24 agosto 410. Il sacco di Roma

L’episodio più famoso del complesso fenomeno delle migrazioni di popoli (Völkerwanderungen) fu il sacco di Roma a opera dei Visigoti nel 410 (Prosp. epit. Chron. 1240 a. 410, Roma a Gothis Alarico duce capta [VIIII kl. Septemb.]; Cassiod. Chron. 1185 a. 410, Roma a Gothis Halarico duce capta est, ubi clementer usi victoria sunt; Exc. Sangal. 541, Roma fracta est a Gothis Alarici VIIII kl. Septembres). Era la prima volta in ottocento anni che la città cadeva in mano ai barbari, ma, in concreto, l’avvenimento non ebbe molta importanza dal punto di vista strategico. Il saccheggio dell’Urbe suscitò ovunque scoramento, terrore e scandalo, e inferse una ferita insanabile alla psicologia dei sudditi dell’Impero: il valore simbolico dell’evento fu superiore alla sua portata effettiva al punto da risultare più traumatico della deposizione dell’ultimo Augustus d’Occidente (476).

Joseph-Noël Sylvestre, Il Sacco di Roma dei Visigoti. Olio su tela, 1890.

Il sacco di Roma del 410 fu il risultato del secondo tentativo da parte del comandante visigoto Alarico di strappare all’imperatore Onorio l’autorizzazione a insediare i suoi nei territori danubiani. L’eliminazione, il 22 agosto 408, del potentissimo Stilicone aveva creato un vuoto politico e militare, di cui il Goto aveva saputo approfittato, trovandosi spianata la strada per Roma. Tra l’altro, nello stesso anno, l’armata alariciana era stata ingrossata dagli uomini dei reparti ausiliari germanici – circa 30.000 soldati, secondo Zosimo di Panopoli (V 35, 5-6) – che avevano prestato servizio sotto il defunto Stilicone, furibondi per il massacro di donne e bambini perpetrato dalle truppe imperiali a seguito dell’assassinio del “generalissimo”. Per parte sua, Alarico, che non aveva certo ambizioni di conquista in Italia, «ricordando dei patti stipulati a suo tempo con Stilicone» e la promessa di 4.000 libbre d’oro, mirava a ottenere che l’imperatore onorasse tali accordi. Così, aveva tentato di negoziare, mandando un’ambasceria a Ravenna per chiedere la pace in cambio di una modesta somma di denaro per i suoi uomini e uno scambio di ostaggi, ma Onorio aveva respinto le sue richieste (Zos. V 36, 1; cfr. Iord. Get. 30, 152). Continuando a gravare sulla Penisola la minaccia alariciana, l’imperatore, consigliato dal magister officiorum Olimpio, si era limitato a porre a capo dell’esercito uomini inetti e «adatti solo a suscitare il disprezzo dei nemici» (καταφρόνησιν ἐμποιῆσαι τοῖς πολεμίοις ἀρκοῦντας): Turpilione, Varane e Vigilanzio.

Flavio Onorio. Solidus, Ravenna post 408. AV 4,47 g. Recto: D(ominus) N(oster) Honori-us P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto elmato, perlato-diademato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.

Alarico, invece, «poiché aveva intenzione di intraprendere un’impresa tanto importante in condizioni di netta superiorità e non di semplice parità» (ἐπεὶ δὲ μεγίστοις οὕτως πράγμασιν οὐκ ἐκ τοῦ ἴσου μόνον ἀλλὰ καὶ ἐκ μείζονος ὑπεροχῆς ἐγχειρῆσαι διενοεῖτο), aveva richiamato dalla Pannonia superior suo cognato Ataulfo perché gli portasse dei rincalzi gotici e unni e quello, durante la marcia verso Roma, aveva devastato la Penisola senza incontrare resistenza (Zos. V 37, 1-3).

L’Urbe, stretta d’assedio, fu flagellata dalla carestia, poiché il blocco dell’accesso al Tevere impediva la fornitura dei viveri attraverso il porto, e dalle epidemie, perché i cadaveri non potevano essere seppelliti fuori dalle mura a causa delle truppe di Alarico che stazionavano presso le porte. Gli abitanti della città decisero di resistere nella speranza che da Ravenna giungessero aiuti (Zos. V 39, 2-3). Alla fine, i Romani decisero di mandare al nemico un’ambasceria composta dall’ex praefectus urbi Basilio e da Giovanni, già primicerius notariorum, per dichiarare che sarebbero stati disposti a combattere all’ultimo sangue. Quando Alarico, ricevuti i delegati, ascoltò le loro parole, si mise a ridere per quell’atteggiamento un po’ fanfarone – vista la situazione; allora, parlando di pace, il condottiero «diceva che non avrebbe desistito dall’assedio, se non avesse ottenuto tutto l’oro e l’argento della città e, inoltre, tutte le suppellettili che trovasse e i servi di origine barbara» (ἔλεγε γὰρ οὐκ ἄλλως ἀποστήσεσθαι τῆς πολιορκίας, εἰ μὴ τὸν χρυσὸν ἅπαντα, ὅσον ἡ πόλις ἔχει, καὶ τὸν ἄργυρον λάβοι, καὶ πρὸς τούτοις ὅσα ἐν ἐπίπλοις εὕροι κατὰ τὴν πόλιν καὶ ἔτι τοὺς βαρβάρους οἰκέτας). A uno degli ambasciatori che gli chiedeva che cosa sarebbe rimasto alla città, se mai avesse ottenuto tutto ciò, Alarico avrebbe risposto: «Le vite umane» (Zos. V 40). La popolazione di Roma, in preda alla disperazione, si rivolse allora alle divinità antiche e il prefetto della città Pompeiano, consultati alcuni Etruschi, raccomandò al vescovo Innocenzo I di non tenere conto delle cerimonie pagane fintanto che fossero celebrate in forma privata. Ma se ciò tranquillizzò in parte quei Romani che provavano ancora nostalgia verso la tradizione antica, la mossa successiva ebbe l’effetto opposto: infatti, per poter pagare quanto Alarico chiedeva, le statue d’oro e d’argento delle divinità vennero portate via dai templi. Secondo il pagano Zosimo, questo episodio rappresentò l’inizio della fine di Roma: «I Romani persero il coraggio e il valore: così allora avevano profetizzato coloro che si occupavano di cose divine e di riti tradizionali» (ὅσα τῆς ἀνδρείας ἦν καὶ ἀρετῆς παρὰ Ῥωμαίοις ἀπέσβη, τοῦτο τῶν περὶ τὰ θεῖα καὶ τὰς πατρίους ἁγιστείας ἐσχολακότων ἐξ ἐκείνου τοῦ χρόνου προφητευσάντων, Zos. V 41, 7). Ad Alarico furono promesse «5.000 libbre d’oro, 30.000 libbre d’argento, 4.000 tuniche di seta, 3.000 pelli scarlatte e 3.000 libbre di pepe» (πεντακισχιλίας μὲν χρυσοῦ λίτρας, τρισμυρίας τε πρὸς ταύταις ἀργύρου, σηρικοὺς δὲ τετρακισχιλίους χιτῶνας, ἔτι δὲ κοκκοβαφῆ τρισχίλια δέρματα καὶ πέπερι σταθμὸν ἕλκον τρισχιλίων λιτρῶν, Zos. V 41, 4); dopo aver ricevuto un parte di quanto gli era dovuto, il comandante goto fece aprire le porte della città per consentire agli abitanti di rifornirsi di viveri, concedendo loro tre giorni di mercato: questa fu l’occasione per i suoi soldati di vendere alimenti a prezzi altissimi (Zos. V 42).

Alarico allora si ritirò da Roma e pose l’accampamento in Etruria, continuando comunque a inviare richieste a Ravenna: chiese tributi annuali in denaro e grano e alloggi per la sua gente in entrambe le Venetiae, in Noricum e in Dalmatia (Zos. V 48, 3). Giovio, praefectus praetorio, mandato come ambasciatore da Onorio presso Alarico per i negoziati, riferì all’imperatore che il Visigoto si sarebbe con tutta probabilità accontentato anche di meno si gli fosse stato concesso il titolo di magister utriusque militiae, già appartenuto a Stilicone, ma Onorio acconsentì ai versamenti di denaro e grano, rifiutando di concedere quella dignità. Il divieto dell’imperatore di conferire ai Goti cariche o comandi romani, sentito come un affronto, mandò Alarico su tutte le furie: egli prontamente diede ordine alla sua armata di dirigersi nuovamente su Roma (Zos. V 49). Secondo Zosimo, pur continuando a negoziare, il condottiero goto mandò «i vescovi di ciascuna città come ambasciatori, perché esortassero nel contempo l’imperatore a non permettere che la città, che regnava su gran parte della Terra da più di mille anni, fosse abbandonata alla devastazione dei barbari, e che edifici di notevole grandezza venissero distrutti dal fuoco nemico; accettasse piuttosto di concludere le trattative a condizioni molto moderate» (τοὺς κατὰ πόλιν ἐπισκόπους ἐξέπεμπε πρεσβευσομένους ἅμα καὶ παραινοῦντας τῷ βασιλεῖ μὴ περιιδεῖν τὴν ἀπὸ πλειόνων ἢ χιλίων ἐνιαυτῶν τοῦ πολλοῦ τῆς γῆς βασιλεύουσαν μέρους ἐκδεδομένην βαρβάροις εἰς πόρθησιν, μηδὲ οἰκοδομημάτων μεγέθη τηλικαῦτα διαφθειρόμενα πολεμίῳ πυρί, θέσθαι δὲ τὴν εἰρήνην ἐπὶ μετρίαις σφόδρα συνθήκαις, Zos. V 50, 2). Alarico, dunque, rinunciava alla sua richiesta delle regioni adriatiche in cui insediare la sua gente, accontentandosi delle due province danubiane del Noricum, territorio che – come veniva fatto notare all’imperatore – non rappresentava una grave perdita poiché era «devastato da continue incursioni e dava un modesto contributo alle casse dello Stato» (συνεχεῖς τε ὑφισταμένους ἐφόδους καὶ εὐτελῆ φόρον τῷ δημοσίῳ εἰσφέροντας, Zos. V 50, 3).

Flavio Valente o Flavio Onorio. Busto, marmo, fine IV secolo-inizi V secolo. Roma, Musei Capitolini

Quanto accadde in seguito dimostra, comunque, che Alarico continuò a manovrare politicamente anziché guidare l’esercito a Roma: minacciando di prendere la città con la forza, il condottiero goto impose ai Romani di passare dalla sua parte contro Onorio e pretese che il Senato dichiarasse il Teodoside decaduto e insediasse Prisco Attalo. Per parte sua, costui, eminente membro del venerando consiglio e già comes sacrarum largitionum, si dimostrò disponibile a collaborare con i Visigoti, convertendosi all’Arianesimo e facendosi battezzare dal vescovo Sigesaro (Zos. VI 6-7; Sozom. HE. IX 9). Tuttavia, le trattative diplomatiche si conclusero con un nulla di fatto: Onorio, alla fine, temendo di perdere la porpora, offrì di condividere con Attalo la carica imperiale, ma Attalo non accettò; allora, l’Augustus rispose dando ordine a Eracliano, comes Africae, di bloccare le forniture di grano all’Italia; quando poi l’usurpatore, sollecitato da Alarico a inviare contingenti in Africa, oppose il proprio rifiuto, i Goti lo deposero (Zos. VI 11-12). Alarico tentò ancora di negoziare con Onorio ma, attaccato dalle truppe imperiali, decise infine di tornare indietro e di completare il sacco di Roma. Lo storico Zosimo, che era pagano, attribuisce a Onorio e ai suoi consiglieri tutte le colpe di quanto accadde in seguito: «A tal punto era cieca la mente di coloro che amministravano lo Stato, privati della provvidenza divina» (τοσοῦτον ἐτύφλωττεν ὁ νοῦς τῶν τότε τὴν πολιτείαν οἰκονομούντων, θεοῦ προνοίας ἐστερημένων, Zos. V 51, 2).

Prisco Attalo. Siliqua, Roma, 409-410. AR 2,32 g. Recto: Priscus Attalus P(ius) F(elix) Aug(ustus). Busto perlato-diademato, drappeggiato e corazzato, voltato a destra

Il 24 agosto 410, dopo una pressione esercitata per almeno un paio d’anni, ebbe inizio il vero e proprio sacco di Roma, che si protrasse per tre giorni. Secondo alcuni storici, Alarico sarebbe riuscito a entrare a Roma con l’aiuto di certi servi goti che si trovavano in città (cfr. Procop. Vand. I 2, 13-23). L’eco delle devastazioni e delle atrocità commesse in quella circostanza dai soldati alariciani si diffuse immediatamente per ogni dove, trasmessa e amplificata nei toni più drammatici da quanti, superstiti e in fuga, avevano assistito allo scempio. Un secolo più tardi Procopio di Cesarea raccontò che quando Onorio, al sicuro nel suo palazzo, fu informato della morte di Roma sarebbe scoppiato in lacrime e lamenti, ma si sarebbe tranquillizzato allorché gli fu spiegato che si trattava della città di Roma e non di Roma, il suo gallo prediletto:

«Si narra che, a Ravenna, fu un eunuco – a quanto pare un guardiano del pollaio – ad annunciare all’imperatore Onorio che Roma era perita, e che egli esclamò, mettendosi a gridare: “Ma se soltanto adesso ha mangiato dalle mie mani!”. Possedeva infatti un gallo gigantesco, che aveva nome Roma. L’eunuco, capito l’equivoco, precisò che era stata la città di Roma a cedere per opera di Alarico, e allora l’imperatore, con sollievo, rispose tranquillamente: “Oh, mio caro! E io temevo che fosse morto il mio gallo!”. Tanta, si dice, era la stoltezza che offuscava la mente di questo imperatore».

τότε λέγουσιν ἐν Ῥαβέννῃ Ὁνωρίῳ τῷ βασιλεῖ τῶν τινα εὐνούχων δηλονότι ὀρνιθοκόμον ἀγγεῖλαι ὅτι δὴ Ῥώμη ἀπόλωλε. καὶ τὸν ἀναβοήσαντα φάναι “Καίτοι ἔναγχος ἐδήδοκεν ἐκ χειρῶν τῶν ἐμῶν”. εἶναι γάρ οἱ ἀλεκτρυόνα ὑπερμεγέθη, Ῥώμην ὄνομα, καὶ τὸν μὲν εὐνοῦχον ξυνέντα τοῦ λόγου εἰπεῖν Ῥώμην τὴν πόλιν πρὸς Ἀλαρίχου ἀπολωλέναι, ἀνενεγκόντα δὲ τὸν βασιλέα ὑπολαβεῖν “Ἀλλ’ ἔγωγε, ὦ ἑταῖρε, Ῥώμην μοι ἀπολωλέναι τὴν ὄρνιν ᾠήθην”. τοσαύτῃ ἀμαθίᾳ τὸν βασιλέα τοῦτον ἔχεσθαι λέγουσι.

(Procop. Vand. I 2, 25-26)

John William Waterhouse, I favoriti dell’imperatore Onorio. Olio su tela, 1883. Adelaide, Art Gallery of South Australia.

Una reazione più normale ebbe invece Sofronio Eusebio Girolamo, il quale si trovava a Betlemme, quando, nella lettera alla sua discepola Principia (Hier. Ep. VI 127, 12), le riferì di una terribile notizia giunta da Occidente. Si venne a sapere che Roma era assediata e che i suoi abitanti stavano comprando la propria salvezza con l’oro:

«Mentre così vanno le cose a Gerusalemme, dall’Occidente ci giunge la terribile notizia che Roma viene assediata, che si compra a peso d’oro la incolumità dei cittadini, ma che dopo queste estorsioni riprende l’assedio: a quelli che già sono stati privati dei beni si vuol togliere anche la vita. Mi viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di dettare. “La città che ha conquistato tutto il mondo è conquistata”: anzi, cade per fame prima ancora che per l’impeto delle armi, tanto che a stento vi si trova qualcuno da prendere prigioniero. La disperata bramosia fa sì che ci si getti su cibi nefandi: gli affamati si sbranano l’uno con l’altro, perfino la madre non risparmia il figlio lattante e inghiotte nel suo ventre ciò che ha appena partorito. “Moab fu presa, di notte sono state devastate le sue mura”. “O Dio, sono penetrati i pagani nella tua eredità, hanno profanato il tuo santo tempio; hanno ridotto Gerusalemme in rovine. Hanno dato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, i corpi dei tuoi fedeli alle bestie selvatiche. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme, e non c’è chi seppellisca”.

“Come ridire la strage, i lutti di quella notte? / Chi può la rovina adeguare col pianto? / Cadeva la città vetusta, sovrana nel tempo: / un gran numero di cadaveri erano sparsi / per le strade e anche nelle case. /Era l’immagine moltiplicata della morte”».

Dum haec aguntur in Iebus, terribilis de Occidente rumor adfertur, obsideri Romam, et auro salutem ciuium redimi, spoliatosque rursum circumdari, ut post substantiam, uitam quoque amitterent. haeret uox, et singultus intercipiunt uerba dictantis. capitur Urbs, quae totum cepit orbem; immo fame perit antequam gladio, et uix pauci qui caperentur, inventi sunt. ad nefandos cibos erupit esurientium rabies, et sua inuicem membra laniarunt, dum mater non parcit lactanti infantiae, et recipit utero, quem paulo ante effuderat. nocte Moab capta est, nocte cecidit murus eius [Is. 15, 1]. Deus, uenerunt gentes in hereditatem tuam, polluerunt templum sanctum tuum. posuerunt Hierusalem in pomorum custodiam; posuerunt cadauera seruorum tuorum escas uolatilibus caeli, carnes sanctorum tuorum bestiis terrae; effuderunt sanguinem ipsorum sicut aquam in circuitu Hierusalem, et non erat qui sepeliret [Psalm. 79, 1-3].

Quis cladem illius noctis, quis funera fando / explicet, aut possit lacrimis aequare dolorem? / Urbs antiqua ruit, multos dominata per annos; / plurima, perque uias sparguntur inertia passim / corpora, perque domos, et plurima mortis imago” [Verg. Aen. II 361-365].

Il fatto che Roma, in quel frangente, fosse stata violata e fosse rimasta inerme alla mercé di un’orda barbarica per più giorni scatenò una violenta polemica tra i cristiani e i pagani: questi ultimi non mancarono di far notare come la Roma della tradizione, protetta dagli dèi, avesse saputo non solo preservarsi per secoli dalla violenza delle externae gentes, ma anche espandersi fino a creare un impero di straordinarie dimensioni e vigore, mentre ora i sepolcri degli apostoli di Cristo non avevano saputo tutelarla dalle spade di Alarico e dei suoi.

Evariste-Vital Luminais, Il sacco di Roma.

Il De civitate Dei, che Aurelio Agostino, vescovo di Ippona, iniziò nel 413, fu un’altra risposta diretta tanto a quell’evento traumatico quanto alla polemica degli intellettuali: egli doveva dimostrare ai pagani che la devastazione della città non era una conseguenza dell’abbandono degli dèi, ma allo stesso tempo doveva anche rassicurare i cristiani incapaci di comprendere perché le sofferenze ricadessero pure su di loro. L’opera del prelato africano è pressoché contemporanea agli eventi narrati e non minimizza le violenze perpetrate: le donne furono violentate; così tanta gente fu ammazzata che i cadaveri giacevano dappertutto senza sepoltura; moltissimi furono fatti prigionieri (August. De civ. D. I 12, 1; 16). In Agostino, come in altri pensatori cristiani, il commento dei fatti del 410 trascendeva però i termini della polemica spicciola con i pagani circa l’«efficacia difensiva» delle rispettive divinità, per aprirsi a una riflessione più ampia sulla Storia e sulla ragione stessa dell’Impero cristiano. La sua grande opera era tesa a ricondurre tutto entro una visione provvidenzialistica della Storia, diretta all’avvento della «città di Dio», estranea a quella terrena; in questa chiave ogni accadimento storico, compreso il saccheggio alariciano, trovava una giustificazione negli imperscrutabili disegni celesti.

Raffaello Sanzio, Incendio di Borgo. Dettaglio con il quadriportico con dietro la facciata dell’antica basilica di San Pietro. Affresco, 1514. Città del Vaticano, Stanze Vaticane.

Gli scrittori cristiani posteriori sentirono l’esigenza di ridimensionare la barbarie dei Visigoti, e ne sottolinearono invece la pietas: sebbene fossero ariani, essi avevano dimostrato maggiore rispetto verso Dio e i luoghi consacrati di quanto non avessero fatto gli stessi Romani, sia cattolici sia pagani (cfr. Iord. Get. 30, 156). Anzi, negli Historiarum adversus paganos libri VII di Paolo Orosio Alarico diventava un mero strumento dell’indignazione divina per castigare i Romani dei loro comportamenti superbi, lascivi e blasfemi. Il condottiero barbaro, per esempio, avrebbe dato ordine ai suoi uomini di non violare i sacrari delle basiliche di San Pietro e di San Paolo, dove molti cittadini avevano cercato rifugio (Oros. VII 39, 1); una donna aveva lottato contro un guerriero che la voleva stuprare e lo aveva provocato fino quasi al punto di farsi uccidere, ma il violentatore avrebbe ceduto alla compassione e l’avrebbe accompagnata al sicuro nella basilica di San Pietro (Sozom. HE. IX 10); un altro soldato sarebbe entrato nella casa di pie donne esigendo oro e argento, gli sarebbero stati mostrati dei vasi liturgici appartenenti a San Pietro ed egli li avrebbe consegnati ad Alarico; questi, poi, li avrebbe fatti rispettosamente riportare nella basilica (Oros. VII 39, 3-7). Se si deve credere a Orosio, infine, Alarico avrebbe addirittura organizzato una stupenda cerimonia per simboleggiare l’unione dei popoli in Cristo: la pia processione si sarebbe svolta tra due file di spade sguainate e gli abitanti della città e gli invasori, insieme, avrebbero elevato un inno a Dio (Oros. VII 39, 8-9). L’interpretazione del presbitero spagnolo si preoccupava non tanto di ridimensionare l’accaduto, quanto di inserirlo in una visione complessiva, capace di spiegare gli eventi storici attribuendoli comunque alla volontà divina, ricomponendo il trauma e superando quindi l’immediato sconforto.

Alarico. Illustrazione di P. Kruklidis.

Questa visione del sacco di Roma è probabilmente frutto più della retorica sul nobile barbaro che della realtà storica. Un esempio analogo di retorica lo ritroviamo nel V secolo, negli scritti di Salviano di Marsiglia (Salvian. De gubern. D. VII). In base alle tante prove conservate possiamo affermare che i tre giorni di saccheggio non ebbero un impatto meramente psicologico. Anche Orosio ammette che nel 417 a Roma si potevano ancora vedere edifici distrutti dall’incendio, sebbene si affretti ad aggiungere che i fulmini (segno evidente della disapprovazione divina) avevano appiccato più incendi di quanto non avessero fatto i Goti. La casa dello storico Sallustio era ancora mezza distrutta alla metà del VI secolo, stando a quanto ci riferisce Procopio (Procop. Vand. I 2, 24). Fra il 430 e il 440 l’imperatore Valentiniano III finanziò il ripristino di un fastigium d’argento (una struttura a forma di baldacchino a coronamento di un altare) – che si dice pesasse 1.610 libbre –, che i barbari avevano sottratto dalla basilica costantiniana del Laterano (Lib. pont. 46, fecit autem Valentinianus Augustus ex rogatu Xysti episcopi fastidium argenteum in basilica Constantiniana, quod a barbaris sublatum fuerat, qui habet pens. libras ĪDCX).

Non ci furono soltanto danni materiali, ma anche forti ripercussioni sociali. Molti vennero fatti prigionieri dai Goti, inclusi uomini di Chiesa e la stessa Galla Placidia, sorellastra di Onorio. In tanti abbandonarono le loro proprietà e fuggirono da Roma e, quando i Goti si spostarono a sud dell’Urbe, lasciarono addirittura l’Italia. Lo studioso biblico Tirannio Rufino di Aquileia, con l’egocentrismo e la monomaniacalità tipica del vero erudito, nel Prologus alle Omelie sui Numeri di Origene, protestò seccato: «E infatti alla nostra vista, come infatti tu stesso puoi vedere, il barbaro, che appiccava fiamme alla città di Reggio, era tenuto lontano da noi dal solo brevissimo stretto, dove il suolo d’Italia si divide da quello di Sicilia. Ebbene, in queste condizioni, come posso trovare la tranquillità di mente necessaria per scrivere e soprattutto per tradurre?» (In conspectu etenim, ut videbas etiam ipse, nostro Barbarus, qui Regino oppido miscebat incendia, angustissimo a nobis freto, ubi Italiae solum Siculo dirimitur, arcebatur. In his ergo posito, quae esse ad scribendum securitas potuit, et praecipue ad interpretandum, ubi non ita proprios expedire sensus, ut alienos aptare proponitur?, Ruf. prol. ad Orig. in num. Homil., PG XII, pp. 583-586).

Leonardo da Vinci, San Girolamo penitente. Olio su pannello, 1480. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana.

Sull’altra sponda del Mediterraneo, Gerolamo, acerrimo nemico di Rufino, dovette interrompere i suoi monumentali Commentarii in Ezechielem prophetam, distratto dall’arrivo della notizia del sacco di Roma. Il biblista non riusciva a nascondere il proprio incredulo sgomento di fronte al quadro sconsolante al quale gli toccava di assistere. Proprio nella prefazione al III libro dei Commentarii egli si chiedeva con angoscia: «Chi potrebbe credere che sarebbe crollata Roma, costruita per i conquistatori del mondo intero, che essa stessa sarebbe diventata per i suoi popoli madre e sepolcro, che un tempo fu signora di tutti quanti i lidi d’Oriente, d’Egitto e d’Africa, li avrebbe riempiti di una massa di servi e di serve, che la santa Betlemme avrebbe accolto ogni giorno mendicanti, che, un tempo nobili di entrambi i sessi e assai ricchi, giungono a fiumi?» (Quis crederet ut totius orbis exstructa victoriis Roma corrueret, ut ipsa suis populis et mater fieret et sepulcrum, ut tota Orientis, Aegypti, Africae littora olim dominatricis urbis, servorum et ancillarum numero complerentur, ut quotidie sancta Bethleem, nobiles quondam utriusque sexus, atque omnibus divitiis affluentes, susciperet mendicantes?, Hier. in Ezechiel. III praef. 2).

Agostino di Ippona. Affresco, c. VI secolo. Roma, Basilica di S. Giovanni in Laterano.

Agostino non si dimostrò altrettanto comprensivo quando i profughi giunsero a Cartagine, e rimarcò che, nonostante tutto il mondo fosse in lutto per il loro tragico destino, non facevano altro che andarsene a teatro e divertirsi: «Questa pestilenza accecò le anime dei miseri in modo tanto tenebroso, le macchiò in modo tanto infame, che, una volta distrutta Roma – e forse sarà incredibile per i posteri! –, quelli che ne erano posseduti e riuscirono con la fuga a raggiungere Cartagine, impazzivano a gara ogni giorno, nei teatri, dietro gli istrioni. O menti dementi! È tanto grande questo errore – o piuttosto questo furore – che, mentre i popoli d’Oriente piangono la vostra fine e le città più grandi e lontane manifestano lutto e afflizione, voi cercate, frequentate, riempite i teatri e fate pazzie maggiori di prima?» (quae [pestilentia] animos miserorum tantis obcaecavit tenebris, tanta deformitate foedavit, ut etiam modo – quod incredibile forsitan erit, si a nostris posteris audietur – Romana Urbe vastata, quos pestilentia ista possedit atque inde fugientes Carthaginem pervenire potuerunt, in theatris cotidie certatim pro histrionibus insanirent. O mentes amentes! quis est hic tantus non error, sed furor, ut exitium vestrum, sicut audivimus, plangentibus orientalibus populis et maximis civitatibus in remotissimis terris publicum luctum maeroremque ducentibus vos theatra quaereretis intraretis impleretis et multo insaniora quam fuerant antea faceretis?, August. De civ. D. I 32-33).

Per Procopio, che scriveva nel VI secolo, le gravi conseguenze del sacco perpetrato dai Goti non si fecero sentire soltanto sulla città di Roma, ma su gran parte dell’Italia: «Distrussero così radicalmente le città espugnate, che nulla è rimasto ai nostri giorni in ricordo di esse, specialmente delle città a sud del Golfo Ionico, eccetto qualche torrione o l’arco di una porta o qualcosa del genere, rimasto in piedi per caso. Uccisero tutte le persone che incontrarono sul loro cammino, sia vecchi sia giovani, senza risparmiare né le donne né i bambini. Di conseguenza, anche oggi l’Italia si trova a essere scarsamente popolata». (πόλεις τε γάρ, ὅσας εἷλον, οὕτω κατειργάσαντο ὥστε οὐδὲν εἰς ἐμὲ αὐταῖς ἀπολέλειπται γνώρισμα, ἄλλως τε καὶ ἐντὸς τοῦ Ἰονίου κόλπου, πλήν γε δὴ ὅτι πύργον ἕνα ἢ πύλην μίαν ἤ τι τοιοῦτο αὐταῖς περιεῖναι ξυνέβη· τούς τε ἀνθρώπους ἅπαντας ἔκτεινον, ὅσοι ἐγένοντο ἐν ποσίν, ὁμοίως μὲν πρεσβύτας, ὁμοίως δὲ νέους, οὔτε γυναικῶν οὔτε παίδων φειδόμενοι. ὅθεν εἰς ἔτι καὶ νῦν ὀλιγάνθρωπον τὴν Ἰταλίαν ξυμβαίνει εἶναι, Procop. Vand. I 2, 11-12).

Ricostruzione di un guerriero visigoto. Illustrazione di A. Gagelmann.

Ciò sembra essere confermato da quanto Rutilio Namaziano scrive nel poema che narra il viaggio da lui intrapreso nel 416 per tornare da Roma a casa sua in Gallia. Egli fu costretto a prendere il mare in quanto il viaggio via terra, lungo l’Aurelia, non era più sicuro perché i ponti erano stati distrutti dai Goti, le stazioni di posta (cursus publicus) non erano più garantite, e lungo la strada si poteva incappare in bande di predoni e mercenari allo sbando: «Si sceglie il mare, perché le vie di terra, fradice in piano per i fiumi, sulle alture sono aspre di rocce: dopo che i campi di Tuscia, dopo che la via Aurelia, sofferte a ferro e fuoco le orde dei Goti, non domano più le selve con locande, né i fiumi con ponti: è meglio affidare le vele al mare, benché incerto» (Electum pelagus, quoniam terrena viarum / plana madent fluviis, cautibus alta rigent. / Postquam Tuscus ager postquamque Aurelius agger / perpessus Geticas ense vel igne manus / non silvas domibus, non flumina ponte cohercet, / incerto satius credere vela mari, Rutil. Namat. 37-42).

Hubert Robert, Acquedotto in rovina.

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Riferimenti bibliografici:

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Cecilio Stazio, un grande commediografo

di G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 49-51.

Maschera comica. Mosaico, ante 79 d.C. dalla Casa del Fauno (VI 12, 2-5), Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

  1. Vita

Come Andronico e Terenzio, Cecilio Stazio era un liberto di origine straniera. Veniva, pare, da Mediolanum ed era perciò un Gallo insubre; dato che l’acme della sua produzione si colloca intorno al 180 a.C., è verosimile che egli sia stato portato a Roma dopo la battaglia di Clastidium del 222. La data di nascita potrebbe, dunque, essere tra il 230 e il 220; la sua attività letteraria colloca Cecilio come contemporaneo prima di Plauto e poi di Ennio. Di quest’ultimo, in particolare, fu amico intimo. Morì un anno dopo di lui, nel 168, e i due poeti furono sepolti vicino.

La notizia che il giovane Terenzio leggesse al vecchio Cecilio la sua prima opera, l’Andria, è probabilmente un falso destinato a meglio riconnettere fra loro i due più stimati successori di Plauto. È noto, invece, che l’Andria andò in scena solo nel 166. Comunque, come Terenzio, anche Cecilio fu strettamente legato all’influente attore e soprattutto impresario teatrale Ambivio Turpione.

  1. Opere

Di Cecilio Stazio restano una quarantina di titoli, tutti di commedie palliate e frammenti per quasi trecento versi. La commedia di gran lunga meglio conosciuta è il Plocium (“La collana”). I titoli hanno sia forme greche – ad esempio, Ex hautoù hestòs (“Quello che sta in piedi da sé), Gamos (“Le nozze”), Epikleros (“L’ereditiera”), Synaristòsai (“Le donne a colazione”) e Synépheboi (“I compagni di gioventù”) – sia latine – quali, ad esempio, Epistula (“La missiva”) e Pugil (“Il puglile”) –, ma pure forme doppie, come Obolostàtes/Faenerator (“Lo strozzino”).

  1. Fonti

Informazioni biografiche dell’autore provengono dal Chronicon di San Girolamo e risalgono, in ultima analisi, al De poetis di Varrone. Tra i giudizi più importanti si possono citare: Cicerone, De optimo genere oratorum 1, 2; Orazio, Epistulae 2, 1, 59; Velleio Patercolo 1, 17, 1; Quintiliano 10, 1, 99; Gellio 2, 23 e 15, 24. Cecilio fu letto e apprezzato in tutta l’età repubblicana, ma pure in quella imperiale sino almeno al II secolo d.C.

  1. La fortuna di Cecilio presso gli antichi

Le ragioni per cui Cecilio Stazio è trattato, nei manuali di storia letteraria, come un minore sono del tutto accidentali e dipendono dalla perdita dei suoi testi. Grandi intellettuali e profondi conoscitori di letteratura quali Varrone, Cicerone e Orazio valutarono Cecilio come un autore di primo rango, per niente inferiore a Plauto e a Terenzio. Orazio lo elogiava per la serietà dei sentimenti e Varrone approvava i suoi intrecci; solo sulla purezza del suo uso latino permaneva, in Cicerone, qualche riserva (Brutus 258, 3; ad Att. 7, 3, 10). Il canone dei più apprezzati poeti comici di Roma, stilato intorno al 100 a.C. dall’erudito Volcacio Sedigito, pose Cecilio al primo posto, davanti a Plauto. La scomparsa della sua produzione non è dovuta, quindi, a un discredito o ad una manifesta inferiorità rispetto ad altri classici.

  1. Il rispetto dei modelli

La posizione storica di Cecilio suggerisce una sorta di intermediazione fra Plauto e Terenzio. Qualche indizio conferma questa posizione mediana. Gran parte dei frammenti che sono pervenuti si iscrive perfettamente nell’atmosfera del teatro plautino: grande ricchezza di metri, vivace fantasia comica, sanguigno gusto per il farsesco. Rispetto a Plauto, però, Cecilio sembra, in un certo senso, più vicino al modello della Commedia Nea ateniese; quanto meno, i titoli che si hanno sono riproduzioni molto fedeli (a volte letterali: ad esempio, Plocium dal Plokion di Menandro) dei titoli degli originali greci. Inoltre, è assente dai titoli la figura dello schiavo: in Plauto, la passione per questo personaggio dominava anche i titoli (si veda, ad esempio, lo Pseudolus) e andava spesso a trasformare le linee del modello greco per crearsi un maggiore spazio vitale. Si ha, dunque, l’impressione che Cecilio fosse un po’ più rispettoso dei modelli. Inoltre, egli sembra avere una predilezione decisa per Menandro: per quasi metà dei titoli attestati, infatti, si può proporre una derivazione affatto menandrea.

  1. Somiglianze tra Cecilio e Terenzio

Interesse per Menandro e più sorvegliata adesione al modello greco via via adottato (in rapporto con una fase sempre più dotta ed ellenizzante della cultura romana), dunque, sono tratti che accostano Cecilio a Terenzio e lo staccano da Plauto. Non si ha, invece, alcuna prova che Cecilio anticipasse aspetti fondamentali tipici della nuova maniera terenziana, quali la rinuncia a certe varietà metriche, la riduzione degli effetti farseschi e sboccati, l’approfondimento psicologico. Del resto, è noto che Terenzio rimase un isolato nella tradizione della palliata.

  1. Il vertere di Cecilio: un confronto con il modello

Il relitto più interessante dell’opera ceciliana deriva da un paragrafo delle Noctes Atticae di Gellio (2, 23), in cui l’erudito istituisce un puntuale confronto tra un passo del Plocium e uno corrispondente del modello seguito, il Plokion menandreo: si consideri che – prima della recente scoperta di un papiro del Dis exapatòn di Menandro, confrontabile con i passi delle Bacchides di Plauto – si trattava dell’unica occasione utilizzabile per comparare un brano abbastanza corposo di palliata con il relativo modello greco. Si nota così chiaramente quanto libero sia il rifacimento che i Romani chiamavano vertere: le innovazioni portate da Cecilio sul tessuto della sua fonte sono giudicate da Gellio con una certa severità e sono indubbiamente significative di una poetica comica autonoma. In Menandro si ha un marito che si lamenta perché la moglie bisbetica ha cacciato di casa la giovane ancella: «ha buttato fuori di casa, come voleva, la fanciulla che le dava ombra, perché tutti volgano gli sguardi al volto di lei e sia ben chiaro che è lei la mia padrona…». Nello sviluppo di Cecilio questo è solo un canovaccio: egli inserisce, secondo un suo gusto caratteristico, una massima di carattere generale in apertura: «Quell’uomo, appunto, è un disgraziato che non sa nascondere il suo patire…»; Cecilio, insomma, approfondisce enfaticamente il motivo della “schiavitù” dell’uomo sposato e dà corpo alla frustrazione del marito facendo sì che questi si immagini una colorita scena di donne pettegole, in cui la vecchia e brutta moglie si vanta del suo trionfo. Più in generale, il tranquillo monologo menandreo è stato convertito in un’aria farsesca, in un canticum. Da altri confronti è possibile ravvisare che Cecilio non arretrava di fronte a tinte ancora più forti, caricando sui misurati copioni menandrei anche lazzi e battutacce: «quando rientro a casa, mia moglie mi dà subito un bacio a stomaco vuoto… Non lo fa per sbaglio: vuole che tu vomiti quello che ti sei bevuto fuori casa». Come Plauto, insomma, anche Cecilio non si sforzava tanto di “rinarrare” ciò che era benissimo riuscito a Menandro o a Difilo, quanto di reinventare le storie dei modelli secondo una nuova e autonoma poetica teatrale.

  1. Bibliografia

I frammenti sono stati raccolti da O. RIBBECK, Die römische Tragödie im Zeitalter der Republik, Leipzig 1875 (rist. Hildesheim 1968); inoltre, da T. GUARDI, I frammenti. Cecilio Stazio, Palermo 1974. Alcune informazioni biografiche sono state raccolte da F. SKUTSCH, s.v. Caecilius (25), RE 3, 1 (1897), coll. 1189-1192. Le migliori analisi (dopo F. LEO, Geschichte der römische Literatur, Berlin 1913, pp. 217-226) sono venute da A. TRAINA, Vortit barbare. Le traduzioni poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma 19742, pp. 41-53, e ID., Comoedia. Antologia della palliata, Padova 19692, pp. 95 ss. Si vedano, inoltre, J. WRIGHT, Dancing in Chiains. The Stylistic Unity of the “Comoedia Palliata”, Roma 1974, pp. 86 ss. e, per il confronto Cecilio-Menandro, L. GAMBERALE, La tradizione in Gellio, Roma 1969.

9. Studi ulteriore [ndr]

G. ARICÒ, Cicerone e il teatro. Appunti per una rivisitazione della problematica, in E. NARDUCCI (ed.), Cicerone tra antichi e moderni. Atti del IV Symposium Ciceronianum Arpinas (Arpino 9 maggio 2003), Firenze 2004, pp. 6-37.

W. BEARE, I Romani a teatro, Roma-Bari,

J. BLÄNSDORF, Caecilius Statius, in W. SUERBAUM (ed.), Die archaische Literatur. Von den Anfängen bis Sullas Tod (= Handbuch der lateinischen Literatur der Antike, Band 1), München 2002, pp. 229-231.

M. CIPRIANI, Homo homini deus: la malinconica sentenziosità di Cecilio Stazio, PhAnt 3 (2010), pp. 117-160.

W.D.C. DE MELO, Plautus’s Dramatic Predecessors and Contemporaries in Rome, in M. FONTAINE, A.C. SCAFURO (eds.), The Oxford Handbook of Greek and Roman Comedy, Oxford-New York 2014, pp. 447-461.

G.F. FRANKO, Terence and the Tradition of Roman New Comedy, in A. AUGOUSTAKIS, A. TRAILL (eds.), A Companion to Terence, Malden 2013, pp. 33-51.

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A.H. GROTON, Planting Trees for Antipho in Caecilius Statius’ Synephebi, Dioniso 60 (1990), pp. 58-63.

K. KLEVE, Caecilius Statius, «The money-lender», Revue XXII congresso internazionale di papirologia, volume 2 (p. 725.

G. LIVAN, Appunti sulla lingua e lo stile di Cecilio Stazio, Bologne

G. MANUWALD, Roman Republican Theatre, Cambridge 2011, pp. 234-242.

S. MONDA, Le citazioni di Cecilio Stazio nella Pro Caelio di Cicerone, GIF 50 (1998), pp. 23-39.

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A. PERUTELLI, Studi sul teatro latino, a cura di G. PADUANO e A. RUSSO, Pisa 2011.

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Potere politico e predicazione cristiana in Palestina dal processo di Cristo al 62 d.C.

di M. Sordi, I cristiani e l’Impero romano, Como 20112, pp. 15-29.

La prima occasione di scontro fra l’Impero romano e il Cristianesimo fu, come è noto, il processo di Gesù di Nazareth. Non c’è dubbio – e questo lo sapeva anche Tacito (Ann. XV 44, 5) – che Gesù fu messo a morte (probabilmente nel 30 o nel 31 d.C.) da Ponzio Pilato, di cui un’iscrizione di Cesarea ha rivelato, una ventina di anni fa, il vero titolo, che non era quello di procuratore, come dice Tacito, ma di prefetto di Giudea[1]. Del processo di Gesù non interessano qui gli aspetti tecnici, costituiti, da una parte, dal significato giuridico della riunione o delle riunioni del Sinedrio e delle decisioni da esso adottate, dall’altra, dalla natura formale del procedimento condotto da Pilato, ma, in primo luogo, l’iniziativa politica: già al principio del nostro secolo, infatti, ma poi soprattutto in questi ultimi decenni, alcuni studiosi hanno tentato di ribaltare l’impostazione data al processo dai Vangeli, attribuendo al potere romano e non all’autorità giudaica l’iniziativa del processo stesso. Bisogna dire subito che, dal punto di vista scientifico, le argomentazioni di questi studiosi si sono rivelate per lo più assai fragili e di facile confutazione: esse hanno avuto, però, una certa diffusione nella cultura corrente ed hanno alimentato l’immagine fittizia di un Gesù rivoluzionario e riformatore politico, naturalmente avverso al potere romano e da esso necessariamente avversato e perseguitato.

Iscrizione onorifica a Ponzio Pilato (CIIP 2, 1277). Tabula, calcare, 26-36 d.C. dal teatro di Caesarea Maritima. Gerusalemme, Museo Archeologico: [Nauti]s(?) Tiberieum / [- – – Po]ntius Pilatus / [praef]ectus Iudae[a]e / [ref]eci[t].
Ritengo pertanto necessario esaminare brevemente la problematica posta, sotto l’aspetto che ho cercato di individuare, dal processo di Gesù.

Al centro dell’impostazione che la tradizione evangelica dà al processo e del dibattito che si è aperto fra i moderni, c’è esplicitamente o implicitamente, un dialogo che Giovanni (18, 31) fa svolgere tra Pilato e gli inviati di Caifa e del Sinedrio che gli conducono Gesù: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge». Gli risposero i Giudei: «A noi non è lecito mettere a morte nessuno». La tradizione evangelica, indipendentemente dalle varianti esistenti nel racconto dei singoli autori, è concorde nell’affermare che Gesù subì due giudizi, uno davanti al Sinedrio per bestemmia, per essersi proclamato Figlio di Dio e per aver detto che poteva distruggere il Tempio e ricostruirlo in tre giorni, e l’altro di fronte al governatore romano, per essersi proclamato re dei Giudei, cioè in definitiva, per lesa maestà: Luca (23, 2) aggiunge l’accusa di sobillare il popolo e di impedire il pagamento dei tributi a Cesare. La tradizione evangelica è pure concorde nell’affermare che, mentre nel giudizio di fronte al Sinedrio Gesù fu giudicato reo di morte, nel processo romano Pilato dichiarò a più riprese l’infondatezza dell’accusa politica e si decise a pronunziare la condanna a morte con la motivazione politica (il titulus scritto sulla croce era «re dei Giudei») solo per compiacere la folla[2]. Per i Vangeli, dunque, l’iniziativa fu dei Giudei, anche se la condanna definitiva e l’esecuzione furono dei Romani. La spiegazione dell’apparente incongruenza è fornita, appunto, da Giovanni nel passo citato: i Giudei potevano esercitare entro certi limiti il diritto di giudicare e di punire, ma non avevano il diritto di eseguire condanne a morte. Per una colpa per la quale la legge giudaica prevedeva la pena di morte essi dovevano ricorrere al tribunale romano.

Questa impostazione, che non ha mai suscitato gravi obiezioni da parte degli studiosi di diritto romano, è stata contestata, invece, dal punto di vista del diritto giudaico, con argomenti, peraltro, del tutto opposti: secondo alcuni, il Sinedrio non aveva il potere di giudicare e non poteva quindi pronunziare giudizi di nessun genere; secondo altri, invece, è questa oggi la posizione prevalente tra coloro che rifiutano l’impostazione dei Vangeli: il Sinedrio poteva condannare anche a morte e pronunziare sentenze capitali[3]. La conseguenza è simile: se l’esecuzione della condanna fu romana, anche l’iniziativa del processo deve essere stata romana. Ne deriva – e questo si presta a sviluppi importanti anche se non esplicitati in uguale modo da tutti gli autori che affermano l’iniziativa romana – che il processo di Gesù sarebbe stato un processo strettamente politico, di cui i Vangeli avrebbero oscurato il carattere originario, sia perché viziati da un atteggiamento filoromano ed antigiudaico, sia perché sarebbe stato pericoloso per una chiesa che viveva e si diffondeva in ambiente romano, ammettere che il suo fondatore era (o, comunque, era stato ritenuto) un agitatore politico messo a morte dal potere imperiale.

Gesù Cristo. Affresco (ritratto), fine IV-inizi V sec. d.C. Roma, Catacombe di Commodilla.

 

In realtà, nessuna di queste ipotesi regge alla verifica storica. Imposterò questa verifica, necessariamente sintetica, su tre punti:

 

  • l’iniziativa del processo di Gesù nelle fonti neotestamentarie e nelle testimonianze non cristiane;
  • il processo di Gesù in rapporto al diritto vigente di una provincia romana quale era la Palestina e alle prerogative lasciate normalmente dai Romani alle autorità locali;
  • la continuità dell’atteggiamento romano dal processo di Gesù a quello di Giacomo minore (62 d.C.).

 

1) L’iniziativa del processo di Gesù nelle fonti: che le principali testimonianze sul processo ci vengano dalle fonti neotestamentarie è perfettamente naturale. Sappiamo infatti quale importanza dessero i primi seguaci di Cristo alla testimonianza di coloro che erano stati insieme a Gesù nel periodo «dal battesimo di Giovanni fino al giorno dell’Ascensione» (At 1, 22). Ciò che colpisce, come ho già detto, è la perfetta concordanza, pur nella variante dei particolari (riunione o riunioni del Sinedrio, intervento di Erode, privilegio pasquale e Barabba, etc.) fra la tradizione più antica (che sembra essere confluita nel racconto della Passione di Marco e di Matteo) e quella più recente che è stata riconosciuta nel racconto di Luca e di Giovanni[4]. Tutti e quattro i racconti mostrano determinante la responsabilità dei Giudei e riducono la parte avuta da Pilato nella morte di Gesù al suo cedimento, contro voglia, alle sollecitazioni dei grandi sacerdoti e della folla.

Questa impostazione dei racconti evangelici, presente come si è visto anche nel Vangelo di Giovanni (scritto in un’epoca in cui i Cristiani avevano già conosciuto la persecuzione dello stato romano e non avevano motivi di silenzi prudenziali), concorda anche con quella presente nei discorsi riferiti dagli Atti degli Apostoli che ci conservano, pur nella normale rielaborazione, caratteristica in tutto il mondo classico, del genere letterario dei discorsi, una traccia della predicazione primitiva[5]: in tali discorsi è sempre presente il ricordo della istigazione giudaica e della resistenza di Pilato. Vale la pena di aggiungere che l’impostazione non cambia, anzi, risulta forzata dalla volontà di scagionare i Romani e Pilato dalla responsabilità della morte di Gesù, se dai Vangeli canonici passiamo agli Apocrifi: nel Vangelo di Nicodemo, che proviene, a quanto sembra, da ambienti giudaico-cristiani dell’Egitto ed è scritto in copto, perfino il gesto di Pilato che si lava le mani diventa una prova della sua innocenza: «Vedete dunque – dice Giuseppe di Arimatea – che colui che non è circonciso nelle sue carni, ma nel suo cuore, prese dell’acqua al cospetto del sole, lavò le sue mani dicendo: “Sono innocente del sangue di questo giusto”»[6].

L’affermazione che Pilato è circonciso nel cuore presuppone probabilmente la notizia, già nota nel II secolo e testimoniata da Tertulliano (Apol. XXI 24, Pilatus et ipse iam pro sua coscientia Christianus), della conversione di Pilato, che circola in tutta la chiesa antica e che porta al suo riconoscimento come martire nella tradizione copta e alla iscrizione del suo nome nel calendario dei santi presso la chiesa etiopica. Solo nel IV secolo comincia a diffondersi la leggenda della punizione di Pilato e del suo suicidio, che tanta fortuna ebbe poi nel Medioevo e sino all’età moderna[7].

L’omogeneità di posizioni che troviamo nella tradizione cristiana primitiva dal I secolo al IV d.C. nel riconoscimento di una minore responsabilità di Pilato o, addirittura, di una sua totale innocenza nella condanna di Gesù, esige una spiegazione che non può ridursi a quella semplicistica del timore verso i Romani, nel cui impero i Cristiani erano costretti a vivere: gli apologisti del II secolo e degli inizi del III dimostreranno che si poteva attaccare anche duramente questo o quel governatore provinciale per la sua crudeltà nelle persecuzioni senza attaccare, anzi scagionando, l’impero romano; alla stessa tecnica erano ricorsi, proprio nei riguardi di Pilato, gli scrittori ebraici del I secolo da Filone a Flavio Giuseppe. Bisogna ricordare anche che Pilato finì nel 37 il suo governo in Giudea con una destituzione dalla quale, a quanto sembra, non fu riabilitato[8]. L’atteggiamento che la tradizione cristiana, senza smentirsi, attribuisce a Pilato, non si giustifica dunque con un falso.

Antonello da Messina, Ecce Homo. Olio su tavola, 1475. Piacenza, Collegio Alberoni.

Dovremo domandarci invece se esso non sia spiegabile, semplicemente, con la aderenza alla realtà storica e con l’effettiva estraneità dei Romani all’iniziativa del processo. Ma di questo parleremo più avanti, dopo aver esaminato le testimonianze non cristiane e la corrispondenza del processo col diritto effettivamente vigente nella provincia di Giudea sotto Tiberio.

Le notizie non cristiane sul processo di Gesù risalenti al primo secolo o agli inizi del secondo si riducono sostanzialmente a tre: il passo di Tacito giù citato (Ann. XV 44, 5), in cui si ricorda solo l’esecuzione di Cristo per opera di Ponzio Pilato; il discusso testimonium Flavianum (A.I. XVIII 64), di cui oggi, eliminate le interpolazioni dovute probabilmente all’inserimento nel testo di glosse marginali di origine cristiana, si tende a sostenere l’autenticità[9] e dal quale risulta che «su denuncia dei nostri notabili, Pilato lo (Gesù) condannò alla croce»; la lettera dello storico siriaco Mara Bar Serapion, databile fra il 73 e il 160 d.C., in cui si parla di «un saggio re giustiziato dagli Ebrei»[10]. Le apparenti contraddizioni risultanti dal confronto fra queste testimonianze indipendenti dai Vangeli, e, in particolare, fra quella di Tacito e quella di Mara Bar Serapion (condanna ed esecuzione da parte di Pilato – condanna ed esecuzione da parte dei Giudei) si conciliano soltanto postulando la più ampia ed articolata impostazione dei Vangeli, con la quale coincide, peraltro, quella sintetica di Giuseppe Flavio: esecuzione da parte di Pilato, ma su denunzia e istigazione giudaica. Dal punto di vista delle fonti il racconto dei Vangeli non presenta dunque alternative criticamente preferibili.

Andrey N. Minorov, This Man! (Ecce Homo). Olio su tela, 2013.

 

2) Il processo in rapporto al dibattito vigente nella Palestina romana. Prescindendo dai particolari tecnici, sui quali non si può pretendere  dagli autori dei Vangeli, come da qualsiasi altra testimonianza storica intenzionata a rispettare la verità, ma proveniente da persone non esperte di diritto, l’esattezza formale, il procedimento composito descritto dai Vangeli, che presuppone una certa autonomia giudiziaria da parte degli organi locali (in questo caso il sinedrio, che istituisce e conduce in modo autonomo il processo), ma che attribuisce al solo governatore romano il potere capitale, concorda perfettamente con la prassi politica e giuridica seguita dai Romani nelle provincie: negli editti di Cirene, che riguardano una provincia ed un’epoca, quella di Augusto, assai vicina a quelle del processo di Cristo, la capacità degli organi locali di condurre in modo autonomo i processi è affermata con la sola eccezione dei processi capitali. E questo, non solo, come è ovvio, per i cittadini romani, ma anche per i sudditi della provincia[11].

La stessa prassi è attestata per la provincia d’Asia da un rescritto di Adriano e da un editto di Antonino Pio (Dig. 48, 3, 6ss.). Ancora Ulpiano, in età severiana (Dig. I, 18), attesta che il potere di condannare a morte, come quello di mandare alle miniere (una sorta di ergastolo), spettava nelle province al governatore. L’affermazione che Giovanni mette in bocca ai rappresentanti del sinedrio («A noi non è lecito mettere a morte nessuno») è dunque perfettamente conforme alla prassi adottata dai Romani nelle province e sarebbe interessante domandarsi in che misura la svista dello Juster[12], che dimenticando solo in questo passo lo stato provinciale della Giudea al tempo di Cristo ne parla come di un «paese autonomo» (?), abbia condizionato le argomentazioni dei sostenitori del potere capitale del sinedrio, la cui privazione sotto i Romani di tale diritto risulta del resto anche dalla tradizione rabbinica[13].

Nikolai Ge, Che cos’è la verità?. Olio su tela, 1890

Lasciando da parte certe distinzioni troppo sottili, come quella tra il metodo clandestino dello strangolamento e quello pubblico della lapidazione, che sarebbe stato in uso fino al 70[14] e lasciando anche da parte l’eccezione costituita dal diritto di mettere a morte nel tempio lo straniero che fosse stato sorpreso in esso, che è attestato da Flavio Giuseppe e da un’iscrizione[15] – ma risulta non la legittimazione di una regolare condanna a morte, ma la tolleranza in certe situazioni di un linciaggio popolare[16] – l’unico caso veramente degno di discussione è, a mio avviso, la lapidazione di Stefano, avvenuta sotto lo stesso Pilato negli anni intorno al 34[17]. Per coloro che sostengono la competenza del sinedrio in materia capitale, la lapidazione di Stefano è la prova «certissima» che gli Ebrei avevano ancora la piena giurisdizione penale[18]; coloro invece che negano – e io credo giustamente – che il sinedrio avesse il diritto di eseguire condanne capitali, si sbarazzano per lo più di questo caso, riconoscendo in esso, come nell’esecuzione immediata dei violatori del tempio di Gerusalemme, un linciaggio, uno di quegli atti «di brutale giustizia popolare, a cui gli Ebrei non erano autorizzati, ma che le autorità romane non sempre potevano impedire»[19].

Come ho scritto altrove[20], a me sembra che, secondo il racconto degli Atti, l’unico a noi giunto sull’argomento, non si possa negare il carattere di processo al procedimento contro Stefano, iniziato con la denunzia dei testimoni davanti al Sinedrio (At 7, 11ss.) e con la difesa dell’accusato col permesso del sommo sacerdote (7, 1ss.) e terminato con la condanna a morte (At 7, 54ss.), gridata all’unanimità del Sinedrio ed eseguita per lapidazione ad opera degli stessi testimoni, come previsto dalle antiche leggi giudaiche contro i bestemmiatori. L’impressione di una certa «regolarità», dal punto di vista giudaico, di tale processo viene anche da un altro passo degli Atti (16, 10), in cui Paolo, rievocando la parte da lui avuta nella persecuzione di Stefano e dei Cristiani, ricorda di aver dato il suo voto per mettere a morte i «santi». Probabilmente «regolare» dal punto di vista giudaico, il comportamento del Sinedrio nel 34 fu però certamente un abuso dal punto di vista romano, come fu un abuso, anche per ammissione di coloro che ritengono la lapidazione di Stefano un semplice linciaggio, la lapidazione di Giacomo Minore e di altri Cristiani di Gerusalemme, avvenuta nel 62 per ordine del sommo sacerdote Ananos e del Sinedrio, in un momento di vacanza del governo romano nella provincia (era morto Porzio Festo e non era ancora arrivato il nuovo governatore, Albino)[21]. Che Ananos, convocando il Sinedrio e pronunziando ed eseguendo una sentenza capitale, avesse oltrepassato le sue competenze ed avesse violato la legge romana (approfittando, come sottolinea Giuseppe, della momentanea assenza del governatore) risulta in questo caso dalla immediata deposizione del sommo sacerdote con cui il re Agrippa II, in attesa dell’arrivo del nuovo governatore, punì l’abuso stesso (Fl. Jos. A.I. XX 1, 9, 199ss.).

Piero della Francesca, La flagellazione di Cristo. Olio su tavola, 1414-1470. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

  • La continuità dell’atteggiamento romano dal processo di Gesù al 62.

L’episodio del 62, se, da una parte, è la migliore e più sicura conferma dei limiti dei poteri del Sinedrio, affermata esplicitamente da Giovanni e risultante implicitamente dal resto della tradizione evangelica, dall’altra è anche la conferma, particolarmente autorevole, perché derivata da una fonte giudaica, della realtà dell’atteggiamento attribuito dalla stessa tradizione evangelica ai Romani e della continuità fino al 62 di questo atteggiamento. Se nel 62 il sommo sacerdote e il Sinedrio giudicarono «occasione propizia» l’assenza del governatore romano per procedere contro i seguaci di Cristo, ciò significa che negli anni precedenti al 62 i Romani avevano fatto capire chiaramente di essere decisi a non cedere più come al tempo del processo di Cristo alle pressioni della autorità giudaica contro i seguaci del Crocifisso e di non voler essere il braccio secolare del Sinedrio in una controversia che, per loro, era e doveva rimanere strettamente religiosa e che non aveva implicazioni politiche.

Paolo di Tarso. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro.

Vale la pena di domandarsi quando questa presa di posizione abbia cominciato a manifestarsi: essa appare già in atto nei processi intentati a Paolo nel 51 a Corinto davanti a Gallione dalla locale sinagoga (At 17, 12ss.) e, successivamente, in Giudea, dalle autorità giudaiche di Gerusalemme davanti ad Antonio Felice e, poi, a Porzio Festo (At 21 e, in particolare, 23, 28-29 e 25, 19). In tutti questi casi i governatori romani, siano essi il proconsole di Acaia o i procuratori di Giudea, dichiarano esplicitamente che la controversia fra Cristiani e Giudei è una controversia interna della Legge giudaica e che essi non vogliono occuparsene. Questa era, del resto, la posizione che aveva assunto all’inizio anche Pilato nel processo di Gesù, ma che non aveva sostenuto fino in fondo per timore di un ricorso a Roma delle autorità giudaiche, in nome della loro Legge violata (Ioh. 19, 7-13). L’accusa montata dai grandi sacerdoti contro Gesù era in effetti estremamente abile perché, utilizzando l’ambiguità insita nelle attese messianiche, ben note ai Romani, e da essi paventate, combinava l’accusa di violazione della Legge giudaica (quella di essersi fatto Figlio di Dio) con l’accusa politica (di essersi fatto re)[22]. In queste condizioni, anche prima del 31 e della caduta dell’antigiudaico Seiano[23], Pilato poteva pensare che un ricorso al Sinedrio a Roma avrebbe avuto la possibilità di essere ascoltato, essendo notorio che Tiberio voleva innanzitutto la pace in una provincia «difficile» come la Giudea. Per valutare le possibilità di successo che poteva avere sotto Tiberio un ricorso a Roma contro un governatore accusato di violazioni vere o presunte contro la Legge giudaica e la realtà del timore che Giovanni attribuisce a Pilato, basta tener presente un episodio verificatosi sotto lo stesso governo di Pilato – forse, ma non necessariamente, successivo al processo di Gesù – in cui il prefetto fu costretto da un ordine di Tiberio, informato dai notabili giudaici, a revocare le proprie disposizioni: si tratta dell’esposizione in Gerusalemme nel corso di una festa di alcuni scudi dorati, che Pilato aveva dedicato nel palazzo di Erode in onore di Tiberio e che l’imperatore gli ordinò di ritirare[24] per rispettare le tradizioni del popolo giudaico.

Ci si può riproporre a questo punto la domanda da cui siamo partiti: come e quando nei successori di Pilato era nata la convinzione che, in caso di processi contro Cristiani, un ricorso a Roma dell’autorità giudaica non avrebbe avuto successo e che la linea da seguire fino in fondo per i Romani fosse quella del non intervento, che si risolveva, in definitiva (e l’episodio del 62 lo dimostra chiaramente) nella protezione accordata ai seguaci del Crocifisso contro le persecuzioni della stessa autorità giudaica?

Croce gemmata con il volto di Cristo. Mosaico, VI sec. d.C. Ravenna, Basilica di S. Apollinare in Classe.

I

o credo che la deposizione inflitta da Ananos nel 62, come punizione di un abuso simile a quello compiuto da Caifa nel 34 (esecuzione di Giacomo-esecuzione di Stefano), possa fornirci la spiegazione della deposizione dello stesso Caifa, nel 36 o nel 37, ad opera dell’inviato di Tiberio, il legato di Siria, L. Vitellio[25], in una delle sue visite a Gerusalemme. Mi conferma in questa convinzione un passo di At 9, 31, in cui si registra subito dopo l’incontro fra Paolo e Pietro a Gerusalemme nel 36[26], a pace della Chiesa in Giudea, Galilea e Samaria. La precisazione degli Atti è importante, perché circoscrive le regioni sotto il controllo romano, in un momento in cui a Damasco, che era sotto il controllo di Areta, allora in guerra con Roma, la persecuzione dell’elemento giudaico e dello stesso Areta contro i seguaci di Cristo era ancora in atto (At 9, 23ss., 2Cor. 11, 32). La deposizione di Caifa per opera di Vitellio aveva dunque posto fine all’azione delle autorità giudaiche contro i seguaci di Cristo, esattamente come la deposizione di Ananos per opera di Agrippa II pose fine nel 62 all’azione del Sinedrio.

Non si può dire che la concomitanza dei due fatti (deposizione di Caifa – pace per la Chiesa in Giudea) sia puramente casuale: abbiamo, infatti, una prova indiretta, ma molto significativa, dell’intervento (anteriore al 42) di un legato di Siria nei confronti dei seguaci di Cristo: sappiamo, infatti, che intorno al 42 proprio ad Antiochia, residenza del legato di Siria, i discepoli adottarono la denominazione di Cristiani, che veniva data loro nel linguaggio ufficiale degli ambienti di governo romani[27]: gli interventi di Vitellio a Gerusalemme nel 36/37 sembrano l’occasione più probabile e, allo stato delle nostre conoscenze, l’unica possibile, per l’adozione da parte degli ambienti di governo della provincia di Siria di questa denominazione. Ci si può domandare perché la punizione dell’abuso compiuto dal sommo sacerdote, che nel 62, nel caso di Ananos, fu attuata immediatamente, sia stata rinviata, nel caso di Caifa, fino al 36 o al 37. La spiegazione di questo ritardo può venire proprio dai rapporti fra Caifa e Pilato, che, come è stato sottolineato da più parti, erano stati fino a quel momento buoni, e dall’imbarazzo in cui dovette trovarsi il governatore di fronte a un abuso compiuto da quelle autorità, la cui collaborazione gli era necessaria per un governo pacifico della provincia[28].

Cristo dinanzi a Pilato. Mosaico, inizi VI sec. d.C. Ravenna, Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.

Le fonti cristiane del II secolo, Giustino (I Apol. 35 e 48) e Tertulliano (Apol. V 2 e XXI 24), accennano ad una relazione di Pilato a Tiberio sulle vicende di Gesù e sul diffondersi della fede nella sua divinità in tutta la Palestina e i cronisti dipendenti da Eusebio datano l’arrivo a Roma di questa relazione nel 35 d.C.[29] L’esistenza di questa relazione, troppo frettolosamente confusa con i falsi leggendari elaborati in età tarda e giunti fino a noi, fornisce forse l’anello mancante che collega l’abuso compiuto da Caifa e dal Sinedrio nel 34 con l’esecuzione di Stefano e la punizione da parte romana dell’abuso stesso nel 36/37: Pilato, che non aveva sentito la necessità di informare il suo imperatore del processo di Cristo, terminato con un’esecuzione legale anche se ingiusta, dovette informarlo quando, con la diffusione in tutta la provincia della nuova fede, si trovò davanti all’esasperata intransigenza del Sinedrio e a processi e ad esecuzioni abusive, che rischiavano di coinvolgere un gran numero di persone nella Giudea e nelle regioni vicine. Data la convinzione che Pilato stesso aveva maturato durante il processo di Gesù dell’inconsistenza dell’accusa politica e dell’innocenza del Crocifisso (l’insostenibilità delle ricostruzioni opposte su questo punto alla tradizione evangelica ci permette ormai di confermare la validità di questa tradizione) è probabile che questa relazione, a cui gli autori cristiani del II secolo facevano appello, fosse effettivamente favorevole ai cristiani e che mettesse in rilievo l’inesistenza nella nuova fede di pericoli di natura politica. Il «Pilato già in sua coscienza cristiano» di Tertulliano (Apol. XXI 24) si spiega forse con una relazione di questo tipo, senza bisogno di postulare la conversione di Pilato. Informato sugli sviluppi della situazione in Giudea, Tiberio decise di intervenire: in effetti, la notizia di una nuova «setta» giudaica, osteggiata dalle autorità ufficiali, ma accolta da una parte del popolo, la cui diffusione eliminava nel messianismo ogni violenza politica e antiromana e ne accentuava, invece, il carattere religioso e morale, non poteva che interessare Tiberio, la cui principale ambizione era quella – lo sappiamo anche da Tacito (Ann. VI 32, 1) e proprio nel racconto relativo al 35 – di risolvere le controversie esterne consiliis et astu, con l’astuzia e l’abilità diplomatica, piuttosto che con le armi e la repressione.

Tib. Claudio Nerone Cesare Augusto. Busto, marmo, inizi I sec. d.C. Ny Carlsberg Glyptotek, Copenhagen.

Nel corso del 35 Vitellio fu spedito in Oriente, non come un semplice legato di Siria, ma come inviato di Tiberio per una sistemazione generale della zona (Tac. Ann. VI 38, 5: cunctis quae apud Orientem parabantur L. Vitellium praefecit), che riguardava innanzitutto la successione al trono armeno e i rapporti con i Parti e gli Iberi, ma anche Damasco, dove l’etnarca Areta si era sottratto al dominio di Roma, e Gerusalemme, che egli visitò due o addirittura tre volte, sistemando le cose sulla base delle istruzioni di Tiberio[30], rimandando a Roma Pilato, contro il quale aveva ricevuto una protesta da parte dei Samaritani[31] e sostituendolo provvisoriamente con uno dei suoi amici, Marcello (Fl. Jos. A.I. XVIII 89). La protezione accordata, sia pure in modo indiretto, ai Cristiani con la destituzione di Caifa, doveva essere, nell’intenzione di Tiberio e di Vitellio, una misura di pacificazione: è interessante osservare che, nel racconto di Flavio Giuseppe, la destituzione di Caifa dal sommo sacerdozio si accoppia con misura decisamente amichevole verso la religione e le tradizioni giudaiche, la restituzione della veste del Gran sacerdote, con la remissione di una parte delle imposte e con un sacrificio compiuto dallo stesso Vitellio nel tempio di Gerusalemme. Alla linea augurata da Vitellio per volontà di Tiberio si attennero fino al 62 tutti i governatori di Giudea.

La tradizione cristiana orientale e occidentale conobbe in modo diverso e indipendente questo intervento di Tiberio: nel II volume della Storia della Grande Armenia Mosè di Korene, che scrive nel V secolo d.C., ma attinge a leggende e a documenti molto più antichi, riferisce uno scambio di lettere fra Tiberio e Abgar (toparca di Edessa dal 13 al 50 d.C.), nel corso del quale Abgar informa Tiberio della morte e della resurrezione di Cristo e lo invita a punire i Giudei, e Tiberio risponde che lo farà non appena avrà posto fine alla rivolta degli Iberi e di aver già destituito Pilato. L’allusione alla missione di Vitellio (particolarmente interessante l’accenno agli Iberi e alla punizione dei Giudei e di Pilato) è trasparente[32] e rivela come nella tradizione degli Armeni, presso i quali Vitellio aveva operato, il ricordo della missione da lui svolta a favore dei Cristiani, fosse rimasto vivo.

Abgar V Ukkama riceve il mandilion da Taddeo. Tempera su tavola, icona, 944. Sinai, Monastero di S. Caterina.

La tradizione cristiana occidentale, la cui voce più antica è rappresentata per noi da un famoso passo di Tertulliano (Apol. V 2), affermava, invece, che Tiberio, ricevuta la relazione di Pilato, presentò al Senato una proposta tesa ad ottenere il riconoscimento di Cristo come dio e, avendo ottenuto un rifiuto, in seguito al quale il culto reso a Cristo diveniva per lo stato romano superstitio illicita, pose il veto ad eventuali accuse contro i Cristiani. I moderni respingono per lo più questa notizia, ritenendola un’invenzione apologetica. Io credo che l’episodio riferito da Tertulliano sia storico. Non ho intenzione qui di riprendere tutte le argomentazioni che, a più riprese, ho svolto altrove[33] e che non possono essere respinte, a mio avviso, con giudizi o battute che non hanno niente a che fare con un corretto metodo storico, come «inverosimile» o «troppo bello per esser vero». Mi limiterò, invece, a riproporre quelli che io ritengo, al di là delle facili ripulse, i punti degni di maggiore attenzione:

1) Rifiutare come un’invenzione apologetica il passo di Tertulliano affermando, come è stato fatto da più parti[34], che Tertulliano «non mette in rilievo il rifiuto del Senato, ma la benevolenza di Tiberio che minaccia gli accusatori dei Cristiani», significa, a me sembra, isolare il passo dal suo contesto: Tertulliano sta, infatti, cercando di spiegare ai suoi interlocutori, i Romani imperii antistites della dedica, i quali, alla sua difesa del Cristianesimo secondo ragione e secondo giustizia, oppongono l’autorità delle leggi (Apol. IV 3: «Non è lecito che voi esistiate»), che le leggi possono rivelarsi ingiuste e che devono in questo caso essere cambiate (ibid. IV 13). Per questo, e solo per questo, egli cerca l’origini delle leggi anticristiane (ibid. V 1) e individua tale origine nel rifiuto opposto dal Senato alla richiesta di Tiberio. Un rifiuto esplicito di riconoscimento da parte del Senato, che faceva del Cristianesimo una superstitio illicita (Tertulliano sta cercando di spiegare il «non è lecito che voi esistiate») non era certamente conforme agli interessi della apologetica cristiana, che preferiva calcare sulla responsabilità dei cattivi imperatori. Subito dopo, infatti, Tertulliano, senza più parlare né di Tiberio né del Senato, ricorda che fu Nerone ad applicare per primo la normativa anticristiana.

Il senatoconsulto di cui parla Tertulliano non è un’invenzione dell’apologista africano, ma deriva a lui dagli Atti di un processo celebrato a Roma sotto Commodo, fra il 183 e il 185, il processo contro Apollonio (senatore romano, secondo Gerolamo) che fu messo a morte per Cristianesimo «in base a un senatoconsulto» – dice Eusebio (H.E. V 21, 4), che possedeva gli Atti antichi – il cui contenuto, riferito dagli Atti greci a noi pervenuti (p. 171 Lazzati: «Il senatoconsulto dice che non è lecito essere Cristiani»), corrisponde esattamente al Non licet esse vos, risultante, secondo Tertulliano, dal senatoconsulto tiberiano. Bisogna aggiungere che la forma del senatoconsulto era, dal punto di vista giuridico, l’unica che, in età giulio-claudia, poteva autorizzare o rifiutare l’accoglienza di un nuovo culto[35].

Se la fonte di Tertulliano sono gli Atti autentici del processo di Apollonio (insisto sul fatto che il s.c. è ricordato da Eusebio e non solo negli Atti tardi e interpolati), cioè i documenti ufficiali di un processo tenuto a Roma, e la difesa in esso pronunziata dallo stesso Apollonio (la prima apologia latina, secondo la tradizione) davanti al prefetto del pretorio Tigidio Perenne, l’ipotesi di una invenzione cristiana cade da sé.

3) L’argumentum e silentio, di per sé debolissimo, è in questo caso inesistente: Tacito non parla del senatoconsulto perché, per sua esplicita ammissione, egli si occupa, per il 35, solo di politica estera (Ann. VI 38, 1) «per riposarsi l’anima dai mali interni». Eppure, Tiberio, che in quel periodo non era a Capri, ma alle porte di Roma (ibid. 45, 2), trattava in continuazione, anche per lettera, col Senato le faccende dello stato. Non è vero, inoltre, che i pagani ignoravano questo senatoconsulto: a parte gli Atti di Apollonio, c’è un frammento porfiriano che ne attesta l’esistenza[36].

4) L’atteggiamento che Tertulliano attribuisce a Tiberio con la proposta che dette origine al s.c., lungi dall’essere «inverosimile», concorda perfettamente con la linea politica che Tiberio sembra aver seguito in Palestina con l’intervento di Vitellio; proponendo il riconoscimento del culto di Cristo, Tiberio mirava a dare alla nuova «setta» nata in seno al Giudaismo, la stessa liceità che Roma riconosceva, dal tempo di Cesare, al Giudaismo ed intendeva sottrarre in questo modo i seguaci di essa in Giudea (tale era l’ambito di diffusione della nuova fede nel 35) all’autorità e alle vessazioni del Sinedrio. I Romani avevano seguito questa linea fin dal tempo della creazione della provincia, con i Samaritani, che erano stati sottratti alla tutela religiosa giudaica e la cui fedeltà era stata in tal modo assicurata a Roma[37]. Tiberio, che preferiva risolvere le controversie esterne con la diplomazia e con l’astuzia piuttosto che con le armi, mirava ad ottenere lo stesso risultato con i Cristiani.

Non essendo riuscito ad ottenere dal Senato ciò che desiderava, Tiberio intervenne in modo più diretto attraverso il suo legato.

I due Testamenti (dettaglio). Sarcofago, marmo, prima metà del IV sec. d.C. da San Paolo Fuori le Mura. Roma, Museo Pio Cristiano.

Il non aver compreso che la proposta di Tiberio riguardava la Giudea e non Roma ha contribuito, a mio avviso, allo scetticismo che la maggior parte dei moderni ha mostrato finora nei riguardi della notizia di Tertulliano: Tiberio non poteva sapere, nel 35, che il Cristianesimo avrebbe esercitato, al di fuori della Giudea, un proselitismo di gran lunga maggiore di quello del Giudaismo, che egli aveva mostrato di paventare nel 19. La proposta del 35 fu una proposta politica, strettamente collegata con la politica di pacificazione che Tiberio conduceva verso una provincia difficile, dal punto di vista religioso, come la Giudea.

Da questo momento fino a Nerone, i governatori di Giudea seppero come dovevano comportarsi nei riguardi dei «Christiani» e la loro presenza si rivelò per i seguaci della nuova fede una salvaguardia. Solo nel periodo in cui la provincia ritornò autonoma, sotto il governo di Agrippa I, dal 41 al 44, la persecuzione legale dei seguaci di Cristo in Giudea ritornò possibile e si giunse alla condanna a morte di Giacomo Maggiore e all’arresto di Pietro.

 

***

Note:

[1] Sull’iscrizione di Pilato a Cesarea, pubblicata da A. Frova, in RIL 95, 1961, pp. 49ss., v. ora C. Gatti, A proposito di una rilettura dell’epigrafe di Ponzio Pilato, in «Aevum», 55, 1981, pp. 13ss.; J.P. Leomonon, Pilate et le gouvernement de la Judée, Parigi 1981, pp. 23ss.; L. Prandi, Una nuova ipotesi sull’iscrizione di Ponzio Pilato, in «Civiltà classica e cristiana», 2, 1981, pp. 25ss. Sull’autenticità del passo di Tacito v. H. Fuchs, Tacitus über die Christen, in «Vigiliae Christianae», 4, 1950, pp. 65ss., e Lemonon, op. cit., pp. 173-174. Sulla probabile data del processo di Gesù, 7 aprile del 30, v. J. Blinzler, Il processo di Gesù, tr. it. Brescia 19662, pp. 85ss.; cfr. Lemonon, op. cit., p. 133 (7 aprile del 30 o 27 aprile del 31).

[2] Sulla ricostruzione dei due processi subiti da Gesù, davanti al sinedrio e davanti al governatore romano e su tutti i problemi da essi posti, rinvio all’esauriente libro del Blinzler, citato nella nota precedente. Sul problema v. anche Lemonon, op. cit., pp. 173ss. Sull’attendibilità di Giovanni richiama ora l’attenzione F. Millar, Riflessioni sul processo di Gesù, in «Gli Ebrei nell’impero romano», trad. it. a cura di A. Lewin, Firenze 2001, pp. 77ss.

[3] Per la prima posizione v. in particolare E. Bickerman in «R.H.R.», 112, 1935, pp. 232ss.; per la seconda, J. Juster, Les juifs dans l’empire Romain, Parigi 19142, pp. 127ss.; H. Lietzmann, Kleine Schriften, Berlino 19582, pp. 251ss. e 269ss.; P. Winter, On the Trial of Jesus, Berlino 1961. Più sfumata la posizione di T.A. Burkill in «Vigiliae Christianae», 10, 1956, pp. 80ss., E.M. Smallwood, The Jews under Roman Rule, Leida 1976, pp. 140ss.

[4] Per l’analisi dettagliata dei racconti evangelici sul processo di Gesù rinvio allo studio del Lemonon, op. cit., pp. 177-189; sul problema di Anna e Caifa v. ora anche E. Lorenzini, Il sommo sacerdote Caifa, Cesena 2003.

[5] At 2, 23ss.; 3, 13; 7, 52ss.; 13, 27-29.

[6] IX 125 (trad. Orlandi, Milano 1966).

[7] Lemonon, op. cit., pp. 265ss.

[8] Lemonon, op. cit., pp. 217ss., 245.

[9] Cfr. A. Pelletier, L’originalité du temoignage de Flavius Joséph, in «RSR» 52, 1964, pp. 177ss. ; Lemonon, op. cit., pp. 174ss. La sostanziale autenticità del testo di Giuseppe è sostenuta da L. Préchac, Réflexions sur le testimonium Flavianum, in «Bibl. de l’Association Budé», 1969, pp. 101ss.; I. Ramelli, Alcune osservazioni circa il Testimonium Flavianum, in «Sileno», 24, 1998 (2000), pp. 21ss.; e ora in «Stylos», 12, 2003, pp. 109ss.

[10] Sulla lettera di Mara Bar Serapion, v. J. Blinzler, op. cit., pp. 43ss. (che la data poco dopo il 73 d.C.); I. Ramelli, Storicismo e Cristianesimo in area siriaca, in «Sileno», 25, 1999 (2001), pp. 197ss.; e ora in «Stylos», 12, 2003, p. 111, che pensa alla stessa data.

[11] Particolarmente interessante a questo proposito è il IV editto di Cirene, 1.63. Sui problemi posti da questo editto e dal suo confronto col I editto di Cirene, v. F. De Vischer, Les édits de Cyrene, Osnabrück 19652, pp. 16ss., p. 68; cfr. Lemonon, op. cit., p. 77.

[12] Juster, op. cit., pp. 81ss.

[13] Cfr. l’analisi del Lemonon, op. cit., pp. 81ss.

[14] P. Winter, Marginl Notes ecc., in «Z.N.W.», 50, 1959, pp. 22ss. Per la confutazione di tale ipotesi v. Blinzler, op. cit., pp. 203ss.

[15] Fl. Jos. B.I. VI 126; A.I. XV 417; l’iscrizione è pubblicata in «Rev. Arch.», 23, 1872, p. 220: essa afferma tra l’altro che colui che sarà preso dentro il tempio «sarà causa a se stesso della propria morte».

[16] Un esempio di un procedimento di questo tipo ci è fornito da At 21, 27ss., in cui Paolo, colto nel tempio con alcuni presunti pagani, rischia la lapidazione immediata ed è salvato in extremis dall’intervento romano.

[17] L data è ricavabile da Gal 1, 15-24, che colloca nel 36 l’incontro di Paolo a Gerusalemme con gli Apostoli (14 anni prima del 49, col calcolo inclusivo), incontro posteriore di tre anni alla conversione di Paolo (e alla morte di Stefano); cfr. M. Sordi, in «Studi Romani», 8, 1960, pp. 393ss. Per S. Dockx, Date de la morte d’Etienne, in «Biblica», 55, 1974, pp. 65ss., la morte di Stefano risale al 36.

[18] F. Parente, in «Riv. di Filol. Class.», 94, 1968, p. 77.

[19] Così Blinzler, op. cit., p. 213 (con precedente bibliografia) e, ora, Lemonon, op. cit., pp. 92ss.

[20] M. Sordi, Il cristianesimo e Roma, Bologna 1965, pp. 23ss.

[21] Fl. Jos. A.I. XX 91 (200); cfr. Blinzler, op. cit., p. 212; Lemonon, op. cit., p. 90. I sostenitori dei poteri del Sinedrio in materia di esecuzioni capitali interpretano il passo nel senso che l’abuso di Ananos sarebbe stato quello di aver convocato il Sinedrio senza l’autorizzazione romana (cfr., da ultimo, Smallwood, op. cit., pp. 149ss.). Questa interpretazione, già respinta da me in «Riv. di Filol. Class.», 98, 1970, pp. 309ss., è rifiutata anche da Lemenon, op. cit., p. 91 e n. 129.

[22] L’abilità dell’accusa montata dai grandi sacerdoti contro Gesù è messa in rilievo dal Lemonon, op. cit., p. 188 e n. 202.

[23] L’attacco di Seiano al Giudaismo è ricordato da Filone (Leg. ad Caium, 159/61; In Flaccum, 1) ed è collocato dalla Smallwood, in «Latomus», 15, 1956, pp. 322ss., intorno al 28/31 d.C. Tiberio si era, in effetti, mostrato ostile al proselitismo giudaico a Roma già nel 19 (Tac. Ann. II 85, 4; Suet. Tib. 36, ecc.). Tale ostilità riguardava però solo il proselitismo in Roma e non toccava né la liceità del Giudaismo né, tantomeno, il rispetto della religione giudaica in Palestina.

[24] Phil. Leg. ad Gaium, 299ss.; cfr. Lemonon, op. cit., pp. 205ss., che colloca l’episodio dopo il 31 (anno della caduta di Seiano); cfr. pp. 133-134 (con bibliografia n. 20) e pp. 223ss.; su questo e altri interventi di Pilato, v. G. Firpo, Erennio Capitone e Ponzio Pilato, in «Studi offerti a… C. Vona», Chieti 1987, pp. 237ss.

[25] Fl. Jos. A.I. XV 405; XVIII 90ss., 122ss. Per la Smallwood, op. cit., pp. 171ss., le visite furono due, una nel 36 e l’altra nel 37; per il Lemonon, op. cit., pp. 242ss., furono tre, una nel 36 e due nel 37.

[26] Cfr. supra n. 17.

[27] At 11, 26. Sull’origine romana e ufficiale del nome cristiano v. R. Paribeni, in «Atti R. Acc. Lincei», 1927, p. 685; E. Peterson, in Miscellanea G. Mercati, Città del Vaticano 1946, p. 362; M. Sordi, op. cit., pp. 30 e 456-457; G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca, Brescia 1977, p. 134 n. 8; S. Xeres, Il nome Christianoi, in CISA, 18, 1992, pp. 211ss.

[28] Lemenon, op. cit., pp. 274ss., per il quale, come già per la Smallwood, in «J. th. S.», NS 13 (1962), pp. 14ss., Caifa fu deposto proprio a causa dei suoi rapporti con Pilato.

[29] Per il 35 d.C. Chron. Hieron., pp. 176-177 Helm; Chron. Pasch., p. 430. Tertulliano (Apol. V 2) ed Eus. (H.E. II 2, 1) non danno una data precisa, ma sembrano presupporre la già avvenuta diffusione del Cristianesimo in tutta la Palestina (ciò che ci porta alla dispersione degli Apostoli in Giudea e in Samaria, seguita alla lapidazione di Stefano, At 8, 1ss.).

[30] Fl. Jos. A.I. XV 405 (Vitellio scrive a Tiberio); XVIII 90 (Vitellio va a Gerusalemme con la risposta di Tiberio: è nel corso di questo intervento che Vitellio destituisce Caifa); di Vitellio sono attestati dei Commentarii, che Tertulliano conosceva e di cui si trovano le tracce nelle A.I. di Flavio Giuseppe, cfr. A. Galimberti, I commentarii di L. Vitellio, in «Historia», 48, 2, 1999, pp. 224ss.

[31] Fl. Jos. A.I. XVIII 85ss. Sull’episodio del monte Garizim, v. Lemonon, op. cit., pp. 230ss.; G. Firpo, art. cit., p. 253.

[32] Si tratta degli Iberi del Caucaso, con cui L. Vitellio ebbe effettivamente a che fare (Tac. Ann. VI 32, 5; 33, 1) e non degli Spagnoli (F.H.G. V, pp. 329-330, trad. franc.). Su questi argomenti v. M. Sordi, I primi rapporti fra lo stato romano e il Cristianesimo, in «Rend. Acc. Lincei», 12, 1957, pp. 81ss.; I. Ramelli, Edessa e i Romani, in «Aevum», 73, 1999, pp. 107ss.

[33] M. Sordi, I primi rapporti…, pp. 59ss.; Ead., L’apologia del martire Apollonio, in «Rivista di St. della Chiesa», 18, 1964, pp. 169ss.; Ead., Il Cristianesimo e Roma, cit., pp. 25ss. e passim.

[34] Lemenon, op. cit., pp. 254-255.

[35] Cfr. A. Giovannini, Tacite, l’incendium Neronis et les Chrétiens, in «Rev. Etud. August.», 30, 1984, pp. 3ss. (che ritiene, ma, a mio avviso, a torto, che il s.c. fosse di età neroniana). Attribuendo ad Apollonio (che, secondo Gerolamo, era senatore) la notizia di Tertulliano, si spiegano due presunte difficoltà della notizia stessa: a) la conoscenza da parte dell’apologista di un documento che doveva trovarsi negli archivi del Senato accessibili solo ai senatori; b) la denominazione di Syria Palaestina (attuale al tempo di Apollonio) della provincia di Giudea.

[36] Su questo frammento v. ora M. Sordi – I. Ramelli, Il senatoconsulto del 35 in un frammento porfiriano, in «Aevum», 78, 2004, pp. 59ss.

[37] Cfr. Lemenon, op. cit., p. 238.

Hier. Epist. 6, 127 – “terribilis de Occidente rumor adfertur” (24 agosto 410)

Hier. Epist. 6, 127

Dum haec aguntur in Iebus, terribilis de Occidente rumor adfertur, obsideri Romam, et auro salutem ciuium redimi, spoliatosque rursum circumdari, ut post substantiam, uitam quoque amitterent. haeret uox, et singultus intercipiunt uerba dictantis. capitur Urbs, quae totum cepit orbem; immo fame perit antequam gladio, et uix pauci qui caperentur, inventi sunt. ad nefandos cibos erupit esurientium rabies, et sua inuicem membra laniarunt, dum mater non parcit lactanti infantiae, et recipit utero, quem paulo ante effuderat. nocte Moab capta est, nocte cecidit murus eius (Is. 15, 1). Deus, uenerunt gentes in hereditatem tuam, polluerunt templum sanctum tuum. posuerunt Hierusalem in pomorum custodiam; posuerunt cadauera seruorum tuorum escas uolatilibus caeli, carnes sanctorum tuorum bestiis terrae; effuderunt sanguinem ipsorum sicut aquam in circuitu Hierusalem, et non erat qui sepeliret (Psalm. 79, 1-3).

 

Quis cladem illius noctis, quis funera fando

Explicet, aut possit lacrimis aequare dolorem?

Urbs antiqua ruit, multos dominata per annos;

Plurima, perque uias sparguntur inertia passim

Corpora, perque domos, et plurima mortis imago (Verg. Aen. II 361-365).

 

Joseph-Noël Sylvestre, Il Sacco di Roma dei Visigoti. Olio su tela, 1890.

 

Mentre così vanno le cose a Gerusalemme, dall’Occidente ci giunge la terribile notizia che Roma viene assediata, che si compra a peso d’oro la incolumità dei cittadini, ma che dopo queste estorsioni riprende l’assedio: a quelli che già sono stati privati dei beni si vuol togliere anche la vita. Mi viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di dettare. La città che ha conquistato tutto il mondo è conquistata: anzi cade per fame prima ancora che per l’impeto delle armi, tanto che a stento vi si trova qualcuno da prendere prigioniero. La disperata bramosia fa sì che ci si getti su cibi nefandi: gli affamati si sbranano l’uno con l’altro, perfino la madre non risparmia il figlio lattante e inghiotte nel suo ventre ciò che ha appena partorito. Moab fu presa, di notte sono state devastate le sue mura. O Dio, sono penetrati i pagani nella tua eredità, hanno profanato il tuo santo tempio; hanno ridotto Gerusalemme in rovine. Hanno dato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, i corpi dei tuoi fedeli alle bestie selvatiche. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme, e non c’è chi seppellisca.

 

Come ridire la strage, i lutti di quella notte?

Chi può la rovina adeguare col pianto?

Cadeva la città vetusta, sovrana nel tempo:

Un gran numero di cadaveri erano sparsi

per le strade e anche nelle case. Era l’immagine moltiplicata della morte.

 

 

Bibliografia:

 

BRANDES W., SCHMIEDER F., VOSS R. (eds.), Peoples of the Apocalypse: Eschatological Beliefs and Political Scenarios, Berlin-Boston 2016 (google.books).

CLAUSI B., «O rerum quanta mutatio!». Città e deserto nell’ideologia ascetica e nella scrittura epistolare di Gerolamo, in INTRIERI M., SINISCALCO P. (eds.), La città. Frammenti di storia dall’antichità all’età contemporanea. Atti del Seminario di Studi (Università della Calabria, 16-17 novembre 2011), Roma 2013, 123-163 (academia.edu).

COCCIA E., Citoyen par amour. Émotions et institutions, ACRH [en ligne] 16 (2016).

DOIGNON J., Oracles, prophéties, « on-dit » sur la chute de Rome (395-410). Les réactions de Jérôme et d’Augustin, REAug 36 (1990), 120-146 (brepols.online).