, dummodo rursus instes, consilii quam formidinis arbitrantur. corpora suorum etiam in dubiis proeliis referunt. scutum reliquisse praecipuum flagitium, nec aut sacris adesse aut concilium inire ignominioso fas, multique superstites bellorum infamiam laqueo finierunt («Nemmeno il ferro abbonda in Germania, come si può dedurre dal tipo di armi. Pochi usano spade o lance abbastanza lunghe: portano piuttosto certe lance, che chiamano “framee”, dalla punta di ferro stretta e corta, così aguzza e adatta all’impiego che la stessa arma è utilizzata sia per combattere da vicino sia da lontano. Anche i cavalieri si accontentano del solo scudo e della framea; i fanti, nudi o coperti da una tunica leggera, scagliano proiettili (ogni guerriero ne lancia molti) a notevole distanza. Non hanno alcuna ricercatezza nell’ornamentazione, tutt’al più marcano gli scudi con i loro colori preferiti. Pochi indossano una corazza e ancor meno l’elmo, sia esso di metallo o di cuoio. I loro cavalli non si distinguono per bellezza né per velocità; non sono nemmeno addestrati a compiere evoluzioni com’è nostro uso: li conducono in linea retta oppure verso destra, con una rotazione estremamente compatta, in modo che nessuno resti indietro. Secondo una valutazione complessiva, la maggior forza d’urto sta nella fanteria: perciò, cavalieri e fanti combattono misti e i secondi mantengono una velocità di movimento adatta al combattimento equestre; i fanti, scelti tra tutta la gioventù, sono schierati in prima linea. Anche il numero di questi guerrieri è prestabilito: cento per ciascun villaggio e tra i Germani sono detti “i cento”, e quello che in origine era soltanto un numero, ora costituisce un titolo di distinzione. Lo schieramento della fanteria si compone di formazioni a cuneo. La ritirata strategica è considerata manifestazione di prudenza e non di viltà, purché poi si torni appunto all’attacco. Riportano dal campo di battaglia i corpi dei caduti anche in caso di scontri dall’esito incerto e considerano una colpa gravissima l’abbandono dello scudo sul campo: al disertore non è concesso di assistere ai sacrifici né di prendere parte alle assemblee, tanto che molti, sopravvissuti al combattimento, per porre fine alla loro infamante condizione si impiccano»).
Prigioniero germanico (forse suebico). Statuetta, bronzo, II secolo. Wien, Römermuseum.
Il passo è molto interessante: la maggior parte dei guerrieri era dotata principalmente della framea (forse da fram, «in avanti»), una lancia corta, dalla punta stretta e affusolata; doveva essere un’arma molto versatile e maneggevole, sia da lancio (eminus) sia per il combattimento corpo a corpo (comminus). Fra i proiettili (missilia), lanciati a grande distanza e con estrema precisione, probabilmente figuravano giavellotti, frecce e pietre. La spada era uno strumento bellico piuttosto raro tra i popoli germanici del I secolo: avrebbe trovato maggiore diffusione in seguito, ma all’epoca di Tacito costituiva un elemento di distinzione per i guerrieri scelti e i loro condottieri. Come arma di difesa, i guerrieri portavano lo scutum, cioè lo scudo rettangolare. Ogni tribù doveva avere i propri simboli e i propri colori araldici, per poter riconoscere in combattimento i propri compagni. Gli stessi simboli dipinti dovevano possedere proprietà magiche-apotropaiche. Come lo scudo, anche la framea era considerata un oggetto magico, data la sua capacità di togliere la vita. Percio, perdere, o abbandonare al nemico le proprie armi, costituiva il più grave dei disonori: Tacito riferisce che coloro che se ne macchiavano incorrevano nel biasimo generale e non erano più ammessi alle cerimonie sacre né alle assemblee della tribù. Chi commetteva un atto simile, non di rado, non sopportando l’onta si impiccava per la vergogna.
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In due passi dell’Heautontimorumenos – il dialogo tra Menedemo e Cremete a proposito del modello educativo adatto a crescere i figli (vv. 53-168) e le esternazioni di Clitifonte contro l’eccessiva severità dei padri (vv. 213-229) – ricorre un tema centrale in tutta l’opera di Terenzio: il contrasto generazionale tra genitori troppo severi e autoritari, da una parte, e figli che vorrebbero invece godere di un maggior grado di libertà e di autodeterminazione, dall’altra. Pur ambientando i propri drammi nel mondo greco, Terenzio si richiama, in scene di questo tipo, al diritto familiare vigente nella Roma del suo tempo. E per meglio comprendere le dinamiche descritte dal poeta, occorre perciò capire quanto fosse ampia l’autorità del capofamiglia romano nei confronti non solo dei propri figli, ma anche di tutti gli altri membri della familia.
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Cod. Vat. lat. 3868, P. Terenti Afri Comoediae VI (sec. IX), f. 46v. Dialogo fra Menedèmo e Cremete.
La familia, che insieme alla gens costituiva, fin dai tempi più remoti, uno dei pilastri su cui si fondava l’organizzazione sociale di Roma antica, era il nucleo più piccolo, che comprendeva tutti coloro che erano soggetti all’autorità del maschio più anziano (il pater familias), vale a dire la moglie, i figli, i nipoti, le nuore, i beni materiali (terre, animali, case, ecc.) e i servi, che, almeno nei primi secoli dell’Urbe, erano ancora poco numerosi. Lo status familiae era infatti la condizione giuridica propria dei membri di una medesima unità familiare (familia proprio iure) costituita intorno al suo capo.
Mentre le gentes esprimevano complessivamente l’originaria classe dirigente, le familiae costituivano la base della società stessa. Il termine latino familia derivava probabilmente dall’osco faama, che indicava in un primo tempo l’insieme di tutti i servi o famuli, che costituivano il patrimonio; in seguito, però, il significato della parola si condensò come definizione di gruppo familiare, ovvero l’insieme di tutte le persone residenti nella domus. Ecco allora la presenza di differenze ben marcate tra l’organizzazione familiare in tutte le sue forme e la gens: la familia aveva un capostipite reale, mentre quello dei gentiles era spesso mitico-divino; la parentela familiare, a differenza di quella gentilizia, era stabilita per gradi; il carattere della familia era essenzialmente potestativo, mentre quello della gens era comunitario e solidaristico. Siccome, poi, la familia era considerata un istituto sacro, di essa facevano parte anche i Lares, cioè i numi tutelari della casa, e i Penates, demoni protettori della dispensa e di tutti i membri del gruppo; i riti religiosi erano gestiti e officiati dal pater e riguardavano unicamente gli antenati, mentre il culto gentilizio celebrava non solo gli avi comuni, ma anche le divinità. Quanto al sistema onomastico, il nomen gentilicium preceduto da un praenomen identificava l’appartenenza dell’individuo a una gens, mentre una familia era ben distinta dalle altre dal cognomen portato ed ereditato dai suoi membri.
Lari e scena di sacrificio (dettaglio). Affresco, ante 79 d.C. da un lararium, Pompei (VII.6.38). Napoli, Museo Archeologico Nazionale
Insomma, la familia romana era un’organizzazione di natura patriarcale e verticistica, fondata sul dominio della componente maschile e sull’autorità del capofamiglia, che deteneva nei confronti dei suoi sottoposti una serie di poteri pari a quella di un re. In buona sostanza, solo il pater familias poteva dirsi pienamente un civis Romanus optimo iure, dal momento che non era sottoposto giuridicamente ad alcun altro cittadino libero. In altre parole, il pater era sui iuris (“di proprio diritto”), mentre alieni iuris (“di diritto altrui”) erano i suoi subordinati. Il giurista di epoca severiana (II-III secolo d.C.) Ulpiano riassumeva questa condizione nel modo seguente: Familiam proprio iure dicimus plures personas quae sunt sub unius potestate aut natura («Definiamo “famiglia di diritto proprio” quelle persone che sono soggette per potere o natura a un individuo solo», D. L 16, 195, 2).
L’estensione del potere paterno sui discendenti (maschi e femmine, naturali o adottati) era originariamente illimitata ed è probabile che tale intensità, unitamente a determinate caratteristiche peculiari della familia di età arcaica, dipendesse dalla primordiale inesistenza di un potere statuale: il gruppo familiare, agli albori dell’Urbe, avrebbe tenuto le veci di un potere più ampio, costituendo una struttura di carattere sovrano caratterizzata da una rigida disciplina nei riguardi dei sottoposti al capo.
Una madre che allatta il figlio alla presenza del padre (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre.
Il potere del padre sui figli era definito patria potestas e costituiva un potere che, per forza e contenuto, era proprio ed esclusivo del popolo romano, come attesta il giurista Gaio: Fere enim nulli alii sunt homines qui talem in filios suos habent potestatem qualem nos habemus («Non esiste infatti quasi nessun popolo che conceda una potestas sui figli quale è la nostra», Gai. Inst. I 55). La portata di tale autorità cominciava a manifestarsi sin dal momento in cui il filius familias veniva alla luce. Il primo potere che il pater poteva esercitare sul neonato era quello di decidere autonomamente e insindacabilmente se accettarlo come figlio o rifiutarlo ed esporlo (ius exponendi), vale a dire abbandonarlo al proprio destino. Questo potere veniva sancito da un rituale: quando la donna che aveva assistito al parto (parente, serva o levatrice professionista) aveva terminato di lavare il bambino, doveva mostrarlo al capofamiglia e deporlo a terra ai suoi piedi; il padre poteva accettare o rifiutare il neonato, sollevandolo tra le proprie braccia oppure lasciandolo dov’era stato deposto (tollere o suscipere liberos), senza dare spiegazioni a nessuno.
Nel primo caso, il gesto del capofamiglia equivaleva a un tacito riconoscimento del natus come proprio figlio e l’assunzione di ogni responsabilità sulla creatura: la levatrice doveva, quindi, innalzare immediatamente una preghiera alla dea Levana, il nume che presiedeva all’atto di sollevare il bambino e che sanzionava la sua aggregazione nel gruppo familiare. Decorso un periodo di otto giorni per le femmine e di nove per i maschi, nella casa si celebrava il dies lustricus, nel quale il neonato veniva liberato da tutte le impurità derivate dalla gestazione e dal parto e in quel giorno il pater familias conferiva al figlio il praenomen. Quando si trattava di una bambina, la cerimonia era diversa: se il pater intendeva accoglierla come filia, ordinava semplicemente che fosse allattata (alerei ubere).
Un padre che solleva il figlioletto in braccio (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre
Nel secondo caso, invece, con una sconcertante e crudele procedura, i piccoli rifiutati venivano esposti in un luogo pubblico, dove morivano di fame e di freddo, quando non erano divorati da animali randagi, a meno che un passante, mosso da tenerezza e compassione, li raccogliesse e riuscisse a salvarli in tempo (Dion. II 152).
Questa sorta di infanticidio legalizzato aveva forse anche la funzione di controllo delle nascite, al fine di ridurre il numero dei possibili destinatari del patrimonio familiare, o forse aveva anche l’obiettivo di estromettere dal novero dei beneficiari in particolare le figlie femmine. Questa pratica non fu sostanzialmente combattuta a livello di regolamentazione giuridica e, del resto, spesso si trattava di abbandono di figli naturali, di frequente operato dalle madri stesse. L’infante esposto, se sano, era solitamente accolto in un altro contesto familiare, dove veniva allevato o come servus, entrando a pieno titolo nel patrimonium del nuovo gruppo, oppure come un cittadino libero, rimanendo formalmente soggetto alla patria potestas del genitore che lo aveva abbandonato (Dig. XL 4, 29).
Sui figli accolti nella familia il padre esercitava un potere così esteso che è difficile enumerarne tutti gli aspetti, ma a riprova del carattere totalizzante della sua potestas erano ben note e riconosciute alcune facoltà significative. Spettava al pater di scegliere il coniuge ai propri discendenti. Indipendentemente dalla loro età, egli esercitava su di loro un potere disciplinare fortissimo, al punto da metterli a morte cum iusta causa. Questa facoltà, riconosciuta come ius vitae ac necis o vitae necisque potestas, era impugnata di regola sui figli maschi, qualora si fossero resi colpevoli di crimini contro la civitas, più in particolare se avessero commesso proditio o perduellio, vale a dire se avessero attentato alle istituzioni (Dion. II 26, 4; Pap. IV 8, 1 = FIRA II 555). Benché questi reati fossero considerati veri e propri crimina, di pertinenza della res publica, quando erano stati commessi da un filius familias, la civitas si ritraeva di fronte al potere paterno. Sulle figlie femmine, invece, lo ius vitae ac necis si esercitava, di norma, nel caso in cui le ragazze avessero perduto la propria pudicitia, ovvero qualora si fossero macchiate di stuprum, un comportamento illecito che nulla aveva a che fare con il reato oggi così definito: stuprum, infatti, a Roma, era qualunque rapporto sessuale intrattenuto da una donna onesta (cioè di condizione libera) al di fuori del matrimonio o del concubinato.
Ragazza che gioca agli astragali. Marmo, 130-150 d.C., Berlin, Antikenmuseum.
Come per l’esposizione, al capofamiglia era riconosciuta piena facoltà di azione nel caso in cui si fosse trovato nella necessità di allontanare, in forme sempre ritualizzate, i membri più deboli del gruppo, quelli che si intendessero “cedere” a un altro gruppo, o quelli che, in qualche modo, si fossero resi invisi al gruppo di provenienza. Un ulteriore potere che il pater familias poteva esercitare sui suoi sottoposti era infatti il diritto di cederli a terzi (ius vendendi), probabilmente per ragioni economiche, ma anche per trasferire un membro del proprio gruppo a un altro di pari rango, talvolta per cementare alleanze politiche tra le familiae, in una situazione formalmente diversa dalla servitù, ma nei fatti identica a questa (causa mancipi). In epoca più arcaica, a quanto sembra, questa facoltà doveva essere esercitata più volte: la patria potestas era così forte che la vendita del figlio non era sufficiente a estinguerlo. Se dopo essere stato ceduto il figlio veniva affrancato dall’acquirente o per qualunque altra ragione usciva dalla sua potestas (per esempio, se il compratore moriva senza eredi), il pater che lo aveva venduto riacquistava la pienezza dei propri poteri sul figlio. Ma le leggi delle XII Tavole stabilirono che si pater filium ter uenum duuit, filius a patre liber esto («Se un padre avrà venduto il figlio per tre volte, il figlio sia sciolto dalla patria potestà», XII Tav. IV 2b). In altre parole, se un padre vendeva un figlio per tre volte, dopo la terza cessione il figlio usciva dalla patria potestas. Nel corso dell’età repubblicana questa norma fu impugnata per creare all’interno dei gruppi familiari nuove possibilità, soprattutto in seno alla nobilitas, per garantire una maggiore autonomia ai maschi adulti. I patres, insomma, realizzavano così tre finte vendite (mancipationes) del filius a un amico compiacente, per ottenere l’uscita del sottoposto dalla propria potestà e renderlo, a sua volta, un pater a tutti gli effetti (Gai. Inst. I 132): il relativo negozio giuridico (emancipatio) consentiva ai giovani di belle speranze e ai più intraprendenti la possibilità di avviare in proprio le loro iniziative economico-sociali, senza doverne poi rendere conto al proprio pater. Questa progressiva emancipazione dei filii in potestate sembra derivare dalla crescente mobilità sociale avutasi fra IV e II secolo a.C., durante l’epoca delle conquiste, dalla creazione di nuove colonie e dalle conseguenti necessità economiche a cui divenne indispensabile ovviare.
Giovane nobile con l’himation. Statua, bronzo, età augustea, da Rodi. New York, Metropolitan Museum of Art.
In altre circostanze, il pater poteva affidare un figlio a un altro capofamiglia (noxae deditio), qualora il sottoposto avesse commesso un illecito lesivo delle sostanze o della persona di quest’ultimo: in questo modo spettava all’offeso o ai suoi familiari comminare la punizione al colpevole, mentre il pater si esimeva da ogni responsabilità (Gai. Inst. IV 75-76; FIRA II 224; Dig. IX 4).
Ai sottoposti al pater familias, discendenti naturali o acquisiti, ma anche alla donna sulla quale il marito esercitasse quel particolare potere che nelle fonti è chiamato manus, il diritto romano riconosceva determinate facoltà: i maschi in potestate e alieni iuris potevano accedere sia a rapporti di diritto privato sia a quelli di diritto pubblico; mentre le donne alieni iuris e quelle nella manus dello sposo o del suocero potevano negoziare rapporti giuridici di natura esclusivamente privata. In ogni caso, al di là dell’età e del sesso, il referente ultimo delle loro azioni rimaneva il pater familias.
Il piccolo Gaio Cesare si aggrappa alla tunica del padre Agrippa (dettaglio). Rilievo, marmo, 9 a.C. dal fregio della processione (lato sud). Roma, Museo dell’Ara Pacis.
Bisogna, inoltre, ricordare che la famiglia rappresentava non solo un insieme di persone, ma anche il complesso dei beni che facevano capo al pater, il “signore assoluto” della domus.La sottoposizione alla patria potestas infatti comportava per i soggetti anche la dipendenza economica al padre, unico titolare e amministratore del patrimonio: era lui che stabiliva l’impiego della ricchezza e assegnava ai filii i beni di cui potevano disporre (peculium). D’altronde, la parentela civile (adgnatio) era in linea maschile e produceva effetti giuridici ai fini della successione intestata, della tutela, della curatela e persino della vendetta. L’insieme degli adgnati, dopo la morte del comune pater familias, costituiva la familia communi iure. Poteva accadere, però, che i coeredi, dopo la scomparsa del capofamiglia, continuassero a conservare indiviso il patrimonio ereditato, pur risultandone ognuno titolare in solidum: questa forma di comunione (consortium ercto non cito), sorta per ragioni di natura economico-politica, perché garantiva la possibilità ai discendenti di rimanere nella classe censitaria (census) del defunto, si sarebbe estinta sul finire del periodo repubblicano.
Secondo Ulpiano, alla familia iure proprio si apparteneva proprio perché sottoposti alla patria potestas natura aut iure, vale a dire o per “diritto naturale” oppure grazie a un atto previsto a questo scopo dal diritto. Nel primo caso (patria potestas natura), il capofamiglia acquisiva la potestà sui nuovi nati ex iustis nuptiis (“da nozze legittime”), e cioè sui figli nati dal proprio matrimonio e quelli nati dai matrimoni dei propri discendenti (ovviamente maschi); nel secondo caso, invece, (patria potestas iure), un atto rituale, sacrale e giuridico, consentiva al pater di crearsi artificialmente una figliazione, secondo una forma legalmente riconosciuta di adozione. L’adozione era “il titolo giuridico” grazie al quale un individuo estraneo entrava a far parte della familia. Secondo le fonti di II-III secolo d.C., l’adoptio comprendeva l’adrogatio e l’adozione in senso stretto.
Ragazzino avvolto nel suo mantello. Bronzetto, I secolo. Parigi, Musée du Louvre.
L’adrogatio era la forma più antica di questo negozio giuridico, si compiva solo fra persone sui iuris e consisteva in una solenne interrogazione (donde il nome, da adrogare, “richiedere”) con cui il pater familias adottante (adrogans) chiedeva a colui che doveva essere adottato (adrogatus) se accettava di entrare nel proprio gruppo familiare. Il rito si celebrava dinanzi ai comitia curiata convocati e presieduti dal pontifex maximus, cui spettava anche il compito di controllare preventivamente l’opportunità dell’atto. La necessità di questo solenne controllo, al tempo stesso politico e religioso, era dovuta al fatto che colui che veniva adottato – essendo, a sua volta, un pater familias – sottoponendosi all’adottante perdeva per sempre la posizione sui iuris ed era ammesso nel nuovo nucleo familiare come filius, portando con sé i propri sottoposti e tutto il patrimonio. Questo cambiamento di status comportava l’estinzione di una familia con i suoi sacra e, perciò, si rendeva necessario il compimento di un rituale solenne di rinuncia al culto avito (detestatio sacrorum), volta a placare i numi che da quel momento non avrebbero più goduto dei dovuti onori e sacrifici. Compiute tutte le cerimonie, il pontifex sanciva il legittimo sorgere di una nuova filiazione, estinguendo il gruppo familiare dell’adrogatus.
L’adoptio in senso stretto, tramite la quale si davano in adozione solo persone alieni iuris, con il passaggio in potestate di un filius familias da un gruppo all’altro, fu introdotta solo in età post-decemvirale, cioè dopo la redazione delle leggi delle XII Tavole. In origine, infatti, il diritto non ammetteva che la patria potestas fosse trasferita da un pater a un altro. L’istituto dell’adoptio, in pratica, fu introdotto grazie all’interpretazione giurisprudenziale, prendendo le mosse dalla riflessione sulla disposizione, secondo la quale il padre che avesse venuto un figlio per tre volte dopo la terza cessione doveva perdere la propria potestà; era, insomma, legato al negozio dell’emancipazione, in quanto occorreva estinguere la patria potestas del padre che voleva far adottare il figlio. La procedura avveniva dinanzi al praetor, dove l’adottante rivendicava l’adottando, che doveva essere presente, come suo figlio, mentre l’ex padre taceva ritirandosi. A questo punto, il magistrato, riconoscendo la validità dell’atto, pronunziava l’addictio, dichiarando l’avvenuta adozione: l’adottato perdeva immediatamente ogni contatto di agnazione e di gentilità con la familia di provenienza per entrare a pieno titolo in quella dell’adottante. Questa formula giuridica, creando un vincolo di discendenza fittizia, equiparava sotto ogni aspetto gli adottati agli eredi naturali dell’adottante; da qui si deduce come questo istituto servisse, sin dalla sua comparsa, a procurare dei discendenti a qualsiasi cittadino romano che non avesse eredi naturali, così da garantirgli la continuità del nome, dei sacra e del patrimonio.
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di W. BLÖSEL, Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. COLLA), Torino 2016, pp. 24-35.
L’ammissione dei plebei al consolato, nel 367/6, costituisce una pietra miliare nel cosiddetto «conflitto degli ordini» dal quale la tradizione più tarda, in Livio e in Dionigi di Alicarnasso, vede caratterizzata la storia romana per più di duecento anni, dall’inizio del V secolo fino al 287. La netta dicotomia tra plebei e patrizi nella lotta sugli stessi punti controversi (come ad esempio la protezione dall’arbitrio dei magistrati, la certezza del diritto, la liberazione dalla servitù per debiti e la parità nei diritti politici) offre ai confusi rapporti degli inizi della repubblica una struttura chiara e temi concreti ai quali gli autori più tardi poterono sempre di nuovo ricorrere, senza troppa fatica, nei diversi momenti di queste contrapposizioni, interrotte da fasi di quiete anche decennali. In questo modo, fu loro possibile presentare tutte le diverse conquiste di Roma repubblicana (come il diritto di provocatio, il tribunato della plebe, la legislazione delle dodici tavole, il tribunato consolare, l’ammissione dei plebei alle cariche pubbliche e sacerdotali, l’abolizione della servitù per debiti e l’attribuzione di forza di legge ai plebisciti) come altrettanti prodotti di un unico conflitto degli ordini protrattosi per più generazioni. I compromessi che i plebei e i patrizi accettarono accogliendo la maggior parte di queste nuove istituzioni, centrali nella coscienza che i Romani ebbero di sé, esaltano come tratto fondamentale di entrambe le parti la loro pronta disponibilità alla conciliazione, e il desiderio di concordia, per quanto distanti fossero state le posizioni iniziali. Nondimeno, i due ceti furono sempre costretti alla pace interna da qualche pressione militare dall’esterno. E la grande regolarità con la quale, a ogni nuova contesa interna tra Romani, i vicini popoli dei Volsci, degli Equi e dei Sabini avrebbero invaso il territorio di Roma, induce a sospettare che questi assalti siano una costruzione degli storici.
Ritratto di patrizio romano (vista frontale). Busto, marmo, prima metà del I sec. a.C. Roma, Collezione Torlonia.
Riassumendo, molti dubbi sono stati sollevati sulla visione del conflitto degli ordini come del lunghissimo travaglio necessario alla nascita della repubblica romana. Infatti, esso è ignoto come tale ai primi cronisti di Roma, da Fabio Pittore a Catone il Vecchio e a Polibio, e fino a Cicerone: nella loro esposizione, gli atti di fondazione della repubblica risalgono all’indietro solo fino alla legislazione delle dodici tavole, verso il 450. Questa va considerata una conseguenza dell’origine orale delle tradizioni (oral tradition) relative alla fase di fondazione dello Stato romano, che naturalmente comprende anche il periodo della monarchia. Negli autori citati, a quest’epoca di fondazione, come c’è da aspettarsi date le strutture che caratterizzano la oral tradition, segue una fase intermedia, dalla metà del V fino alla metà del III secolo circa, con un elenco di pochi, aridi fatti e alcuni nomi di persone che con il loro comportamento esemplare servono a illustrare il funzionamento di quelle istituzioni che si erano lentamente e faticosamente consolidate. Infine, con la prima guerra punica (264-241), nei primi storiografi subentrarono i ricordi personali, che anche agli autori successivi avrebbero fornito i contenuti per una storiografia che da allora fu soggetta alle leggi della letteratura.
Con l’estensione temporale del conflitto degli ordini, altrettanto poco chiara è l’identità dei suoi attori. Dalle fonti, infatti, soltanto in modo frammentario è possibile comprendere perché e a partire da quando i patrizi si staccarono dai plebei. Un confronto tipologico con altre aristocrazie nelle società arcaiche indica come caratteristici del patriziato i seguenti elementi: privilegi religiosi, come il monopolio delle cariche sacerdotali; insieme a questo, il monopolio della giurisdizione, che aveva un fondamento sacrale; riti nuziali caratteristici e propri; stretti rapporti economici e familiari con gli aristocratici stranieri; orgoglio per il proprio albero genealogico; possesso di vasti terreni coltivabili, e di cavalli; gran numero di agricoltori dipendenti; infine, il monopolio di magistrature che certamente erano collegate a funzioni sacrali, come l’accoglimento degli auspici, e l’esercizio dell’imperium.
Scena di battaglia. Bassorilievo, pietra calcarea. Isernia, Museo Civico.
La tradizione letteraria ascrive già a Romolo, il primo re, la scelta dei primi senatori, che vengono indicati come patres, e dai quali sarebbero derivati i patrizi. La rilevante importanza della vicinanza genealogica di famiglie tra di loro imparentate si può dedurre, non soltanto a Roma, ma in tutta l’Italia centrale, dall’introduzione del nome gentilizio, che, a partire dall’ultimo terzo del VII secolo, sostituì il patronimico, il nome del padre, con quello di un antenato comune, al quale veniva aggiunto il suffisso -ius; così, ad esempio, dal preteso fondatore della stirpe, Iulus, veniva fatto derivare il nome gentilizio di Iulius.
Anche l’istituzione dell’interregnum, certamente da far risalire all’epoca dei re, testimonia a favore dell’esistenza di un ben definito gruppo di nobili. Ma la distinzione tra le antiche stirpi nobiliari come maiores gentes e le minores gentes aggiunte dai re successivi ai senatori indica chiaramente come questi nobili non formassero affatto una cerchia chiusa di «patrizi». Altrimenti, sarebbe stata impossibile l’integrazione del sabino Attus Clausus, che, secondo la tradizione, si sarebbe trasferito a Roma con ben cinquemila tra clienti e accoliti, un numero a stento credibile. Anche se i Fasticonsulares per il periodo fino al 450 non danno grande affidamento, una decina di consoli, che vi sono indicati e che possono essere collegati soltanto a tarde gentes nobili di origine plebea, testimonia di un’aristocrazia ancora aperta.
Calendario rurale (Fasti Praenestini – CIL I2 1, p. = I.It. XIII, 2, 17 = AE 1898, 14 = 1922, 96 = 1953, 236 = 1993, 144 = 2002, 181 = 2007, 312), ante 22 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.
Ciononostante, già a partire dalla metà del V secolo, si possono notare chiare tendenze esclusivistiche interne al patriziato nella distinzione tra i senatori che sarebbero stati nominati dopo la cacciata dei re, indicati come conscripti, e i patres di antico insediamento. Come è mostrato dall’accoglimento dei Claudii tra i patrizi, si può escludere che già alla fine del VI secolo si sia formato il concetto delimitativo di patricius, riferito soltanto a chi faceva parte della parentela, o della discendenza, di uno degli antichi patres. Sappiamo per certo che nel 458 il magistrato supremo di Tusculum (l’odierna Frascati), Lucio Mamilio, non poté più essere ammesso a far parte del patriziato, quando, in grazia dei suoi meriti per aver salvato Roma dal colpo di Stato di Appio Erdonio, ottenne la cittadinanza romana. Il motivo di questo crescente separatismo dei patrizi va cercato nella decennale fase di rivolgimenti seguita alla cacciata dei re.
In quell’epoca, si deve ipotizzare una dura lotta di concorrenza tra le stirpi nobiliari romane per il possesso delle posizioni di potere. Infatti, la cacciata dell’ultimo re, il quale evidentemente aveva accentrato nella propria persona una quantità di ruoli di comando, aveva lasciato un cospicuo vuoto di potere, che doveva suscitare brame ovunque. Il grande predominio esercitato dagli ultimi tre sovrani etruschi di Roma, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, lascia supporre che gli aristocratici romani ora desiderassero soltanto avere sommi magistrati più deboli, la cui autorità non moderasse pesantemente le loro possibilità di azione. In questo modo, diventa evidentemente comprensibile la limitazione dei pieni poteri del magistrato supremo, il praetor maximus, al solo comando delle operazioni belliche.
Guerriero con elmo calcidese. Testa fittile, terracotta policroma, V sec. a.C. da Albano.
Neppure in quel campo, però, né il magistrato né lo «Stato» romano ebbero il monopolio: i warlords dell’età regia, come i fratelli Vibenna, Macstrna o Lars Porsenna, trovano i loro successori tra numerosi aristocratici romani che condussero vere e proprie guerre private insieme ai loro clienti e accoliti: simili compagnie di armati vengono citate per Poplios Valesios, sul lapis Satricanus e anche per Gneo Marcio Coriolano. Il caso più famoso di una guerra privata è quella che nel 479/8 la gens Fabia condusse, guidando a quel che si narra i suoi quattromila clienti, contro la vicina città di Veio, anche se la stilizzazione della fine di quasi tutti i trecentosei Fabii sulle rive del torrente Cremera, secondo il modello del sacrificio dei trecento Spartani, che l’anno precedente, guidati da re Leonida, erano morti alle Termopili, opponendosi all’avanzata persiana, desta più di un dubbio sulla veridicità di molti particolari quali ci sono stati conservati dalla tradizione.
La mancanza di un monopolio della forza nelle mani dello Stato mise in pericolo il labile equilibrio del potere nella stessa Roma. Ad esempio, si narra che nel 460 il sabino Appio Erdonio con la sua compagine di armati, composta da esuli e servi, occupasse il Campidoglio, chiamando addirittura i plebei alla rivolta, e che, infine, fosse sconfitto soltanto dal tuscolano Lucio Mamilio.
Anche all’interno della società romana, però, c’era un numero sufficiente di scontenti che potevano essere mobilitati per combattere l’aristocrazia dominante. Non a caso, nella tradizione annalistica si trovano cronache simili a proposito dei tre adfectatores regni («aspiranti al trono»). Si dice infatti che il plebeo Spurio Cassio Vicellino, che secondo i Fasti fu console nel 502, nel 493 e nel 486, si ingraziò i plebei per i propri progetti di colpo di Stato con una legge per la spartizione dei territori strappati agli Ernici, che erano bottino di guerra, e anche dell’ager publicus; per questo motivo, sarebbe stato infine condannato a morte e fatto giustiziare dai questori. Qualcosa di simile toccò al ricco mercante plebeo Spurio Melio nel 439: dopo che si era procurato numerosi consensi tra i Romani, con laute elargizioni di grano, fu ucciso dal magister equitum Gaio Servilio Ahala, per ordine del Senato. Perfino a un patrizio viene attribuita un’alleanza, poco consona al suo rango, con i plebei: a Marco Manlio Capitolino, il console dell’anno 392, nonché salvatore del Campidoglio contro i Galli. Si dice infatti che egli accusò l’eccessiva avidità dei compagni del suo stesso ordine, con il proprio denaro evitò a molti plebei la servitù per debiti e, insomma, fece causa comune con i Romani meno abbienti. Ciononostante, nel 384, per le sue ambizioni dispotiche fu condannato a morte dall’assemblea popolare e precipitato dalla rupe Tarpea.
Guerrieri senoni (dettaglio). Rilievo, terracotta policroma, II sec. a.C. dal fregio del tempio di Civitalba. Ancona, Museo Nazionale delle Marche.
Anche se tutte queste narrazioni di leggi agrarie, distribuzioni di grano e lotta all’indebitamento sono incentrate su progetti che furono al centro dell’azione dei grandi populres della tarda repubblica, e appaiono perciò anacronistiche, non ci sono dubbi sulla storicità dei tentativi, compiuti nel V secolo da alcuni singoli aristocratici romani, di acquisire un vantaggio, nella lotta per il potere con i loro compagni di ceto, alleandosi con i cittadini romani meno abbienti, se non addirittura di accentrare tutto il potere nelle proprie mani. I patrizi si premunirono di fronte a tale minaccia, cercando di limitare la possibilità di accesso al potere a quelle stirpi nobiliari che possedevano sufficienti proprietà, cariche sacerdotali e un seguito tra i cittadini tale da potersi misurare nella competizione alle magistrature. Questi nobili, infatti, non avevano certo bisogno di cercarsi nuovi accoliti facendosi paladini delle esigenze sociali ed economiche degli strati più poveri della comunità. Si poteva ben temere, invece, una defezione dalla solidarietà di ceto proprio da parte di coloro che ambivano alla scalata verso l’élite di potere, e che non avevano però a disposizione tante risorse. A tenere distanti simili parvenus era diretta la chiusura a riccio delle stirpi patrizie, e formare un ceto a parte; essa va quindi intesa come una reazione all’acuirsi della competizione interna tra gli aristocratici nei primi decenni della repubblica. La forte diminuzione del numero delle gentes (famiglie nobiliari), che riuscivano ad accedere alle supreme magistrature, rilevabile soltanto verso la fine del V secolo, indica che, a quel punto, questo processo di esclusione era ormai compiuto. Quindi, non sarebbe da ritenersi puramente frutto del caso, nella tradizione, se nelle parti a noi pervenute della legge delle dodici tavole, del 451, non troviamo né il concetto di patricius né quello di plebs.
Proprio come la cerchia dei patrizi non si poteva affatto considerare chiusa prima della metà del V secolo, così non si possono intendere i plebei degli inizi dell’età repubblicana meramente come il grande resto dei non patrizi, seguendo il punto di vista polarizzante della tradizione più tarda. Presumibilmente, i clienti dei patroni patrizi, originariamente, non erano annoverati tra i plebei. Non pochi agricoltori romani si trovavano in una simile duratura dipendenza, economica e giuridica, da un aristocratico. La relazione tra cliente e patrono fu descritta, nel caso ideale, come un rapporto di fedeltà, fides, destinato a durare per tutta la vita, nel quale entravano automaticamente, rispetto al patronus, anche i servi liberati. In cambio dell’aiuto economico in caso di cattivo raccolto, o del sostegno in giudizio da parte del patrono, il cliente, dal canto suo, doveva partecipare alle spese che il patrono doveva affrontare per la dote delle proprie figlie, a quelle dovute a multe pecuniarie e a quelle che gli potevano essere necessarie per accedere a cariche pubbliche. Gli artigiani e i mercanti, i recenti immigrati e i vecchi clienti dell’ultimo re verosimilmente non erano integrati in queste strutture. Questi gruppi così eterogenei potrebbero quindi aver formato il nucleo originario dei plebei.
Scena pastorale. Bassorilievo, pietra locale, I sec. a.C. CIL IX 3128 ([- – – ho]mines ego moneo niquei diffidat [- – -]), da Sulmona. L’Aquila, Museo Civico.I plebei si vedono in azione per la prima volta, nelle loro strutture e nei loro obiettivi, nel 494: minacciati dalla servitù per debiti, i soldati plebei dell’esercito romano che erano stati vittoriosi nella lotta contro i popoli vicini si ammutinarono e si recarono sul Monte Sacro (Mons Sacer), cinque chilometri a nord della città, presso il fiume Aniene (Anio), dove rimasero finché non venne presso concordato un compromesso con i patrizi. Secondo tale accordo, i plebei dovevano eleggere ogni anno due tribuni della plebe, tribuni plebis, ai quali era consentito difendere i plebei, all’interno del pomerio, dagli altri magistrati. I plebei giurarono allora una legge (Lex sacrata) per cui chiunque avesse impedito fattivamente a uno dei tribuni della plebe l’esercizio delle sue funzioni di difesa doveva essere considerato sacer, cioè «consacrato agli dèi», e perciò poteva essere ucciso senza incorrere in alcuna pena. Una simile comunità giurata, quale si trova, come istituto militare, anche tra i vicini popoli dei Volsci e dei Sanniti, era necessaria per procurare alla nuova carica, i cui titolari potevano essere eletti soltanto dalla parte plebea della comunità cittadina di Roma, la necessaria autorità nei confronti dei magistrati patrizi.
Tutte le principali rivendicazioni che i plebei avanzarono lungo due secoli paiono concentrarsi nel momento di questa cosiddetta prima secessione. Già la sua datazione al 494, però, appare dubbia; infatti, la tarda tradizione in tal modo fa esplodere il conflitto tra gli ordini in tutta la sua violenza nello stesso anno in cui per la giovane costituzione repubblicana di Roma il pericolo era cessato per la morte di Tarquinio il Superbo, in esilio a Cuma. Inoltre, questa prima uscita in campo della plebe pare sincronizzata a bella posta con il 493, la data, verosimilmente autentica, della fondazione del tempio di Libero, Libera e Cerere sull’Aventino, considerato come il santuario tipico dei plebei, e con l’istituzione della magistratura plebea degli edili, il cui titolo deriva da aedes, tempio, e che perciò in origine potrebbero essere stati i suoi custodi.
Demetra. Statua, terracotta, II-I sec. a.C. da Ariccia. Roma, Museo Nazionale.
La prima secessione della plebe, per quanto concerne la richiesta di riduzione dei debiti, pare evidentemente modellata sull’ultima, del 287, per la quale il motivo fu realmente questo. Infatti, stranamente i tribuni della plebe, di nuova istituzione, secondo le indicazioni della legge delle dodici tavole, non avevano ancora la possibilità di proteggere i debitori dalla servitù. È inoltre accertato per la prima metà del V secolo un forte crollo economico, e quindi proprio i Romani più poveri potrebbero essere stati maggiormente colpiti da spietate richieste di riscossione dei crediti.
Anche il mezzo impiegato dai plebei, un ammutinamento, pare poco verosimile. In primo luogo, una misura simile non avrebbe comportato pericoli solo se i Romani avessero condotto una campagna di guerra a grande distanza dalla metropoli, come accadde al più presto verso l’inizio del III secolo. In secondo luogo, un ammutinamento avrebbe avuto possibilità di successo solo se i plebei a quell’epoca avessero fornito una parte considerevole degli opliti delle truppe di Roma. Ma la distinzione tra il populus, nel senso di «popolo in armi, esercito», in cui certamente nel V secolo gli opliti erano forniti, tra gli agricoltori, dai grandi o medi proprietari, e la plebs (dal latino plere, «riempire, colmare») indica che i plebei originariamente non potevano servire con armi pesanti, perché non erano in grado di procurarsi i costosi armamenti necessari (elmo, corazza, schinieri, scudo, spada, giavellotto), ma soltanto come frombolieri, armati perciò in modo leggero.
Guerriero ferito (dettaglio). Statua frontonale, terracotta, V sec. a.C. dal Tempio di Sassi Caduti. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Tanto la rigida delimitazione dell’ambito di competenza dei tribuni della plebe esclusivamente a Roma, all’interno del pomerium, quanto la probabile derivazione del termine tecnico tribunus dalle quattro tribus urbane indicano un’origine puramente civile della carica. Nel 471 il numero dei tribuni della plebe dovette poi, secondo la tradizione, salire a quattro, e, cosa ancora più importante, la loro elezione, e quella degli edili plebei, fu assegnata per legge ai concilia plebis. I plebei in questa assemblea, riservata esclusivamente a loro, erano ordinati per tribù: cioè gli appartenenti ai ventuno distretti abitativi dell’epoca (alle quattro antiche tribù urbane e alle diciassette tribù rustiche) per prima cosa decidevano all’interno della propria tribù quali magistrati eleggere, oppure sulle proposte di legge che venivano loro presentate. Decisiva poi era la maggioranza delle tribù, non la maggioranza del numero complessivo dei cittadini aventi diritto di voto. Come già per i comitia centuriata, anche qui nella votazione valeva il principio corporativo – tipicamente romano – e fondamentalmente diverso dal diritto di voto individuale caratteristico delle poleis greche. I concilia plebis potevano essere convocati soltanto dai tribuni della plebe o dagli edili plebei. Le loro decisioni non diventavano leggi (leges), ma venivano chiamati plebiscita, ed erano cogenti soltanto per i plebei, non per i patrizi.
Nella tradizione ci sono state conservate notizie sporadiche su un’assemblea ugualmente ordinata secondo le tribù, i comitia tributa, che sotto la guida dei pretori e più tardi dei consoli eleggevano i questori e gli edili curuli (costituiti nel 366), e votavano leggi (leges) cogenti per tutti i cittadini. Poiché, al contrario di quanto accade per i comitia centuriata e i concilia plebis, non abbiamo nessuna storia delle origini dei comitia tributa dell’intera cittadinanza romana, le loro grandi somiglianze con i concilia plebis (e, talvolta, perfino la loro confusione nelle fonti) indicano che nel corso del IV secolo i comitia tributa vennero identificati con questi.
Scena di assemblea. Bassorilievo, calcare, 50 d.C. c. dal sarcofago di Lusio Storace. Chieti, Museo Nazionale.
La rivendicazione, da parte plebea, volta a ottenere la parità di diritti politici rispetto ai patrizi nel governo della comunità, anch’essa tramandata dalla tradizione per questa prima fase del conflitto degli ordini, è certamente da ritenere anacronistica per il primo periodo repubblicano. Infatti, anche dopo la presunta prima secessione della plebe, i debiti continuarono a gravare, per nulla diminuiti, sui Romani più poveri, e i privilegi giuridici degli aristocratici continuarono a essere schiaccianti.
Per questi motivi, non stupisce che lo stadio successivo del conflitto degli ordini portasse alla formazione del decenvirato, con il compito di introdurre nuove leggi. A proposito di questa prima, ampia codificazione giuridica in ambito romano la tradizione letteraria offre estese narrazioni. Nel corso della loro contesa sull’uguaglianza giuridica per tutti i cittadini, nel 451 i patrizi e i plebei si sarebbero accordati per costituire un collegio di dieci uomini, formato soltanto da patrizi, sospendendo sia i magistrati supremi sia i tribuni della plebe. I decemviri, guidati da Appio Claudio Crasso Irregillense, fino a quel momento nemico della plebe, avrebbero allora redatto una serie di leggi sul modello di quelle ateniesi, che sarebbe stata incisa su dieci tavole di bronzo. Poiché, però, parvero necessarie due ulteriori tavole, sarebbe stato eletto un secondo decemvirato, nel quale lo stesso Appio Claudio, ora manifestamente ben disposto verso i plebei, avrebbe fatto eleggere soltanto questi ultimi. Sotto la sua guida, però, il secondo decemvirato sarebbe diventato presto una tirannia, pronta a perseguitare sanguinosamente i propri avversari: ma poiché i patrizi e i plebei, diffidando gli uni degli altri, non riuscirono a concordare un’azione comune contro i decemviri, questi sarebbero rimasti al potere per tutto l’anno in corso, come stabilito, finché l’indignazione generale per la violenza minacciata da Appio Claudio sulla plebea Virginia, alla quale il padre poté sottrarla soltanto uccidendola, avrebbe costretto infine i decemviri a dimettersi.
Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.
Mentre sia il fatto che Appio Claudio, nel secondo mandato, venga stilizzato come tiranno, sia il suo preteso rovesciamento in seguito alla seconda secessione della plebe, nel 449, non sono probabilmente che parabole sul valore della solidarietà all’interno di una società, è assolutamente verosimile, dal punto di vista storico, l’attività legislatrice del primo collegio decemvirale. La stessa cosa vale per l’origine greca di parecchie disposizioni di legge, anche se si deve pensare ai Greci dell’Italia meridionale, come ad esempio Cuma, piuttosto che a Solone di Atene.
È da notare come i contenuti specifici delle dodici tavole non si trovino nelle narrazioni letterarie relative ai due decemvirati (a parte la significativa eccezione del presunto divieto di matrimonio tra patrizi e plebei), ma invece siano disseminati in notizie antiquarie. Anche se il loro latino arcaico è sempre stato modernizzato dalle varie fonti intermedie, non c’è motivo di dubitare dell’autenticità delle singole disposizioni, tanto più che esse venivano imparate a memoria dai bambini, in quanto costituirono fino all’età imperiale l’unico codice romano di diritto esistente. La legislazione delle dodici tavole rimase, fino alla tarda antichità, l’unico tentativo da parte dei Romani di regolare giuridicamente tutti i campi della vita; manifestamente, la rapida diminuzione dei conflitti tra i ceti dopo il 451 fece cessare il bisogno di una tale fissazione di principi.
Le prime due tavole erano dedicate alla procedura del processo civile (ad esempio, ai termini di tempo per la citazione in giudizio), la terza al diritto delle obbligazioni, che consentiva di tenere prigioniero il debitore moroso e perfino di venderlo come servo «al di là del Tevere». Questo dimostra l’antichità, almeno di quest’ultima disposizione, poiché il Tevere al più tardi dopo la conquista di Veio, avvenuta nel 396, non costituiva più il confine del territorio di Roma. La quarta e la quinta tavola avevano per oggetto il diritto di famiglia, tra l’altro prevedendo un diritto di successione per gli appartenenti a una stessa gens. La sesta e la settima regolavano il diritto sulle cose e sui beni immobili. L’ottava tavola determinava le pene per chi facesse incantesimi, per i ferimenti, gli incendi e i furti. La nona disponeva che sulla vita di un cittadino potesse decidere soltanto il maximus comitiatus (l’assemblea di tutto il popolo). La decima tavola limitava considerevolmente l’ostentazione di ricchezza e di lusso da parte dei nobili nelle cerimonie funebri e nelle sepolture. Mentre nella dodicesima l’argomento è il furto commesso da un servo e l’intervento del pretore su una ingiusta pretesa di possesso, il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei, attribuito all’undicesima tavola, è probabilmente una finzione degli annalisti, che doveva servire come dimostrazione (l’unica) della degenerazione del secondo decemvirato; perciò, gli stessi annalisti pensarono di far sparire questo divieto, dopo neppure cinque anni, per mezzo di un plebiscito molto spettacolare, inscenato dal tribuno della plebe del 445, Gaio Canuleio, pur se un plebiscito non potesse in nessun modo vincolare i patrizi. Inoltre, questo divieto di matrimonio costituirebbe l’unica testimonianza della divisione tra patrizi e plebei contenuta nelle dodici tavole. Furono invece rilevanti, sul piano giuridico, la distinzione sociale tra l’adsiduus, un proprietario di terreni agricoli per il quale poteva garantire soltanto un altro adsiduus, e il proletarius, il cittadino privo di terre, e quella tra cliens e patronus, il quale ultimo, nel caso in cui avesse ingannato il proprio cliens, sarebbe diventato sacer, esecrato e maledetto.
Corteo funebre. Bassorilievo, pietra calcarea, metà I sec. a.C. da S. Vittorino (Amiternum). L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo.
La legislazione delle dodici tavole, in quanto codificazione di un diritto tramandato fino a quel momento soltanto oralmente, costituì un grande passo verso la certezza del diritto e l’uguaglianza giuridica fra tutti i cittadini romani. Infatti, in tal modo potevano essere controllate le sentenze che prima i patrizi emettevano nella loro funzione sacerdotale. Quanto invece dalla legislazione delle dodici tavole venissero fissati i privilegi dei patrizi non è ancora chiaro. È molto evidente, piuttosto, il rafforzamento della gerarchia economica, perché i cittadini ricchi vennero chiaramente favoriti. Mentre le dodici tavole rappresentano una nitida istantanea a colori della società romana verso la metà del V secolo, l’evoluzione sociale di Roma fino all’inizio del IV secolo è ricostruibile soltanto in modo molto vago. Secondo la tradizione, l’indebitamento rimase un problema sempre irrisolto.
L’aumento a dieci, successivamente al decemvirato, del numero dei tribuni della plebe, come difesa contro gli abusi dei patrizi, aveva creato per un numero considerevole di plebei ambiziosi e benestanti un nuovo campo d’azione in cui proporsi come difensori dei propri compagni di ceto. Il tribunato della plebe, con la sua inviolabilità, che ogni plebeo era tenuto a difendere, costituiva il punto focale della solidarietà della plebe, che intendeva se stessa come una comunità giurata. In tal modo, con il tempo si formò uno strato di plebei che, basandosi sul sostegno sociale acquisito, durante il periodo in cui avevano rivestito la carica di tribuno, o anche di edile plebeo, e sull’esperienza maturata nel rappresentare gli interessi politici del proprio ceto, iniziò, al di sopra di questo compito puramente difensivo, a pretendere di configurare la politica cittadina nel suo complesso. Poiché i plebei costituivano inoltre senza dubbio la maggioranza degli ufficiali della legione eletti dall’assemblea popolare, i tribuni militum, con il tempo inevitabilmente dovette espandersi la rivendicazione, da parte della plebe, dell’accesso anche alle magistrature regolari. E, a questo punto, la chiusura della cerchia delle famiglie patrizie, che va collocata proprio nella seconda metà del V secolo, fu soltanto una conseguenza, destinata evidentemente ad avere un certo successo. Comunque, nel collegio dei questori, che dal 421 era formato da quattro componenti, per il 409 sono attestati per la prima volta dei plebei, anzi addirittura tre.
di MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 226-233.
L’opera di Solone, arconte nel 594/93, secondo Diogene Laerzio, o nel 592/91, secondo la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele, porta a piena maturazione quelle premesse politiche e sociali che abbiamo intravisto nella comunità aristocratica attica del medio arcaismo. Solone operò infatti sia sul terreno sociale, sia su quello politico-costituzionale; fu riformatore sociale e fu nomoteta, autore di leggi costituzionali, che sostituirono i thesmoí di Dracone. Complessivamente, egli non appare autore di riforme in grado di stravolgere il vecchio profilo politico ateniese o la realtà socio-economica, cioè l’assetto proprietario, dell’Attica. E tuttavia è chiaro che sul terreno sociale egli incise con azioni innovative, volte quanto meno a sanare i guasti che nel corso del tempo si erano determinati nel corpo sociale e nell’economia dell’Attica; sul terreno politico-costituzionale l’opera di Solone fu quella di un codificatore, capace di portare ordine nelle vecchie e conservate strutture, e di ammodernare qua e là. Non fu il creatore della democrazia, anche se la tradizione antica o la riflessione moderna avvertono un filo di sviluppo, tormentato ma continuo, tra l’azione di Solone e il formarsi di gruppi e programmi politici differenziati, con i relativi conflitti, nei decenni successivi, e quindi la tirannide di Pisistrato e dei figli e la democrazia creata dall’alcmeonide Clistene nel 508/07[1].
Solone. Busto, marmo, copia romana da originale di IV sec. a.C. ca. Malibu, J.P. Getty Museum.
Solone avverte acutamente il divario tra la struttura politica, che va conservata anche se perfezionata e resa stabile, e il rapporto sociale, che è diventato conflittuale e drammatico, tra ricchi e poveri, cioè tra i proprietari della terra e i suoi coltivatori. Questo è il quadro dell’assetto proprietario in Attica, come fornito da Aristotele: e fondamentalmente esso è giusto, purché non ci si fermi alle definizioni formali, ma si tenga conto di tutto ciò che esse contengono, e della testimonianza diretta di Solone che egli ci riporta. È soprattutto in gioco la condizione degli hektēmóroi, coloro che lavorano la terra per conto dei ricchi, versando forse come canone 1/6 del prodotto; poiché anche rispetto all’assolvimento di quest’obbligo essi risultano spesso morosi, rischiano d’essere venduti schiavi e come tali trasportati fuori dall’Attica.
Di questo quadro, tutto è stato messo in discussione, con proposta di soluzioni di cui è difficile non vedere la distanza sia dai testi antichi sia dalla verosimiglianza storica. Ora si ammette che ci fosse solo una grande proprietà privata, ma non una media e piccola e che, accanto a grandi proprietà private, ci fossero ancora vaste proprietà pubbliche, che sarebbero dirette eredi e continuatrici di quelle di epoca micenea; ora invece si considera la condizione degli hektēmóroi come il risultato dello scadimento dalla condizione di proprietari privati di un tempo, e quindi si dà un largo spazio alla costituzione e alla diffusione della piccola e media proprietà privata durante i secoli dell’alto e del medio arcaismo. Probabilmente queste rappresentazioni peccano tutte di rigidità e di nominalismo, e tengono poco conto di certe retroiezioni che (a livello formale, soltanto, e senza tradire, a ben guardare, la realtà) Aristotele opera, dalle condizioni economiche del IV secolo a.C. a quelle della fine del VII e dell’inizio del VI[2].
Moschóphoros. Statua, marmo dell’Imetto, 570-560 a.C., Atene, Museo dell’Acropoli.
Se si opera sulla base di una nozione e condizione teoricamente e giuridicamente ben definita di proprietà, si trasferisce con ogni probabilità nell’epoca pre-soloniana e soloniana uno sviluppo dell’idea e delle forme legali distintive della proprietà terriera, che appartiene ad epoca più tarda. In modo particolare, poi, si trascura il fatto che il sistema delle místhōseis (o dei misthōmata o, in generale, misthoí), cioè un vero e proprio sistema dei fitti, una condizione economica in cui è sviluppato il rapporto proprietà-fitto (e perciò si abitano case prese, o ridotte ad essere prese, in fitto, e si coltivano terreni in analoghe condizioni), è ciò che caratterizza l’evoluzione dei rapporti sociali e lo sviluppo dell’economia monetaria tra V e IV secolo a.C., con particolare forza nel IV secolo. Il rapporto ricchezza-povertà, sul terreno della proprietà terriera (centrale nella concezione di Aristotele e nella sua rappresentazione dell’economia), doveva con molta facilità presentarsi ad Aristotele sotto le vesti del rapporto affittuario: salvo che il fitto o il canone nel IV secolo si pagano prevalentemente in denaro, e quelli della fine del VII o dell’inizio del VI si pagano (ed è una prima correzione storica da apportare ad Aristotele) prevalentemente in natura (benché, per Aristotele stesso, all’inizio del VI secolo molti rapporti sociali figurino ormai mediati dalla moneta, in Attica). Chi pensa agli hektēmóroi come coltivatori di terre appartenenti di diritto allo Stato, come residuo di forme micenee, dà probabilmente minore importanza al fatto che quel tipo di proprietà era collegato col potere palaziale; se permangono (anzi, probabilmente, si sviluppano) le proprietà sacre, è ben difficile che con la fine dei palazzi non abbia coinciso un certo sviluppo della proprietà privata. Ma questo non comporta necessariamente una formazione significativa di piccola e media proprietà, condizione da cui poi, per successivi e crescenti indebitamenti, i titolari sarebbero scaduti nella gravosa e rischiosissima condizione di hektēmóroi. Se però si ammette quel che suggeriscono le parole dello stesso Solone («mi può essere eccellente testimone, nella giustizia del Tempo, la madre grandissima degli dèi Olimpi, la nera Terra, da cui io strappai i cippi che in più luoghi erano infissi, Terra un tempo asservita, ora invece libera!»)[3], egli determinò la liberazione della terra, cioè la ricostituzione di condizioni diverse da quelle di servitù che i cippi attestavano e garantivano.
Dunque è plausibile un quadro come quello che segue. Con la crisi del potere miceneo si accentua in Attica quella frantumazione della proprietà, che, nelle forme socialmente riconosciute e garantite, non poteva essere altro che proprietà di relativamente grandi dimensioni. Si viene però a creare un’articolazione collegata alla presenza sulla terra dei suoi diretti coltivatori, che rapidamente ne diventano i possessori di fatto, con obblighi di tipo tributario verso i grandi proprietari (gli unici ad avere, e a potere avere, nelle condizioni dell’epoca, un titolo legale). Un interprete del IV secolo (epoca di místhōseis), come Aristotele, trascriveva questa diffusissima forma di proprietà embrionale, proprietà di fatto (ma non per questo meno esposta a rischi per la persona del coltivatore) in un rapporto affittuario: e, in fondo, non sbagliava, salvo per un eccesso di formalizzazione (da parte sua), non meno inadeguata di quella che operano quegli studiosi moderni che ragionano in termini di proprietà di pieno diritto, per possedimenti di minori dimensioni.
Atene, obolo, 500-480 a.C. ca. AR. 0, 53, Recto: civetta, stante verso destra; sul bordo, l’iscrizione AΘE[NAI].Solone proibisce la schiavitù per debiti, cioè la sua premessa, che è la possibilità di contrarre debiti e assumere ipoteche sui propri corpi (epí toîs sómasin). Inoltre abolisce i debiti (fa quello che le fonti chiamano chreōn apokopḗ, «taglio dei debiti»). L’osservatore di un secolo di piena economia monetaria può interpretare il taglio come parziale e non totale, e la riduzione del debito così ottenuta può anche collegarla con la riforma monetaria attribuita a Solone, cioè la sostituzione della dracma leggera d’argento (dracma euboica), di g. 4,36, alla dracma pesante (eginetica), di g. 6,2: di fatto, una svalutazione di circa il 30 %, che riduceva i debiti di altrettanto. Ed è proprio così, in termini forse riduttivi, che ragionava l’attidografo Androzione. Non è invero chiaro né il rapporto tra la forma del sistema ipotecario (sarebbe vano negare che esista una forma elementare, e fondamentalmente pre-monetale, di ipoteca già in questo periodo) e il «taglio dei debiti», né quello tra tale taglio e la riforma monetaria. Ma se si dà un minimo credito alla tradizione su un qualche uso di moneta di tipo eginetico ad Atene prima di Solone (del resto, se Atene apparteneva all’anfizionia di Calauria nel VII secolo, tali condizioni esistevano in pieno), si può salvare gran parte della tradizione, e non ridurre tutte le misure soloniane ad un solo atto. L’abolizione (o forte riduzione) dei debiti nel pagamento del canone in natura ci dev’essere stata (e questo sarà il senso fondamentale della problematica parola seisáchtheia, o «scuotimento dei pesi»); ma, accanto, ci saranno state prime forme di indebitamento anche attraverso il nuovo sistema economico, non ancora dominante, ma certo affiorante, della moneta: la riforma monetaria avrà quindi operato in questo settore come strumento significativo, ma non unico, di alleviamento[4]. La condizione della terra, dopo questa riforma di Solone, non era profondamente trasformata rispetto al passato, ma si erano parzialmente create le condizioni per un consolidamento del rapporto di possesso stabile (tanto più che erano stati fatti sparire i cippi che attestavano un diritto diverso di proprietà).
Sul piano politico-costituzionale Solone conferma le vecchie articolazioni censitarie, le vecchie “classi” (télē), forse aggiungendone una, la prima, e definendo i termini quantitativi degli ormai quattro télē: pentacosiomedimni, coloro che avevano una rendita annua di 500 medimni di frumento (o 500 metreti di vino o d’olio); cavalieri (a quota 300); zeugiti (possessori di un paio = zeûgos di buoi? O “opliti”? a quota 200); teti (o salariati), sotto quest’ultimo livello. Le cariche degli arconti e dei tesorieri (tamiaí) erano riservate ai pentacosiomedimni (o forse estese, per quanto riguarda gli arconti, anche alla seconda classe). Ai teti tuttavia la costituzione di Solone garantiva non soltanto la partecipazione all’assemblea (ekklēsía), ma anche al tribunale del popolo (heliaía), di cui egli sarebbe stato creatore o massimo potenziatore. Forse Solone arricchiva il vecchio quadro istituzionale con un nuovo consiglio, quello dei 400, cento per ciascuna delle quattro tribù; ognuna delle tribù era divisa in tre “terzi” (tre trittýes), e in 12 naucrarie (“distretti”, e insieme cariche dei naucrari, con funzioni finanziarie)[5].
Misure attiche per gli aridi (sopra) e per i liquidi (sotto), secondo A. Segré, Metrologia e circolazione monetaria degli antichi, Bologna 1928, 131 ss.
Come si vede, l’opera di Solone, se e in quanto innovatrice, si limita ad articolazioni ulteriori dell’assetto tradizionale, che equivalgono certo a un suo rafforzamento nella coscienza generale. Egli aveva anzi rifiutato le sollecitazioni di alcuni e la tentazione, offerta dalla situazione oggettiva, di farsi tiranno. A questo fermo atteggiamento sul piano del potere politico corrisponde, sul piano economico, il rifiuto di una redistribuzione della terra (ghēs anadasmós), che avrebbe significato il rovesciamento dei diritti formali di proprietà, quelli cioè dei grandi proprietari, gli unici a possedere probabilmente titoli del genere che fossero formalmente definiti, in quelle condizioni storiche. L’agricoltura non riceveva dunque impulsi particolari dalla sanatoria introdotta da Solone; viceversa, sembra plausibile che egli abbia favorito l’artigianato, la produzione ceramica, in una con un certo sviluppo mercantile, in quanto consentì l’esportazione dell’olio, pur vietando altre forme di esportazione[6]. Egli si configura dunque come un valorizzatore del politico, come un creatore di valori comunitari. La sua debolezza, sul terreno dei fatti, è di operare solo mediazioni: ad Atene egli vuole essere, ed è, il dialaktḗs, il “pacificatore”, il “conciliatore”, il “grande mediatore”: non vuole essere (e non è) il tiranno.
Finita la sua opera, egli si trasferisce per commercio e turismo in Egitto; ad Atene riprendono le stáseis, i “conflitti politici”. Dopo cinque anni un’anarchia (= “assenza di arconte”), dopo altri cinque una nuova anarchia, quindi, per un paio d’anni (582-580), un arcontato di durata eccezionale, di un certo Damasia. Ad Atene si hanno già formazioni politiche di tipo corporativo: abbattuto Damasia, si sperimenta un arcontato decemvirale, composto da 5 eupatrídai (“gente di nobile lignaggio”), 3 ágroikoi (“contadini”), 2 demiourgoí (“artigiani”)[7]. Poco dopo troveremo una diversa articolazione, ancora una volta in tre gruppi politici, questa volta su base territoriale: i pedieîs o pediakoí (cioè i “proprietari terrieri del pedíon”), i parálioi (“proprietari di regioni costiere”), i diákrioi o hyperákrioi (“quelli della – o al di là della – zona montuosa”). Non si tratta di veri partiti, con tanto di ideologie; ma emerge una dialettica politica del più grande interesse, che tende ad affermarsi come uno strumento di soluzione dei conflitti. In questo quadro si colloca la tirannide di Pisistrato, le cui caratteristiche, le cui vicende, i cui stessi infortuni possono spiegarsi solo alla luce della particolare temperie politica ad Atene e di quel mondo di valori comunitari che l’opera di Solone aveva rafforzato, anche se non messo al riparo dai fermenti dell’epoca e dai gravi elementi di crisi che la società attica aveva accumulato al suo interno.
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Note
[1] Sull’anno dell’arcontato di Solone e la cronologia di Sosicrate (ol. 46, 3 = 594/3 a.C.) in Diog. I 62 (risalente ad Apollodoro), e quella più bassa, di Arist. Ath. 14, 1 (592/1, se l’arcontato di Comea è del 561/0 a.C.); cfr. Plutarco, La vita di Solone, a c. di Manfredini M. – Piccirilli L., Milano 1977, pp. 179-180.
[2] Cfr. Arist. Ath. 2, 2; Plut. Solon 13, 4; Piccirilli L., op. cit., 169-178; Rhodes P.J., Commentary on the Aristotelian Athenaion Politeia, Oxford 1981, 90-97. In termini meramente lessicali, il confronto più diretto e convincente di ἑκτήμοροι (o ἑκτημόριοι) è γεωμόροι (sull’analogia, del resto, cfr. Piccirilli L., op. cit., 170), quindi dovrebbe trattarsi dei possessori di 1/6, non di 5/6. Nei fatti, sembra preferibile invece l’interpretazione 5/6. La vera difficoltà dell’interpretazione risiede in ciò: che la condizione affrontata da Solone possa essere il punto d’arrivo di un lungo cammino, una condizione ultima raggiunta attraverso una crisi e un progressivo declino.
[5] Il rapporto tra le naucrarie (12 per ogni trittýs), e le trittie, affermato da Arist. op. cit. 8, 3, è revocato in dubbio da Hignett C., A History of the Athenian Constitution to the End of the Fifth Century B.C., Oxford 1952, 67-74 (le naucrarie sono considerate distretti locali, non correlati con le quattro tribù; Pisistrato potrebbe aver rimodellato un sistema collegato – come suggerirebbe l’etimologia – con le esigenze navali, trasformandolo in un sistema amministrativo di portata più generale).
[6] Sulla produzione dell’olio in epoca micenea e arcaica, cfr., ad es., Richter W., Die Landwirtschaft im homerischen Zeitalter, Göttingen 1968, 134-149.
[7] La distinzione eupatrídai-ágroikoi (= gheorgoí)-demiourgoí (circa 580 a.C.) è chiaramente più tarda di quella indicata genericamente come preclistenica in Arist., fr. 385 Ross, Ath. Fr. 5 Oppermann, che conosce solo l’opposizione gheorgoí/demiourgoí (a un’epoca in cui il corpo civico – con 4 tribù, 12 fratrie/trittie, 360 ghéne ciascuno di 30 membri – avrebbe contato 10.800 membri). È come se quel che in origine era distinzione di attività produttiva e professionale (e, in quanto tale, sociale) nella città ancora omogenea (o non troppo eterogenea) al suo interno, avesse dato luogo (al più tardi all’inizio del VI secolo a.C., ma probabilmente già parecchio prima) a una più netta stratificazione, in cui un gruppo emerge ed è connotato solo socialmente (eupatrídai), qualunque ne sia l’attività produttiva e a parte (e anche sotto) stessero quei gruppi che, proprio per essere inferiori, si qualificavano e si distinguevano solo per attività produttiva (quand’anche – e ciò vale certo per l’agricoltura – la condividevano con gli eupatrídai).
di R. MUGELLESI, Scienza, morale e altro, introduzione a Lucio Anneo Seneca, Questioni naturali, Milano 2004, pp. 7-36.
Nel corpus senecano a noi giunto le Naturales Quaestiones occupano uno spazio autonomo e, almeno nel contenuto, distinto dalle altre opere. L’argomento è lo studio della natura, in alcuni dei suoi aspetti scelti da Seneca nell’ambito della meteorologia[1] della geologia (mi riferisco al libro VI riguardante i terremoti). E sicuramente nell’antichità non conosciamo molte opere di questo genere, se escludiamo le trattazioni dei filosofi presocratici[2] – di alcuni dei quali Seneca è testimone autorevole –, Platone, ma soprattutto i Meteorologica[3] di Aristotele a noi giunti in quattro libri di cui forse il quarto è spurio.
Pseudo-Seneca. Statua, marmo, fine I sec. d.C. Museo Archeologico di Pozzuoli.
I rapporti tra Seneca e la produzione scientifica greca sono stati analizzati da più studiosi, con diverse posizioni. Vottero[4] sottolinea la forte influenza della dossografia nell’opera senecana, contraddistinta dalla presenza di termini come quidam, sententia, auctor, e verbi come opinari e placere. I rinvii possono essere anonimi, ma per lo più compaiono i nomi degli autori antichi a cui Seneca fa riferimento, sia greci sia latini. Punto fisso è sicuramente la dipendenza nella trattazione di certi argomenti[5], ma difficile è stabilire se Seneca li conoscesse di prima mano o piuttosto non fosse la sua una conoscenza indiretta, magari su compendi a noi ignoti[6]. Occorre comunque dire che la Quellenforschung relativa alle Naturales Quaestiones sembra orientata a riconoscere un’unica fonte che, se per Zeller e Diels era da identificare con Posidonio, per altri doveva essere riconosciuta in Asclepiodoto, che è citato da Seneca ben cinque volte[7]. Non è comunque facile stabilire con certezza tali assunti. Nel caso di Posidonio, possiamo basarci, oltre che sui nove frammenti ricordati da Seneca[8], sui venti di Strabone e i sei di Diogene Laerzio, ma, come osserva giustamente Vottero[9], non è possibile sapere se appartenessero sicuramente all’opera sulla meteorologia e se provenissero direttamente da Posidonio. E anche per quanto concerne Asclepiodoto, scolaro di Posidonio (auditor Posidonii), nessun autore lo ricorda, a parte Seneca, e la citazione in VI 17, 3, ove qualcuno vorrebbe intravedere il titolo steso dell’opera, Naturalium Causae, è oggetto di molte discussioni[10]. È stata avanzata l’ipotesi[11] che Seneca abbia attinto le sue teorie da una raccolta dossografica denominata da Diels[12]Vetusta Placitae databile intorno alla metà del I sec. a.C., forse redatta dal filosofo Ario Didimo di Alessandria. Poiché i Vetusta Placita si dividevano in due parti, una dedicata all’Etica, l’altra alla Fisica, si è cercato di dimostrare che Seneca potrebbe aver tenuto presenti entrambe le sillogi, in particolare la prima per le altre opere in prosa, la seconda per le Naturales Quaestiones. Se riscontri puntuali sono stati notati, resta però da precisare che i cosiddetti Vetusta Placita sono giunti a noi attraverso un doppio strato di epitomi: senza contare – ma questo non stupisce più di tanto – che non troviamo in Seneca riferimento a tale florilegio. Le argomentazioni addotte per rispondere a questo dubbio si basano da una parte sulla prevalente consuetudine antica di non citare mai i florilegi, dall’altra sulla prassi senecana per cui gran parte della produzione letteraria a lui precedente, fatte le dovute eccezioni, non sarebbe stata letta direttamente[13]. Riteniamo che la Quellenforschung sia comunque ancora aperta e suscettibile di nuovi risultati: lasciamo dunque la ricerca agli esperti in questo campo e ritorniamo al nostro testo.
Nella prefazione al II libro Seneca afferma che la ricerca nel suo complesso sull’universo si suddivide in caelestia (astronomia), sublimia (meteorologia) e terrena (geologia): la prima parte indaga la natura degli astri in base alla loro grandezza e alla loro forma, ovvero i fenomeni celesti così definiti in quanto si verificano nella zona più alta dell’universo; la seconda si occupa dei fenomeni che accadono tra cielo e terra (nubi, piogge, neve, grandine, terremoti e tutte le alterazioni provocate o subite dall’aria); la terza parte si occupa di tutta la fenomenologia riguardante il suolo terrestre (tra geologia e geografia). La collocazione dei terremoti nei sublimia è spiegata dallo stesso Seneca attraverso la dottrina pneumatica in base alla quale tale fenomeno, pur rientrando propriamente nella geologia, di fatto è trattato alla stregua di un fenomeno meteorologico in quanto causato dall’aria: penetrata nella terra attraverso le sue porosità e non potendo più uscirne, essa finisce per causare gravi scuotimenti sussultori e ondulatori.
Per considerare più da vicino la trattazione dei singoli libri osserveremo innanzitutto che la scelta degli argomenti non sembra dettata da un intento particolare: l’unico legame sembra sussistere tra i libri III e IVa, tra la trattazione delle acque e quella del Nilo. […]. Il libro I si apre dunque con una lunga praefatio che, con tono e stile assai elevati, invita gli uomini a sollevarsi dalla propria pochezza verso la conoscenza di Dio a cui è possibile giungere solo attraverso lo studio attento della natura. Quindi, vengono trattati i fuochi celesti, non solo le meteore ignee di vario genere (la tipologia è assai vasta), ma, in particolare, gli aloni, l’arcobaleno, le verghe, i pareli e i paraseleni. Il libro II, dopo aver avanzato considerazioni di carattere generale sull’aria e sulla terra, prende in esame i tuoni, i fulmini e i lampi, non senza dedicare largo spazio alle opinioni degli scienziati antichi, tra cui Anassimene, Anassimandro, Anassagora, Diogene di Apollonia, nonché al potere divinatorio del fulmine: nell’ampia digressione (capp. 32-52) non mancano riferimenti alla dottrina etrusca che Seneca mostra di conoscere assai bene e al rapporto tra divinità e fato. Il terzo analizza la diversa tipologia delle acque terrestri con riferimenti a teorie aristoteliche come quella presente in De gener. et corrupt. 2, 4, ovvero la reciproca mutabilità dei quattro elementi originari: nel cap. 10 è sostenuto, infatti, il concetto che anche la terra si può trasformare in acqua. E non meno interessante, al cap. 15, l’analogia istituita tra la terra e il corpo umano, secondo un principio medico di origine greca (forse Prassagora di Coo): come nelle vene scorre il sangue e nelle arterie l’aria, così nella terra scorrono insieme aria e acqua[14]. Il libro IVa presenta una lacuna nell’ultima parte: si conservano la praefatio imperniata sul sentito problema dell’adulazione e la parte relativa al Nilo e alle sue piene. Il libro IVb è, invece, acefalo e a noi è giunta solo la parte relativa alle nubi, alla grandine e alla neve. Il libro V considera i venti e la loro origine senza trascurare le brezze, i turbini, nonché la rosa dei venti e i venti locali. Il libro VI, come abbiamo già detto sopra, è tutto dedicato allo studio dei terremoti, mentre il libro VII si occupa delle comete riservando largo spazio alla dossografia relativa allo studio del fenomeno.
Un’analisi delle N.Q. non può prescindere, innanzitutto, dal confronto con la produzione scientifica greca: di fronte a questo problema la prima risposta che ci diamo è che, richiamando i testi scientifici greci, le N.Q. non sembrano davvero distinguersi per originalità di contributi. Stahl[15], nel libro dedicato alla scienza romana, sostiene che essa «si mantenne sempre su un pino decisamente mediocre» e addirittura qualcuno[16] ha affermato che non c’è scienza romana. Pur senza essere così categorici, non si può negare che i Romani non hanno saputo sviluppare né superare l’alto livello scientifico e tecnologico raggiunto dalla civiltà greca, in particolare ellenistica: oltre ad Euclide e Archimede, numerosi furono in quel periodo gli scienziati a cui è debitrice la stessa scienza moderna: Eratostene è stato il primo matematico che ha fornito la misura della lunghezza del meridiano terrestre, mentre Aristarco di Samo ha ideato l’astronomia eliocentrica. Ebbene, prescindiamo pure da «Varrone, esponente di una cultura prescientifica, del tutto estranea alla scienza. Gli scrittori romani di epoca imperiale, come Plinio e Seneca, sono invece affascinati dalla lettura di opere scientifiche ellenistiche delle quali, non potendo seguire la logica delle argomentazioni, apprezzano le conclusioni proprio perché giungono loro inaspettate e meravigliose; credono quindi di poter emulare i loro modelli eliminando i nessi logici o sostituendoli con connessioni che, anche se arbitrarie, sono più facilmente immaginabili e portano più rapidamente al risultato voluto, che è la meraviglia del lettore»[17]. Così Plinio, Nat. hist. XI 29, nello spiegare la vita delle api, sostituirà alla dimostrazione scientifica del greco Pappo[18] la seguente semplicistica spiegazione a proposito della forma esagonale delle celle dei favi: «Ogni cella è esagonale, perché ognuna delle sei zampe dell’ape ha fatto un lato». E Seneca non è meno ascientifico quando sostiene in N.Q. II 31, 1 e 53, 1 che il vino colpito dal fulmine si congela, tornando allo stato liquido dopo non più di tre giorni e allora uccide o rende pazzo chi lo beve: al motivo di tale fenomeno egli avrebbe dedicato ricerche personali. Se, invece, guardiamo al resto della produzione scientifica latina, dovremmo prendere atto che, in questo ambito, l’opera senecana costituisce la trattazione più rappresentativa e forse l’unica in questo campo di prosa scientifica a orientamento filosofico: del resto, a Roma[19], specialmente nel I sec. dell’Impero, vi fu «une véritable vie scientifique».
Ragazzo che recita la lezione al maestro. Sarcofago di M. Cornelio Stazio, rilievo, marmo, II sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.
Se altri autori hanno inteso inoltrarsi nel mondo della natura per cercare di comprendere gli intimi meccanismi e misteri, di nessuno a noi è giunta una trattazione articolata, anche se non del tutto coerente, come le Naturales Quaestiones. Più che opere scientifiche nel senso stretto, il De rerum natura di Lucrezio e gli Astronomica di Manilio[20] rientrano nel genere del poema didascalico, anche se entrambi, ma soprattutto Lucrezio, ne fanno un uso assai originale. Nell’uno, la trattazione della fisica epicurea è il tramite per assicurare agli uomini la serenità e liberarli dalla paura della morte, nell’altro, l’indagine degli astri, in una visione assolutamente stoica, diviene il mezzo per garantire all’umanità quel grado di conoscenza di certi fenomeni necessario per comprendere la legge cosmica. Ma l’intento poetico e il fervore filosofico allontanano le due opere dai postulati di una trattazione scientifica: anche in Seneca, come vedremo, la compresenza di scienza e filosofia diminuirà sovente la severità del trattato, ma restano comunque la vastità del materiale esaminato e, almeno in quelle sezioni, la ricerca di un’adesione alla mentalità scientifica.
Interesse per l’astronomia, di fatto coincidente con l’astrologia, aveva avuto in era repubblicana Nigidio Figulo[21], autore di diverse opere, tra cui anche un trattato De vento, riconducibile sempre ai suoi interessi astrologici. A lui si rifà Igino[22], forse il bibliotecario di Augusto, nel suo trattato sull’Astronomia, in quattro libri, in cui si occupa di costellazioni, di cosmologia e dei movimenti della sfera celeste. E potremmo aggiungere anche Pomponio Mela[23], vissuto sotto Claudio, che, nei tre libri De chorographia, seppur corredati di informazioni piuttosto arretrate, ci informa sulle conoscenze geografiche dei Romani.
Come si evince dalla praefatio all’opera di Pomponio Mela, era presente negli antichi la consapevolezza che la trattazione scientifica e tecnica rientrava nei canoni di un genere «minore»[24]: lo riscontriamo nell’epistola prefatoria del De architectura di Vitruvio così come in quella diretta a Tito nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio[25].
Un simile atteggiamento non traspare in alcuna delle prefazioni superstiti delle Naturales Quaestiones: non in quella dei toni moralistici del libro III, che molti ritengono il primo dell’ordinamento originale, non in quella del libro I: questo assai probabilmente non rappresenta il vero inizio dell’opera senecana, anche se proprio l’impegnativo prologo e l’argomento si presterebbero. Ma se pure il trattato si aprisse, come in molti manoscritti, con il libro IVb giuntoci acefalo, l’attuale primo, secondo la felice teoria del «proemio al mezzo», costituirebbe un luogo deputato per «dichiarazioni di poetica», ovvero per affermare un programma letterario nelle forme più consapevoli. Ebbene, che le Naturales Quaestiones si distinguano dal resto della produzione scientifica latina lo si può intuire subito se mettiamo a confronto proprio la praefatio del primo libro con quelle citate sopra, a cui possiamo aggiungere la praefatio agli Astronomica di Manilio: non c’è alcun riferimento a un presunto senso d’inferiorità nei confronti dei generi alti. Potrebbe bastare questa differenziazione a farci comprendere che Seneca non sentiva, nelle Naturales Quaestiones, un impegno diverso dalle altre opere morali e l’andamento ha in effetti i toni di tanti Epistulae morales. Ampia e articolata (ben cento paragrafi), essa non è legata al resto dell’opera se non nella misura in cui vuole chiarire il vero intento di Seneca al lettore-discepolo: così lo scienziato indossa le vesti del maestro filosofo e la scienza diventa il tramite per il raggiungimento della virtù. Secondo la teorizzazione esposta nelle Epistulae (89[26], ma soprattutto 88[27] e 90[28]), la philosophia si differenzia dalle ceterae artes come, all’interno della philosophia medesima, l’ambito etico (philosophia moralis) si distingue quello fisico (philosophia naturalis): Quantum inter philosophiam interest, Lucili virorum optime, et ceteras artes, tantum interesse existimo in ipsa philosophia inter illam partem quae ad homines et hanc quae ad deos pertinet (praef. 1). Alzare gli occhi al cielo, arrivare alla luce dalle tenebre terrene, penetrare nei profondi recessi della natura è conoscere Dio e misurare la nostra piccolezza: O quam contempta res est homo nisi supra humana surrexerit (praef. 5) e, alla fine, sciam omnia angusta esse mensus deum (praef. 17). L’impianto filosofico che Seneca intende dare alle sue ricerche scientifiche appare chiaro fin dall’esordio e tutta l’opera mostra l’urgenza del suo impegno: «Se la filosofia s’identifica con la scienza e la filosofia tende al perfezionamento morale, anche la scienza deve tendere al perfezionamento morale»[29].
L’impostazione dei libri, almeno di quelli completi, procede in modo simile e le argomentazioni filosofiche possono essere presenti, oltre che nelle praefationes, anche negli epiloghi e nelle digressioni.
Scena di scuola. Rilievo, marmo, inizi III sec. d.C. ca. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.
Oltre che il libro I, le riflessioni del filosofo morale animano il proemio del III (forse l’originale libro I) in cui si ribadisce il concetto che lo studio della natura aiuta l’uomo ad allontanarsi dalle cose terrene e a comprendere i veri valori della vita: Ad hoc proderit nobis inspicere rerum naturam: primo discedemus a sordidis; deinde animum ipsum, quo sano magnoque opus est, seducemus a corpore; deinde in occultis exercitata subtilitas non erit in aperta deterior; nihil est autem apertius his salutaribus quae contra nequitiam nostram furoremque discuntur, quae damnamus nec ponimus (praef. 18).
L’incipit del libro IVa è una lunga condanna dell’adulazione e i toni che Seneca assume sono assolutamente quelli del predicatore e del maestro di virtù. L’invito a tenersi lontano dalla folla e a non prestare il fianco all’adulazione (a turba te, quantum potes, separa, ne adulatoribus latus praebeas, praef. 3) è un consiglio che ritroviamo nel De brev. vitae 18, 1 o nelle Ep. 7, 1; 8, 1; 10, 1: la conferma della propria saggezza «aristocratica»[30]. Analogamente l’invito rivolto a Lucilio affinché rivolga ogni suo interesse su se stesso (Fugiendum ergo et in se recedendum est; immo etiam a se recedendum, praef. 20) si configura con la sentenziosità ricorrente nelle opere filosofiche: De tranquillitate animi 17, 3; De brev. vitae 2, 5[31]. Pur nella loro brevità, anche le aperture dei libri VI e VII offrono spunti di riflessione morale: la prima, invitando gli uomini a razionalizzare la paura dei terremoti (nullum malum sine effugio est, VI 1, 6), la seconda, a superare uno stadio di ottusità per innalzarsi verso il divino, ovvero verso la perfezione (Nemo usque eo tardus et hebes et demissus in terram est ut ad divina non erigatur ac tota mente consurgat, VII 1, 1).
Nell’organizzazione di ogni libro, dunque, alla prefazione, più o meno articolata, segue l’analisi del singolo fenomeno naturale e sono discusse le diverse teorie degli autori che lo hanno esaminato: quindi, si apre l’argomentazione di Seneca, che può accettare la tesi di altri o proporne una propria, di solito in linea con gli Stoici[32].
In pendant con la prefazione, il libro è provvisto di un epilogo. Nel I libro, dopo aver cercato di spiegare certi fenomeni (l’arcobaleno e i fuochi celesti) con la teoria speculare, Seneca introduce una digressione sull’uso perverso degli specchi, prendendo come esempio un personaggio sconosciuto, Ostio Quadra, che di essi si era servito in modo dissoluto. È l’occasione per mostrare la decadenza dei costumi e per condannare uno strumento che dovrebbe essere usato per diventare più virtuosi e non per abbandonarsi al vizio. Al termine del II libro compare una lunga riflessione sull’importanza di conoscere la teoria dei fulmini. Liberarsi dalla paura dei fulmini significa liberarsi anche da quella della morte[33] a cui nessuno può sottrarsi: O te dementem et oblitum fragilitatis tuae, si tunc mortem times cum tonat! (59, 9); eo itaque fortior aduersus caeli minas surge et, cum undique mundus exarserit, cogita nihil habere te tanta morte perdendum (59, 11). Il filosofo morale ricompare accanto allo scienziato anche al termine del III libro: alla descrizione «drammatica» del diluvio segue una breve riflessione sul ritorno del mondo all’antico ordine, secondo la nota teoria stoica della palingenesi del cosmo. Ma lo stato di innocenza non durerà a lungo poiché cito nequitia subrepit. Virtus difficilis inventu est, rectorem ducemque desiderat: etiam sine magistro vitia discuntur (30, 8). Analogamente il V libro si chiude con un’ampia argomentazione sul cattivo uso dei venti da parte degli uomini e, richiamando il ben noto tópos diatribico dei mali derivati dalla navigazione oltre i confini e dalle guerre di conquista. Seneca conclude minima esse quae homines emant vita. Immo, Lucili carissime, si bene illorum furorem aestimaveris, id est nostrum (in eadem enim turba volutamur), magis ridebis, cum cogitaveris vitae parari in quae vita consumitur (18, 16). Anche dalla conoscenza dei terremoti e delle loro cause (libro VI) l’uomo può trarre vantaggio e divenire più forte, il che, per il filosofo, conta maggiormente che divenire più dotto: ma l’uno non può sussistere senza l’altro, poiché la forza dell’animo proviene dai buoni studi e dallo studio della natura (non enim aliunde animo venit robur quam a bonis artibus, quam a contemplatione naturae, 32, 1). Comprendere che la morte è una legge di natura significherà affrontarla con animo sereno e addirittura (con la consueta ricerca senecana dell’effetto) andarle incontro (effice illam tibi cogitatione multa familiarem, ut, si ita tulerit, possis illi et obviam exire, 32, 12). Nei tre capitoli che chiudono il VII libro (30-32), Seneca ripete ampiamente il giudizio morale negativo sull’umanità che progredisce solo nel vizio, anziché concentrarsi sulla scienza e sulla conoscenza del divino. Ma le riflessioni si allargano a considerare la necessità di uno studio approfondito della natura a cui sono invitati i contemporanei e, insieme, le generazioni future: ne consegue una esaltazione del progresso scientifico (30, 5), che, secondo la prassi antica, andava distinto da quello tecnologico, nei confronti del quale sussiste la piena condanna[34]. Come è detto nell’Ep. 90, le conquiste tecnologiche nascono dal vizio, ma le conoscenze scientifiche aiutano il raggiungimento della virtù e quindi rientrano nelle competenze del filosofo. Per questo le amare considerazioni sulla decadenza delle scuole filosofiche[35], presenti nel cap. 32, sottolineano con forza lo stretto legame di questo problema con il dilagare della corruzione e il venir meno della virtù.
«Testa del filosofo». Testa, bronzo, seconda metà del V sec. a.C. ca. da un relitto dalle acque di Ponticello, Villa S. Giovanni (RC). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.
Non negheremo comunque che l’interesse di Seneca per la scienza fosse sincero e, del resto, sappiamo che lo aveva coltivato fin da giovane, scrivendo un trattato sui terremoti e altre opere scientifiche perdute: all’opera giovanile De motu terrarum allude egli stesso in VI 4, 2. Ma, come abbiamo già avuto modo di dimostrare, sull’interesse scientifico si afferma la passione del filosofo, sulla scienza trionfa l’etica. In questo risiede il limite scientifico, se ci accostiamo alle analisi condotte nella prospettiva di uno scienziato moderno, eppure, in questo, si condensa l’impronta originale di un pensatore complesso e acuto che non riesce a distaccarsi dalla forte esigenza morale presente nel resto della sua produzione.
Gli studi compiuti sulle Naturales Quaestiones, numerosi, negli ultimi anni, hanno messo a fuoco tradizione e originalità: alcuni approfondendo la compresenza di scienza e filosofia[36], altri cercando di riconoscere la realtà dei dati riportati[37], altri indagando sul forte peso delle trattazioni scientifiche greche[38], altri soffermandosi in modo particolare sul rapporto con il resto della produzione senecana[39].
Una lettura critica delle Naturales Quaestiones non può ignorare i tanti contributi: eppure, è un’opera che ancora necessita di un’analisi d’insieme in cui, oltre a indagare sulle peculiarità della parte scientifica o le modalità della riflessione filosofica, si approfondisca e si metta in luce il rapporto tra forma e contenuto: si tratta dunque di un’analisi che evidenzi i diversi livelli linguistici e di stile nelle sezioni prettamente scientifiche da una parte, e dall’altra nelle sezioni (prefazioni, epiloghi e digressioni) ove prevale l’impegno filosofico o il tono moralizzante o l’attitudine predicatoria. Se, infatti, la filigrana di lettura è questa compresenza di scienza e morale, l’una condizionante l’altra, le scelte stilistiche nonché la ricchezza espressiva del linguaggio senecano costituiscono gli strumenti indispensabili per cogliere i movimenti profondi del suo pensiero.
Come abbiamo osservato sopra, le sezioni scientifiche seguono uno schema, non fisso, ma abbastanza regolare. Nella descrizione del fenomeno e della discussione delle teorie esistenti, non sembra che Seneca si preoccupi molto di ricostruire fedelmente i sistemi e i contorni storici degli autori citati; d’altra parte, raramente il fenomeno è spiegato in seguito a un’osservazione diretta e, quando si presenta il caso, si tratta sempre di brevi indicazioni. Prevale invece il principio[40] per cui la stessa esperienza è confrontata con la teoria già formulata, a conferma, cioè, di quanto è già noto, secondo un metodo che potremmo definire “deduttivo”, non induttivo: la conferma è data in parte dalla stessa frequenza delle formule che introducono la spiegazione del fenomeno «per analogia» o «verosimiglianza» (tam… quam; non aliter quam; ut… sic; veri ergo simile est; tale quiddam, ecc.). In I 12, 1, ad esempio, nell’esporre la teoria speculare, Seneca inizia con il riferimento all’esperienza dei catini pieni di olio o di pece per osservare meglio l’eclissi di sole; ma il ragionamento che segue è costruito su spiegazioni già esistenti richiamate da quemadmodum… ita (due volte) e sicut.
Ciò che sembra interessare maggiormente Seneca è invece l’esposizione di ipotesi diverse, più o meno condivisibili; anzi, quanto più sono complesse, tanto più sembra che gli interessino, come se discutere una pluralità di opinioni lo garantisse nella serietà del metodo d’indagine.
In questo confronto con gli autori che lo hanno preceduto, anche Stoici, non manca di dichiarare la sua libertà di vedute, criticando certe posizioni definite fabulae, mendacia o ineptiae: IVb 6, 1non tempero mihi quominus omnes nostrorum ineptias proferam; 7, 2quanto expeditius erat dicere: mendacium et fabula est[41].
Un’esigenza sembra comunque essere primaria per Seneca ed è quella di dimostrare l’origine naturale dei fenomeni, quasi una prova di scientificità. Come è stato notato[42], tale atteggiamento non sempre è dichiarato apertamente, ma è certo presente in diversi passi dell’opera: particolarmente indicativo, nella sequenza di III 27-29 relativa al diluvio, il collegamento tra tale fenomeno e l’operato della natura: 27, 2nihil difficile naturae est, utique ubi in finem sui properat. E anche se natura e Dio coincidono nella visione stoica del mondo, 28, 7Utrumque fit, cum deo visum ordiri meliora, vetera finiri, è l’universo che racchiude in sé i suoi principi informativi, il sole, la luna, gli astri, gli animali e il diluvio che lege mundi venit, 29, 3. A riprova dell’intento senecano, la similitudine stabilita con l’organismo umano (già presente nello stoico Cleante), un’analogia che, diversamente articolata, ricorre in altri passi dell’opera (II 6, 6; V 4, 2; VI 14, 1-2, ecc.): anche nel seme (ut in semine) è contenuta la virtù informativa di tutto l’uomo futuro (omnis futuri hominis ratio) e il bambino non ancora nato racchiude in sé il principio che stabilirà la barba e i capelli bianchi (et legem barbae canorumque nondum natus infans habet).
Il manifestarsi di questa esigenza presuppone la stessa idealizzazione dello stato di natura, un concetto perdurante nello sviluppo del pensiero latino, a cui inevitabilmente è collegata la condanna del progresso, almeno di quello tecnologico. Qui sta il limite, come si è già accennato sopra, della ricerca scientifica a Roma. È evidente che a questa separazione tra scienza e tecnica avranno contribuito anche altri fattori, come quello socio-economico[43], ma è certo che Seneca rappresenta, nelle Naturales Quaestiones, l’autentico interprete del suo tempo: superiorità della teoria sulla pratica, dunque, e quindi del pensiero sull’attività manuale, aderenza e rispetto dei canoni «naturali» e, come logica conseguenza, l’inevitabile unione di scienza e morale, forse per la prima volta messa così bene in luce.
Siamo distanti dalla descrizione enciclopedica di Plinio il Vecchio, per il quale si trattava di mostrare i fenomeni della natura, in tutti i suoi aspetti, non di discuterne le cause: nobis propositum est naturas rerum manifestas indicare, non causas indagare dubias (Nat. hist. XI 8). Dietro a questo principio comprendiamo che l’unico atteggiamento possibile è quello del «catalogatore» o dell’archivista, che dovrà mettere ordine nello scibile umano[44] rischiando, in questo, di restare legato a una visione statica della realtà: più moderna la posizione critica di Seneca, per il quale lo studio della natura è un processo aperto agli sviluppi delle scoperte future (VII 30, 5 e 6; 32, 1).
Se consideriamo adesso le parti scientifiche da un punto di vista linguistico e stilistico, appare evidente che la costruzione si presenta assai simile a quella dei Dialogi[45]: non ci soffermeremo qui sull’analisi dettagliata dei singoli aspetti, catalogati con estrema minuzia da Vottero[46], che passa in rassegna ogni fenomeno dello stile senecano, ivi compresi quelli peculiari delle sezioni moralizzanti. Vorremmo limitarci, nell’esame di queste parti, a segnare le modalità del rapporto tra Seneca e il destinatario, ovvero l’amico Lucilio Iuniore, a cui erano stati dedicati anche le Epistulae, il dialogo De providentia e i perduti Moralis philosophiae libri e del quale molti elementi biografici sono forniti nella prefazione del libro IVa. A Lucilio si rivolge in maniera continua, talora citandolo per nome, altre volte con appellativi che denotano affetto e stima, cosicché egli diventa il vero interlocutore e il referente di domande, interrogazioni retoriche, generiche osservazioni e obiezioni. E può egli stesso porre questioni a Seneca, l’occasione fittizia per sviluppare una controtesi; in questi casi si ricorre a inquis o al più generico (e diatribico) inquit. Non basta. Dobbiamo sottolineare che anche l’inserimento, nel corso della trattazione teorica, delle citazioni poetiche talora ha la stessa funzione di una voce «altra», che si inserisce nel contesto «dialogico», quasi fosse un altro interlocutore. È il caso di molte citazioni ovidiane che, tratte per lo più dalle Metamorfosi, non hanno «funzione morale, ma il preciso scopo d’illustrare vividamente l’imponente gamma dei fenomeni naturali, colti nella tensione perenne del loro dinamismo metamorfico»[47]. L’osservazione vale naturalmente, e a maggior motivo, per le citazioni virgiliane che, considerando la devozione di Seneca verso il grande maestro, sono le più numerose: anch’esse non appaiono mai all’improvviso e s’inseriscono nella stessa concatenazione logica del pensiero senecano di cui evidenziano e chiariscono il nodo importante, soprattutto nei passi di riflessione filosofica e morale, in un ricco gioco polifonico. Con ciò, non dimenticheremo di evidenziare, accanto alla funzione morale delle citazioni poetiche, l’altra funzione che lo stesso Seneca torna speso a chiarire, ovvero la necessità di concedere una pausa di «alleggerimento stilistico» all’interno di una prosa impegnata, filosofica e scientifica:Ep. 58, 25sic nos animum aliquando debemus relaxare et quibusdam oblectamentis reficere; e l’una deve coesistere accanto all’altra: Sed ipsa oblectamenta opera sint; ex his quoque, si observaveris, sumes quod possit fieri salutare[48].
Uno specchio da toletta con scena mitologica di Leda e il cigno, in argento lavorato a sbalzo. Pezzo del tesoro di Boscoreale, I secolo a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
L’andamento espositivo delle parti scientifiche non si discosta, nei suoi aspetti essenziali, dalle altre opere senecane: una prosa serrata che non rinuncia alla variatio né al gusto delle sententiae e che, ugualmente, attinge al bagaglio retorico privilegiato, ovvero le interrogazioni dirette, le opposizioni, le metafore e la consueta ricchezza di figure retoriche, connotative dello stile senecano, ma se anche abbellire il suo periodare con la battuta inattesa (ἀπροσδόκητον) o la ricerca di parole nuove o inconsuete. Seneca è consapevole della difficoltà della materia trattata: così, per maggiore chiarezza, ricorre più volte all’accostamento del termine greco[49] a quello latino, oppure adopera l’attenuazione (uso del verbo solere, ad es., o ut(i), quando si mette a confronto con gli altri), oppure ricerca la forza chiarificatrice delle imagines derivanti dall’ambito militare, giuridico o medico. I periodi sono di solito caratterizzati dalla tipica concisione senecana, ma non mancano sequenze espositive lunghe e complesse, di certo in coincidenza con la trattazione di teorie discusse da più autori e di difficile interpretazione.
Se adesso rivolgiamo la nostra attenzione a quelle parti dell’opera in cui, come abbiamo già rilevato più volte, Seneca concentra ogni interesse sulla finalizzazione dello studio della natura a scopi morali, ci troveremo coinvolti da uno stile appassionato e da un linguaggio ricco di sfumature e di effetti, che riconduce il lettore all’ambito predicatorio e filosofeggiante dei Dialogi, delle Epistulae, e, non ultimo, al pathos e alle rappresentazioni drammatiche delle Tragoediae. In effetti, oltre al consueto impiego degli strumenti retorici caratterizzanti lo stile senecano dell’«interiorità»[50], che personalizzano i tratti salienti delle prefazioni e degli epiloghi, possiamo individuare accenti e risorse descrittive di notevole originalità, in particolare nelle digressioni presenti all’interno della trattazione scientifica. Tutte hanno in comune, come scopo ultimo, l’invito a meditare sulla decadenza dei costumi e sulla malattia morale della società contemporanea, sull’allontanamento dallo stato di natura a opera del lusso e dei vizi degli uomini: sono temi ben noti, tante volte trattati da Seneca nel resto della sua produzione, e nel commento spesso richiameremo i confronti diretti. Ma è ovvio che la nostra attenzione è richiamata non tanto dalla novità degli argomenti quanto dalla particolare collocazione in un’opera scientifica.
Anticipata dalla teoria speculare che nel primo libro è introdotta per spiegare certi fenomeni naturali e agganciandosi strettamente alla fine del cap. 15 in cui si presentano certe caratteristiche degli specchi (8sunt specula, quae faciem prospicientium obliquent, sunt quae in infinitum augeant, ita ut humanum habitum modumque excedant nostrum corporum), la digressione sull’uso distorto degli specchi da parte di Ostio Quadra prepara le riflessioni generali dell’epilogo nel cap. 17[51]. Il passaggio dalla sezione scientifica al racconto è segnalato quasi formularmente: Hoc loco volo tibi narrare fabellam[52], e fabella (come fabula) è un segnale immediato per il lettore che, attraverso il divertimento della storiella, arriverà a comprendere più facilmente il messaggio sotteso, ovvero la condanna della libido e della perversione nella società contemporanea[53]. La distorsione morale di Ostio Quadra è costruita attraverso un’insistenza continua della terminologia afferente all’ambito della corruzione, della malattia, della colpa, della mostruosità (monstrum, portentum, portentuosus), ma soprattutto del furor (16, 1 libido… ingeniosa… ad incitandum furorem suum). E il furor evoca tutta una casistica di personaggi che da tale passione sono trascinati fuori dalla razionalità e dai comportamenti da essa dipendenti: così Caligola o Ciro in De ira III 21. Ma furor significa anche spingersi oltre ogni limite nell’odio o nell’amore fino a portare i personaggi a livelli animaleschi: sono questi i protagonisti delle tragedie senecane, da Atreo a Medea. La bestialità di Ostio Quadra ci è segnalata dal termine admissarius per indicare il partner: il termine indica lo stallone in Varrone, De re rust. 2, 7. E ancora, in 16, 3, allorché la fantasia di Seneca si spinge ad auspicargli quasi una morte per autocannibalismo, il verbo usato è lancinare, un verbo che proviene dalla sfera animale e significa appunto sbranare: come Atreo (Thy. 778-779) lancinat gnatos pater / artusque mandit ore funesto suos.
Se la descrizione della lussuria di Ostio Quadra si pone in forte contrasto con i toni elevati della praefatio, in cui si celebra la luce divina a cui l’anima deve tendere attraverso lo studio della natura, nella fabella domina l’oscurità della colpa, anzi nessuna notte potrebbe nascondere le sue mostruosità: 16, 6At illud monstrum obscenitatem suam spectaculum fecerat et ea sibi ostentabat, quibus abscondendis nulla satis alta nox est.
È la ricerca del paradosso, dell’effetto, ricercato con gli strumenti retorici, le dilatazioni linguistiche, le esasperazioni delle imagines che sta alla base della «sua» nuova drammaticità teatrale. Seneca intende scuotere gli animi per spingerli alla virtù e la via percorsa è molto vicina al linguaggio delle tragedie: dall’exemplum negativo l’uomo può risalire alla luce della conoscenza. A ben guardare, i tratti salienti della sua negatività altro non sono che il ribaltamento degli aspetti positivi della divinità: è questo il paradosso estremo a cui si può arrivare! Ostio Quadra si connota come un autentico dio al contrario, un dio del male, e celebra da sacerdote il parossismo libidinoso come Atreo, nella tragedia citata, aveva osannato il trionfo del suo odio: Thy. 885-888Aequalis astris gradior et cunctos super / altum superbo vertice attingens polum. / Nunc decora regni teneo, nunc solium patris. / Dimitto superos: summa votorum attigi. Nel monologo finale (un’importante tessera di questo breve mosaico drammatico) Ostio Quadra appare fiero del suo furor che ha escogitato mezzi oltre i limiti consentiti dalla natura, collocandolo in una sfera sovrumana: 16, 8inveniam, quemadmodum morbo meo et imponam et satisfaciam. La stessa scelta del verbo invenire ci riconduce di nuovo al linguaggio dei personaggi tragici, per i quali la volontà di superare la norma viene evidenziata più volte da espressioni analoghe: è ancora Atreo che parla in 273-275Fateor, immane est scelus, / sed occupatum: maius hoc aliquid dolor / inveniat[54]. In questa ottica i richiami linguistici tra la prefazione e la fabella ci appaiono più comprensibili: se nella praef. 13 si parla della magnitudo di Dio qua nihil maius cogitari potest, in 16, 2 sono gli specchi che fanno apparire più grandi le immagini e si richiama la magnitudo del partner, anche se falsa, (specula) imagines longe maiores reddentia… ac deinde falsa magnitudine ipsius membri tamquam vera gaudebat[55]. Questo meccanismo (consapevole o meno), che prevede la costruzione del personaggio «annerendo» i modelli positivi, è rintracciabile in altri confronti: così, ad es., il filosofo, in I praef. 3, dichiara che la sua conoscenza della natura non si limiterà agli aspetti esteriori, ma s’inoltrerà nei recessi più profondi (secretiora); analogamente, al negativo, Ostio Quadra non si contenterà di vedere, ma vorrà vedere meglio le sue nefandezze, con l’aiuto degli specchi. La «prova oculare», richiamata quasi ossessivamente nella fabella, rinvia, per contrasto, all’insistenza del vedere con gli occhi della mente presente nella praefatio, istanza primaria del filosofo-maestro[56]. Come ultima riprova di questa operazione senecana di «annerimento», vorremmo aggiungere il confronto con il protagonista di un exemplum positivo, un certo Tullio Marcellino, in Ep. 77, 5-9, in particolare per il ruolo della servitù. Avendo deciso di suicidarsi, servi parere nolebant, tanto erano a lui devoti, e, in punto di morte, distribuì loro del denaro mentre essi piangevano e cercò di confortarli: 8minutas… summulas distribuit flentibus servis et illos ultro consolatus est. Ostio Quadra, al contrario, come fosse un tiranno, era odiato dai suoi servi al punto che saranno proprio loro a ucciderlo e il divino Augusto stesso ritenne che l’uccisione non dovesse essere vendicata, anzi, quasi dichiarò pubblicamente che era stato ucciso a ragione, 16, 1et tantum non pronuntiavit iure caesum videri.
Specchio con figura maschile. Argento, I sec. d.C. da Pompei, Casa del Menandro. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Come nella fabella di Ostio Quadra, ritroviamo lo stesso stile prorompente, figurato, ridondante in altre digressioni delle Naturales che sono accomunate dall’ansia moralistica del vecchio[57] filosofo e da un profondo pessimismo che emerge proprio nelle parti moraleggianti, un pessimismo comune a tante pagine delle Epistulae, forse una conferma che l’opera è stata probabilmente composta nel periodo tardo, dopo il ritiro dalla vita pubblica, più o meno contemporaneamente alle altre opere dedicate a Lucilio: concorre una serie di indicazioni temporali che delimitano il periodo agli anni dopo il 60, forse 62-63 d.C.[58]
È stato osservato molto giustamente che «la fabella di cui Ostio Quadra è il protagonista è un punto di condensazione del linguaggio moralistico: vi troviamo, in sovrabbondanza, i tratti di quel moralismo di tipo “sistematico” che abbiamo inizialmente rilevato in Seneca, ma uniti a una particolare ricerca di profondità simbolica»[59]. In effetti, come abbiamo visto, lo specchio è un oggetto con notevole valore simbolico in quanto, pur essendo un prodotto della natura, diventa poi, nelle mani di Ostio Quadra, lo strumento per saziare la sua lussuria e quindi l’elemento da cui muovere per una più profonda analisi della decadenza dei costumi (vd. cap. 17).
Un’analoga funzione di utilizzazione distorta di un oggetto «buono» la si può ritrovare nelle altre digressioni a fine moralistico presenti nelle Naturales: si tratta della morte della triglia in III 17-18, dei mangiatori di neve in IVb 13 e dell’affine fabula delle miniere in V 15. Preceduto da una descrizione a fosche tinte del mondo sotterraneo, del tutto assimilabile al paesaggio infernale e alla natura delle tragedie, abitato da animalia tarda et informia e da pesci che si scavano (eruuntur) anziché essere pescati, ha inizio l’inquietante affresco di un convivio malato, alla ricerca di sensazioni che accontentino gli occhi prima che la gola (oculos ante quam gulam, III 17, 3). Come in I 16, la lussuria è appagata dal «vedere»; qui la depravazione consiste nell’assistere alla morte di un pesce che poi verrà consumato e Seneca si sofferma, con dettagli quasi ossessivi, sullo spettacolo offerto dal cambiamento del colore, nel trapasso dalla vita alla morte: siamo molto vicini a quel gusto dell’orrido che informa le macabre descrizioni tragiche. Lingua e stile, in un unico sforzo, concorrono a evidenziare la perversione di uomini appartenenti alla classe sociale ricca, di uomini che non esitano a disertare il funerale di un parente, che rappresentava, per gli antichi, un momento importante e di coesione: ora non esiste più nemmeno il valore della tradizione, esiste solo la spasmodica ricerca, in particolare visiva, del piacere (III 18, 7oculis quoque gulosi sunt) e quasi una follia collettiva all’inseguimento di sensazioni nuove (III 18, 3tantum ad sollertiam luxuriae pereuntis accedit, tantoque subtilius cotidie et elegantius aliquid excogitat furor usitata contemnens!).
Anche la fabula di V 15, nel raccontare la spedizione ordinata da Filippo per verificare lo stato di una vecchia miniera, riconduce al tema dell’avaritia e dei vitia degli uomini che, per amore del guadagno, si spingono fino nelle profondità della terra a rischio della loro vita. L’oscurità del mondo sotterraneo, ancora una volta metafora della colpa, desta terrore (V 15, 1 non sine horrore visos) e, come in III 16, 5, evoca le tenebre infernali: là dove hanno osato discendere, potranno conoscere terrarum pendentium habitus ventosque per caecum inanes… et aquarum nulli fluentium horridos fontes et alteram perpetuamque noctem, V 15, 4. In un contesto di studio sulla natura come le Naturales, appare davvero distante una tale rappresentazione «innaturale» (si ricordino i pesci scavati!) e irreale. È l’ansia moralistica di Seneca che, nell’indicare le vie percorse dagli uomini per la loro rovina, violando la natura e i suoi misteri, non esita a introdurre descrizioni che lo avvicinano, ad es., ad Albinovano Pedone, trasmessoci da Seneca retore, Suas. 1, 15: in comune una natura senza luce, vaga e spaventosa, lo scenario per la sua dissuasio da imprese empie per troppa audacia e quindi sacrileghe, riferita alle conquiste militari e alla sete di dominio[60].
In una sequenza contraddistinta da un forte uso dell’ossimoro (4 pauperrimum… divitiae) e dalla ricorrente intensificazione di termini attinenti alla sfera della sete (5 aestus, ebrietas, torret, incalescit, ecc.) nonché a quella del commercio (3 mercemur, emere, emptus), ritroviamo l’utilizzazione deformata di un oggetto appartenente alla natura da parte di uomini ricchi e lussuriosi: si tratta della neve e dei mangiatori di neve in IVb 13.
Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.
La digressione prende inizio dall’obiezione del discepolo Lucilio, che pone al maestro la domanda a cui Seneca ha risposto più volte nel corso dell’opera: perché soffermarsi sullo studio di certi aspetti della natura, in questo caso, della neve, quando si potrebbe divenire migliori sapendo perché essa non la si debba comprare? E il maestro risponderà con una lunga analisi del commercio e della consumazione della neve, che, in quanto acqua e, soprattutto, aria, non è niente: l’acqua stessa contra se ingeniosa luxuria redegit ad pretium: adeo nihil illi potest placere nisi carum, IVb 13, 4. In I 16, similmente, a proposito di Ostio Quadra, era la libido a essere ingeniosa… ad incitandum furorem suum. Questa società di ricchi, annoiati dal troppo cibo e dal benessere, ha reso la neve un bene commerciabile e ha «inventato» il modo di pressarla per superare l’estate (13, 3invenimus quomodo stiparemus nivem ut ea aestatem evinceret). Come nelle altre digressioni, anche qui diviene importante la funzione visiva (10 videbis) sulla rappresentazione di uomini pallidi e ammalati (10graciles et palliolo focalique circumdatos, pallentes et aegros) in preda all’arsura dei cibi e al gelo della neve: senza attenuazioni, febris est (11). Con un linguaggio fortemente metaforizzato Seneca ci offre ancora un esempio di trionfo della luxuria sulla ratio: 11luxuria invictum mallum et ex molli fluidoque durum atque patiens! È il paradosso che chiude la digressione: la lussuria finisce per assumere addirittura le doti essenziali del saggio e dell’ottimo Romano, e forse più di questo non si poteva dire![61]
Vorremmo terminare l’analisi sulle diverse modalità del linguaggio e dello stile senecano nelle digressioni o excursus a sfondo moraleggiante e filosofico con alcune osservazioni sulla rappresentazione apocalittica del diluvio universale nel cap. 27 del III libro (l’argomento è presente anche nei capitoli finali 28-30). All’interno della trattazione sulle acque e sui mari, Seneca, consapevole di allontanarsi dall’argomento trattato, apre così il suo excursus: Sed monet me locus ut quaeram, cum fatalis dies diluvii venerit, quemadmodum magna pars terrarum undis obruatur. Segue un grandioso affresco dell’evento o κατακλυσμός, che, secondo la visione stoica, accompagnava l’ἐκπύρωσις alla fine di un ciclo nella vita del mondo, o anno cosmico[62]. Di nuovo la domanda: come si concilia tale descrizione con un’opera scientifica? Potremmo ipotizzare un pezzo di bravura per allentare la pesantezza della trattazione teorica, se i particolari descrittivi non fossero di così vasto respiro e se le finezze psicologiche nell’analisi degli stati d’animo non ci riconducessero ancora una volta alla profonda conoscenza dei sentimenti umani mostrata da Seneca in tanti passi delle sue opere filosofiche. In effetti, come nelle digressioni esaminate precedentemente lo specchio, la triglia, la neve rappresentavano oggetti «naturali», sui cui uso distorto si innestava la riflessione moralistica, così anche il diluvio nasce dalla natura ed è una legge dell’universo: all’origine il mondo racchiudeva in sé gli astri, gli animali e tutti quegli elementi da cui un giorno esso sarebbe stato cambiato (III 29, 3–4In his fuit inundatio, quae non secus quam hiems, quam aestas, lege mundi venit… omnia adiuvabunt naturam, ut naturae constituta peregantur). Ma il senso sotteso è una riflessione ricorrente nel pensiero filosofico di Seneca: è il concetto che i casi della fortuna possono colpire, come e quando vogliono, opere umane e naturali: Ep. 91, 11iuga montium diffluunt, totae desedere regiones, operta sunt fluctibus quae procul a conspectu maris stabant. Anche il diluvio, dunque, è un accadimento previsto dalla natura e avrà fine una volta che sarà portata a compimento la rovina del genere umano, dopodiché avrà inizio una nuova era d’innocenza per l’umanità, l’età dell’oro; ma ben presto ritornerà la corruzione: 30, 8cito nequitia subrepit. Le digressioni, dunque, non appaiono mai sganciate dalla natura e dai suoi elementi e le accomuna l’accostamento di costanti spunti di ragionamenti moralistici e filosofici, in uno stile serrato e figurato, teso alla ricerca di sensazioni forti e linguisticamente innovativo. In particolare, nella rappresentazione del diluvio, Seneca gareggia con il modello Ovidio, che in Met. I 253-312 aveva descritto il diluvio universale: ma alla descrizione epica ovidiana egli contrappone una rappresentazione che, nei suoi elementi costitutivi, è raffigurata con tinte forti, drammatiche, riecheggianti passi delle sue tragedie[63]. L’intensificazione drammatica è raggiunta attraverso l’insistenza crescente (αὔξησις) dei motivi: la nox e la mancanza della luce solare (cfr. Oed. 1-5), la nebbia fitta, la mancanza di vento, i crolli progressivi (27, 6nihil stabile est), la paura e lo sbigottimento. L’apparato epico ovidiano affidato all’intervento divino è del tutto assente ed è sostituito da una visione catastrofica dell’evento, narrata al presente, per renderne più potente la drammaticità: se poi Seneca si permette di criticare il suo modello (sono sciocchezze aver detto che il lupo nuota tra le pecore!)[64], non viene comunque meno l’ammirazione per i suoi versi, e appare chiaro che il poeta tragico, più che il filosofo stoico, ha cercato il superamento del modello.
A ripercorrere la nostra analisi, ne scaturisce una complessità di motivi che rendono le Naturales Quaestiones una delle opere più rappresentative di Seneca, ma certo gli aspetti più originali sembrano proprio questa compresenza di interesse morale, filosofico e di studio scientifico, il dialogo continuo tra il maestro e il discepolo e, non ultimo, la potenza stilistica insieme all’intensità delle parole e dei colores.
Paul Merwart, Deucalione solleva la sposa. Olio su tela, 1880.
[3] Aristotele, Meteorologica, ed., trad. e note di P. Louis, Paris 1982: nell’introduzione è discussa l’autenticità del libro IV che l’editore sostiene con vari argomenti: sarebbe stato composto da Aristotele, pur non corrispondendo che imperfettamente al progetto iniziale dell’autore (p. xviii).
[4] D. Vottero, Fonti e dossografia nelle “Naturales quaestiones” di Seneca, RAALBAN 61 (1987-1998), pp. 5-42.
[5] Sappiamo con certezza che l’opera aristotelica era nota ad Eratostene nell’elaborazione della teoria sulla formazione dei fiumi attraverso le acque fluviali, in particolare per la spiegazione delle piene del Nilo dovute alle piogge abbondanti (Proclo, In Plat. Tim. 37d). E possiamo aggiungere Strabone, Geografia IV 1, 7, che ricorda il parere di Aristotele per spiegare con un avvenuto terremoto la presenza di massi nella regione francese di Crau. Oltre a Seneca, del cui debito ad Aristotele avremo modo di occuparci ripetutamente nel commento, è probabile che lo stesso Lucrezio se ne sia ricordato quando descrive la violenza dei tifoni (VI 422 sgg.).
[13] Tra la biografia relativa a tale questione, ci limitiamo a citare J. Borucki, Seneca philosophus quam habeat auctoritatem in aliorum scriptorum locis afferendis, Diss. Borna-Leipzig 1926: la sua posizione è diversa da quella discussa subito sopra nella misura in cui sostiene che Seneca avrebbe, invece, letto molto, anche degli autori precedenti.
[18]Collezione, V, parte I, 1-2: egli spiega che la forma esagonale delle celle risponderebbe a un principio di ottimizzazione, in quanto tale forma geometrica, dato l’alto rapporto area-perimetro, garantisce più miele.
[19] J. Beaujeu, La vie scientifique à Rome au premier siècle de l’Empire, Conférence faite le 6 Avril 1957, Université de Paris 1957, p. 10.
[26] Viene introdotta, nei paragrafi 9-17, la tripartizione della philosophia in moralis, naturalis, rationalis: alla prima Seneca dedicherà i suoi maggiori interessi, della seconda, che comprende anche la metafisica e la teologia, secondo la dottrina stoica che identificava Dio e la natura, si occuperà nelle Naturales, la terza, la logica, non è ricordata nella praefatio.
[28] Seneca polemizza con Posidonio che aveva attribuito ai sapientes l’invenzione delle artes e intende ribadire la superiorità del pensiero filosofico su di esse, prodottesi dal dilagare della luxuria: la semplicità della natura si afferma sul progresso legato alle artes, par. 9: Felix illud saeculum fuit ante architectos, ante lectores!
[29] I. Lana, La concezione della scienza e della tecnica a Roma da Augusto a Nerone, II, Torino 1971, p. 165.
[32] Per una valutazione degli aspetti compositivi delle Naturales Quaestiones rinviamo a G. Stahl, Aufbau, Darstellungsform und philosophischer Gehalt der Naturales Quaestiones des L. Annaeus Seneca, Diss. Kiel 1960 e a W. Trillitzsch, Senecas Beweisführung, Berlin 1962.
[35] Sul problema, si vedano le osservazioni generali di E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, vol. III, Firenze 1979.
[36] P. Cubeddu, Natura e morale in Seneca. Il dibattito sulle “Naturales Quaestiones” negli anni 1900-1970, Sandalion 1 (1978), pp. 123-152; O. Baldacci, Seneca scienziato, in Letterature comparate: problemi e metodo. Studi in onore di E. Paratore, II, Bologna 1981, pp. 585-595; D. Weber, Ethik und Naturwissenschaft. Die Praefatio zu Senecas Naturales Quaestiones, Wien 1995.
[37] S. Chabert, Sismologie (Questions Naturelles, Liv. VI), AUG 15 (1903), pp. 154-190 ; G. Maurach, Zur Eigenart und Henkunft von Senecas Methode in den Naturales Quaestiones, Hermes 93 (1965), pp. 357-369.
[38] F.P. Waiblinger, Senecas Naturales Quaestiones. Griechische Wissenschaft und römische Form, München 1977; N. Gross, Senecas Naturales Quaestiones: Komposition, naturphilosophische Aussagen und ihre Quellen, Stuttgart 1989.
[39] J. Müller, Über die Originalität der Naturales Quaestiones Senecae, in Fest-Gruss aus Innsbruck, Innsbruck 1893, pp. 1-20. Osservazioni sparse si possono leggere nelle principali opere di carattere generale su Seneca, indicate nella ricca bibliografia di D. Vottero, op. cit., pp. 77 sgg.
[40] L’osservazione è di P. Parroni, op. cit., p. 475.
[41] Altri esempi si possono leggere in D. Vottero, op. cit., p. 41.
[43] La tecnica rientrava nei compiti delle classi inferiori e degli schiavi e quindi veniva denigrata dal ceto intellettuale, ma, oltre a ciò, il progresso tecnologico poteva significare la perdita di un equilibrio sociale ed economico consolidato. A conferma si ricorda la storiella del vetro infrangibile il cui inventore fu fatto uccidere dal sovrano per timore di una svalutazione dell’oro! Narrata da Trimalcione in Petr. Sat. 51, si ritrova anche in Plinio, Nat. hist. XXXVI 195. Intorno a questa problematica si veda A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, introd. e trad. di P. Zambelli, Torino 1967.
[44] Per un’interpretazione del pensiero pliniano si veda la lucida analisi di G.B. Conte, L’inventario del mondo. Ordine e linguaggio della natura nell’opera di Plinio il Vecchio, in G. Plinio Secondo, Storia naturale, I, Torino 1982, pp. xvii-xlvii.
[46] D. Vottero, Note sulla lingua e lo stile delle “Naturales Quaestiones” di Seneca, AAST 119 (1985), pp. 61-86, di cui possiamo leggere una riduzione nell’Introduzione già citata, pp. 42 sgg.
[47] G. Mazzoli, Seneca e la poesia, Milano 1970, p. 243, ed Enciclopedia virgiliana, s.v. Seneca, Lucio Anneo, vol. IV, pp. 766-768, Roma 1988; si veda, sull’argomento, G. Lurquin, Le citation poétique dans les ouvrages en prose de Sénèque le philosophe, Louvain 1947, assai utile per la raccolta completa delle citazioni, più discutibile per la classificazione, che si basa su principi non sempre convincenti. Accanto a Virgilio (in particolare, l’Eneide) e Ovidio (soprattutto le Metamorfosi, libri I e XV), sono citati Menando, Lucrezio, Tibullo (il verso è erroneamente attribuito a Ovidio), Nerone, Lucilio Iuniore e un certo Vagellio, autore sconosciuto.
[54] Ugualmente funzionali i verbi quaerere ed excogitare come l’affine pergere: Medea 898-900Quaere poenarum genus / haut usitatum iamque sic temet para: / fas omne cedat, abeat expulsus pudor.
[57] È Seneca stesso che fa riferimento alla sua età ormai tarda nel libro III praef. 1; 2; 3 e nelle allusioni al suo precario stato di salute nel libro I praef. 4.
[58] Intorno al problema della datazione, rinviamo a D. Vottero, op. cit., pp. 20-21. Il terminus post quem è il 62, anno del terremoto in Campania ricordato in VI 1-2, il terminus ante quem forse il 64, di cui non sono ricordati eventi salienti.
[61] Anche Plinio, in Nat. hist. XIX 55, fa riferimento al commercio dell’acqua e al costume di bere la neve e il ghiaccio, ma, come osserva acutamente S. Citroni Marchetti, op. cit., pp. 170-171, «Plinio appartiene in parte a questo tipo di moralismo, ma vi appartiene senza vera consapevolezza: più che dipingere con gli stessi colori egli parla, spontaneamente, usando il medesimo linguaggio».
[62] Vasta la bibliografia sull’argomento; si veda D. Vottero, op. cit., pp. 440-441, note 1 e 2.
[64]III 27, 13Ni tantum impetum ingenii et materiae ad pueriles ineptias reduxisset: nat lupus inter oves, fulvos vehit unda leones: il richiamo critico è a Ov. Met. I 304. Cfr. G. Mazzoli, op. cit., pp. 245-247.
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