Lastenea o Assiotea? La testimonianza di P.Oxy. 52 3656

Traduzione personale di C. Mᴇᴄᴄᴀʀɪᴇʟʟᴏ, 𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑜𝑢𝑠, 𝑂𝑛 𝑎 𝐹𝑒𝑚𝑎𝑙𝑒 𝑃𝑢𝑝𝑖𝑙 𝑜𝑓 𝑃𝑙𝑎𝑡𝑜, 𝑆𝑝𝑒𝑢𝑠𝑖𝑝𝑝𝑜𝑠, 𝑎𝑛𝑑 𝑀𝑒𝑛𝑒𝑑𝑒𝑚𝑜𝑠 (𝑃.𝑂𝑥𝑦. 𝐿𝐼𝐼 3656) (1136), in J. Bʀᴜsᴜᴇʟᴀs, D. Oʙʙɪɴᴋ, S. Sᴄʜᴏʀɴ (eds.), 𝐷𝑖𝑒 𝐹𝑟𝑎𝑔𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑟 𝐺𝑟𝑖𝑒𝑐ℎ𝑖𝑠𝑐ℎ𝑒𝑛 𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑘𝑒𝑟 𝐶𝑜𝑛𝑡𝑖𝑛𝑢𝑒𝑑, Part IV: 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦 𝑎𝑛𝑑 𝐴𝑛𝑡𝑖𝑞𝑢𝑎𝑟𝑖𝑎𝑛 𝐿𝑖𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑒. IV A. 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑦. Fasc. 8. 𝐴𝑛𝑜𝑛𝑦𝑚𝑜𝑢𝑠 𝐵𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑝ℎ𝑖𝑐𝑎𝑙 𝑃𝑎𝑝𝑦𝑟𝑖, Leiden-Boston in print. Consulted online on 06 July 2021 [link].

First published online: 2017.

Il 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. LII 3656, pubblicato per la prima volta da P.J. Parsons nel 1984, preserva un frammento di testo in prosa che parla di un’allieva dell’Accademia platonica, ma il suo nome non si è conservato nei lacerti superstiti. Diverse fonti antiche (Dɪᴏɢ. III 46; IV 2; Aᴛʜᴇɴ. 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛. XII 546d; Aᴘᴜʟ. 𝑃𝑙𝑎𝑡. 1,4; Cʟᴇᴍ. Aʟᴇx. 𝑆𝑡𝑟𝑜𝑚. IV 122, 2; Tʜᴇᴍ. 𝑂𝑟. 23, 295c; 𝑃𝑟𝑜𝑙𝑒𝑔. 𝑖𝑛 𝑃𝑙𝑎𝑡. 4) riferiscono della presenza di donne all’Accademia, ma fanno espressamente i nomi di due allieve di Platone e di Speusippo, Lastenea di Mantinea e Assiotea di Fliunte. Il papiro in questione menziona probabilmente una di queste due, ma l’identità esatta rimane incerta.

Le due allieve sono spesso citate in coppia e indicate come le uniche due accademiche[1]. Lastenea e Assiotea sono menzionate come discepole di Platone nelle 𝑉𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖 di Diogene Laerzio, in Clemente di Alessandria, e negli anonimi 𝑃𝑟𝑜𝑙𝑒𝑔𝑜𝑚𝑒𝑛𝑎 𝑝ℎ𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑎𝑒 𝑝𝑙𝑎𝑡𝑜𝑛𝑖𝑐𝑎𝑒 (nei quali, però, la seconda è chiamata Dessitea)[2]. Il Laerzio le elenca anche tra gli allievi di Speusippo[3].

Benché le fonti antiche le riportino insieme, pare che si trattasse di due persone molto diverse. Innanzitutto, certa tradizione presenta Lastenea come amante e compagna di Speusippo: Ateneo (VII 279e; XII 546d) racconta che allieva e maestro avessero una relazione erotica, citando una presunta lettera che Dionisio II di Siracusa avrebbe inviato al filosofo, definisce la donna un’ἑταίρα e descrive Speusippo come un uomo dissoluto e incontinente, dedito unicamente al piacere[4]. Si tratta certamente di una notizia proveniente da una fonte ostile al nipote di Platone, che trova riscontro anche in un altro passo laerziano (IV 2) e in un testo epistolografico spurio (𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 𝑆𝑜𝑐𝑟. 36 Hercher τῷ μὲν ἥδεϲθαι ᾧ Λαϲθένεια καὶ Ϲπεύϲιπποϲ χρῆται)[5].

Quanto ad Assiotea, invece, costei è ricordata dalla tradizione per l’abitudine di indossare indumenti maschili, come racconta già Dicearco[6]. Temistio, riprendendo il medesimo particolare, aggiunge che fu la lettura della 𝑅𝑒𝑝𝑢𝑏𝑏𝑙𝑖𝑐𝑎 di Platone a indurla a dedicarsi alla filosofia[7]. L’abbigliamento maschile è menzionato 𝑒𝑛 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑛𝑡 anche da Olimpiodoro e da Filodemo: secondo il primo, tra i seguaci di Platone c’erano sia uomini sia γυναῖκαϲ ἀνδρείωι ϲχήματι, mentre il secondo attribuisce questa abitudine a due non meglio note discepole di Speusippo[8]. Benché Temistio dica espressamente che Assiotea nascondeva il suo sesso (𝑂𝑟. 23, 295c: λανθάνουϲα ἄχρι πόρρω ὅτι γυνὴ εἴη), la tradizione da cui ha attinto non ha motivo di insinuare che la donna frequentasse l’Accademia solo sotto mentite spoglie, poiché non sarebbe stata accolta come donna in un contesto esclusivamente maschile. Questo preconcetto potrebbe essere stato utilizzato dalla tradizione antiplatonica per evidenziare una contraddizione tra le opinioni scritte di Platone sull’uguaglianza dei sessi e le reali (presunte) dinamiche interne alla sua scuola[9]; tuttavia, una studentessa avrebbe potuto sfoggiare il τρίβων maschile solo per mettere in mostra con orgoglio il proprio 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑢𝑠 di filosofa, come fece anche la cinica Ipparchia, che era solita indossare un τρίβων e accompagnarsi a Cratete di Tebe[10].

Indizi per l’identificazione della scolara del 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. LII 3656 sono forniti dal titolo di due opere ivi citate, il Περὶ ϲυνοχῆϲ di Ieronimo di Rodi e il Περὶ ἀλυπίαϲ di Aristofane il Peripatetico, che, tra l’altro, accenna alla singolare bellezza della donna (col. ii, ll. 16-18 ὡραίαν χαρίτων τε ἀνεπιτηδεύτων πλήρη οὖϲαν). Secondo Gigante (1985, 69; 1986, 60), che si avvale della testimonianza di Ateneo, la candidata migliore sarebbe Lastenea; invece, per Dorandi (1989, 58), che si concentra sull’aneddoto tradito da Temistio, la più probabile sarebbe Assiotea. Secondo questo studioso, infatti, un racconto nel quale una giovane donna ϲυνοχή (se questo termine indica davvero lo stato morale di essere «prigioniera delle passioni») si redime grazie a una conversione alla filosofia si adatterebbe perfettamente a un’opera dal titolo Περὶ ϲυνοχῆϲ (ciononostante, tale aneddoto non è attestato dalla tradizione precedente!). Sembra più probabile, comunque, che il riferimento all’allieva di Speusippo nel Περὶ ϲυνοχῆϲ (𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑔𝑖𝑜𝑛𝑖𝑎, sempre che il titolo e la sua interpretazione siano corretti) riguardi il maestro piuttosto che l’alunna stessa, dato che le fonti concordano nel descrivere Speusippo in preda alle passioni. Allo stesso modo, l’altro scritto, il Περὶ ἀλυπίαϲ, potrebbe indicare che il riferimento alla filosofa sia stato fatto in relazione alla proverbiale φιληδονία di Speusippo, forse per rimarcare una contraddizione tra il pensiero e lo stile di vita di costui, nell’ambito di un dibattito circa la concezione del piacere come male[11]. Non a caso, il riferimento alla bellezza della giovane filosofa sarebbe particolarmente adatto a un simile contesto: insomma, Lastenea appare la più probabile fra le due[12].

La datazione e la paternità del brano trasmesso dal papiro restano ignote. Le opere citate sembrano oscillare nella cronologia tra la fine del III secolo e gli inizi del II secolo a.C. Ora, se è plausibile collocare il documento a questa altezza cronologica, virtualmente, a titolo d’ipotesi, si potrebbe identificarne l’autore (ma non si esclude che possa trattarsi di un compilatore più tardo che ha citato testi di età ellenistica!) con uno dei seguenti biografi di filosofi:

1) Diocle di Magnesia, che scrisse sia una Ἐπιδρομὴ τῶν φιλοϲόφων [𝑆𝑜𝑚𝑚𝑎𝑟𝑖𝑜 𝑠𝑢𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖] (Dɪᴏɢ. VII 48; X 11) sia delle Βίοι τῶν φιλοϲόφων [𝑉𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖] (𝑖𝑏𝑖𝑑. II 54; 82)[13]. Un argomento, anche se un po’ debole, a favore di Diocle potrebbe essere l’uso nel papiro dell’epiteto Ἐρετρικόϲ anziché Ἐρετριεύϲ riferito a Menedemo alla col. ii, l. 7.

2) Sozione di Alessandria, autore delle Διαδοχαὶ τῶν φιλοϲόφων [𝑆𝑢𝑐𝑐𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑓𝑖𝑙𝑜𝑠𝑜𝑓𝑖], attivo probabilmente durante il primo quarto del II secolo a.C. e, secondo Wehrli, si servì di Ippoboto come fonte, qui menzionato nella col. ii, l. 5[14].

3) Eraclide Lembo, che epitomò le Διαδοχαί di Sozione[15]: il papiro potrebbe quindi conservare questa versione riassunta. La frequenza dei nomi delle fonti rende il frammento in esame molto diverso per carattere dall’epitome che Eraclide trasse dai 𝐿𝑒𝑔𝑖𝑠𝑙𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 di Ermippo di Smirne, conservata nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. XI 1367 (= 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 F 3), nel quale in poco meno di una sessantina di linee (col. i, ll. 36 e 47; col. ii, l. 8) sono nominati solo tre autori. Ciononostante, una differenza nell’estensione e nella profondità dei dettagli tra l’epitome di Ermippo e quella di Sozione non è assolutamente improbabile[16]. A giudicare dai frammenti superstiti, Eraclide sembra mostrare una certa inclinazione per i pettegolezzi, le abitudini sessuali e gli aneddoti sui personaggi di cui parla, ma anche qualche imprecisione come epitomatore[17]. Questi aspetti potrebbero trovare paralleli nel papiro in esame. Eraclide ha certamente scritto di Menedemo di Eretria (si vd. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. III F 15a e 15b = Dɪᴏɢ. II 138, 143) e di Platone (𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. III F 16 = Dɪᴏɢ. III 26). In particolare, von Fritz suggerisce che l’erroneo incontro di Platone e Menedemo di Eretria, di cui parla il Laerzio, potrebbe derivare proprio da Eraclide[18].

Comunque sia, è troppo poco ciò che è rimasto di questi storici da consentire un qualche collegamento sicuro con il frammento in questione, ed espositori meno noti di διαδοχαί, o addirittura del tutto sconosciuti, sono ipotesi altrettanto plausibili. Infine, bisogna tenere in conto che l’apparente carattere biografico e dossografico del documento papiraceo può essere solo una conseguenza della sua natura frammentaria: insomma, non è detto che l’opera a cui appartiene sia necessariamente una biografia.

Come si vede, il papiro contiene i resti di tre colonne, ma solo la col. ii presenta un testo significativo. È visibile un margine superiore di 3 cm, oltre a due 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑐𝑜𝑙𝑢𝑚𝑛𝑖𝑎 di circa 2 cm ciascuno. Le linee, contenente ciascuna circa 15 lettere, sono tracciate lungo le fibre in una grafia formale inclinata nel cosiddetto “stile severo”, che può essere tranquillamente attribuita alla fine del II o agli inizi del III secolo d.C.[19]

Lo scriba principale usa la παράγραφος in combinazione con lo spazio vuoto per contrassegnare una forte interpunzione (col. ii, ll. 7 e 11). Altri due tipi di segni marginali, χ e διπλῆ, sono stati aggiunti con un inchiostro diverso: si tratta forse di annotazioni dei lettori. La χ è apposta prima della col. ii, l. 2, 4, 6, 9 e 12, dove ricorrono i nomi propri (di filosofi o autori), ma è usato in modo incoerente, dato che il nome di Ippoboto alla l. 5 non è contrassegnato. La διπλῆ nella col. ii, l. 16 sembra evidenziare una citazione più specifica, quella di Aristofane il Peripatetico; altre quattro διπλαῖ sono state utilizzate nella colonna iii, ma mancano le linee da esse contrassegnate (ll. 11, 14, 17, 19). Una παράγραφος è visibile anche nella col. iii sotto la perduta l. 15.

P. Oxy. 52 3656 (II-III sec. d.C.). Anonimo, A proposito di una discepola di Platone, Speusippo e Menedemo = FGrHist. 1136 F 1 [papyri.info].

 [20]col. icol. iicol. iii





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…    
διήκουϲε δὲ με-
τὰ τὴν Πλάτωνοϲ
τελευτὴν καὶ Ϲπευ-         
ϲίππου καθὰ λέγει
ὁ Ἱππόβοτοϲ (F 6a Gigante), αὖθιϲ δὲ       
καὶ Μενεδήμου τοῦ
Ἐρετρικοῦ. ἀ[[υθιϲ]]φηγήϲατο δὲ
περὶ αὐτῆϲ καὶ Ἱερώ-      
νυμοϲ[21] ὁ Ῥόδιοϲ ἐν
τῷ Περὶ ϲυνοχῆϲ[22]
ϲυνγράμματι (F 55 White). ἱϲτο-
ρεῖ δ’ Ἀριϲτοφάνηϲ[23]
ὁ περιπατητικὸϲ
ὁμοίωϲ ἐν τῷ Περὶ
ἀλυπίαϲ τὴν μείρα-
κα[24] ὡραίαν χαρίτων
τε ἀνεπιτηδεύτων
πλήρη οὖϲαν νεα
̣ ̣] ̣[ ̣] ̣[ ̣] π̣ερὶ αυτήν[25]
[𝑐𝑎.9     ] ̣[26]οϲκαι
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Traduzione (col. ii):

Dopo la morte di Platone, ella, secondo Ippoboto, divenne discepola di Speusippo e, infine, di Menedemo di Eretria. Ieronimo di Rodi parla di lei in un suo trattato 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑔𝑖𝑜𝑛𝑖𝑎 (?). Parimenti, anche Aristofane il Peripatetico nella sua opera 𝑆𝑢𝑙𝑙’𝑎𝑠𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑑𝑜𝑙𝑜𝑟𝑒 racconta che questa ragazza era nel fiore della giovinezza e piena di grazia non ricercata… intorno a lei (?).

Commento (col. ii):

1-4 διήκουϲε δὲ με|τὰ τὴν Πλάτωνοϲ | τελευτὴν καὶ Ϲπευ|ϲίππου. La parte superstite del documento non afferma esplicitamente che l’anonima filosofa fosse stata allieva di Platone, ma il fraseggio di queste linee e in particolare il καὶ alla l. 3 – che allude al fatto che Speusippo sia stato maestro dopo qualcun altro – fanno fortemente supporre che Platone sia stato sua guida prima di Speusippo.

4 καθὰ λέγει: è un’espressione tipicamente dossografica; cfr. l’uso frequente di καθά φηϲιν nel Laerzio per introdurre la fonte impiegata. (𝑒.𝑔. I 1; VI 102; IX 25).

5 ὁ Ἱππόβοτοϲ. F 6a Gigante (cfr. Gɪɢᴀɴᴛᴇ [1985]). Ippoboto visse probabilmente tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C.[27] La sua 𝑎𝑐𝑚𝑒́ è collocata da Gigante nella prima metà del II secolo a.C.[28] Glucker sostiene in modo meno convincente una datazione fino al I secolo a.C.[29] Il Laerzio conserva i titoli di due opere, una Περὶ αἱρέϲεων (I 19; II 88) e una Τῶν φιλοϲόφων ἀναγραφή (I 42), e alcuni frammenti, tra cui un aneddoto su Menedemo il Cinico (VI 102), che è diverso dal Menedemo menzionato in 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656.

6-7 Μενεδήμου τοῦ | Ἐρετρικοῦ. 𝑆𝑆𝑅 III F 25; 𝐶𝑃𝐹 I 1,2,68, T 1. Lastenea e Assiotea non sono altrimenti associate a Menedemo. Menedemo di Eretria, discepolo del socratico Fedone e poi fondatore della scuola di Eretria, visse probabilmente dal 350/45 al 266/1 a.C.[30] Se la filosofa in questione fu allieva di Platone, morto nel 348/7, allora si dovrebbero ipotizzare per lei almeno due decenni di attività filosofica. Ciò non è impossibile, se iniziò a seguire Platone da giovanissima (cfr ll. 15-16 μείρακα)[31]. Tuttavia, come sostiene in maniera convincente Knoepfler, è probabile che il Menedemo menzionato nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656 sia erroneamente chiamato Ἐρετρικόϲ, mentre in realtà si intende proprio Menedemo di Pirra[32]: quest’ultimo, un Accademico battuto da Senocrate nella successione a Speusippo, fondò una sua propria scuola, e venne parodiato insieme a Platone e Speusippo in un frammento di Epicrate, autore della Commedia di Mezzo[33]. Secondo Knoepfler, l’autore del testo conservato nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656 deve aver trovato il nome di Menedemo senza ulteriori specificazioni nella sua fonte, e gli ha erroneamente attribuito l’epiteto di Ἐρετρικόϲ; ciò sarebbe indicato anche dall’uso impreciso dello ctetico Ἐρετρικόϲ al posto dell’etnico Ἐρετριεύϲ, che Knoepfler considera un tratto più tardo. Si può notare che il Laerzio chiama sempre Menedemo Ἐρετριεύϲ, mentre usa regolarmente Ἐρετρικόϲ per indicare la sua scuola e i suoi discepoli; soltanto in un caso riferisce questo nome allo stesso Menedemo (Dɪᴏɢ. VI 91; nessun riscontro è attestato a parte 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656). Vale la pena notare che la fonte citata di questo passo è Diocle di Magnesia, che è un possibile candidato per l’attribuzione del papiro. Nessuna fonte è allegata alla menzione di Menedemo nel 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656, a differenza di quello di Speusippo, e non si può escludere che Menedemo sia stato aggiunto proprio come un altro membro dell’Accademia (con l’epiteto sbagliato!), riflettendo il raggruppamento trovato in Epicrate, ma non aveva alcun rapporto con Lastenea o Assiotea.

7 ἀ[[υθιϲ]]φηγήϲατο δὲ. Lo scriba principale ha corretto un errore αὖθιϲ δὲ, chiaramente indotto dalle due righe sopra, che si trova nella stessa posizione sulla riga. La correzione è stata apportata modificando la forma di υ in quella di φ, eliminando θιϲ con un solo tratto orizzontale e aggiungendo ηγηϲατο nello spazio interlineare superiore.

8-9 Ἱερώ|νυμοϲ ὁ Ῥόδιοϲ. F 55 White; 𝐶𝑃𝐹 I 1,2,61, T 1. Il peripatetico Ieronimo di Rodi visse nel III secolo a.C. (ca. 290-230 a.C.)[34]. Il Laerzio (II 105) gli attribuisce un Περὶ ἐποχῆϲ (𝑆𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑜𝑠𝑝𝑒𝑛𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑔𝑖𝑢𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜) e un’opera in almeno due libri dal titolo Ϲποράδην ὑπομνήματα (𝑀𝑒𝑚𝑜𝑟𝑖𝑒 𝑠𝑝𝑎𝑟𝑠𝑒), da cui trae informazioni – per lo più aneddotiche – su Talete e Anassagora (I 26; II 14).

10 Περὶ ϲυνοχῆϲ. Come si è appena accennato, Dɪᴏɢ. II 105 attribuisce a Ieronimo un Περὶ ἐποχῆϲ (Hɪᴇʀᴏɴ.¹ F 24 Wehrli = 54b White). Per questo motivo, sottolineando l’ambiguità semantica di ϲυνοχή (che tra l’altro significa «detenzione, prigionia, oppressione», ma anche «coesione, compattezza»), poco ideale in un titolo, Gottschalk ha emendato la 𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜 tradita dal papiro ϲυνοχῆϲ in ἐποχῆϲ («fermata, sospensione di giudizio»)[35]. Non è da escludere che si tratti di due opere diverse, ma, come ha notato da Gigante, la tradizione manoscritta di Diogene mostra diversi esempi di scambio di preverbi e preposizioni[36]. Gigante difende la 𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜 del papiro e interpreta ϲυνοχή come uno stato di «coercizione» fisica o psicologica. In effetti, ciò sarebbe confermato dalla rappresentazione canzonatoria di Fedone di Elide – maestro di Speusippo – come δοῦλοϲ («servo»), che il Laerzio attribuisce al Περὶ ἐποχῆϲ di Ieronimo: probabilmente non si tratta di una mera invenzione, ed è plausibile che Fedone abbia sperimentato quella triste condizione dopo l’espugnazione della sua città nel 401 a.C. Ora, se le cose stanno così, allora la vicenda della giovane allieva potrebbe essere la storia della liberazione di una donna da qualsiasi tipo di servitù – secondo Gigante e Dorandi, si tratterebbe di una «schiavitù delle passioni»[37]. L’editore del papiro, Parsons, ha valutato i diversi significati filosofici della parola ϲυνοχή, quali «inibizione del movimento nel sonno» ([Aʀɪsᴛᴏᴛ.] 𝑃𝑙𝑎𝑛𝑡. 1,2 p. 816b39), «coesione dell’universo» (Cʜʀʏsɪᴘ. 𝑆𝑉𝐹 II F 550), «continuità nel luogo o nella forma» (Aᴘᴏʟʟᴏᴅ.⁴ 𝑆𝑉𝐹 III F 260), e «mantenimento della felicità» (Eᴘɪᴄᴜʀ. F 361 Usener), pur notando che «il significato di “afflizione” o “prigionia” non sembra essere attestato prima del I secolo a.C.»[38]: i primi paralleli, considerati da Gigante, si trovano appunto in due papiri documentali dell’epoca, nei quali ϲυνοχή è inteso letteralmente come «prigione» (𝑃. 𝐿𝑜𝑛𝑑. II 354, l. 24 e 𝐵𝐺𝑈 VIII 1821, l. 21; cfr. 𝐿𝑆𝐽 II 5). White, invece, propende per Περὶ ἐποχῆϲ come unico titolo corretto: ἐποχή si riferirebbe tecnicamente alla «”sospensione del giudizio” associata ad Arcesilao di Pitane e alla sua ‘Nuova Accademia”», che fu obiettivo polemico o quantomeno un conoscente di Ieronimo di Rodi[39]. In effetti, nel contesto di una discussione sullo Scetticismo accademico, un riferimento all’«eredità di Socrate, compreso Platone e altri socratici» non sarebbe del tutto fuori luogo[40]. Tuttavia, sebbene questo possa spiegare la rilevanza della trattazione di Ieronimo su Fedone, è più difficile immaginare un contesto adatto per una menzione di Lastenea o Assiotea: ma si può ipotizzare, per esempio, che un aneddoto ostile sia stato inserito in una discussione polemica sull’epistemologia o sulla teoria etica di Speusippo.

11-15 ἱϲτο|ρεῖ δ’ Ἀριϲτοφάνηϲ | ὁ περιπατητικὸϲ | ὁμοίωϲ ἐν τῷ Περὶ | ἀλυπίαϲ. 𝐶𝑃𝐹 I 1, 1, 23, T 1. Si menziona un filosofo peripatetico di nome Aristofane, non altrimenti attestato. Sull’identità di costui, si possono considerare tre diverse opzioni: 1) si ha a che fare con un autore sconosciuto; 2) la fonte è, in realtà, Aristofane di Bisanzio, che qui è insolitamente presentato come un Peripatetico; 3) si è verificato un problema testuale, forse una corruttela. Tralasciando la prima, se si assume la seconda opzione, forse occorre considerare un’accezione “liquida” di περιπατητικὸϲ, nome che sarebbe stato qui impiegato per indicare genericamente uno «studioso», oppure – e sembra un poco più plausibile – designerebbe una qualche connessione con il Peripato, se si pensa, per esempio, alle analisi filologiche di Aristofane di Bisanzio sugli studi di zoologia di Aristotele[41]. Ora, un altro problema è che non è attestato da nessuna parte che Aristofane di Bisanzio abbia redatto un Περὶ ἀλυπίαϲ, ma questo titolo si trova elencato nella 𝑆𝑢𝑑𝑎 fra i testi del suo presunto maestro, Eratostene (𝑆𝑢𝑑𝑎 ε 2898); come quest’ultimo, in effetti, Aristofane potrebbe aver nutrito sia interessi linguistico-grammaticali sia di natura filosofica[42]. Se, dunque, questo Aristofane “il Peripatetico” fosse il filologo alessandrino, si avrebbe una maggiore certezza circa la datazione dell’opera conservata dal 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. 3656, dato che il Bizantino visse circa tra il 265/57 e il 190/80 a.C.[43]

Quanto alla possibile corruttela, Gigante ha proposto di emendare Ἀριϲτοφάνηϲ con Ἀριϲτόξενοϲ, sebbene un Περὶ ἀλυπίαϲ non sia tra le opere conosciute di quest’ultimo[44]. In alternativa, si potrebbe pensare ad Aristone il Peripatetico (originario di Ceo, da non confondere con l’omonimo stoico di Chio). Nemmeno per lui, in realtà, è attestato un Περὶ ἀλυπίαϲ, ma sembra plausibile per l’autore di una lettera su 𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑚𝑝𝑒𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑙’𝑎𝑟𝑟𝑜𝑔𝑎𝑛𝑧𝑎, citata nel 𝑆𝑢𝑖 𝑣𝑖𝑧𝑖 di Filodemo[45].

Montanari, con certa riserva, ha ipotizzato che il Περὶ ἀλυπίαϲ attribuito ad Aristofane possa essere, in realtà, il titolo di uno scritto di Ieronimo, dato che quest’ultimo era ben noto per la sua teoria, secondo la quale l’assenza di dolore sia il bene più grande[46]. Può essere interessante osservare anche che “Peripatetico” era un attributo attestato proprio per Ieronimo: cfr., per es., Cʟᴇᴍ. Aʟᴇx. 𝑆𝑡𝑟. II 21, 127; Aᴛʜᴇɴ. XIII 602a; e si vd. la questione al riguardo in Cɪᴄ. 𝑑𝑒 𝑓𝑖𝑛. 5, 14 = F 11 White. L’espunzione di Ἀριϲτοφάνηϲ, che lascerebbe soltanto ὁ περιπατητικόϲ riferito a Ierononimo, sarebbe forse una soluzione, ma è difficile spiegare come quel nome possa essere entrato nel testo.

Infine, si potrebbe ancora ipotizzare che Aristofane di Bisanzio abbia parlato di Lastenea nel suo 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖, citata da Ateneo (cfr. n. 42 𝑠𝑢𝑝𝑟𝑎), mentre un Peripatetico (Aristone o il suddetto Ieronimo?) ha fatto riferimento alla sua avvenenza in un Περὶ ἀλυπίαϲ, contestualizzando la relazione fra la donna e Speusippo. Un goffo epitomatore, se di epitome si tratta il testo nel papiro, attingendo a una fonte in cui sono menzionati entrambi gli autori, potrebbe aver confuso il nome del primo con l’epiteto e il titolo dell’opera del secondo. Oppure, parimenti, uno scriba può aver accidentalmente omesso alcune parole o linee, saltando da ciò che seguiva il nome Ἀριϲτοφάνηϲ (𝑒.𝑔. ὁ γραμματικόϲ) a ὁ περιπατητικόϲ: un equivoco errore di copiatura (forse), ma di tipo diverso, occorre anche alla l. 7.

14 ὁμοίωϲ. Questo avverbio si trova di consueto nei resoconti dossografici per indicare l’accordo fra le fonti citate (si vd., per es., Dɪᴏɢ. III 47; VII 87; 148; VIII 51). Mentre in questo passo sembra esserci un’asimmetria fra le due frasi che ὁμοίωϲ dovrebbe equiparare: da un lato, si ha solo un riferimento generico all’aspetto della giovane allieva nel trattato di Ieronimo; dall’altro, c’è una specifica informazione attribuita ad Aristofane (?). Questo potrebbe essere un indizio della natura suntiva del testo papiraceo (compatibile, per esempio, con l’epitomatore Eraclide Lembo): si potrebbe immaginare che la fonte dell’autore del documento abbia attribuito a Ieronimo una specifica informazione, in linea con il riferimento alla bellezza fisica della fanciulla contenuta nel catalogo aristofaneo; mentre lo scriba l’avrebbe omessa, inserendo nel proprio testo soltanto il nome della fonte e il titolo dell’opera. Si noti che la presenza di ὁμοίωϲ potrebbe essere spiegata anche se il Περὶ ἀλυπίαϲ fosse opera di Ieronimo e il nome di Aristofane un’interpolazione; in questo senso, si potrebbe tradurre: «Ieronimo ha parlato della ragazza nel suo Περὶ ϲυνοχῆϲ; così, nel suo Περὶ ἀλυπίαϲ il Peripatetico riferisce…».

15-18 τὴν μείρα|κα ὡραίαν χαρίτων | τε ἀνεπιτηδεύτων | πλήρη οὖϲαν. È probabile che ἱϲτορεῖ (ll. 11-12) regga un’infinitiva (𝑒.𝑔. Dɪᴏᴅ. I 15, 2; III 44, 3; ecc.), con οὖϲαν, che è un participio circostanziale, ma non si può escludere l’uso di un participio predicativo (Iᴏs. 𝐴𝐽 1, 108); quindi, non si può dire se questa frase termini prima o dopo νεα.

18-20? νεα | [ ̣ ̣] ̣[ ̣] ̣[ ̣] π̣ερὶ αυτήν | [ 𝑐𝑎. 9 ] ̣οϲκαι. περὶ αὐτῆϲ (l. 8) è complemento d’argomento, mentre è probabile – ma non sicuro – che qui π̣ερὶ αὐτήν (o soltanto αὑτήν) abbia un valore diverso, forse un complemento di luogo: si potrebbe colmare la lacuna con νεα|[νε]ί̣[α]ϲ̣ (l. νεανίαϲ) π̣ερὶ αὑτὴν | [ἀεὶ ἔχειν], cioè «aveva sempre attorno a sé dei giovanotti» (cfr. Lᴜᴄ. 𝑉𝐻 1, 15 ὁ αϲιλεὺϲ τοὺϲ ἀρίϲτουϲ περὶ αὑτὸν ἔχων, e Dɪᴏɴ. XI 2, 1 τοῖϲ θραϲυτάτοιϲ τῶν νέων, οὓϲ εἶχον ἕκαϲτοι περὶ αὑτούϲ). Si osservi che le due tracce visibili alla l. 19 sono indicate da Parsons rispettivamente come «top of upright» e «short horizontal or arc just below the letter-tops».

20 ] ̣. τ. potrebbe trattarsi della traccia di un αὐτὸϲ o un οὗτοϲ (?). Un’espressione, come οὗτοϲ (𝑠𝑐𝑖𝑙. Aristofane) καὶ (un’altra fonte) λέγουϲι(ν)/φαϲι(ν)/ἱϲτοροῦϲι(ν), continuerebbe il racconto dossografico.

Michel Corneille il Giovane, Aspasia fra i filosofi dell’antica Grecia. Olio su tela, 1670 c. Château de Versailles.

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Edizioni e traduzioni:

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Note:

[1] Le testimonianze sul loro conto sono state raccolte e discusse da Dᴏʀᴀɴᴅɪ (1989). Per una panoramica sulle due donne, si vd. anche Gᴏᴜʟᴇᴛ (1989) e Gᴏᴜʟᴇᴛ, Dᴏʀᴀɴᴅɪ (2005).

[2] Dɪᴏɢ. III 46, Cʟᴇᴍ. Aʟᴇx. 𝑆𝑡𝑟𝑜𝑚. IV 122, 19; 𝑃𝑟𝑜𝑙𝑒𝑔. 𝑖𝑛 𝑃𝑙𝑎𝑡. 4, 25-26. Nella versione araba della vita di Platone, inclusa nella 𝑇𝑎ʾ𝑟𝑖̄𝑘ℎ 𝑎𝑙-ℎ̣𝑢𝑘𝑎𝑚𝑎̄ʾ [𝐿𝑎 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑑𝑒𝑖 𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖] di Ibn al-Qifti (1172-1248), si racconta che Assiotea e Lastenea fossero le mogli del filosofo e non sue allieve (24, 2-8 Lippert); cfr. la traduzione latina in Roeper (1866, 12-13) con commento 𝑎𝑑 𝑙𝑜𝑐.

[3] Dɪᴏɢ. IV 2. La testimonianza isolata di Giamblico (𝑉𝑃 267) include una Λαϲθένεια Ἀρκάδιϲϲα tra le più illustri intellettuali pitagoriche (Πυθαγορίδεϲ γυναῖκεϲ αἱ ἐπιφανέϲται). Considerando la ben attestata presenza femminile tra i Pitagorici, Wᴇʜʀʟɪ (1967, 55) ipotizza che Assiotea e Lastenea fossero in realtà membri della scuola pitagorica e fossero state erroneamente collegate all’Accademia di Platone da una tradizione successiva; Sᴡɪꜰᴛ Rɪɢɪɴᴏs (1976, 184 n. 13) sostiene il contrario. Tuttavia, mentre appare improbabile che ci fossero due Lastenea omonime nelle due scuole (con buona pace di Oɢɪʟᴠɪᴇ [1986, 119]), non c’è motivo di escludere che Lastenea di Mantinea possa aver frequentato entrambe le scuole. Su questa linea, e nonostante la mancanza di prove su una connessione tra Assiotea e i Pitagorici, Gᴀɪsᴇʀ (1988, 363) ipotizza che la filosofa sia stata prima pitagorica a Fliunte, sede del pitagorismo, e poi sia divenuta un’accademica ad Atene.

[4] Dɪᴏɢ. IV 1 dice infatti che il filosofo era un uomo «collerico e incapace di dominare i piaceri» (ὀργίλος καὶ ἡδονῶν ἥττων); mentre in IV 4, riprendendo Timoteo di Atene (𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1079 F 2), il dossografo descrive le conseguenze fisiche della dissolutezza di Speusippo (τὸ σῶμα διακεχυμένος, «fisicamente infiacchito») e riporta un aneddoto secondo cui il filosofo, incontrando un uomo ricco innamorato di una donna sgraziata, si sarebbe offerto di trovargliene una più bella per dieci talenti. La notizia è in qualche modo estremizzata da Tᴇʀᴛᴜʟ. 𝘈𝘱𝘰𝘭. 46, 10, che racconta che Speusippo morì «commettendo adulterio» (𝑎𝑢𝑑𝑖𝑜 𝑒𝑡 𝑞𝑢𝑒𝑛𝑑𝑎𝑚 𝑆𝑝𝑒𝑢𝑠𝑖𝑝𝑝𝑢𝑚 𝑑𝑒 𝑃𝑙𝑎𝑡𝑜𝑛𝑖𝑠 𝑠𝑐ℎ𝑜𝑙𝑎 𝑖𝑛 𝑎𝑑𝑢𝑙𝑡𝑒𝑟𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑠𝑠𝑒).

[5] Su queste lettere, si vd. Tᴀʀᴀ́ɴ (1981, 223), che ritiene spurie sia l’epistola (o le epistole) citate da Ateneo e Diogene Laerzio, sia 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 𝑆𝑜𝑐𝑟. 36, in linea con il generale accordo degli studiosi per cui le 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡𝑢𝑙𝑎𝑒 𝑆𝑜𝑐𝑟𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎𝑒 sarebbero un falso di età imperiale fondato, comunque, sulla storicità dell’ostilità tra i due corrispondenti (eccetto 𝐸𝑝𝑖𝑠𝑡. 𝑆𝑜𝑐𝑟. 30, che Speusippo avrebbe inviato a Filippo II, su cui si vd. da ultimo Nᴀᴛᴏʟɪ [2004]). Si noti che il Laerzio ha incluso le «Lettere a Dione, Dionisio e Filippo» nel catalogo della produzione speusippea (IV 4). Sulla tradizione riguardante il rapporto tra Dionisio II e Speusippo, si vd. anche Mᴜᴄᴄɪᴏʟɪ (1999, 275), che ritiene che la loro corrispondenza riflettesse una realtà storica, mentre Mᴇʀʟᴀɴ (1959, 207-209) con sicurezza la considera un autentico scambio epistolare.

[6] Dɪᴄᴀᴇᴀʀᴄʜ. F 44 Wehrli = 50 Mirhady = 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1400 F 62 (L’informazione che quest’ultimo tramanda è comunemente riferita al suo Περὶ βίων [𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑣𝑖𝑡𝑒]), citato in Dɪᴏɢ. III 46.

[7] 𝑂𝑟. 23, 295c-d. Temistio chiama Assiotea «l’Arcade», confondendola probabilmente con Lastenea, ma si tratterebbe di uno scambio intenzionale: in questo modo il racconto della sua conversione alla filosofia, ambientato in una regione tradizionalmente considerata primitiva e remota, appare certamente più avvincente (cfr. Sᴋɪɴɴᴇʀ 2012, 108-109). Ora, benché questo aneddoto si adatti alla forza protrettica dei dialoghi platonici, menzionati anche in Dɪᴄᴀᴇᴀʀᴄʜ. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1400 = F 63b = Pʜʟᴅ. 𝐴𝑐𝑎𝑑. 𝐻𝑖𝑠𝑡., 𝑃𝐻𝑒𝑟𝑐. 1021, col. 1, 11‑45, è molto probabilmente fittizio. Del resto, la conversione alla filosofia è un 𝑡𝑜́𝑝𝑜𝑠 biografico e, difatti, sempre Temistio tramanda una storia simile, tratta da Aristotele (F 64 Rose³ = F 658 Gigon), circa un agricoltore corinzio, il quale, dopo aver letto il 𝐺𝑜𝑟𝑔𝑖𝑎, avrebbe abbandonato i suoi campi per dedicarsi totalmente alla filosofia.

[8] Oʟʏᴍᴘ. 𝐼𝑛 𝐴𝑙𝑐. 2, 147-150 Westerink; Pʜʟᴅ. 𝐴𝑐𝑎𝑑. 𝐻𝑖𝑠𝑡., 𝑃𝐻𝑒𝑟𝑐. 1021, col. 6, 25-27 Dorandi. È possibile, ma tutt’altro che certo, che un altro passo dell’𝐻𝑖𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝐴𝑐𝑎𝑑𝑒𝑚𝑖𝑐𝑜𝑟𝑢𝑚 di Filodemo di Gadara menzioni la sola Assiotea (col. Y 37 – 2, 1), riferendo che ella fosse solita indossare abiti maschili: cfr. Gᴇɪsᴇʀ (1983, 60 e 1988, 154) e Dᴏʀᴀɴᴅɪ (1989, 54-55), ma si noti che il passo è pesantemente interpolato sulla base di diverse 𝑙𝑒𝑐𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒𝑠 incerte, come ha recentemente dimostrato Vᴇʀʜᴀssᴇʟᴛ (2013).

[9] Così Sᴡɪꜰᴛ Rɪɢɪɴᴏs (1976, 183-184).

[10] Cfr. Dɪᴏɢ. VI 93, che cita un frammento delle Δίδυμαι [𝐺𝑒𝑚𝑒𝑙𝑙𝑒] di Menandro (F 114 K.-A.), e VI 97; cfr. Hᴀʀᴛᴍᴀɴɴ (2007, 239 con n. 39). Questa pratica è in linea con le istruzioni di Zenone di Cizio circa l’abbigliamento comune fra uomini e donne: si vd. Dɪᴏɢ. VII 33 (= 𝑆𝑉𝐹 I F 257) e Pʜʟᴅ. 𝑆𝑡𝑜𝑖𝑐. col. 19, 12-14 Dorandi.

[11] Cfr. Tᴀʀᴀ́ɴ (1981, 177-180) e i frammenti di etica dello stesso Speusippo (F 73-89 Isnardi-Parente).

[12] Wᴇʜʀʟɪ (1978, 15). Sul rapporto tra Speusippo e la bellezza femminile, cfr. ancora l’aneddoto riportato da Dɪᴏɢ. IV 4. A questo proposito, una tradizione ostile al filosofo potrebbe anche aver fatto leva sulla dedica da parte sua di alcune statue alle Cariti nel sacrario alle Muse, fatto erigere da Platone nell’Accademia: 𝑖𝑏𝑖𝑑. IV 1, si vd. Tᴀʀᴀ́ɴ (1981, 5).

[13] Si vd. Rᴜɴɪᴀ 2004.

[14] Sulla sua cronologia, si vd. Rᴜɴɪᴀ (2008).

[15] Si vd. Dɪᴏɢ. V 79; VIII 7; IX 1 (Hᴇʀᴀᴄʟ.³ 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. III F 8-10). Sulla cronologia del Lembo, si vd. Sᴄʜɴᴇɪᴅᴇʀ (2000).

[16] Si vd. in part. Sᴄʜᴇᴘᴇɴs, Sᴄʜᴏʀɴ (2010, 422-428), ma già Gᴀʟʟᴏ (1975, 28-31).

[17] Dɪʟᴛs (1971, 9); Bʟᴏᴄʜ (1940, 36-37). Si vd. anche 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 1026 T 5 con il commento di Bollansée.

[18] Vᴏɴ Fʀɪᴛᴢ (1931).

[19] Come paralleli paleografici, si possono citare 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. I 26 (= 𝑃. 𝐿𝑖𝑡. 𝐿𝑜𝑛𝑑. 129) e 𝑃. 𝑂𝑥𝑦. XXXIV 2703, entrambi effettivamente datati alla seconda metà del II secolo: cfr. Rᴏʙᴇʀᴛs (1955, 19) e Dᴇʟ Cᴏʀsᴏ (2006, 95).

[20] 𝐸𝑑. Pᴀʀsᴏɴs (1984); 𝑝𝑎𝑝𝑦𝑟𝑢𝑚 𝑖𝑝𝑠𝑎 𝑖𝑛𝑠𝑝𝑒𝑥𝑖.

[21] 9 ϊερω- 𝑝𝑎𝑝.

[22] 10 ϲυνοχῆϲ : ἐποχῆϲ Gᴏᴛᴛsᴄʜᴀʟᴋ

[23] 12 Ἀριϲτοφάνηϲ : Ἀριϲτόξενοϲ 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑡𝑎𝑣𝑖𝑡 Gɪɢᴀɴᴛᴇ, 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑠 𝑒𝑡𝑖𝑎𝑚 Ἀρίϲτων

[24] 15 μιρα- 𝑝𝑎𝑝.

[25] 19 αὐτήν Pᴀʀsᴏɴs, 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑠 𝑒𝑡𝑖𝑎𝑚 αὑτήν.

[26] 20 ] ̣τ 𝑣𝑒𝑙 γ Pᴀʀsᴏɴs

[27] Rᴜɴɪᴀ (2005).

[28] Gɪɢᴀɴᴛᴇ (1983).

[29] Gʟᴜᴄᴋᴇʀ (1978, 176-179).

[30] Kɴᴏᴇᴘꜰʟᴇʀ (1991, 16-18; 203 n. 92).

[31] Diogene Laerzio riferisce che Menedemo di Eretria visitò l’Accademia di Atene e incontrò Platone (II 125: ἀνῆλθεν εἰϲ Ἀκαδημείαν πρὸϲ Πλάτωνα, καὶ θηραθεὶϲ κατέλιπε τὴν ϲτρατείαν). Piuttosto che indicare che la ricostruzione accettata della cronologia di Menedemo è sbagliata, questo passo deriva probabilmente da una confusione tra questo Menedemo e Menedemo di Pirra, che fu uno studente dell’Accademia fino alla morte di Speusippo, o da una fonte in cui è menzionata soltanto l’Accademia, e non Platone.

[32] Kɴᴏᴇᴘꜰʟᴇʀ (2010, 78-80).

[33] Pʜʟᴅ. 𝐴𝑐𝑎𝑑. col. 6,41-7,10 Dorandi; Eᴘɪᴄʀ. F 10 K.-A.

[34] Si vd. Mᴀᴛᴇʟʟɪ (2004).

[35] Gᴏᴛᴛsᴄʜᴀʟᴋ (2004, 376-377).

[36] Gɪɢᴀɴᴛᴇ (1986, 60-61).

[37] Dᴏʀᴀɴᴅɪ (1989, 58).

[38] Pᴀʀsᴏɴs (1984, 50).

[39] Wʜɪᴛᴇ (2004, 213). Sui rapporti tra Ieronimo e Arcesilao, si vd. Gᴏᴛᴛsᴄʜᴀʟᴋ (2004, 376).

[40] Wʜɪᴛᴇ (2004, 211).

[41] Fin dai saggi di Lᴇᴏ (1901, 118), molti studiosi contemporanei hanno ipotizzato che un legame con la scuola alessandrina e la compilazione di biografie, un genere solitamente associato al Peripato, costituissero un elemento sufficiente perché uno studioso antico fosse designato “peripatetico”. Si vd. 𝑒.𝑔. i casi di Ermippo e Satiro (Pꜰᴇɪꜰꜰᴇʀ [1968, 129-130], e 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎 Wᴇsᴛ [1974, 280-281]), Agatarchide di Cnido e il grammatico Tolomeo, citato da Sᴇxᴛ. 𝑆. 1, 60 (Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ [1989, 249]). Sᴄʜᴏʀɴ (2003), invece, ha mostrato che l’uso dell’epiteto περιπατητικὸϲ è di solito meglio giustificato e designa un’effettiva formazione filosofica aristotelica. Nel caso in questione, comunque, il titolo dello scritto attribuito ad Aristofane non lascia intendere un’opera di tipo biografico e, perciò, l’argomento della connessione al Peripato tramite questo genere letterario si rivelerebbe piuttosto debole. In ogni caso, data la frammentarietà delle informazioni pervenute sulla vita e sulle opere di Aristofane, non è possibile escludere completamente un qualche legame più concreto con la scuola peripatetica.

[42] Va ricordato che ad Aristofane di Bisanzio è inoltre attribuito un 𝑆𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑒𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎𝑡𝑒𝑛𝑖𝑒𝑠𝑖, un catalogo di 135 ἑταῖραι con il quale Ateneo di Naucrati sembra avere avuto una certa dimestichezza (si vd. in part. Aᴛʜᴇɴ. XIII 567a e 583d-e; cfr. 𝐹𝐺𝑟𝐻𝑖𝑠𝑡. 347 T 2). In effetti, un’opera del genere sembrerebbe pertinente alla bellezza fisica dell’allieva accademica, soprattutto considerando che Lastenea compare nei 𝐷𝑒𝑖𝑝𝑛𝑜𝑠𝑜𝑝ℎ𝑖𝑠𝑡𝑎𝑒 come ἑταίρα di Speusippo. Ciononostante, una relazione tra il catalogo delle cortigiane e il titolo περὶ ἀλυπίαϲ sembra poco convincente e meramente congetturale.

[43] Sulla vita di Aristofane di Bisanzio, si vd. Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ (2002).

[44] Gɪɢᴀɴᴛᴇ (1986, 62).

[45] Pʜɪʟᴏᴅ. 𝐴𝑑𝑢𝑙. col. 10, 10-16, 38 Jensen. La lettera è attribuita a un certo Aristone, ma senza ulteriori specificazioni, e gli studiosi moderni l’hanno variamente attribuita o ad Aristone di Ceo o quello di Chio; si vd. però Vᴏɢᴛ (2006) per un’attribuzione convincente al primo e per ulteriore bibliografia sulla questione. Sugli argomenti piuttosto deboli addotti a favore dello Stoico nell’ultima edizione di Rᴀɴᴏᴄᴄʜɪᴀ (2007), cfr. Iɴᴅᴇʟʟɪ (2010). In ogni caso, non meraviglierebbe se un’opera di Aristone di Chio fosse stata erroneamente attribuita al filosofo di Ceo in antico: la confusione tra i due omonimi, e quasi contemporanei, iniziò già nel II secolo a.C. (cfr. Dɪᴏɢ. VII 163).

[46] Mᴏɴᴛᴀɴᴀʀɪ (1989, 249-250). Sulla teoria di Ieronimo, si vd. in part. F 20A e 20B White.

L. Anneo Seneca

da G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 343-355, con inserzioni da F. PIAZZI – A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 3. L’alto e il basso Impero, Bologna 2004, pp. 84-96.

L. Anneo Seneca nacque a Corduba (od. Cordova), in Hispania Tarraconensis, intorno al 5 a.C. Era di famiglia ricchissima d’estrazione equestre. Il padre era M. Anneo Seneca il Retore e la madre, Elvia, era una donna di profonda cultura.

Anonimo, Seneca. Busto, marmo, XVII sec. Madrid, Museo del Prado.

Giunto a Roma, Seneca ricevette un’ottima educazione sia oratoria sia filosofica, in vista della carriera politica: seguì le lezioni dello stoico Attalo, del neopitagorico Sozione e del retore Papirio Fabiano, aderente alla setta dei Sestii, che prescriveva il vegetarismo, l’ascesi, l’isolamento dalla vita pubblica e mondana in vista della libertà interiore. In seguito, intorno al 26 d.C., Seneca si recò in Aegyptus al seguito di uno zio prefetto, e vi soggiornò a lungo forse anche per sfuggire alle persecuzioni ordinate già da Tiberio nel 19 d.C., contro i seguaci di pratiche ascetiche e straniere. Ritornato nell’Urbe, nel 31 d.C. iniziò l’attività forense e compì il cursus honorum, ottenendo un successo cospicuo. Il giovane provinciale entrò presto nell’ordine senatorio e ricoprì anche la quaestura. Ma un suo discorso in Senato offese Caligola (37-41 d.C.), che, geloso della sua fama oratoria, l’avrebbe messo a morte, se non fosse stato per l’intercessione di un’amante del princeps.

Non scampò, tuttavia, dalla relegatio che, nel 41, gli comminò il nuovo imperatore Claudio, con l’accusa di coinvolgimento nell’adulterio di Giulia Livilla, figlia minore di Germanico e sorella di Caligola: in realtà, con quest’atto, si voleva colpire l’opposizione politica coagulata attorno alla famiglia di Germanico e discriminare Giulia Livilla, rivale di Messalina a corte. Quanto a Seneca, egli fu dunque allontanato in Corsica, dove rimase per otto lunghi anni, praticando i precetti stoici secondo i quali il bene del sapiens non dipende dai luoghi, ma dall’equilibrio interiore. Di questi anni è la Consolatio ad Polybium, dedicata al potente liberto imperiale per consolarlo della scomparsa del fratello, ma soprattutto per ottenere con adulazioni smaccate la revoca della pena.

Caduta in disgrazia Messalina, nel 49 d.C. la nuova Augusta Agrippina riuscì a ottenere dall’imperatore il rientro a Roma di Seneca e lo scelse come tutore del figlio di primo letto, Nerone. Nel ruolo di educatore, affiancato dal praefectus praetorio S. Afranio Burro, Seneca scorse l’occasione per realizzare il sogno platonico di uno Stato perfetto, illuminato dalla sapienza filosofica, fondato sull’umanità, la filantropia, la clemenza, guidando l’ascesa al trono del giovanissimo Nerone. Morto Claudio nel 54 d.C., effettivamente Seneca, di comune accordo con Burro, per cinque anni governò in luogo del princeps.

Secondo il programma senecano l’imperatore avrebbe dovuto apparire un modello di virtù, un buon padre in grado di condurre alla felicità i suoi cives, in una ritornata età dell’oro. Di Nerone cercò di temperare l’enorme vanità, prospettandogli la gloria derivante da un governo moderato, rispettoso delle prerogative tradizionali dell’aristocrazia senatoria e ispirato a principi di equilibrio e di conciliazione dei poteri. Anche se – come si legge nel De clementia, dedicato proprio a Nerone e «manifesto del nuovo regime» – queste prerogative non avevano più fondamento costituzionale, ma erano da Seneca stesso viste come benigna concessione del princeps.

Tuttavia, il sogno di trasformare il giovane imperatore nel sovrano-filosofo auspicato da Platone non urtava solo contro il corso degli eventi e contro la natura di Nerone, che di lì a poco avrebbe rivelato il suo volto illiberale, paranoico e dispotico, attuando una politica anti-senatoriale, repressiva e autocratica. Collideva anche contro l’incapacità di Seneca stesso di vivere coerentemente con i precetti enunciati. E questa debolezza lo rendeva poco credibile agli occhi dei detrattori, che gli rimproveravano non a torto l’avarizia, l’ambizione e finanche l’usura. Inoltre, la necessità di preservare l’imperatore dagli intrighi dinastici imponeva che Seneca stesso prendesse parte in delitti che non potevano non ripugnare alla sua coscienza morale e filosofica. Così il maestro lasciò che Nerone si sbarazzasse del fratellastro Britannico (55 d.C.) e togliesse di mezzo finanche la madre Agrippina (59 d.C.).

Sul piano filosofico ed esistenziale il bilancio di quegli anni di reggenza non doveva risultare positivo per Seneca. Alla morte nel 62 dell’amico Burro, egli non fu più disposto ad avallare la politica assolutistica di Nerone, ormai sedotto e controllato da Poppea, avviato alla famigerata fase conclusiva del suo regime, Seneca, vista venir meno la sua influenza di consigliere politico, si ritirò gradualmente a vita privata, dedicandosi allo studio e alla meditazione. Fu questo il periodo in cui attese alla composizione delle sue opere.

Ben presto, però, la politica lo raggiunse anche nel dorato isolamento: inviso ormai e sospetto a Nerone e al suo nuovo praefectus praetorio Tigellino, Seneca fu coinvolto nella celebre “congiura dei Pisoni” (aprile 65), di cui egli era forse solo al corrente, senza esserne davvero partecipe. Il princeps, condannatolo a morte per lesa maestà, gli ingiunse di tagliarsi le vene: con grande dignità Seneca affrontò quella morte alla quale si era lungamente preparato nella riflessione di un’intera vita.

Noël Sylvestre, La morte di Seneca. Olio su tela, 1875. Béziers, Musée des Beaux-Arts.

Le opere e le fonti biografiche

Della vasta produzione senecana, anche fra le opere superstiti quelle di carattere filosofico occupano lo spazio maggiore: alcune di queste furono raccolte, dopo la morte di Seneca, in dodici libri di Dialogi (titolo già noto a Quintiliano, e che, pur ricalcando il greco διατριβαί ovvero διαλέξεις, non implica generalmente una forma dialogica, ma pare piuttosto dovuto alla grande tradizione del dialogo filosofico risalente a Platone); in queste opere sono trattate questioni di carattere etico e psicologico: 1. Ad Lucilium de providentia; 2. Ad Serenum de constantia sapientis; 3-5. Ad Novatum de ira libri III; 6. Ad Marciam de consolatione; 7. Ad Gallionem de vita beata; 8. Ad Serenum de otio; 9. Ad Serenum de tranquillitate animi; 10. Ad Paulinum de brevitate vitae; 11. Ad Polybium de consolatione; 12. Ad Helviam matrem de consolatione.

Le altre opere filosofiche, tramandate autonomamente, sono i sette libri De beneficiis, il De clementia, indirizzato a Nerone (in tre libri, di cui restano il primo e l’inizio del secondo), e i venti libri comprendenti le centoventiquattro Epistulae morales ad Lucilium. Di carattere più propriamente scientifico sono le Naturales quaestiones, in sette libri (in origine, forse, otto), dedicate a Lucilio. Eccone gli argomenti: I. i fuochi celesti; II. i tuoni, i fulmini, i lampi; III. le acque terrestri; IV. la piena de Nilo e le nubi; V. i venti; VI. il terremoto; VII. le comete.

Sono pervenute di Seneca anche nove tragedie cothurnatae, cioè di argomento greco, tramandate dal manoscritto Etruscus della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze in quest’ordine: Hercules furens, Tròades, Phoenissae, Medèa, Phaedra, Oèdipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus. Un altro gruppo di manoscritti conserva una decima tragedia, l’Octavia, di argomento romano: una praetexta probabilmente opera di un imitatore.

A parte va considerata l’operetta mista di prosa e versi che reca il titolo di Ludus de morte Claudii, o Apokolokyntosis (cioè «inzuccatura» o «apoteosi di uno zuccone»), una satira menippea, dai toni feroci, sul singolare processo di beatificazione del defunto imperatore. Fu scritta nel 54, subito dopo la scomparsa di Claudio, e inscenata a corte con il consenso di Agrippina.

Di dubbia attribuzione sono gli Epigrammi. Diverse sono le opere perdute: una biografia del padre, numerose orazioni, svariati trattati di carattere fisico, geografico, etnografico e molti altri testi filosofici (fra cui i Moralis philosophiae libri, cui accenna più volte l’autore). Parecchie anche le opere di incerta paternità o sicuramente spurie: fra queste ultime il caso più noto è quello della corrispondenza fra Seneca e l’apostolo Paolo di Tarso, frutto di una leggenda che contribuì ad alimentare la fortuna di Seneca nel Medioevo.

Molte sono le notizie autobiografiche fornite dall’autore in persona (specialmente nelle Epistulae e nella Consolatio ad Helviam matrem); fra le altre fonti, le più importanti sono i libri XIII-XV degli Annales di Tacito, una sezione della Storia romana dello storico Cassio Dione e le biografie svetoniane degli imperatori Caligola, Claudio e Nerone.

Flora. Affresco, ante 79 d.C. da Stabiae. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

I Dialogi e la saggezza stoica

Ben poche, fra le opere senecane rimaste, sono databili con sicurezza o buona approssimazione, sicché è difficile cercare di seguire un eventuale sviluppo del pensiero dell’autore o collegarle alle sue vicende biografiche. Fra queste dovrebbe essere la Consolatio ad Marciam, scritta sotto il principato di Caligola (forse attorno al 40) e indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Cordo per consolarla della perdita di un figlio. Il genere della consolatio, già coltivato nella tradizione filosofica ellenica, si costituisce attorno a un repertorio di temi morali (la fugacità del tempo, la precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile dell’uomo, ecc.), intorno a quali, a loro volta, ruota gran parte della riflessione di Seneca: a tale repertorio tematico egli torna a far riferimento anche nelle altre due consolationes pervenute. Tutte e due, tra l’altro, sono ascritte agli anni dell’esilio: quella Ad Helviam matrem, forse del 42, cerca di tranquillizzare la madre sulla propria condizione di esule, esaltando gli aspetti positivi dell’isolamento e dell’otium contemplativo; l’altra, probabilmente del 43, rivolta Ad Polybium, un potente liberto di Claudio, per consolarlo della perdita di un fratello, si rivela in realtà come un tentativo di adulare indirettamente il princeps per ottenere il ritorno a Roma – si tratta, infatti, dell’opera che più è costata a Seneca l’accusa di opportunismo.

I singoli testi della raccolta Dialogi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o di problemi particolari dell’etica stoica, il quadro generale in cui l’intera produzione filosofica senecana si iscrive: uno Stoicismo, beninteso, che ha stemperato l’antico rigore dottrinale, sulle orme della cosiddetta «scuola di mezzo», e non conosce chiusure dogmatiche.

I tre libri del De ira, ad esempio, scritti in parte prima dell’esilio, ma pubblicati dopo la morte di Caligola, sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane: ne analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e dominarle; all’ira, più precisamente, è dedicato il III libro. L’opera è indirizzata al fratello Novato, al quale Seneca avrebbe inviato qualche anno dopo, quando Novato avrebbe assunto il cognomen Gallione (dal nome del padre adottivo, il retore Giunio Gallione) anche il De vita beata (forse del 58): quest’ultimo affronta il problema della felicità e del ruolo che nel perseguimento di essa possono svolgere gli agi e le ricchezze. In realtà, dietro il tema generale, Seneca sembra voler fronteggiare le accuse, che gli venivano mosse (Tacito, Ann. XIII 42), di incoerenza fra i principi professati e la concreta condotta di vita che lo aveva portato, grazie alla posizione di potere occupata a corte, ad accumulare un patrimonio sterminato (anche mediante la pratica dell’usura).

François-Léon Benouville, L’ira di Achille. Olio su tela, 1847. Montpellier, Musée Fabre.

Posto che l’essenza della felicità è nella virtù, non nella ricchezza e nei piaceri (la polemica è rivolta soprattutto all’Epicureismo, o almeno alle sue versioni deteriori), Seneca legittima tuttavia l’uso della ricchezza, se questa si rivela funzionale alla ricerca della virtù. Saggezza e ricchezza non sono necessariamente antitetiche (nemo sapientiam paupertate damnauit, «nessuno ha condannato la saggezza alla povertà», 23). Seneca resta generalmente estraneo al fascino del modello cinico, avvertito come pericolosamente asociale: chi aspira alla sapientia, che resta un ideale mai pienamente conseguibile, dovrà saper «sopportare» gli agi e il benessere che le circostanze della vita gli hanno procurato, senza lasciarsene invischiare, secondo il principio, cioè, che l’importante non è non possedere beni e ricchezze, ma non farsi possedere da essi.

Del resto, Seneca non pretende di essere un saggio, ma uno che cura i mali del proprio animo mediante la filosofia. L’accusa di incoerenza rispetto ai principi filosofici fu rivolta anche a illustri pensatori del passato:

[18, 1] «Aliter» inquis «loqueris, aliter uiuis». Hoc, malignissima capita […], Platoni obiectum est, obiectum Epicuro, obiectum Zenoni; omnes enim isti dicebant non quemadmodum ipsi uiuerent, sed quemadmodum esset et ipsis uiuendum. De uirtute, non de me loquor, et cum uitiis conuicium facio, in primis meis facio: potuero, uiuam quomodo oportet.

Parli in un modo – tu mi dici – e vivi in un altro. Queste accuse […] furono rivolte a Platone, a Epicuro, a Zenone. Tutti questi filosofi, infatti, parlavano non come vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Io non parlo di me, ma della virtù, e se condanno i vizi, condanno anzitutto i miei. Quando ne sarò capace, vivrò secondo virtù. (trad. G. Garbarino)

Tryphe a banchetto. Mosaico, III sec. d.C. da Antakya. Antakya, Museo Archeologico.

Il superiore distacco del sapiens dalle contingenze terrene è anche il tema unificante della trilogia dedicata all’amico Sereno, che aveva inteso abbandonare le sue convinzioni epicuree per accostarsi all’etica stoica: De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi.

Il primo dei tre dialoghi, pubblicato dopo il 41, esalta appunto l’imperturbabilità del saggio stoico, forte della sua interiore fermezza, di fronte alle ingiurie e alle avversità: proprio perché possiede la virtus, il sapiens non può ricevere offesa da parte degli uomini.

Il De tranquillitate animi, scritto all’epoca della collaborazione con Nerone e l’unico parzialmente in forma dialogica, affronta un problema fondamentale nella riflessione senecana, ovvero la partecipazione del saggio alla vita politica. Al giovane interlocutore, combattuto tra il dovere di una vita impegnata al servizio degli altri e gli allettamenti dell’otium, Seneca propone una mediazione, suggerendo un comportamento flessibile, rapportato alle condizioni politiche vigenti: l’obiettivo da conseguire, sottraendosi sia al tedio di una vita solitaria sia agli obblighi del tumulto cittadino, è sempre quello della serenità di un’anima capace di giovare agli altri, se non con l’impegno pubblico, almeno con l’esempio e la parola. Se la tensione fra impegno e rinuncia è qui ancora irrisolta (e anche per ciò si tende a collocare il dialogo poco prima del 62), la scelta totale di una vita appartata è, invece, dichiarata nel De otio: un’opzione forzata, resa necessaria da una situazione politica ormai compromessa tanto gravemente da non lasciare al saggio, impossibilitato a giovare agli altri, alternativa diversa dal rifugio nella solitudine contemplativa, di cui si esaltano i pregi.

Più indietro, forse agli anni tra il 49 e il 52, sembra risalire il De brevitate vitae, dedicato al suocero Paolino, praefectus annonae. L’opera affronta il problema del tempo, della sua fugacità e dell’apparente brevità di una vita che tale può sembrare perché non se ne sa afferrare l’essenza, ma la si disperde in tante occupazioni futili senza averne piena consapevolezza. La vita è lunga per chi sa impiegarla (vita, si uti scias, longa est, 2, 1), mentre appare brevissima (fluit et praecipitatur, 10, 6) per chi sciupa il proprio tempo inseguendo vane chimere, come gli occupati oziosi, rappresentati in una grottesca rassegna caricaturale. C’è chi passa il tempo dal parrucchiere a imbellettarsi, chi allestisce sempre banchetti, chi canta tutto il giorno canzonette di moda, chi colleziona statue. La polemica contro gli indaffarati senza costrutto, che combattono quotidianamente la noia della vita inutile, ripetendo con «automatismo burattinesco» (Perelli) atti insensati, oppone nettamente il saggio agli occupati.

Agli ultimi anni dovrebbe invece appartenere quello che apre la raccolta dei Dialogi, cioè il De providentia, dedicato al Lucilio delle Epistulae: il testo dibatte l’apparente contraddizione tra il provvidenzialismo stoico e il fatto che quasi sempre la sorte sembra punire i virtuosi e premiare i malvagi. In realtà, afferma Seneca, Giove vuole mettere alla prova il saggio perché egli tenga in esercizio e rafforzi la propria virtù. Le sventure, le avversità che colpiscono chi non se le meriterebbe, non contraddicono tale disegno “provvidenziale”, ma sono, effettivamente, un segno della Providentia divina, che sa distinguere i saggi e, creando ostacoli, consente loro di perfezionarsi: così, il sapiens stoico realizza la propria natura razionale nel riconoscere il posto che, nell’ordine cosmico governato dal λόγος, è stato a lui assegnato e nell’adeguarvisi compiutamente.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Filosofia e potere

Dedicati a Lucilio e successivi al ritiro dalla vita pubblica, sono anche i Naturalium quaestionum libri VII, l’unica opera senecana di carattere scientifico pervenuta. Vi sono trattati i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti, alle comete: è il frutto di un vasto lavoro di compilazione, durato probabilmente lunghi anni, da svariate fonti soprattutto stoiche (come Posidonio) e sembra costituire il supporto “fisico” all’impianto filosofico di Seneca. Ma, in realtà, non c’è integrazione né organicità fra indagine e ricerca morale.

Più o meno allo stesso periodo, intorno al 64, come attesta lo stesso autore in Epistulae ad Lucilium, 81, 3, risale un’altra opera filosofica tramandata autonomamente dai Dialogi, cioè i sette libri De beneficiis, dedicati all’amico Ebuzio Liberale. Vi si tratta appunto della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, del legame che istituiscono fra benefattore e beneficiario, dei doveri di gratitudine che li regolano e delle conseguenze morali che colpiscono gli ingrati – si sospetta una velata allusione al comportamento di Nerone nei suoi confronti. L’opera, che analizza il beneficio soprattutto come elemento coesivo dei rapporti interni all’organismo sociale, sembra trasferire sul piano della morale individuale il progetto di una società equilibrata e concorde che Seneca aveva fondato sull’utopia di una “monarchia illuminata”. L’appello, rivolto soprattutto alle classi privilegiate, ai doveri della filantropia e della liberalità, nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani e cordiali, si configura perciò come la proposta alternativa (con una sorta di prospettiva rovesciata, ma con identica impostazione paternalistica) al fallimento di quel progetto.

L’opera in cui Seneca aveva esposto più compiutamente la propria concezione del potere è il De clementia, opportunamente dedicato al giovane imperatore Nerone (negli anni 55-56) come traccia di un ideale programma politico ispirato a equità e moderazione (Stupazzini lo ha definito il «manifesto della teoria politica» senecana). L’autore non mette in discussione la legittimità costituzionale del principatus, né le forme apertamente monarchiche che esso aveva ormai assunto: il potere unico era più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dal λόγος, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formavano l’Impero; senza considerare, infine, che proprio il principato si era ormai imposto nei fatti, e non sembrava realistico confidare in quel miraggio di una restaurazione della libertas repubblicana, che animava i circoli stoicheggianti dell’opposizione senatoria. Il problema, piuttosto, era quello di avere un buon princeps: e, in un regime di potere assoluto, privo di forme di controllo esterno, l’unico freno sul sovrano sarebbe stata la sua stessa coscienza, che lo avrebbe dovuto trattenere dal governare in modo dispotico. La clementia, che non si identifica con la misericordia o la generosità gratuita, ma esprime un generale atteggiamento di «filantropica benevolenza», era la virtù che avrebbe dovuto informare i suoi rapporti con gli altri, cives o peregrini: con essa, e non incutendo timore, l’imperatore avrebbe ottenuto da loro consenso e dedizione, che, da sempre, sono la più sicura garanzia di stabilità di uno Stato.

È evidente, in questa concezione di un Principato “illuminato” e paternalistico, che affida alla coscienza del governante, al suo perfezionamento morale, la possibilità di instaurare un buon governo, l’importanza che acquista l’educazione del princeps e, più in generale, la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello Stato. In questa generosa illusione, che sembrava rinnovare l’antico progetto platonico del governo dei filosofi, e che determinò in maniera drammatica anche le sue vicende biografiche, Seneca impegnò a lungo le proprie energie: mosso sempre dall’impulso ai doveri della vita sociale, e ugualmente lontano dalle posizioni estreme di un intransigente rifiuto alla collaborazione con il princeps come di una servile acquiescenza al suo dispotismo, egli coltivò un ambizioso progetto di equilibrata e armoniosa distribuzione del potere tra un sovrano moderato e un Senato salvaguardato nei suoi diritti di libertà e dignità aristocratica. All’interno di quel progetto, come si è accennato, alla filosofia spettava un ruolo assolutamente preminente, quello di promuovere la formazione morale dell’imperatore e dell’élite politica, ma la rapida degenerazione del regime neroniano, dopo la parentesi del “quinquennio felice”, mette a nudo i limiti di quel disegno, vanificandolo, e la filosofia senecana dovette ridefinire i suoi compiti, allentando i legami con la civitas e accentuando progressivamente l’impegno ad agire sulle coscienze dei singoli: privato di un suo ruolo politico, il saggio stoico si pose, dunque, al servizio dell’umanità.

Seneca-Socrate. Erma bifronte, I sec.-metà III sec. d.C. c. Berlin, Antikensammlung, Staatliche Museen.

La pratica quotidiana della filosofia: le Epistulae morales ad Lucilium

Se è vero, infatti, che non si possono distinguere troppo nettamente, nell’elaborazione filosofica dell’autore, i due momenti dell’impegno civile e dell’otium meditativo (l’aspirazione ad assolvere una funzione sociale, nelle forme mediate concesse dalla situazione, rimase effettivamente forte anche nelle opere tarde), è tuttavia innegabile che nella produzione di Seneca successiva al suo ritiro egli si mosse soprattutto nell’orizzonte della coscienza individuale.

L’opera principale della sua produzione tarda, la maggiore e la più celebre in assoluto, sono le centoventiquattro Epistulae morales ad Lucilium, una raccolta di venti libri di lettere di maggiore o minore estensione (fino alle dimensioni di un trattato) e di vario argomento, indirizzate appunto all’amico Lucilio, un personaggio di origini modeste, un po’ più giovane di Seneca e proveniente dalla Campania, assurto al rango equestre e a varie cariche politico-amministrative; di buona cultura, era poeta e scrittore egli stesso.

Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione di cui si continua tuttora a discutere: non ci sono difficoltà insormontabili per credere alla realtà di uno scambio epistolare – varie lettere, infatti, richiamano quelle di Lucilio in risposta –, ipotesi, peraltro, non inconciliabile con la possibilità che altre lettere, specie quelle più ampie e sistematiche, non siano state effettivamente inviate e siano state invece inserite nella raccolta al momento della pubblicazione. L’opera, come si è detto, è giunta incompleta, e si può datare a partire dal periodo del disimpegno politico (62/3 d.C.); essa costituisce, in ogni caso, un unicum nel panorama letterario e filosofico antico.

Le lettere fondano un genere nuovo, adatto a rendere il pensiero senecano, asistematico e incline a trattare separatamente singoli temi etici. Un antecedente latino erano state le Epistulae di Orazio, che pure si proponevano come il genere più adatto a chi sente l’esigenza della filosofia intensa come ricerca morale, come quotidiana pratica di saggezza. E certo con le epistole oraziane quelle di Seneca hanno in comune il fatto d’essere destinate alla pubblicazione, la varietà e l’occasionalità dei temi, il legame stretto tra filosofia e vita vissuta, l’atteggiamento umile di chi non s’impanca a maestro, ma parla sottovoce (umilissima uerba, 38, 1), considerando se stesso bisognoso di perfezionamento non meno del destinatario. Anche il tono colloquiale, il registro informale, lo stile non elaborato e semplice (inlaboratus et facilis, 75, 1-2), adatto alla conversazione tra amici, fanno pensare ai sermones oraziani.

Ma il modello delle Epistulae morales ad Lucilium era piuttosto Epicuro, che istituiva con i discepoli un rapporto pedagogico e di direzione spirituale omologo a quello che Seneca stabilisce con Lucilio. Nel carattere filosofico, nell’essere veicolo di consigli utili alla salute dello spirito, sta appunto la specificità delle lettere di Seneca, la loro novità rispetto alla produzione epistolare precedente:

[15, 1] Mos antiquis fuit, usque ad meam servuatus aetatem, primis epistulae uerbis adicere: «Si uales bene est, ego ualeo». Recte nos dicimus: «Si philosopharis, bene est». Valere enim hoc demum est. Sine hoc aeger est animus.

Gli antichi avevano l’abitudine, ancora in uso, di aggiungere alle prime parole della lettera: «Se stai bene, sono contento; io sto bene». Meglio, noi diciamo: «Se ti dedichi alla filosofia, sono contento; io sto bene». Stare bene, infatti, in definitiva, consiste in questo. Senza ciò l’animo soffre.

In questa critica dell’epistolografia precedente, considerata futile e superficiale, era coinvolto anche l’epistolario ciceroniano, troppo legato alla cronaca e all’attualità spicciola e privata, lontano da un modello di scrittura volta a sondare l’interiorità:

[118, 1-2] […] nec faciam quod Cicero, uir disertissimus, facere Atticum iubet, ut etiam «si rem nullam habebit, quod in buccam uenerit scribat». […] Sua satius est mala quam aliena tractare, se excutere et uidere quam multarum rerum candidatus sit, et non suffragari.

[…] Non farò quel che Cicerone, uomo eloquentissimo, esige da Attico, cioè scrivergli «anche se non avrà nulla che gli sia venuto a fior di bocca». […] È preferibile affrontare le proprie debolezze che quelle altrui, analizzare se stessi e vedere a quante cose ci si candida e non dare alcun voto favorevole.

Naturalmente, non che nelle lettere di Seneca manchi il riferimento alla sfera privata. anzi, ci sono pagine intense di rievocazione dell’adolescenza e dei maestri di quegli anni remoti; c’è il ricordo affettuoso del padre, ci sono le espressioni di tenerezza per la giovane moglie Paolina. E neppure mancano i riferimenti alla quotidianità spicciola o il resoconto dei fatti del giorno. Ma da questi eventi, di per sé irrilevanti, l’autore trae sempre spunto per una profonda riflessione morale: così un accesso d’asma che lo ha colpito lo spinge a meditare sulla morte, un soggiorno in una località balneare di lusso lo induce a riflettere su come i luoghi possano condizionare la virtù dell’uomo.

Dunque, più degli altri generi della letteratura filosofica, l’epistula, vicina alla realtà della vita vissuta, si presta perfettamente alla pratica quotidiana della filosofia: proponendo ogni volta un nuovo tema, semplice e di apprendimento immediato, alla meditazione dell’amico-discepolo (sul modello delle scuole di filosofia), la lettera ne accompagna e ne scandisce le tappe, conquista dopo conquista, verso il perfezionamento interiore. Tra l’altro, allo stesso intento concorre l’uso di concludere ogni epistula, almeno nei primi tre libri, con una sententia, un aforisma che offre un frammento di saggezza su cui meditare.

Pieter Paul Rubens, Ritratto di Seneca.

Rifacendosi a uno schema di procedimento in uso nel Giardino epicureo, che graduava i vari momenti del cammino verso la sapientia, Seneca utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale, fondata sull’acquisizione di alcuni principi basilari, cui fa seguito, con l’accrescimento delle capacità analitiche del discente e l’arricchimento del suo patrimonio dottrinale, il ricorso a strumenti di conoscenza più impegnativi e complessi: e la conferma di questo progressivo adeguarsi alla forma letteraria ai diversi momenti del processo di formazione è fornita dalla tendenza delle singole lettere, man mano che ci si addentra nell’epistolario, ad assimilarsi al trattato filosofico.

Non meno importante dell’aspetto teorico – più volte, anzi, Seneca polemizza contro le eccessive sottigliezze logiche dei filosofi, specialmente stoici – è nella lettera quello parenetico: l’epistula tende non solo e non tanto a dimostrare una verità quanto a esortare, a invitare, al bene.

Oltre però a essere funzionale a una fase specifica del processo di direzione spirituale, il genere epistolare si rivela anche appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella senecana, priva di sistematicità e incline piuttosto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle lettere, suggeriti – si è detto – per lo più dall’esperienza quotidiana, sono svariati, ma vengono generalmente ricondotti alle tematiche della tradizione diatribica: vertono sulle norme cui il saggio informa la propria vita, sulla sua indipendenza e autosufficienza, sulla sua indifferenza alle seduzioni mondane e sul suo disprezzo per le opinioni correnti.

Col tono pacato, cordiale, di chi non si atteggia a maestro severo, ma ricerca egli stesso la via verso la saggezza, una meta mai pienamente raggiungibile, Seneca propone l’ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, al perfezionamento interiore mediante un’attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui.

La convinzione dell’uguaglianza naturale di tutti gli uomini (inclusi i servi, per i quali l’autore trova parole di grande solidarietà umana) e il dovere di amare gli altri sono affermati con una passione che trascende i limiti della filantropia stoica. Questa accentuazione della componente umanitaria ha indotto taluni a parlare di una “carità cristiana”. Ma le analogie con il Cristianesimo si rivelano poco fondate, se si tiene conto del carattere fortemente aristocratico della filosofia di Seneca, il quale spesso dichiara il fastidio per la folla, il disprezzo per il volgo stolto, che si compiace dei turpi spettacoli circensi.

Servitore e padrone. Mosaico, III sec. d.C. da Uthina.

Un motivo costantemente presente nella sua riflessione è quello della morte, vista non come oggetto di paura o segno d’impotenza, ma come consolatoria liberazione, suprema affermazione della libertà del saggio, simbolo della sua indipendenza dalle cose: non sumus in ullius potestate, cum mors in nostra potestate sit (91, 21). A Lucilio Seneca raccomanda: «Medita la morte: chi ti dice questo t’invita a meditare la libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a essere servo».

Nella quotidiana, alacre ricerca del bene, nel viaggio sulla via della perfezione interiore, Seneca oscilla pendolarmente tra l’esigenza di isolarsi e quella di comunicare i risultati della propria speculazione agli altri, perché possano trarne giovamento. Il fatto è che spesso la risposta a una domanda dell’interlocutore funge anche da chiarimento per l’autore a se stesso, con moto a un tempo centrifugo e centripeto, riflesso dalla polarità tipica del linguaggio senecano, teso tra “predicazione” e “interiorità”. Su questo punto ha scritto pagine illuminanti Alfonso Traina, che avverte in Seneca «il dramma di un uomo perennemente oscillante fra la cella e il pulpito», ovvero «il dramma della saggezza fra l’amore di sé e l’amore degli uomini». Ma questi due amori sono conciliabili, almeno sul piano ideale, anzi addirittura inscindibili: «Bisogna che tu viva per gli altri, se vuoi vivere per te stesso» (15, 3). E anche l’isolamento per il saggio non è un atto di egoismo, ma un impegno per il bene dell’umanità, posteri inclusi:

[8, 1-2] In hoc me recondidi et fores clusi, ut prodesse pluribus possem. […] Secessi non tantum ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum negotium ago. Illis aliqua quae possint prodesse conscribo.

Questo è lo scopo per cui mi sono ritirato e ho chiuso le porte di casa: per poter essere utile a un maggior numero di persone […]. Mi sono isolato non tanto dagli uomini quanto dalle cose, e prima di tutto dalle mie: ora agisco nell’interesse dei posteri. Scrivo qualcosa che possa recar loro aiuto.

Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle Epistulae, parallelamente al fascino della vita appartata e all’assurgere dell’otium quale valore supremo: un otium che, beninteso, non è inerzia, ma alacre ricerca del bene, nella convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare non solo agli amici impegnati anche loro nella ricerca della sapientia, ma anche agli altri, e che le Epistulae stesse possano esercitare il proprio benefico influsso sulla posterità. La conquista della libertà interiore – resasi necessaria la rinuncia alla rivendicazioni sul terreno politico – è l’estremo obiettivo che il saggio stoico si pone, a cui si accompagna la meditazione quotidiana della morte, alla quale egli sa guardare con mente serena come al simbolo della propria indipendenza dal mondo.

Filosofo o pedagogo. Affresco, 60 d.C. c. dal cubiculum H della Villa romana di Boscoreale. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Lo stile “drammatico”

Se fine precipuo della filosofia è giovare al perfezionamento interiore, il filosofo dovrà badare alle res, non alle parole ricercate ed elaborate: non delectent uerba nostra sed prosint (75, 5): queste si giustificheranno solo se – proprio in virtù della loro efficacia espressiva, in forma, ad esempio, di sententiae o di citazioni poetiche – assolveranno a una funzione psicagogica, se contribuiranno cioè a fissare nella memoria e nell’animo di chi legge un precetto o una norma morale.

In realtà, a fronte di un programma di stile inlaboratus et facilis (75, 1), la prosa filosofica senecana è diventata quasi l’emblema di uno stile elaborato, teso e complesso, caratterizzato dalla ricerca dell’effetto e dell’espressione concisamente epigrammatica. Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodare ciceroniano, che nella sua disposizione ipotattica organizzava anche la gerarchia logica interna, e dà vita a uno stile eminentemente paratattico, che – anche nell’intento di riprodurre il sermo, la lingua parlata – frantuma l’impianto del pensiero in un succedersi di frasi aguzze e sentenziose, il cui collegamento è affidato soprattutto all’antitesi e alla ripetizione (producendo quell’impressione di «sabbia senza calce» che gli rinfacciava il malevolo Caligola). Questa prosa antitetica all’armonioso periodare ciceroniano e (come avvertiva preoccupato Quintiliano) rivoluzionaria sul piano del gusto, ma destinata a esercitare grande influsso sulla prosa d’arte europea, affonda le sue radici nella retorica asiana – che nelle scuole di declamazione, a Seneca assai ben familiari, celebrava i suoi trionfi – e nell’insegnamento dei filosofi cinici: il suo tipico procedere mediante un ricercato gioco di parallelismi, opposizioni, ripetizioni, in un succedersi serrato di frasette nervose e staccate (le minutissimae sententiae deplorate da Quintiliano), con una sorta di tecnica “puntillistica”, produce l’effetto di sfaccettare un’idea secondo tutte le angolazioni possibili, fornendone una formulazione sempre più pregnante e concisa, fino a cristallizzarla nell’espressione epigrammatica. Di questo stile aguzzo e penetrante, che nella sua continua tensione non sa evitare una certa “teatralità”, Seneca si serve come di una sonda per esplorare i segreti dell’animo umano e le contraddizioni che lo lacerano, ma anche per parlare al cuore degli uomini ed esortare al bene: uno stile intimamente antitetico e conflittuale («drammatico», secondo un’efficace definizione), che alterna i toni sommessi della meditazione interiore a quelli vibranti della predicazione: uno stile che riflette emblematicamente le spinte che animano la filosofia senecana, tesa tra la ricerca della libertà dell’io e la liberazione dell’umanità.

Pseudo-Seneca. Busto, marmo, II sec. d.C. ca. Zürich, Archäologische Sammlung der Universität.

Le tragedie

Un posto importante nella produzione letteraria di Seneca è occupato dalle tragedie, delle quali nove sono generalmente ritenute autentiche (benché qualche dubbio sussista per l’Hercules Oetaeus), tutte di soggetto mitologico greco (cothurnatae). Di queste tragedie, le sole, di tutta a letteratura latina, pervenute in forma non frammentaria, si sa molto poco circa le circostanze della loro eventuale rappresentazione o sulla data di composizione, sulla quale non è possibile avanzare illazioni nemmeno in base a criteri stilistici o, tantomeno, a presunti riferimenti a eventi contemporanei. Sicché, nell’impossibilità di delineare una cronologia attendibile, le si elenca nell’ordine in cui la tradizione manoscritta più autorevole le ha trasmesse.

L’Hercules furens, costruita sul modello dell’Eracle euripideo, tratta il tema della follia dell’eroe, che, provocata da Giunone, lo induce a uccidere moglie e figli; una volta rinsavito, e determinato a suicidarsi, Ercole si lascia distogliere dal suo proposito e si reca, infine, ad Atene a purificarsi. Le Troades, risultanti dalla contaminazione dei soggetti di due drammi euripidei, le Troiane e l’Ecuba, rappresentano la sorte delle donne troiane prigioniere e impotenti di fronte al sacrificio di Polissena, figlia di Priamo, e del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca. Sulle Fenicie di Euripide e sull’Edipo a Colono sofocleo sono improntate le Phoenissae, l’unica tragedia senecana incompleta, che ruota attorno al tragico destino di Edipo e all’odio che divide i suoi figli Eteocle e Polinice. Naturalmente ancora a Euripide (ma forse anche a un’omonima, e fortunata, tragedia perduta di Ovidio) si rifà la Medea, la cupa vicenda della principessa della Colchide abbandonata da Giasone e, perciò, assassina, per vendetta, dei figli avuti da lui. Anche la Phaedra presuppone il celebre modello euripideo dell’Ippolito (quello superstite, ma anche quello, anteriore, perduto), nonché, probabilmente, una tragedia perduta di Sofocle e la quarta delle Heroides ovidiane: tratta dell’incestuoso amore di Fedra per il figliastro Ippolito e del drammatico destino che si abbatte sul giovane, restio alle seduzioni della matrigna, la quale si vendica denunciandolo al marito Teseo, padre di Ippolito, e provocandone la morte. L’Edipo re sofocleo è alla base dell’Oedipus, che narra il notissimo mito tebano di Edipo, inconsapevole uccisore del padre Laio e, quindi, sposo della madre Giocasta: alla scoperta della tremenda verità, egli reagisce accecandosi. All’omonimo dramma di Eschilo si ispira, assai liberamente, l’Agamemnon, che rappresenta l’assassinio del re, dal ritorno da Troia, per mano della moglie Clitennestra e dell’amante Egisto. Il Thyestes mette in scena, invece, il cupo mito dei Pelopidi (già trattato in testi perduti di Sofocle e di Euripide, nonché del teatro latino arcaico e più recente): animato da odio mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, Atreo si vendica con un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. Nell’Hercules Oetaeus (cioè “sull’Eta”, il monte su cui si svolge l’evento culminante del dramma dell’eroe), modellato sulle Trachinie di Sofocle, è trattato il mito della gelosia di Deianira, che per riconquistare l’amore di Ercole, innamoratosi di Iole, gli invia una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, creduto un filtro d’amore e, in realtà, dotato di potere mortale: tra dolori atroci l’eroe si fa innalzare un rogo e vi si getta per darsi la morte, cui farà seguito l’assunzione fra gli dèi.

Francisco de Zurbarán, La morte di Ercole. Olio su tela, 1634. Madrid, Museo del Prado.

I drammi scritti da Seneca, oltre a costituire una preziosa testimonianza di un intero genere letterario, sono importanti anche come documento della ripresa del teatro tragico latino, dopo i tentativi poco fortunati che la politica culturale augustea aveva fatto per promuovere una rinascita dell’attività teatrale: in questo progetto, tra le altre, si inseriva la produzione del Thyestes di Vario, nel 29 a.C., in cui la polemica anti-tirannica connessa al soggetto forse aveva avuto come bersaglio M. Antonio. In età giulio-claudia e nella prima età flavia l’élite intellettuale senatoria sembrò, in effetti, ricorrere al teatro tragico come alla forma letteraria più idonea a esprimere la propria opposizione al regime dispotico di certi principes. Tra l’altro, nella tragedia latina, che riprendeva ed esaltava un aspetto già fondamentale in quella greca classica, era sempre stata forte l’ispirazione repubblicana e l’esecrazione della tirannide.

I tragediografi di età giulio-claudia e flavia di cui si ha notizie furono tutti personaggi di rilievo nella vita pubblica romana del I secolo d.C. Si apprende dagli Annales di Tacito che, sotto il principato di Tiberio, Mamerco Scauro, celebre anche come oratore, fu costretto a togliersi la vita perché in un suo dramma, l’Atreus, erano state ravvisate allusioni all’imperatore. Al tempo di Claudio ebbe fama Pomponio Secondo, il quale rivestì anche il consolato: di lui avrebbe scritto una biografia l’amico Plinio il Vecchio. Pomponio Secondo, oltre a tragedie cothurnatae, compose anche una praetexta intitolata Aeneas. Si può ricordare, infine, all’epoca di Vespasiano, Curiazio Materno, che fu anche oratore e che figurò come interlocutore nel Dialogus de oratoribus di Tacito; delle sue tragedie si conoscono vari titoli, fra cui quelli di due praetextae, il Cato e il Domitius.

La scarsità di notizie sulle tragedie senecane non consente, però, di sapere nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione. Ciò che si conosce, anzi, sulla destinazione della letteratura tragica in età già anteriore a Seneca – e cioè che si continuava, sì, a rappresentare normalmente in scena i drammi, ma che ci si poteva anche limitare a leggerli nelle sale di recitazione (odea) – ha indotto gli studiosi a credere (anche sulla base di certe loro peculiarità stilistiche) che quelle di Seneca fossero tragedie destinate prevalentemente alla lettura, il che poteva non escludere talora, o per talune di esse, la rappresentazione scenica. Questa opinione è tuttora, a ragione, la più diffusa, anche se non tutti gli argomenti di questa tesi sono ugualmente probanti: per esempio, la macchinosità, o la truce spettacolarità, di alcune scene, che certo erano incompatibili con i canoni di rappresentazione del teatro greco classico, sembrerebbero presupporre, piuttosto che smentire, una messinscena, laddove una semplice lettura avrebbe limitato, se non del tutto annullato, gli effetti ricercati dal testo drammatico.

Le varie vicende tragiche si configurano come conflitti di forze contrastanti (soprattutto all’interno dell’animo umano), come opposizione fra mens bona e furor, fra ragione e passione: la ripresa di temi e motivi rilevanti delle opere filosofiche – come, per esempio, nella vicenda di Ercole, il tema dell’uomo forte che supera le prove della vita per assurgere alla superiore libertà – rende evidente una consonanza di fondo fra i due settori della produzione senecana, e ha alimentato la convinzione che il teatro di Seneca non sia che un’illustrazione, sotto forma di exempla forniti dal mito, della dottrina stoica.

Genève, Bibliothèque de Genève. Ms. fr. 190, 1 (1410 c.), f. 20r, illustrazione dal De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio, raffigurante Atreo che imbandisce a Tieste le membra dei figli.

L’analogia, però, non va troppo accentuata, sia perché resta forte, nelle tragedie, la matrice specificamente letteraria (che poteva già offrire, come nel caso di Euripide, il modello più utilizzato, messinscene paradigmatiche di conflitti interiori), sia perché, nell’universo tragico, il λόγος, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di frenare le passioni e arginare il dilagare del male. Alle diverse vicende tragiche fa infatti da sfondo una realtà dai toni atroci e orrorosi, e su questo scenario terrificante si scatena la lotta delle forze del male: battaglia che non investe soltanto la psiche dell’uomo, che viene scagliata fin nei suoi angoli più reconditi, spesso attraverso lunghi ed elaborati monologhi, ma il mondo intero, concepito – stoicamente – come unità fisica e morale, conferendo al conflitto fra bene e male una dimensione cosmica e una portata universale. Un particolare rilievo, fra le forme in cui più espressamente si manifesta questo emergere del male nel mondo, ha la figura del tiranno sanguinario e bramoso di potere, chiuso alla moderazione e alla clemenza, tormentato dalla paura e dall’angoscia, che dà luogo a frequenti spunti di dibattito politico sul tema del potere, che, come si è visto, occupa un posto centrale nella riflessione e nella biografia senecane.

Di quasi tutte le tragedie dell’autore, come si è detto, si dispone dei corrispettivi precedenti greci, nei confronti dei quali si possono valutare l’atteggiamento che Seneca ha tenuto. Atteggiamento che, rispetto a quello dei drammaturghi latini arcaici, denota, da un lato, una maggiore autonomia (dopo la grande stagione augustea, infatti, la letteratura latina non si limitò più a “tradurre”, ma si misurò alla pari con quella ellenica, in libera emulazione) e, al tempo stesso, però, presuppone un rapporto continuo con il modello, sul quale l’autore opera interventi di contaminazione, di ristrutturazione e di razionalizzazione dell’impianto drammatico.

Anche se diretto, il rapporto con gli originali greci è mediato comunque dal filtro del gusto e della tradizione latina. Il linguaggio poetico delle tragedie senecane ha la sua base costitutiva nella poesia augustea (molto cospicua e pervasiva la presenza di Ovidio), dalla quale l’autore mutua anche le raffinate forme metriche, come i metri lirici oraziani usati negli intermezzi corali, nonché il particolare tipo di senario, già adottato nel teatro tragico augusteo e vicino piuttosto, nel suo rigido schema, al trimetro giambico greco e oraziano che non al più libero senario arcaico.

Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono soprattutto nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza al cumulus espressivo e alla frase sentenziosa, isolata in netto rilievo: ma la ricerca delle sententiae, si sa, è alimentata soprattutto dal gusto retorico del tempo. La stessa tendenza si manifesta anche nella frammentazione dei dialoghi in serrate corresponsioni stichiche (cioè un verso per ogni personaggio), in una costante ricerca della brevitas asiana. Da sempre, infatti, sul teatro di Seneca grava il marchio della retorica asiana, percepibile nella continua tensione, nell’enfasi declamatoria, nello sfoggio di greve erudizione (per esempio, nei cataloghi geografici e mitologici), in quelle tinte fosche e macabre che hanno propiziato la fortuna moderna di Seneca tragico.

Spesso l’esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l’introduzione di lunghe digressioni (ἐκφράσεις), esorbitanti rispetto alla consuetudine epica e soprattutto tragica, che alterano i tempi dello sviluppo scenico inserendosi così nella tendenza, propria del teatro senecano, a isolare singole scene come quadri autonomi, estraniati dal contesto della dinamica teatrale (il che contribuisce a far pensare che questi “pezzi di bravura” dovessero essere letti nelle sale di recitazione).

Uno stile, insomma, che con i suoi tratti più peculiari, si inquadra agevolmente nel gusto letterario contemporaneo, di cui costituisce un documento tra i più rappresentativi.

Claudia Ottavia. Busto, marmo, età giulio-claudia, ante 62 d.C. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme.

La tradizione manoscritta attribuisce a Seneca anche l’Octavia una tragedia d’argomento storico romano, cioè una praetexta, che svolge la triste vicenda della prima moglie di Nerone, ripudiata e poi uccisa dall’imperatore. Il fatto che Seneca stesso compaia nel dramma, nella veste del buon consigliere che tenta di dissuadere Nerone dal misfatto, è indice della falsità dell’attribuzione, giacché nessun autore antico aveva mai posto se stesso sulla scena. Inoltre, la morte del princeps è descritta con particolari troppo rispondenti alla realtà, quindi, non può essere stata scritta da Seneca, che era morto nel 65 d.C., tre anni prima dell’imperatore.

Nella vicenda Nerone ripudia Ottavia, figlia di Messalina e di Claudio, per passare a seconde nozze con Poppea. Seneca esprime la propria contrarietà alla decisione del pupillo, ma è consigliere ormai inascoltato. Dopo aver domato l’insurrezione dei fattori dell’ex moglie, il princeps mette in atto il suo delitto: la donna viene mandata a morte, dopo aver dato prova di forza e coraggio stoici. In chiusura della tragedia, appare l’ombra di Agrippina, madre di Nerone e anche lei sua vittima, che predice la rovina del figlio: «Sconterà con la sua vita di assassino i delitti e porgerà la gola ai nemici, abbandonato, vinto, privo d’ogni sostegno» (vv. 629-631). Questa profezia diviene l’incubo di Poppea, cui appare in sogno la scena terribile in cui l’amato Nerone, tremante, affonda nella propria gola il pugnale crudele.

L’opera, ambientata nell’anno 62 d.C. a Roma, è quasi certamente nata negli ambienti dell’opposizione senatoria. Si è ipotizzato che l’autore possa essere stato il tragediografo L. Anneo Cornuto, un liberto della famiglia Annaea, il cui praenomen avrebbe facilitato l’errata attribuzione a Seneca. In ogni modo, la praetexta può essere stata composta solo post eventum, cioè a morte di Nerone avvenuta, sia per la precisione di particolari con cui questa è descritta troppo corrispondenti alla realtà storica, sia perché la rappresentazione dell’imperatore come despota sanguinario non sarebbe stata possibile se egli fosse stato ancora in vita. Inoltre, l’Octavia è stata conservata da un ramo secondario della tradizione manoscritta, il meno attendibile e maggiormente interpolato (recensio A). Per tutti questi motivi, quasi certamente la tragedia è stata scritta pochi anni dopo la morte di Nerone da un poeta appartenente o, quantomeno, vicino agli ambienti senatori, che conoscevano assai bene i comportamenti etici, il pensiero e la produzione letteraria di Seneca: alcuni passi, infatti, sono la trasposizione in versi dei Dialogi del filosofo.

L’ambiente culturale che ha espresso quest’opera, dunque, è certamente senatorio. Lo dimostra – come si accennava sopra – la considerazione dell’imperatore come di un tiranno assassino e il fatto che non compaia mai il Senato, ormai ridotto all’ombra di se stesso, ma solo il popolo anonimo (chorus Romanorum). Di rango esclusivamente senatorio erano anche i fruitori del testo, certamente destinata alla sola lettura, come si apprende a proposito delle tragedie di Curiazio Materno dal Dialogus tacitiano, che si immagina iniziato «il giorno dopo a quello in cui Curiazio Materno aveva dato lettura (recitauerat) del Catone» (una tragedia che, avendo per protagonista il personaggio simbolo della libertas repubblicana, non lascia dubbi circa il contenuto di opposizione al regime imperiale: e Tacito, infatti, aggiunge che la recitatio «urtò la suscettibilità dei potenti»). In questo clima culturale assai teso, nel quale la tragedia assurse a genere della “resistenza” senatoria alla tirannide imperiale, s’inseriva l’Octavia.

Ormai il genere tragico non aveva più un avvenire: infatti, non sarebbe sopravvissuto alle epurazioni neroniane e alla politica di ricambio dei Flavii, che sostituirono alla vecchia nobilitas una nuova classe di funzionari italici e provinciali.

Maschera teatrale. Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’Apokolokyntosis

Un’opera davvero singolare, nel panorama della vasta produzione senecana, è il Ludus de morte Claudii (come lo intitolano due dei manoscritti principali che lo hanno trasmesso) o Divi Claudii Apokolokyntosis (secondo la definizione, a mo’ di glossa, del terzo); il titolo sotto cui l’opera è più comunemente nota è quello, greco, di Apokolokyntosis, fornito dallo storico Cassio Dione (LX 35). Questa parola implicherebbe un riferimento a («zucca»), forse come emblema di stupidità, e secondo Dione si tratterebbe di una parodia della divinizzazione di Claudio decretata dal Senato post mortem. Il fatto che nel testo senecano non ci sia accenno a una zucca, e che l’apoteosi, di fatto, non abbia luogo, ha fatto sorgere dubbi sull’identificazione dell’opera menzionata da Dione con il Ludus, dubbi che oggi giustamente sono quasi del tutto dissolti: il curioso termine, dunque, andrà inteso non come «trasformazione in zucca», ma piuttosto come «deificazione di una zucca, di uno zuccone», con riferimento alla fama non proprio lusinghiera di cui Claudio aveva goduto. Altri dubbi e perplessità sono stati suscitati dal fatto che, a quanto si sa da Tacito (Ann. XIII 3), lo stesso Seneca aveva scritto la laudatio funebris dell’imperatore defunto (pronunciata da Nerone), ed è parso a molti insostenibile un così radicale contrasto di comportamento.

La difficoltà ad ammettere che, subito dopo gli elogi ufficiali, Seneca potesse dare sarcastico sfogo al risentimento contro l’imperatore che lo aveva condannato all’esilio ha anche indotto diversi studiosi a posticipare, a torto, la data di composizione (attorno al 60) di un pamphlet che si giustificava solo se reso pubblico (magari in forma anonima) sull’onda di un evento, come la divinizzazione di Claudio, che, dietro il fragile velo dell’ufficialità, aveva suscitato le ironie degli stessi ambienti di corte e dell’opinione pubblica – la composizione dell’opera va, quindi, collocata nello stesso 54.

Apoteosi di Claudio. Cammeo, post 54 d.C., opera attribuita a Skylas, da Roma. Paris, Cabinet des Medailles.

Il princeps, verso il quale il filosofo nutriva personali motivi di risentimento, appena morto (il 13 ottobre del 54, forse avvelenato da Agrippina Minore) ascende all’Olimpo per essere accolto fra gli dèi, in base alla decretata apoteosi. Ma questi, riuniti in un’assemblea a mezza via tra i concilia deorum omerici e le sedute del Senato, dopo un duro intervento di Augusto, che affonda la proposta di divinizzazione, lo spediscono nell’Ade. Passando per Roma, il dio mancato s’imbatte nel proprio sontuoso funerale seguito da gente contenta (omnes laeti, hilares) e solo allora realizza d’essere veramente morto (ubi uidit funus suum intellexit se mortuum esse, 12, 3). Quindi, scene agli inferi, dove prima diviene schiavo di Caligola, poi del liberto Menandro, al cui servizio continuerà a fare quello che aveva fatto in vita, istruire processi e dare ascolto ai liberti: una condanna di contrappasso, per così dire. Allo scherno dell’imperatore defunto Seneca contrappone, all’inizio dell’operetta, parole di elogio per il successore, preconizzando l’avvento di un’età di splendore e di rinnovamento.

La descrizione di Claudio è feroce: di lui sono messi in luce impietosamente i difetti fisici e morali. L’imperatore è zoppo, balbuziente, brutto al punto da potersi ascrivere a stento alla specie umana (quasi homo). Il ritratto morale è conforme all’immagine che ne davano i contemporanei. Egli era, anche da vivo, pubblicamente considerato – certamente a torto – inetto, debole, spietato, succube dei suoi potenti liberti. Quando Nerone, leggendo la laudatio funebris, ne elogiò l’avvedutezza e il senno, «nessuno – scrive Tacito (Ann. XIII 3, 1) – seppe trattenere le risa, benché il discorso, composto da Seneca, sfoggiasse grande eloquenza». Claudio era, insomma, oggetto di scherno negli ambienti di corte anche prima che fosse scritta questa feroce menippea dell’«apoteosi negata».

Pur possedendo i caratteri formali della satira menippea (così detta da Menippo di Gadara, l’iniziatore di questa forma letteraria), ovvero il prosimetrum, lo spudaigelaion (“serio-faceto”), l’aggressività espressiva, l’indignatio polemica, e tutti i topoi propri del genere (quali, ad esempio, l’ascesa in cielo e la discesa agli inferi), il Ludus de morte Claudii sembra discostarsi dal modello del filosofo gadarense almeno per l’assenza di un tratto: la demistificazione. La feroce caricatura, infatti, non disvela nulla che non appartenesse all’immagine pubblica del personaggio messo alla berlina, abitualmente deriso e fatto oggetto di strali ironici, critiche, battute pesanti (come ricorda Tacito). Della letteratura satirica mancano l’intento tradizionale, la censura dei costumi. Non sono tipici della menippea originaria, ma nemmeno di quella varroniana, l’attacco ad personam e la tempestività dell’invettiva, che, in questo caso, è composta subito post mortem di Claudio – giacché «libelli così o si scrivono subito o non si scrivono più» (R. Roncali). Da questo punto di vista, il Ludus è più vicino alla satira luciliana, che sbertucciava i primores populi e non esitava a bollare il vizioso per nome, o a certa libellistica polemica d’età giulio-claudia di cui si ha notizia da Svetonio.

La scrittura di questo caustico pamphlet è agile, scorrevole, varia nell’alternanza di livelli stilistici alti e bassi. Si passa dai toni piani della lingua colloquiale, nelle parti prosastiche, alla parodia della magniloquenza epico-tragica nelle parti metriche. L’alternanza di aulico e volgare, i ricalchi e gli adattamenti parodici dei classici, le ironiche citazioni in greco, le frequenti assonanze con la prosa filosofica fanno di questo libello un finissimo divertissement letterario.

Apoteosi di Tib. Claudio Germanico Augusto, nelle vesti di Giove Capitolino. Statua, marmo, I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Il ritmo rapido e serrato trascina velocemente il lettore da una scena all’altra (dalla terra al cielo, dal cielo alla terra e poi agli inferi) senza intoppi narrativi. La vivacità degli episodi e la verve satirica hanno fatto pensare anche alla possibilità di una destinazione scenica (non solo di lettura) negli ambienti del palatium.

Gli Epigrammi

Sotto il nome di Seneca vanno anche alcune decine di epigrammi in distici elegiaci tramandati in un codice del IX secolo: sono adespoti, ma siccome tre di essi, in un altro codice, sono attribuiti all’autore, pure per gli altri è stata proposta l’attribuzione a lui, anche se la paternità senecana è in molti casi difficilmente sostenibile. Il livello è generalmente decoroso, ma non particolarmente brillante; alcuni di essi accennano all’esperienza dell’esilio del filosofo in Corsica.

Strumenti da scrittura (tabulae ceratae, stilus, volumen). Affresco, ante 79 d.C. da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La fortuna

Già si è accennato al giudizio non positivo di Caligola. Anche Quintiliano rimproverava a Seneca lo stile anticlassico, pur riconoscendo la validità del suo insegnamento morale: «Nei suoi scritti spiccano molte sentenze e molti passi sono degni di lettura in virtù della loro moralità. Ma nello scrivere il suo stile si rivela quasi sempre guasto e per questo assai nocivo, perché abbonda di vizi seducenti» (Inst. or. X 1, 129). Nocivo a chi? Soprattutto ai giovani che, sempre a sentire Quintiliano, leggevano solamente le sue opere: solus hic fere in manibus adulescentium fuit (Inst. or. X 1, 126).

Poco favorevole fu anche il giudizio che Frontone e gli arcaizzanti del II secolo pronunciarono sullo stile “moderno” dello scrittore. In particolare, Frontone sconsigliava all’imperatore M. Aurelio la lettura di Seneca, le cui qualità non compensavano i difetti, consistenti in un’eloquenza aggrovigliata (confusam… eloquentiam) e nella tendenza a ripetere migliaia di volte la stessa idea sotto veste diversa. Gli aspetti positivi, poi, gli sembravano irrilevanti: anche nelle fogne si può trovare una lamina d’argento, ma non per questo vale la pena di frequentare le fogne (Ep. de orat. 21, 6).

Non molto più benevolo fu il giudizio di Gellio, che dedicò a Seneca un intero capitolo delle Noctes Atticae (XII 2): il filosofo era ritenuto ineptus et insubidus homo per le critiche da lui espresse (ne XXII libro delle Epistulae morales, che non è giunto) riguardo all’oratoria ciceroniana.

Il contenuto etico delle Epistulae e dei Dialogi fu apprezzato dai cristiani, che, spesso, fraintendendone il pensiero, lo considerarono uno degli spiriti nobili del paganesimo più vicini al Cristianesimo. Tertulliano usava l’espressione Seneca saepe noster (cioè, «Seneca ragiona spesso come un cristiano», Amin. 20, 1). Lattanzio lo considerava omnium Stoicorum acutissimus; tra l’altro, questi scrisse, inaugurando la leggenda della cristianità del filosofo: quam multa alia de deo nostris (cioè ai cristiani) similia locutus est! (Ist. I 5, 28). Girolamo lo nominava di frequente nei suoi testi e per primo citò un carteggio fra Seneca e Paolo di Tarso, che è pervenuto. In realtà, i punti di contatto tra la filosofia senecana e la teologia paolina erano ben pochi, e l’epistolario dev’essere parso credibile solo in virtù della circostanza esterna che questi due spiriti di diversa fede, all’incirca negli stessi anni (tra il 50 e il 67 d.C.), si avvalevano per la loro “predicazione” del mezzo delle lettere. Il carteggio, comunque, contribuì alla fama del filosofo nel Medioevo, ma può anche essere vero il contrario: che la fortuna delle quattordici lettere nel corso dei secoli sia dipesa dalla fama medievale di Seneca e dalla diffusione della leggenda sulla sua conversione.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Reg. lat. 1500, f. 62r, illustrazione delle Troades.

In età medievale, infatti, grande fu la fortuna del «Seneca morale», come lo chiamò Dante (Inf. IV 141) con riferimento ai contenuti etici delle opere del filosofo, che sicuramente lesse. La sua morte era stata intesa come martirio cristiano, secondo una leggenda che, attraverso il Roman de la rose, confluì poi nel Novellino. Quest’ultimo, inoltre, presenta aneddoti della vita di Seneca (tolti dai Fiori dei filosofi) come veri exempla, cioè testimonianze autorevoli di una virtù eroica, proposti come modello da imitare.

Una prova ulteriore della fama goduta dal filosofo nel Medioevo consiste nel gran numero dei codici, ma anche degli scritti apocrifi (i Monita Senecae, il Liber de moribus, ecc.). L’autore divenne assai popolare nei secoli XII e XIII: a questo periodo, infatti, risalgono le molte famiglie di manoscritti prodotti in vari monasteri, come quello di Montecassino, alla cui attività assidua si deve in particolare la conservazione dei Dialogi, che, in seguito, ebbero grande diffusione nell’Europa settentrionale, nelle scuole universitarie di Parigi e di Oxford, in Germania. Grande interesse per il teatro senecano fu espresso, poi, dalla corte papale trasferitasi ad Avignone.

Le Epistulae morales ad Lucilium e alcuni trattati furono letti anche da Petrarca e da Boccaccio, i quali, però, non pare ne avessero una conoscenza troppo approfondita. In Spagna Seneca fu considerato un autore nazionale e tradotto e commentato persino da re Alfonso V in persona.

Alla fine del Quattrocento, nelle prime edizioni a stampa si distinse un Seneca Philosophus da un Seneca Tragicus. L’editio princeps delle opere filosofiche fu quella napoletana del 1475.

Nel XVI secolo Seneca assurse a maestro di saggistica in tutta Europa. Godette dell’ammirazione di Montaigne, i cui scritti furono densi di citazioni tratte dalle Epistulae morales e dai Dialogi. Rilevante fu l’influsso di queste opere sulla cultura prima gesuitica, poi protestante. Le tragedie dell’orrore, inoltre, con il loro barocco cupo e truculento, furono di grande attualità sia in Italia, sia nell’Inghilterra elisabettiana. Così il teatro senecano influenzò moltissimo Shakespeare (in particolare, nel Macbeth e nell’Hamlet). Lessero Seneca anche Racine e Corneille: quest’ultimo, soprattutto, nella Médée e nella Phèdre imitò le tragedie omonime dell’autore latino.

Barcelona, Archivo de la Corona de Aragón. Col. Manuscritos, Sant Cugat 11 (XIV sec.), f. 1r., illustrazione di una miscellanea con le opere morali di Seneca, che raffigura l’autore intento a leggere, davanti a un armarium.

Anche Voltaire conobbe le opere morali e Alfieri fu influenzato dalle vibranti e cupe scene del teatro di Seneca.

Nell’Ottocento lo scrittore latino continuò a essere letto dagli intellettuali. Criticato da Hegel, che gli rimproverava il difetto di capacità speculativa, ammarato da Schopenhauer, Seneca prosatore ha goduto ininterrottamente del favore dei lettori e ancor oggi continua a costituire uno dei capisaldi della paideia umanistica. Non così per il Seneca tragico, la cui fortuna, cresciuta senza interruzioni dal XIV al XVIII secolo, sembra essersi definitivamente interrotta in Italia, dove alla disistima romantica si è aggiunta poi nel Novecento la stroncatura crociana.