Mario, Saturnino e la crisi dell’anno 100

da W. BLÖSEL, Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. COLLA), Torino 2016, pp. 149-154.

 

Anche se Mario con i suoi tre trionfi era giunto al vertice del successo, e veniva celebrato come «terzo fondatore di Roma», la nobilitas non aveva dimenticato il suo comportamento aggressivo nei confronti di Quinto Cecilio Metello Numidico, e continuava a vedere in lui il parvenu che era giunto ai vertici approfittando di un’emergenza ai confini del dominio di Roma, con l’aiuto del popolo e a spese dei nobiles, in realtà i veri benemeriti dello Stato. Così egli non poté neppure realizzare ciò che per i nobiles romani era da sempre lo scopo principale: restituire i pieni poteri in cambio di maggiore peso politico. Infatti, proprio al parere dei consolari in Senato veniva accordata la massima attenzione, tanto che essi erano sempre i primi a prendere la parola. Nello Stato romano, costoro erano considerati come principes. La nobilitas però non voleva concedere una collocazione così prestigiosa neppure al cinque volte console Mario, che si vide perciò costretto a cercare altre magistrature, per avere almeno l’autorità legata alla carica.

Scena di assemblea. Bassorilievo, calcare, 50 d.C. c. dal sarcofago di Lusio Storace. Chieti, Museo Nazionale.

Nell’ultimo decennio del II secolo, l’opinione pubblica era sempre più ostile nei confronti dell’élite ed era perciò assolutamente favorevole a questo suo piano. La Lex Coelia del 107 aveva introdotto le tabellae, la votazione scritta, anche nei processi per alto tradimento (perduellio); in questo modo Gaio Popilio Lenate, che aveva concordato una vergognosa capitolazione di fronte ai Tigurini, quand’era legato del defunto console Lucio Cassio Longino, fu mandato in esilio prima ancora che fosse emessa la sentenza di condanna. Il console del 106, Quinto Servilio Cepione, aveva poi restituito interamente le corti permanenti ai senatori, togliendole ai cavalieri. Ma la sua legge aveva presto perduto credibilità proprio a causa del suo comportamento: a Roma per alludere alle macchinazioni oscure dei nobiles divenne in seguito usuale l’espressione l’«oro di Tolosa» (aurum Tolosanum), in riferimento a quello di cui Cepione si sarebbe indebitamente appropriato. Molto peggio: nell’ottobre 105 lo stesso Cepione era fuggito di fronte alla catastrofe di Arausio, dalla quale pure era in gran parte responsabile. Aveva per questo perduto immediatamente per abrogazione (cioè per decreto popolare) l’imperium consolare. Ai tribuni della plebe contrari all’adozione di un simile procedimento, inusitato, era stato impedito con la forza di opporvisi. Il tribuno della plebe del 104, Lucio Cassio Longino, impose inoltre una legge per cui chiunque avesse perduto il proprio imperium in seguito ad abrogazione, o fosse stato condannato dal popolo, avrebbe perduto anche il proprio seggio in Senato. In questo modo, la condizione di senatore dipendeva ormai dal beneplacito dell’assemblea popolare, e il potere dei tribuni della plebe poteva giungere a turbare perfino il destino politico dei nobiles di rango più elevato. La secolare pretesa del Senato di essere l’unica guida dello Stato non era più accettata supinamente dal resto della cittadinanza, ma era invece legata alle prestazioni dei suoi singoli membri.

C. Cassio Longino. Denario, Roma 63 a.C. Ar. 3,75 gr. Rovescio: Longin(us) IIIV(ir). Rappresentazione di un cittadino togato in atto di votare, stante, verso sinistra, mentre ripone una tabella in una cista elettorale.

 

L’oligarchia, inoltre, si rese nemici alcuni ambiziosi arrivisti. Così, per esempio, per motivi non chiari fu tolta al questore del 104, Lucio Apuleio Saturnino, la competenza per gli approvvigionamenti di cereali dell’Urbe, affidandola invece al princeps senatus, Marco Emilio Scauro. Saturnino, offeso, si vendicò ben presto dell’umiliazione, poiché, appena fu tribuno della plebe l’anno seguente, propose una legge che stabiliva un prezzo soltanto simbolico del grano per i cittadini di Roma. Dopo che ad alcuni suoi colleghi fu impedito con la forza di opporre il loro veto, il quaestor urbanus, Quinto Servilio Cepione, il figlio del console del 106, fece addirittura distruggere i pontes per le votazioni. Saturnino, però, non si diede per vinto. Fece approvare una legge per cui qualsiasi offesa recata alla maestà del popolo romano (maiestas populi Romani laesa) andava denunciata a un tribunale composto esclusivamente da membri di rango equestre: questo tipo di delitto aveva, volutamente, contorni molto ampi, in modo che il maggior numero possibile delle misure prese dai nobiles potesse rientrarvi. I due generali responsabili della catastrofe di Arausio, infatti, Quinto Servilio Cepione senior e Gneo Mallio, furono condannati e mandati in esilio proprio in base a questa Lex Apuleia de maiestate.

Uomo togato. Statua, marmo, 125-250 d.C. ca., da Roma.

Per quanto costituisse una minaccia per l’oligarchia senatoria, tale dispositivo giuridico non riscosse molta popolarità tra i cittadini più umili. Saturnino, allora, cercò consensi che potessero offrirgli un vasto seguito per le future elezioni. Si fece avanti il console Mario, anch’egli in cerca di alleanze. La fatica che gli era costata la competizione elettorale per il 103 gli aveva mostrato la debolezza fondamentale della sua posizione (le sue splendide vittorie sui Germani sarebbero arrivate infatti soltanto nel 102 e nel 101). In quella circostanza, il problema del mantenimento dei veterani nullatenenti reduci dalla guerra giugurtina offrì a Mario e a Saturnino l’idea di un progetto comune, che poteva portare a entrambi non soltanto i voti dei veterani, ma, nel caso, anche il loro intervento concreto durante le votazioni. Nell’estate del 103, infatti, Saturnino propose all’assemblea popolare una legge agraria che avrebbe assegnato a ciascun soldato mariano cento iugeri (cioè 25 h) di terreno nella provincia d’Africa. Nella stessa estate anche Mario fu rieletto console (ed era la quarta volta!) per l’anno successivo.

Nel 101 un uomo vicino alla cerchia di Saturnino, Gaio Servilio Glaucia, di famiglia patrizia, ma tribuno della plebe, presentò una nuova legge de repetundis che trasferiva di nuovo interamente dai senatori ai cavalieri gli incarichi di giurati nei tribunali permanenti.

La politica del 101 si incentrò sulle elezioni per l’anno seguente. Una volta respinti definitivamente i Germani, una quinta iterazione del consolato per Mario non aveva nessuna giustificazione. Glaucia, però, grazie alla sua influenza sui cavalieri, riuscì a imporla senza problemi, così come anche la propria elezione a pretore urbano. Quando anche Saturnino fu rieletto tribuno della plebe, i tre alleati avevano occupato le posizioni-chiave per l’anno 100. Il tribuno Aulo Nonio, che aveva annunciato la propria opposizione alla politica che intendeva perseguire Saturnino, fu raggiunto e ucciso dai suoi sgherri.

C. Fundanio. Denario, Roma 101 a.C. AR. 3,97 gr. Rovescio: C(aius) Fund(anius). La quadriga trionfale di Gaio Mario, console per la quinta volta.

 

La proposta di legge di Saturnino per assegnare terreni ai veterani mariani prevedeva la distribuzione in alcune zone della valle del Po, ormai sgombre dalla minaccia cimbrica; inoltre, egli presentò una seconda rogatio per far approvare la fondazione di colonie in Sicilia, Corsica, Macedonia e Africa. Il permesso accordato a Mario di concedere la cittadinanza romana a tre, o forse trecento, coloni per ogni nuovo insediamento (le fonti su questo punto sono discordi), fa pensare che i veterani che vi si dovevano trasferire provenissero dalle truppe degli alleati di Roma. Una volta insediatisi, a circa 250 km dall’Urbe, quei soldati sarebbero stati facilmente impiegabili per esercitare pressioni sulla nobilitas romana. Con quelle colonie nelle province inoltre sarebbero sorte nuove città, che sarebbero state particolarmente legate a Mario. Per questo motivo, gli oligarchi mobilitarono contro le due proposte anche i cittadini romani, che non avevano alcuna intenzione di andare a vivere lontano dalla metropoli.

Insegna di bottega con iscrizioni elettorali. Affresco, 73-78 d.C. da Pompei (VI, 13 6-7). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Saturnino, in tutta risposta, organizzò dei disordini: i veterani provocarono scontri per le strade con gli abitanti della città, mentre gli altri tribuni, che erano intervenuti per tentare mediazioni, furono respinti con la violenza. Alla fine, la forza dei militari ebbe la meglio, e le proposte divennero legge, con la clausola che obbligava i senatori, sotto pena di esilio, a giurare che le avrebbero confermate e attuate. Subendo questa umiliazioni, i membri del venerando consesso si sottomettevano pubblicamente alle decisioni dell’assemblea popolare. Non rimaneva però loro altra scelta che giurare, poiché i soldati di Mario presidiavano le strade dell’Urbe. Infatti, grazie alla loro salda organizzazione interna, consolidata nel servizio militare attivo e ai rapporti di cameratismo, questi uomini avevano formato unità di combattimento che potevano affrontare senza difficoltà le masse urbane o anche quelle formazioni di cavalieri e servi che i senatori avevano impiegato per eliminare i Gracchi.

Scena di lettura del testamento davanti al magistrato. Bassorilievo, marmo, I sec. a.C. da un sarcofago.

Mentre Saturnino si serviva spudoratamente dello strumento non suo dei veterani di Mario, questi dovette presto riconoscere che l’impiego continuato di quella violenza illegale sviliva la sua stessa autorità di console, macchiava la sua fama di «terzo fondatore di Roma» e allontanava da lui quella posizione di princeps, e quindi di garante dell’ordine pubblico, alla quale tanto aspirava. Questi furono verosimilmente i motivi del suo dietro-front, per cui si disse contrario al giuramento. Saturnino, sentendosi tradito, organizzò allora una protesta dei veterani contro il loro stesso comandante: Mario, alla fine, dovette cedere e giurare. Ai senatori, sorpresi, suggerì di fare altrettanto, ma con la clausola, «purché sia davvero una legge». Tutti i senatori lo seguirono, tranne Quinto Cecilio Metello, pronto ad affrontare l’esilio pur di restare saldo ai propri principi.

Soldati in uniforme (dettaglio). Bassorilievo, marmo, II sec. a.C., dall’Ara di Domizio Enobarbo (Campo Marzio, Roma). Paris, Musée du Louvre.

Saturnino sfruttò l’effetto deterrente dei soldati, che ora sembravano più obbedire più a lui che al loro generale, per essere rieletto ancora una volta tribuno della plebe per l’anno 99, senza che il Senato potesse opporsi. Con tanto maggiore audacia e spregiudicatezza Saturnino e Glaucia procedettero allora a un ulteriore rafforzamento della propria posizione: Glaucia si candidò al consolato. Probabilmente Mario, che allora ricopriva la massima carica e, in quanto tale, era responsabile dell’indizione delle nuove elezioni, non accolse la candidatura dell’aspirante, in quanto Glaucia era pretore in carica e perché mancava l’intervallo richiesto dalla legge. Allora, per turbare il corso delle elezioni, Saturnino e il compare fecero assassinare il concorrente Gaio Memmio. Come l’anno precedente, quando avevano fatto uccidere Nonio, pensavano di organizzare, dopo il solito tumulto per le strade, un’assemblea sul Campidoglio che avrebbe eletto Glaucia console.

Scena di sacrificio (suovetaurilia). Affresco, ante 79 d.C. dall’agro pompeiano, loc. Moregine, edificio B.

Nel frattempo, però, a loro insaputa, il Senato aveva approvato il senatus consultum ultimum, che ordinava ai consoli di procedere contro i ribelli. Mario risolse il proprio dubbio intervenendo contro i suoi vecchi alleati: li assediò sul Campidoglio insieme a una folla di cittadini e di soldati a lui fedelissimi, e fece loro interrompere i rifornimenti idrici e alimentari. Quelli, infine, capitolarono, perché il generale promise loro un regolare processo. Li fece arrestare e portare, per loro sicurezza, in Senato, ma durante la tradotta la plebaglia si vendicò lapidando Saturnino e Glaucia con tegole staccate dal tetto della curia. Quello stesso giorno, anche i loro accoliti furono linciati.

L. Apuleio Saturnino. Denario, Roma 104 a.C. AR. 3,88 gr. Rovescio: L(ucius) Saturn(inus). Saturno sulla quadriga.

Gli storiografi tardi, esponenti dell’aristocrazia senatoria, condannanopol Saturnino e Glaucia come demagòghi, avventurieri e delinquenti della peggior specie, privi di scrupoli. Il loro odio è ben comprensibile: se infatti i due fossero riusciti a occupare le posizioni-chiave anche nel 99, e a impiegare durevolmente molti veterani come una «milizia di partito», il centro decisionale della Repubblica si sarebbe spostato dal Senato all’assemblea popolare, da loro pilotata grazie ai picchiatori, e il loro potere sarebbe stato così confermato e perpetuato.

Due personaggi togati (forse magistrati). Applique, bronzo, I sec. d.C. Malibu, J.P. Getty Villa Museum.

Mario, dal canto suo, aveva fallito, perseguendo la politica popolare. Il ruolo decisivo, nella crisi dell’anno 100, era stato svolto evidentemente dai suoi veterani, che, dopo l’approvazione della legge agraria in loro favore, ora erano interessati alla pace e all’ordine, quindi alla conservazione del sistema politico vigente.

Fondamentale è leggere i classici (Bas. Leg. gent. libr. 1,5 – 3, 2)

 

Μὴ θαυμάζετε δὲ εἰ καθ᾿ ἑκάστην ἡμέραν εἰς διδασκάλου φοιτῶσι, καὶ τοῖς ἐλλογίμοις τῶν παλαιῶν ἀνδρῶν δι᾿ ὧν καταλελοίπασι λόγων συγγινομένοις ὑμῖν, αὐτός τι παρ᾿ ἐμαυτοῦ λυσιτελέστερον ἐξευρηκέναι φημί. Τοῦτο μὲν οὖν αὐτὸ καὶ συμβουλεύσων ἥκω, τὸ μὴ δεῖν εἰς ἅπαξ τοῖς ἀνδράσι τούτοις, ὥσπερ πλοίου τὰ πηδάλια τῆς διανοίας ὑμῶν παραδόντας, ἧπερ ἂν ἄγωσι, ταύτη συνέπεσθαι, ἀλλ᾿ ὅσον ἐστὶ χρήσιμον αὐτῶν δεχομένους, εἰδέναι τί χρὴ καὶ παριδεῖν. […] Μᾶλλον δέ, ἵν᾿ οἰκειοτέρῳ χρήσωμαι τῷ παραδείγματι, ὅσῳ ψυχὴ τοῖς πᾶσι τιμιωτέρα σώματος, τοσούτῳ καὶ τῶν βίων ἑκατέρων ἐστὶ τὸ διάφορον. Εἰς δὴ τοῦτον ἄγουσι μὲν Ἱεροὶ Λόγοι, δι᾿ ἀπορρήτων ἡμᾶς ἐκπαιδεύοντες. Ἕως γε μὴν ὑπὸ τῆς ἡλικίας ἐπακούειν τοῦ βάθους τῆς διανοίας αὐτῶν οὐχ οἷόν τε, ἐν ἑτέροις οὐ πάντη διεστηκόσιν, ὥσπερ ἐν σκιαῖς τισι καὶ κατόπτροις, τῷ τῆς ψυχῆς ὄμματι τέως προγυμναζόμεθα, τοὺς ἐν τοῖς τακτικοῖς τὰς μελέτας ποιουμένους μιμούμενοι· οἵ γε, ἐν χειρονομίαις καὶ ὀρχήσεσι τὴν ἐμπειρίαν κτησάμενοι, ἐπὶ τῶν ἀγώνων τοῦ ἐκ τῆς παιδιᾶς ἀπολαύουσι κέρδους. Καὶ ἡμῖν δὴ οὖν ἀγῶνα προκεῖσθαι πάντων ἀγώνων μέγιστον νομίζειν χρεών, ὑπὲρ οὗ πάντα ποιητέον ἡμῖν καὶ πονητέον εἰς δύναμιν ἐπὶ τὴν τούτου παρασκευήν, καὶ ποιηταῖς καὶ λογοποιοῖς καὶ ῥήτορσι καὶ πᾶσιν ἀνθρώποις ὁμιλητέον ὅθεν ἂν μέλλη πρὸς τὴν τῆς ψυχῆς ἐπιμέλειαν ὠφέλειά τις ἔσεσθαι. Ὥσπερ οὖν οἱ δευσοποιοί, παρασκευάσαντες πρότερον θεραπείαις τισὶν ὅ τι ποτ᾿ ἂν ἦ τὸ δεξόμενον τὴν βαφήν, οὕτω τὸ ἄνθος ἐπάγουσιν, ἄν τε ἁλουργόν, ἄν τέ τι ἕτερον ἦ· τὸν αὐτὸν δὴ καὶ ἡμεῖς τρόπον, εἰ μέλλει ἀνέκπλυτος ἡμῖν ἡ τοῦ καλοῦ παραμένειν δόξα, τοῖς ἔξω δὴ τούτοις προτελεσθέντες, τηνικαῦτα τῶν ἱερῶν καὶ ἀπορρήτων ἐπακουσόμεθα παιδευμάτων· καὶ οἷον ἐν ὕδατι τὸν ἥλιον ὁρᾶν ἐθισθέντες οὕτως αὐτῷ προσβαλοῦμεν τῷ φωτὶ τὰς ὄψεις. Εἰ μὲν οὖν ἔστι τις οἰκειότης πρὸς ἀλλήλους τοῖς λόγοις, προὔργου ἂν ἡμῖν αὐτῶν ἡ γνῶσις γένοιτο· εἰ δὲ μή, ἀλλὰ τό γε παράλληλα θέντας καταμαθεῖν τὸ διάφορον οὐ μικρὸν εἰς βεβαίωσιν τοῦ βελτίονος. Τίνι μέντοι καὶ παρεικάσας τῶν παιδεύσεων ἑκατέραν, τῆς εἰκόνος ἂν τύχοις; Ἦπου καθάπερ φυτοῦ οἰκεία μὲν ἀρετὴ τῷ καρπῷ βρύειν ὡραίω, φέρει δέ τινα κόσμον καὶ φύλλα τοῖς κλάδοις περισειόμενα· οὕτω δὴ καὶ ψυχῇ προηγουμένως μὲν καρπὸς ἡ ἀλήθεια, οὐκ ἄχαρί γε μὴν οὐδὲ τὴν θύραθεν σοφίαν περιβεβλῆσθαι, οἷόν τινα φύλλα σκέπην τε τῷ καρπῷ καὶ ὄψιν οὐκ ἄωρον παρεχόμενα.

Scena di scuola. Rilievo, marmo, inizi III sec. d.C. ca. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum
Scena di scuola. Rilievo, marmo, inizi III sec. d.C. ca. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.

Non vi meravigliate se a voi che pure frequentate ogni giorno la scuola e vi intrattenete con gli uomini più illustri dell’antichità attraverso i loro scritti, io dico di averci trovato per conto mio qualche notevole vantaggio. Ed è appunto questo il consiglio che intendo darvi, che cioè non dovete seguirli supinamente dovunque essi vi conducano, quasi consegnando loro una volta per sempre il timone della vostra intelligenza, ma accogliendo quanto essi hanno di buono sappiate anche quel che bisogna scartare. […] Per usare un esempio più adatto, quanto l’anima è superiore in tutto al corpo, altrettanto la vita futura supera quella terrena. A quella vita certo ci conducono le sante scritture ammaestrandoci mediante i misteri. Ma finché per ragione d’età non si riesce a comprendere il significato profondo di questi misteri noi ci esercitiamo con l’occhio dell’anima su altri libri non del tutto diversi, come su delle ombre e su degli specchi, imitando coloro che compiono le esercitazioni militari: questi, per la pratica acquisita negli esercizi delle mani e del salto, traggono vantaggio poi nelle battaglie da questo addestramento. Ora noi dobbiamo essere persuasi di trovarci dinanzi ad un combattimento che è il più grande di tutti, e per esso dobbiamo far di tutto e secondo le forze sostenere ogni fatica che ci prepari a questa battaglia, e dobbiamo renderci famigliari poeti, storici, retori e tutti coloro dai quali possiamo ricavare qualche utilità per la cura della nostra anima. Come i tintori, che prima preparano con certi trattamenti una stoffa atta a ricevere la tinta, poi vi applicano il colore, o purpureo o di altro genere, così anche noi, se si vuole che l’idea del bene resti in noi indelebile, dopo esserci dedicati appunto a questi studi profani, capiremo allora i misteri delle sacre dottrine; e una volta abituati, per così dire, il sole nell’acqua, getteremo lo sguardo nella luce stessa. Se vi è dunque una qualche affinità reciproca tra le due dottrine, la conoscenza di ambedue non potrà che esserci utile; se poi non c’è affinità, il fatto però di metterle a confronto e riconoscerne la differenza, aiuterà non poco a confermarci nella migliore. Ma a che cosa possiamo paragonare i due insegnamenti per averne un’immagine? Ecco: come è virtù propria di una pianta ricoprirsi di frutti della stagione, e ne formano un certo ornamento anche le foglie che sui rami stormiscono, così anche per l’anima il frutto precipuo è la verità, e tuttavia non è affatto sgradevole che si rivesta di sapienza profana come di foglie che offrono riparo al frutto e una vista gradita.

Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.
Vincenzo Foppa, Fanciullo che legge Cicerone. Affresco, 1464, dal Banco Mediceo di Milano. London, Wallace Collection.

Crizia, Teramene e il regime dei Trenta Tiranni

di D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 471 sgg.

 

Crizia, procugino di Platone, capo dei trenta costituenti, che vanno sotto il nome di Trenta Tiranni, è una figura di politico intellettuale. Come intellettuale, egli appartiene a tutti gli effetti alla storia della letteratura greca: è autore di poesie esametriche ed elegiache, di tragedie, di costituzioni (politeîai), queste ultime in versi e in prosa. È un personaggio, anche, di diversi dialoghi platonici. È ovvio che la testimonianza platonica va presa cum grano salis, perché contiene una libera rielaborazione delle situazioni. In ogni caso, le tematiche che Platone ricollega con personaggi storici che rende protagonisti, hanno caratteristiche che vanno tenute presenti in sede storica almeno nei loro termini generali. Non sarà forse tutto Crizia, ciò che Platone gli ascrive nei dialoghi, ma in qualche modo si respira il campo di interessi, lo stile, l’orientamento di Crizia. Sulla ricostruzione del personaggio grava un enigma di fondo: la famosa accusa sul tentativo che egli avrebbe compiuto di instaurare la democrazia in Tessaglia, armando i penesti[1]. Ed è l’unico tratto che sembra configurare una posizione democratica estrema del personaggio; ma i suoi inizi lo avvicinano ad Alcibiade, in una familiarità molto stretta. Ed in ogni caso va tenuta presente la realtà ateniese da cui proviene. Certamente nell’ultima fase, nel periodo dei Trenta, Crizia matura una posizione filo-laconica al cento per cento, fino ad ipotizzare una riduzione di Atene nei termini politici di Sparta. Alcuni elementi mostrano però la complessità del personaggio. La realtà ateniese era così nuova, così grande, che anche gli avversari della democrazia, per filo-spartani che fossero, ne erano fortemente condizionati. Cimone aveva forte ammirazione per Sparta, eppure rimase nella democrazia. Via via, questa ammirazione per Sparta condusse personaggi di questo stampo fino a una rottura con la tradizione: ed è il caso di Crizia.

La sua prima elegia parla, secondo un’ottica tipicamente greca, dei luoghi dove sono nate certe invenzioni; le città vengono caratterizzate dal punto di vista storico-culturale. E allora è richiamato il gioco del còttabo, siciliano; i bei sedili sono invenzioni dei Tessali; famosi i letti di Mileto e di Chio; famose le coppe dorate e i bronzi dei Tirreni; famosi i Fenici per l’invenzione dell’alfabeto, Tebe per il carro; i Cari hanno inventato le navi da carico; infine, Atene ha creato il tornio, è dunque la città della ceramica. L’elemento artigianale è perciò quello per cui si caratterizza Atene, e le parole di Crizia suonano ossequio a una civiltà di tipo artigianale-urbano; non alla democrazia, ma certo a una città in cui la forma politica democratica è maturata proprio a ridosso del grande sviluppo delle attività artigianali.

Platone. Testa, copia romana in marmo da originale del 348-347 a.C. ca. München Glyptothek
Platone. Testa, copia romana in marmo da originale del 348-347 a.C. ca. München Glyptothek.

Ci sono insomma in Crizia elementi della cultura dell’ambiente ateniese, che finiscono per condizionare anche chi, nell’esito storico finale, agisce come nemico di quella democrazia. Un’elegia è dedicata ad Alcibiade, quanto basta per indicare la familiarità dei rapporti tra i due. Forti erano dunque i nessi tra i due allievi di Socrate; e sulla condanna del filosofo pesò notoriamente il fatto che dalla sua scuola fossero usciti personaggi come Alcibiade e Crizia. Un frammento delle Costituzioni in versi riguarda Sparta e il modo di bere a Sparta: qui il simposio è contenuto in forme di gioia temperata, senza eccessi. Ma è soltanto uno dei casi in cui Crizia si trova ad elogiare Sparta. Le Costituzioni, che gli vengono attribuite, riguardano Atene e la Tessaglia, oltre che Sparta stessa. Egli elogia il comportamento severo e guardingo degli Spartani verso gli iloti[2]. Nel discorso che egli tiene alla boulḗ contro Teramene, la costituzione degli Spartani è definita come kallístē politeía, «la più bella delle costituzioni»; a Sparta c’è un’assoluta compattezza di comportamento all’interno del governo: quel che è approvato dalla maggioranza degli efori, è eseguito anche dalla minoranza (una regola che, ad Atene, Teramene finirà con il violare, ricorrendo a strumenti che nella democrazia sono consentiti, cioè il biasimare e l’opporsi)[3].

Teramene, che aveva contribuito all’instaurazione del nuovo regime prima e dopo la sconfitta, ne divenne presto vittima, non volendo avallarne tutti gli eccessi. Spogliato dei diritti politici e sottoposto a processo di fronte alla boulḗ, fece un’autodifesa tanto appassionata quanto inutile […]. Nella sua apologia, Teramene definisce in termini negativi la sua posizione come contraria agli estremismi nei confronti dei quali si colloca al centro: «Non sono mai stato con i dēmotikoí, o con i tyrannikoí, non sono mai stato contro i kaloí kaì agathoí (i galantuomini)»[4]. La rappresentazione che Aristotele dà della situazione politica ateniese al cap. 34 della Costituzione degli Ateniesi, quando parla di tre partiti, se pur non rende completa giustizia alle posizioni particolari, è perciò grande intuizione storica. Non c’è più la rigidità dei fronti, non c’è più il bipartitismo del pieno V secolo. Prima i contrasti (Plutarco, Pericle 11, 3) erano «venature del metallo», poi con Pericle erano divenuti «tagli profondissimi» all’interno di Atene; ora invece non c’è più l’opposizione frontale, il che cambia qualitativamente tutte le posizioni politiche. Teramene giustifica la sua posizione politica nelle vicende del 411, quando, come abbiamo visto, si era guadagnato il soprannome di «coturno». La costituzione dei Quattrocento Teramene l’aveva certo promossa, ma egli dice che l’aveva voluta proprio il popolo, per accattivarsi gli Spartani, meglio disposti a far pace con un governo oligarchico; e per questo Teramene non se ne fa carico. Nel 404 Teramene era stato il protagonista delle trattative di pace tra Atene e Sparta, ed anche allora con comportamenti che avevano avuto sempre qualcosa di ambiguo: raggiunti gli Spartani, restò presso di loro per tre mesi, pur senza avere la posizione di ambasciatore plenipotenziario; riuscì ad ottenerla dopo, quando trattò la pace, approvata dagli Ateniesi in un clima di paura e sfiducia. Poco dopo lo troviamo con i Trenta; impressionante il suo dibattito con Crizia, e il tentativo di rifugiarsi presso la eschára del bouleutḗrion (l’altare centrale della sede del consiglio), per sottrarsi alla condanna. Ma, nonostante il suo discorso faccia un’impressione positiva sui buleuti, nessuno muove un dito per lui, e soprattutto Crizia conta sull’effetto intimidatorio dei giovani che assistono con i pugnali sotto le ascelle; sembra una scena d’epoca repubblicana romana e dà invece solo l’idea del turbamento politico in corso ad Atene.

Diodoro (XIV 5) fa intervenire in suo aiuto Socrate, di cui – egli dice – Teramene era discepolo. Nelle genealogie culturali, non c’è limite alla fantasia degli antichi: Teramene sarebbe stato anche il maestro di Isocrate[5]. Si creerebbe così una linea genealogica Socrate-Teramene-Isocrate, interessante per ciò che ciascuno rappresenta in filosofia, politica, retorica; interessante anche per le assimilazioni che questa ideale genealogia istituisce, in primo luogo per il problema di Socrate e la posizione mediana, centrista, che a conti fatti si individua in lui. Del resto, per Isocrate e la sua scuola, democrazia e pátrios politeía finiscono con l’identificarsi. Quelle che erano le tre posizioni politiche vigenti ad Atene dal 404, secondo lo schema aristotelico, finiscono col dar luogo a una sostanziale ricomposizione; sicché, nel corso del IV secolo, si ha una convergenza di fatto delle posizioni che si riconducono all’idea di pátrios politeía, e persino certe istanze di parte oligarchica possono figurare sotto il connotato della democrazia. La pátrios politeía non riuscirà a diventare il nuovo modello politico; formalmente sarà la democrazia, infatti, a vincere, ma essa si adatterà (e qui si completa il processo di ricomposizione) ad assorbire tante istanze della pátrios politeía, e in tanto essa non sarà contrastata, in quanto sarà trasformata. Il processo, anche sul piano lessicale, è chiaro, se seguiamo con attenzione la storia della parola dēmokratía, che nel IV secolo si avvia a significare di nuovo «forma libera, repubblicana», a recuperare cioè quel significato generico di opposizione alla tirannide e alla monarchia, che però non oblitera mai in assoluto la possibilità di un significato più specifico[6].

Trasibulo, che nel 403 restaura la democrazia ad Atene, ha parecchi punti di merito verso il regime democratico: lo troviamo nel 411 a Samo, fra i protagonisti di quello scisma democratico, che ha avuto forti conseguenze, mentre Teramene regge, fino a un certo punto, il gioco dei Quattrocento. Nel 404 Trasibulo è esule; è fra i “grandi esuli”, che Teramene ricorda nel suo discorso di replica a Crizia, quando dice ai Trenta: «I veri traditori sono coloro che hanno fatto in modo che lasciassero la città personaggi come Trasibulo, Anito e Alcibiade[7]». Alcibiade viene ricordato una volta sola: la seconda volta Teramene parla soltanto di Trasibulo e di Anito; è possibile che questo significhi che, nel momento in cui Teramene fa il suo discorso, Alcibiade fosse già stato ucciso. La carriera di Teramene presenta mutamenti e ambiguità, che sono in molti personaggi dell’epoca. È soprattutto in ambienti oligarchici che insorge l’immagine del traditore, del «coturno», della banderuola; all’interno di quel gruppo, egli non ha rispettato le regole della solidarietà; ha consentito sempre e solo fino a un punto e, quando ha dissentito, lo ha fatto con cambiamenti di rotta, che hanno lasciato del tutto scoperti i suoi malaugurati compagni di viaggio. Bisogna riconoscergli, però, sul piano teorico, una fondamentale coerenza: ed è nel senso della pátrios politeía.

All’epoca corrono del resto diversi progetti di riforma del corpo civico. Uno è appunto quello di Teramene, che accetta, nel 411, il numero orientativo di 5000 cittadini, ma in realtà inclina verso una costituzione “oplitica”, cioè una costituzione in cui i pieni diritti siano nelle mani degli opliti (e cavalieri): restano esclusi i teti, quelli della cosiddetta democrazia marinara: teti nella funzione sociale, marinai nella funzione militare[8]. È una fortissima limitazione, anche se non persegue il numerus clausus come condizione; infatti, è solo un criterio orientativo. La posizione di Crizia può definirsi oplitica in senso stretto, anzi strettissimo, tanto è vero che neanche comprende tutti gli opliti; un grosso ruolo qui sembrano averlo i cavalieri, che si aggirano attorno ai 1000[9]. È una posizione estrema: 300, forse 4000, che sono meno dei 9000 che, largheggiando, costituiscono il corpo degli opliti di Teramene. Formisio è uno degli esuli rientrati dal Pireo. Anch’egli è un riformatore, in senso riduttivo, del corpo civico: la cittadinanza non spetta a tutti, bensì solo a coloro che posseggono terra in Attica[10]. Se fosse stato approvato il suo decreto, ben 5000 degli Ateniesi sarebbero stati privati dei diritti politici, forse su 30000 (alcuni studiosi sospettano dati più bassi, tenuto conto delle perdite di guerra). Il criterio di Formisio è diverso da quello di Teramene e di Crizia, è dichiaratamente economico, sembra più largo di quello puramente oplitico, e comporta un’esclusione abbastanza limitata.

Neanche questo progetto passerà. Di fatto, la democrazia restaurata di Trasibulo, da Archino, da Anito, si presenta formalmente come un ritorno alla vecchia costituzione. In realtà molte cose cambiano. Ci sono modifiche nei meccanismi legislativi di controllo, oltre che cambiamenti nella distribuzione della ricchezza, che finiscono con l’assorbire le istanze di cui si erano fatti portatori altri gruppi politici. Ma i progetti pullulano, ed è un brulichio di posizioni, da Formisio ad Anito, a Clitofonte, a Teramene, personaggi tutti di quel gruppo che viene ricordato da Aristotele come il campo dei fautori della pátrios politeía. Si vede come ciò che dice Aristotele sia vero in senso lato e non vero per quanto riguarda le differenze. È un raggruppamento politico, con molte sfumature al suo interno. Clitofonte è un personaggio poco noto, però personaggio di dialoghi platonici (ce n’è uno intitolato a lui; egli compare anche nella Repubblica in connessione con il sofista Trasimaco). Clitofonte è, nel 411, l’autore di un emendamento famoso al decreto di Pitodoro, che nel 411 istituiva una commissione di 30 probuli (completando così la vecchia commissione di 10), sopra i quarant’anni, che dovevano redigere una costituzione. Sono trenta costituenti per la salvezza della città. Veniva consentito, a chiunque lo volesse, proporre integrazioni, perché da tutto si scegliesse il “meglio” politico. Clitofonte fa un emendamento, nella forma tipica per i decreti conservati in epigrafi: «Il resto, come lo ha detto Pitodoro; poi bisogna in aggiunta cercare delle leggi patrie, che Clistene pose quando istituì la democrazia, perché sentite queste decidessero per il meglio, in quanto la costituzione di Clistene non era popolare, ma vicina a quella di Solone». Opera, in sostanza, l’idea di una cernita all’interno dei nómoi; bisognava scegliere quelli che, fra i più recenti, somigliavano maggiormente alla legislazione di Solone. La ricerca delle tradizioni ha dunque questo senso: ricercare e valorizzare le norme tradizionali che si sono conservate fino a un certo periodo (a esclusione della democrazia radicale di Efialte e di Pericle). Non si esclude tutta la vicenda della democrazia, ma solo una parte di essa, operando una cernita all’interno delle strutture costituzionali e legislative, in quanto le leggi sono concepite come un fascio che si è troppo ingrossato, e di cui solo il filo risalente alle fasi più lontane viene conservato (cfr. Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 29, 3).

Nell’emendamento di Clitofonte si parla di pátrioi nómoi, cioè di «leggi patrie»; nel 404 si parlerà con certezza di pátrios politeía. C’è differenza? Alla lettera una gran differenza non c’è. Finley considera alcuni momenti della storia politica anglo-sassone e americana e il senso che ha in essa il richiamo alla “costituzione degli antenati”, cioè al valore costitutivo passato; la trasformazione politica non si può proporre, se non operando su modelli[11]. Qualcosa di più e di diverso bisogna dire però sul mondo greco. Certo, pátrioi nómoi non significa «leggi specifiche», di contro a una pátrios politeía che indicherebbe le «leggi di livello costituzionale». Per questo aspetto non si può distinguere; ma è tutto il contesto delle due esposizioni che va rimeditato. Noi vediamo che i pátrioi nómoi, nell’emendamento di Clitofonte, appaiono come un correttivo, un elemento accessorio, della proposta di Pitodoro di riformare la costituzione «per la salvezza» di Atene; di fronte a un’idea generale ancora indefinita, c’è la ricerca del “meglio” politico. In concreto, per Clitofonte si tratta di recuperare le leggi poste da Clistene quando istituì la democrazia, in quanto la sua costituzione viene sentita in ambienti oligarchici come non troppo popolare, ma alquanto vicina alla costituzione di Solone. Così si pensa di garantirsi nei confronti degli affezionati alla democrazia: si tutelano quelle leggi di origine lontana, che sono state accolte, fra altre, nel fascio delle leggi della democrazia.

Nel 411, quasi ad eliminare delle degenerazioni, venivano abrogati due istituti: la graphḗ paranómōn, e i misthoí, tranne poche eccezioni. La graphḗ paranómōn è la denuncia scritta di proposte che vanno contro le leggi. I misthoí, cioè le indennità, rappresentano l’apporto della democrazia periclea[12].

Nella storia dell’idea di pátrios politeía va comunque definita la funzione di Trasimaco. Clitofonte è collegato con il sofista Trasimaco, dei cui scritti possediamo solo frammenti. Nel primo di essi – un’orazione riportata nel commendo di Dionisio a Demostene per ragioni stilistiche – Trasimaco tra l’altro afferma: «Basta per noi il tempo trascorso, e il doverci trovare in guerra, invece che in pace». Noi non sappiamo esattamente che cosa sia questa guerra. Non è del tutto chiaro che sia un pólemos esterno (in tal caso dovrebbe essere la guerra del Peloponneso, perciò il testo andrebbe datato prima del 404); poco dopo si fa riferimento a ostilità reciproche e a conflitti (tarachaí), a cui si è arrivati, invece che alla concordia (homónoia). Il frammento di Trasimaco si potrà pur collocare nel 411, con il suo riferimento a un dibattito in corso sull’idea di pátrios politeía; ma è escluso che l’espressione sia testimonianza di un dibattito in corso del 404[13]. Ma perché costituzione “patria”? Dei “padri”, nel senso della generazione precedente? O dei “padri” intesi in generale, come antenati? Se pensiamo che la linea divisoria della storia della democrazia è il 461, ebbene, nel 411, o nel 404/3, si poteva realmente usare l’espressione “costituzione patria”, per risalire al di là del periodo efialteo-pericleo, e pur tuttavia riferirsi ai propri genitori. Un uomo di cinquant’anni, nato circa il 461 o il 454, può riferirsi effettivamente ai suoi “genitori”, quando ha in mente l’epoca anteriore alla riforma di Efialte.

Nel 404 l’idea aveva la funzione di mettere un freno al popolo. Il quadro aristotelico (Costituzione degli Ateniesi, 34, 3) è più articolato, nel distinguere tra un’oligarchia estrema, rappresentata dalle eterie, una democrazia tradizionale, che è quella di Trasibulo (e che poi si affermerà), e la posizione mediana di coloro che ricercano la pátrios politeía. Questo dibattito è storicamente comprensibile, se si tiene presente che, a conti fatti, le posizioni contrapposte si scioglieranno nella democrazia del IV secolo; e la democrazia greca deve passare attraverso questa fase per diventare, nella concezione di un conservatore come Polibio, nel II secolo a.C., la forma positiva del regime popolare, a cui egli contrappone, come forma negativa, l’ochlokratía (dominio della massa)[14].

Teramene vuole un oplitismo costituzionalmente definito; e lo dice con chiarezza quando afferma: «Io non sono dell’avviso che sia una buona democrazia quella in cui non abbiano parte al potere gli schiavi e quelli che venderebbero la città per una dracma, e che non sia una buona oligarchia quella in cui la città non sia tiranneggiata da pochi. Sempre ho ritenuto come forma migliore quella basata su coloro che possono sostenere la città con i cavalli e con gli scudi: e non cambio idea»[15]


[1] Senofonte, Elleniche II 3, 36 (sull’attività di Crizia in Tessaglia nel discorso di Teramene). Forse è il personaggio che compare nel Crizia e nel Timeo di Platone (altri vi vede il nonno); è comunque evocato nel Carmide 161b.

[2] Con le altre politeîai in prosa (Sparta, Atene, Tessaglia, ecc.) gli è attribuita la paternità del Perì politeías che va sotto il nome di Erode Attico, importante per la descrizione della situazione delle città di Tessaglia al tempo di Archelao re di Macedonia (413-399 a.C.). L’autore del discorso esorta i Larissei, come sembra, all’alleanza con gli Spartani e alla resistenza alla Macedonia. Obiezioni sull’attribuzione alla fine del V sec. a.C. in [Erode Attico], Perì politeías, a c. di U. Albini, Firenze 1968.

[3] Sul valore decisivo del criterio della maggioranza nelle decisioni degli efori di Sparta, cfr. Senofonte, Elleniche II 3, 34 (dal discorso di Crizia contro Teramene).

[4] Senofonte, Elleniche II 3, 4749.

[5] Per la tradizione che fa di Teramene un maestro di Isocrate, cfr. Münscher, in RE IX 2, 1916, col. 2153.

[8] Vd. avanti, n. 15.

[9] Cfr. P. Cloché, La restauration démocratique à Athènes en 403 av. J.C., Paris 1915, pp. 7 sgg. (i cavalieri sono cittadini, compresi nei 3000), con argomenti non decisivi.

[10] Cfr. Dionisio d’Alicarnasso, De Lysia 32. Sulla cifra di 9000 a cui di fatto si arrivò, cfr. Lisia, XX 13 (Per Polistrato).

[13] Cfr. Sofisti. Testimonianze e frammenti III, a cura di M. Untersteiner, Firenze 1954, pp. 3 sgg., in part. fr. 1 (Perì politeías).

[14] Polibio, VI 4, 6; 57, 9 (a 9, 7 cheirokratía, dominio delle mani, probabilmente).

Pubblico e privato nella democrazia periclea

di D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’Età micenea all’Età romana, Roma-Bari 1989, 338-342.

Per brevità, possiamo dire che il rapporto tra pubblico e privato, come visto da Pericle, si coglie, meglio che altrove, nell’Epitaffio per i caduti ateniesi del primo anno di guerra del Peloponneso, messo da Tucidide sulle sue labbra, in II 35-46. Qui il discorso pericleo è fortemente costruito sulla distinzione tra privato e pubblico, distinzione che però Pericle presenta in chiave di un equilibrio, che, va notato, è un equilibrio non statico, ma carico di tensione; e lo si intende sia dall’analisi particolare in cui si esemplificano, rispettivamente, i diritti del privato e quelli del pubblico, sia – che è anche più importante – dallo sviluppo storico che è alle spalle delle due categorie e della loro stessa combinazione. Il rapporto che ne risulta è quello di un equilibrio carico di tensione, che Pericle, cioè lo Stato democratico pericleo, si incarica di comporre. Non si possono qui discutere, per ragioni di spazio, tutti i particolari. Ma mi pare significativo che, ad esempio nel fondamentale capitolo II 37, nella definizione che Pericle dà alla parola dēmokratía, si faccia valere, da parte dell’uomo politico, innanzitutto una garanzia per l’àmbito delle divergenze private (ídia diáphora), che saranno risolte secondo un’isonomía, che assegna, con trasparente significato di «tutela dello status quo» (e per ciò anche del privilegio), a ciascuno il suo; nel pubblico però vale il diritto a partecipare, se capaci, all’esercizio della cosa pubblica: diritto dei ricchi come dei poveri, cioè degli assistiti della politica periclea delle indennità.
Non si può davvero affermare che quest’equilibrio si realizzato attraverso una totale subordinazione del privato e del privilegio al pubblico: questa compiuta omogeneità sociale e politica non è infatti l’apporto e la caratteristica della democrazia, nel grado di sviluppo che essa conosce nell’Atene classica. In più luoghi del discorso pericleo si legge invero lo sforzo di garantire il privilegio, al riparo dalla contestazione e dal conflitto sociale. E in che senso sarebbe meramente subordinato all’interesse pubblico il godimento delle ídiai kataskeuaí euprepeîs, delle «belle costruzioni private», delle case, insomma (un aspetto così significativo dal punto di vista delle condizioni economiche reali, come dello status sociale dei suoi simili), che Pericle lascia sussistere, secondo l’affermazione fatta al cap. 38? Il privato, l’economico, che già a metà del V secolo ha una sua storia e una sua forza produttrice di tensioni e di eterogeneità sociali (certamente almeno ad Atene), si presenta insomma, nella costruzione del compromesso pericleo, più bilanciato e coordinato al pubblico che non ad esso vincolato e subordinato. Non è affatto vero che Pericle rappresenti le due sfere come autentiche, e conciliabili solo se l’una è subordinata all’altra, come pure talora si afferma[1]. È anche vero però, se si vuole rendere giustizia alla storia delle forme politiche in Grecia, che, pur con tutti questi “limiti”, la democrazia periclea rappresenta, nel campo delle forme politiche come stabilmente realizzate nella storia dei Greci, una delle esperienze più avanzate di quelle condizioni: tant’è vero che nemmeno la successiva democrazia radicale dei dirigenti politici di estrazione non aristocratica rappresentò qualcosa di radicalmente nuovo sul terreno sociale (Cleone e i suoi non chiesero né una ridistribuzione delle terre né un’abolizione dei debiti, tanto per fare degli esempi).

Demos (personificazione) incorona un cittadino meritevole. Rilievo, marmo pario, fine IV sec. a.C. da una stele onorifica. Atene, Museo dell'Agorà
Demos (personificazione) incorona un cittadino meritevole. Rilievo, marmo pario, fine IV sec. a.C. da una stele onorifica. Atene, Museo dell’Agorà.

E tuttavia va detto qualcosa di più sul problema del predominio del politico, poiché questo c’è sì, nella pólis del V secolo (come anche del IV), ma solo a livello ideologico. Infatti, l’àmbito del privato si configura come il regno dell’individuale (o familiare) e del diverso, e anche della divergenza; così come il pubblico si presenta come il regno dell’uguaglianza e dell’omologia. Due cose distinte e diverse, dunque, in prima istanza; eppure due cose che debbono essere messe in rapporto e d’accordo, fra loro, nella visione periclea. Ed è qui, solo qui, solo a questo punto che appare il famoso (ma bisognoso di corretta definizione) «predominio del politico». Infatti, il problema storico che si pone per Pericle è quello di conciliare, di raccordare, di armonizzare; ma poiché il luogo privilegiato dell’accordo, della concordia, dell’omologia è per definizione (per definizione di Pericle, in primo luogo) quello del politico, per questo il risultato complessivo (ma storico e mediato) porterà il segno del politico. Lo Stato pericleo si incaricherà quindi, in quanto realtà politica, di realizzare l’accordo e l’armonia (il consenso dunque) tra il mondo del diverso e del conflitto, che è quello del privato e dell’economia, e quello dell’accordo e dell’intesa, a cui corrisponde la sfera dei diritti politici generalizzati, la sfera del pubblico. In parole povere, e riducendo all’essenziale: le leggi, nello Stato pericleo, consentono di essere ricchi (e di arricchirsi); ma sono appunto le leggi che lo consentono.
Tuttavia, poiché siamo su un terreno di sviluppo storico, che la ricerca degli elementi sistematici non dovrebbe mai farci dimenticare, bisogna attenuare l’impressione che il valore del pubblico proprio della democrazia periclea sia storicamente qualcosa di radicalmente nuovo: lo è, in quanto a sua volta “liberato” dal sociale, cioè dalle vecchie distinzioni aristocratiche secondo connessioni familiari e rango economico, e in quanto definito in nuove istituzioni; ma è anche vecchio, perché esso è anche l’estensione e lo sviluppo ( in altro àmbito e in diversa misura e con diversa qualità) del vecchio valore ugualitario dell’isótēs, e di valori omogenei, prodotti dalle precedenti comunità aristocratiche. Direi però che questo è l’aspetto più noto dei nostri studi di storia greca. È più stimolante invece considerare l’aspetto correlato: il privato della democrazia greca è sì in gran parte il privato tradizionale, quello della proprietà e del privilegio, che Pericle lascia di fatto in vita, ma è anche (segno dei tempi nuovi, del clima culturale nuovo che alla democrazia periclea si accompagna) un privato di tipo molto individuale, quello dei nuovi bisogni, di un’educazione più ricca e di un uso libero della mente come del corpo: sì, anche del corpo, quale Pericle rivendica (diciamolo a scanso d’equivoci modernizzanti) in antitesi all’educazione militaristica spartana, che vincola il corpo al di là di quel che gli Ateniesi ammettono per sé. Questi, secondo ciò che dice Pericle, sanno goderne liberamente, e senza inutili costrizioni, e però sanno anche, al momento opportuno, combattere e morire per la propria città. Il valore politico appare qui ancora una volta come una sorta di terminale ideologico, che alle spalle si lascia però, nella realtà conosciuta e accettata, un forte spazio disponibile.
Si afferma talora che non fu formulata in Grecia una teoria democratica della democrazia[2]; e certo va riconosciuto che le condizioni politiche e culturali generali furono piuttosto favorevoli alla formazione e formulazione del punto di vista della parte avversa. Ma è chiaro che, se mai ci fu in Grecia una teoria democratica della democrazia, essa dovette essere fondata proprio sul binomio ídion-dēmósion, che qui abbiamo analizzato, e che ne rappresenta la quintessenza.

Atene. Acropoli, ricostruzione grafica del complesso cultuale (disegno di J. Kürschner)
Atene. Acropoli, ricostruzione grafica del complesso cultuale (disegno di J. Kürschner).

E la tradizione storiografica, attidografica, biografica, ha nettamente distinto tra la munificenza di tipo aristocratico di un Cimone e la politica assistenziale di Pericle: la munificenza di Cimone ha dell’improvvisazione e del cuore, ma si realizza in termini che ricordano quelli del rapporto clientelare (salvo le dimensioni di questa generosità, che sanno l’epoca della democrazia) e comunque nella logica del nesso beneficio-gratitudine, beneficio-prestigio; la politica assistenziale periclea si attua invece col denaro pubblico e si presenta non come beneficio-favore a livello privato, ma come remunerazione destinata al cittadino per l’esercizio di una funzione civica[3].
Il passaggio poi alla sfera della psicologia, al capitolo delle forme mentali, è consentito l’esame della tradizione riguardante il rapporto che sussiste tra momento intellettuale e momento affettivo, emozionale, nella comunicazione di Pericle con il dēmos. L’aspetto intellettuale nell’eloquenza pubblica di Pericle emerge, come dato specifico e distinto, sia da quel che egli dice (come risulta dai discorsi attribuitigli da Tucidide e dalla caratterizzazione, in Thuc. II 65, del personaggio) sia da come egli lo dice, cioè dalla gestualità che, almeno secondo la tradizione attidografica e biografica, lo accompagna ( e che si addice appunto al senso generale della caratterizzazione tucididea). Egli che, rispetto al dēmos, si colloca come in un atteggiamento antagonistico (una sorta di antagonistica altalena), piega il popolo al timore, quando questo si esalta parà kairón («inopportunamente», «contro l’opportunità delle circostanze»). Esaltarsi parà kairón e temere alógōs: stati d’animo, e sentimenti, che sono l’opposto della razionalità del comportamento adeguato alle circostanze (per ciò che è nell’agire pratico) e della valutazione razionale (per ciò che è della sfera intellettuale). Pericle agisce invece nella sfera razionale: il suo rapporto con il dēmos è tutto mediato da un filtro intellettuale. Eppure il sentimento qui è solo distinto, non assente: perché è poi sulla sfera dei sentimenti, degli affetti, degli stati d’animo che Pericle agisce, determinando un’acconcia altalena attraverso la distinta leva della persuasione razionale. Intelletto e sentimento, dunque, compresenti e distinti, ma bilanciati fra loro. Culturalmente, il dato nuovo, quello che avanza, appare essere quello intellettuale, che dà il tono all’insieme (senza però che gli Ateniesi ne risultino trasformati in uomini di fredda razionalità). A questo assetto complessivo della forma mentale periclea corrisponde del resto una gestualità oratoria composta, che taglia fuori le frange estreme del ridere e del piangere, del gélōs e del páthos, del gridare e dello sbracciarsi, cioè la gestualità incomposta e passionale (nel segno appunto della promiscuità) che sarà invece quella del demagogo Cleone (e non a caso, in quel IV secolo a.C. che per molti aspetti è l’epoca della ricomposizione a livello ideologico, la gestualità periclea tornerà ad essere quella propria dell’oratore Focione)[4].

***

Note:

[1] Così in D. Lanza – M. Vegetti – G. Caiani – F. Sircana, L’ideologia della città, Napoli 1977, p. 87.

[2] M.I. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni (trad. it.), Roma-Bari 1972, p. 28.

[3] P. Veyne, Le pain et le cirque. Sociologie historique d’un pluralisme politique, Paris 1976, in part. pp. 189 sg.

[4] D. Musti, Pubblico e privato nella democrazia periclea, QUCC  20 (1985), pp. 7-17.

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L’oblio nella città

di N. Loraux, La città divisa, Neri Pozza Editore, Vicenza 2006, pp. 61-77

Il punto di partenza è dato da un progetto: comprendere che cosa avesse spinto gli Ateniesi nel 403 a prestare giuramento di «non rievocare i mali del passato». Un evento politico, dunque. Il punto d’arrivo, benché del tutto provvisorio, consiste in un testo tratto dalla parte finale dell’Orestea: alcuni versi di Eschilo, quindi un registro completamente diverso, un pensiero più vecchio di cinquant’anni (ma mezzo secolo conta molto nella breve storia dell’Atene classica). Lungo il cammino, le domande e le preoccupazioni di una ricerca che muoveva i primi passi.
In principio, si diceva, il progetto di comprendere un momento chiave della storia politica di Atene: dopo la sconfitta definitiva nella guerra del Peloponneso, dopo il colpo di stato oligarchico dei Trenta “tiranni” e le loro estorsioni, il ritorno vittorioso dei resistenti democratici, che si ritrovano con i propri concittadini, gli avversari del giorno prima, per giurare insieme a loro di dimenticare il passato attraverso il consenso. Gli storici moderni della Grecia dicono che si tratta del primo esempio, straordinario e familiare al tempo stesso, di un’amnistia. Per i manuali (ma già negli scritti e nei discorsi dopo il 400) è questa la svolta con cui Atene si congeda dal secolo di Pericle per entrare nella cosiddetta “crisi del IV secolo”. Perché scegliere di attenersi a un evento, per giunta proprio a questo? Forse per sfuggire agli schemi atemporali della storia lunga. Ma anche per il diletto e –speriamo – l’utile atteso dall’esercizio che consiste nello strappare un evento tanto alla storia-racconto quanto alla storiografia commemorativa, al fine di metterlo in relazione con questioni greche molto antiche. 403: un anno di notevole importanza nella storia della città modello, perché proprio allora essa “inventa” l’amnistia. E lo fa con gli strumenti concettuali di una lunga tradizione, che è indissolubilmente politica e religiosa. La città – quella degli storici – prende delle decisioni, ma anche la pόlis, figura cara agli antropologi della Grecia, si scontra con la propria divisione, nel tempo degli uomini e in quello degli dèi. In breve, tenteremo di comprendere la città a partire dalla pόlis.
Si potrà ritenere che tale modo di procedere vada da sé. Ma le cose non sono così semplici. Si immagini uno storico interessato al politico e intento a cercarlo in Grecia: una Grecia non idealizzata, beninteso, che egli pensa di trovare rivolgendosi agli antropologi. Qui cominciano le difficoltà, perché, in quanto luogo del politico, l’oggetto pόlis è, per storici e antropologi, la posta in gioco di una versione inedita della parabola delle due città. Ci sia permessa a questo punto un’incursione nel cuore delle perplessità del nostro studioso dilettante di politica.

Pittore Cleofrade. Cassandra denudata e rannicchiata ai piedi del “Palladio”; Aiace l’afferra per i capelli per portala via (dettaglio). Pittura vascolare su hydria attica a figure rosse, 480-475 a.C. ca. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Le due città

Nel diciottesimo canto dell’Iliade, sullo scudo di Achille Efesto raffigura due città umane, entrambe “belle”, come precisa il poeta: l’una indaffarata nelle attività tipiche del tempo di pace (matrimoni e giustizia), l’altra pronta a fronteggiare la guerra che tuona alle sue porte. Su quale blasone raffigureremo le due città di cui i moderni ricercatori, storici e antropologi della Grecia, fra loro in competizione e come dandosi le spalle, si dilettano a disegnare i contorni?
Prendiamo la città classica, città dei classicisti. Nettamente separata dai suoi margini e in buona misura dalle sue radici sociali – come pure, per l’essenziale, da quelle religiose – , la città è un gruppo di uomini (per essere precisi, di maschi; i Greci dicono: ándres) associati tra loro da una costituzione (politeía), che può essere democratica o oligarchica (a questo livello di generalità il tiranno non trova posto, giacché, a dire dei Greci stessi, è fuori città; al massimo si vede in lui un momento sempre superato dall’irresistibile evoluzione della storia costituzionale delle città greche). La vita della città è politica e militare, poiché gli ándres fanno la guerra e, riuniti in assemblea, prendono decisioni a maggioranza. La città ha una storia che è stata già scritta dagli storici greci, a tutto vantaggio dei loro “colleghi” moderni. Questa storia parla di costituzioni e di guerre, e non sa che cosa farsene della vita silenziosa di donne, stranieri e schiavi. La città racconta i suoi érga (le sue “gesta”, nello specifico importanti fatti militari). La città si racconta.
La città degli antropologi, invece, non agisce nel tempo dell’evento, ma in quello ripetitivo di pratiche sociali – il matrimonio, il sacrificio – , in cui fare è ancora un modo di pensare. Di pensare se stessi assegnando (tentando di assegnare) un posto all’altro, a tutti gli altri e, di conseguenza, al medesimo: ricollegando i margini al centro, e quegli ándres che sono la città ma hanno bisogno, per esempio, delle donne per costituirla veramente. Così il matrimonio fonda la città assicurandone la riproduzione. Dopodiché, una volta costituitasi la pólis in società umana, la si può situare in rapporto a un altrove. O meglio: di questo altrove, tempo degli dèi, mondo selvaggio delle bestie, la città proclama la distanza per meglio farlo proprio, mettendolo al posto opportuno. La città ha assorbito il suo fuori, e il sacrificio fonda la pólis: lontani dagli dèi, ma dotati della cultura, gli uomini sacrificano loro un animale, e questo gesto distribuisce il sistema di esclusioni e integrazioni intorno al nucleo degli ándres. Dal taglio sacrificale e dalla sua interpretazione in atto nascerebbe a ogni cerimonia il politico: ugualitario come la condivisione, isomorfo… Diremo anche neutralizzato? Il politico come circolazione immobile, o la città a riposo.
Città degli storici e città degli antropologi. Ma dal momento che a proposito della Grecia antica non vi è nulla che i Greci non abbiano pensato prima di noi, queste due città sono anzitutto greche. Quella che delibera, combatte, stipula la pace e la rompe è oggetto degli scritti detti “ellenici”: proprio ciò che noi siamo soliti chiamare “la Storia”. L’altra, che ribadisce la sua identità attraverso la ripetizione di gesti ritualizzati, costituisce, al di là della differenza tra generi letterari, una sorta di modello comune di intellegibilità: un discorso sull’umano i cui principi fondamentali, continuamente riproposti, servono a selezionare il conforme e l’estraneo, o si prestano a equivoci e distorsioni che danno da pensare.
L’esperienza irrimediabilmente perduta dell’uomo greco non prevedeva che si scegliesse tra queste due concezioni della “città”. Resta il fatto che la necessità della scelta non abbandona mai l’orizzonte del discorso greco. Ciò è attestato per esempio dall’opera di un Erodoto, dominata dal modello antropologico della pólis fintanto ch’essa si configura come viaggio nel paese dei barbari, ma nella quale si riafferma inequivocabilmente la città in movimento degli ándres non appena, con l’avanzata delle truppe persiane, la scena si sposta in Grecia. Alla fine Erodoto sceglie, e anche i moderni scelgono tra le due definizioni della città e ciò che esse sono diventate storicamente per noi. Non vi è dubbio che questa scelta si iscriva nella battaglia, sempre aperta in seno agli studi greci, tra la conformità e la pretesa eterodossia nell’università. Per fedeltà a Tucidide si adotta la storia-racconto, oppure, rifiutando la tradizione, si ricercano nel discorso greco argomenti per “raffreddare” l’oggetto denominato città greca.
Ma ogni scelta comporta un’esclusione. La “storia” esclude dal politico tutto ciò che, nella vita della città, non è evento, ma anche ogni evento di cui non si riesce a rendere conto appellandosi alla “ragione” greca. Ci si sbarazza volentieri in un capitolo, in poche pagine, persino in una frase, del tempo della religione, del lento lavorio del mito, dicendo che si trattava di dimensioni molto importanti della vita cittadina. Si procede come quando, studiando gli eventi del 404/403, capita di imbattersi nel discorso in cui il capo dei resistenti democratici dice che gli dèi combattono in tutta evidenza dalla parte delle sue truppe, per le quali fanno il buono e il cattivo tempo. Come la mettiamo con questa considerazione? C’è poco da fare, se non ritenere che essa sia malauguratamente passata attraverso il filtro imperfetto del racconto, giudicato troppo poco selettivo, di uno storico di cui comunque già si diffidava. Lo storico dell’Antichità preferirebbe non avere nulla a che fare con la familiarità tra i democratici e gli dèi, e vorrebbe poter tracciare una netta distinzione.
Dalla parte degli antropologi, al contrario, la causa del “politico-religioso” non necessita più di venire perorata: un incontestabile guadagno per chi, come il nostro dilettante di politica, non si trova a suo agio nel laicizzare fin da subito la città. Tuttavia il politico così concepito presenta forti somiglianze con il mito del politico, in quanto è posto sotto il segno del sacrificio e rinasce continuamente nei gesti rallentati del rito. La città sarebbe un ambiente omogeneo caratterizzato da un funzionamento ugualitario. O meglio, questa è l’idea della città. Nella realtà quotidiana delle vita cittadina, infatti, non vi è dubbio che la situazione più diffusa fosse quella della disuguaglianza tra i cittadini e che la questione della quantità di uguaglianza venisse continuamente a incrinare il consenso. Inutile scomodare Tucidide e Senofonte per accertarsene: è sufficiente leggere Aristotele come un “antropologo”. I pensatori del politico isomorfo hanno letto Tucidide e Senofonte, Aristotele e molti altri, e sanno che la città è attraversata da movimenti irriducibili a quello, regolare e ripetitivo, della rotazione delle cariche come redistribuzione annuale del politico in cui si concretizza la condivisione ugualitaria. Ma il problema rimane: come far sorgere in modo plausibile la violenza dall’omogeneo, se non invocando la regressione dell’uomo “inselvatichito” al di qua dei limiti dell’umano, o ricorrendo alla figura del tiranno, uomo-lupo, bestia o dio che si esclude dalla città a furia di gravare troppo su di essa?
Si consideri per esempio l’omicidio di Efialte, capo democratico e guida politica di Pericle, ucciso nel 461/460 per aver osato limitare le vastissime prerogative dell’Areopago, il consiglio aristocratico avvolto da un’aura di sacro terrore. Omicidio di stampo evidentemente politico, che a questo titolo viene ricordato dalla storia-racconto senza tanti commenti, come spetta a un evento di primaria importanza. Certo, gli studiosi del politico-religioso vorrebbero sapere qualcosa di più a proposito del rovesciamento che portò il riformatore a essere vittima di uno “scaltro omicidio” (dolophonētheís) dopo aver tolto all’antico Consiglio la facoltà di sentenziare intorno nei processi per omicidio (phónou díkai). Ma nel contesto generale del politico vi è poco da dire su questa morte – come, a quanto pare, nel discorso degli stessi Ateniesi, che su questo punto della loro storia brillano per discrezione…
Ci si trova a compiere una scelta, dunque: si possono privilegiare le mere decisioni staccate dal pensiero che fa loro da sfondo, oppure questo stesso pensiero, che se ne sta molto lontano sullo sfondo di ogni atto. Ciò significa che per studiare il politico nella Grecia antica bisogna prima decidere che cosa in esso si vuole espungere?
In base alla nostra schietta finzione il dilettante di politica intende giustamente rifiutare tale alternativa. Perciò, rivolgendosi all’idea che, da moderno, si è fatto della pólis greca come origine del politico, egli farà ritorno alla città per cercarvi quel “gesto inaugurale” del politico che è il “riconoscimento del conflitto nella società”. Per cercarvi soprattutto quel funzionamento della parola che è facile perdere di vista concentrando l’attenzione sugli antefatti o sulle conseguenze del politico: il nostro storico non accetterà né di soffermarsi, insieme all’antropologo, sul sacrificio che apre l’assemblea popolare, né di cominciare con il decreto che chiude le sedute dell’ekklēsía e introduce al discorso. Perché nello spazio tra l’inizio e la fine va situata l’invenzione greca del dibattito contraddittorio seguito da un voto.
Un voto: la vittoria di un lógos su un altro. Níkē, dicono in effetti i Greci, prendendo questa parola dal linguaggio della guerra e della competizione. Continuando a rifiutare di schierarsi nella competizione tra le due idee di città, lo storico del politico preferisce concentrarsi sulla competizione immanente alla città – un modo per non dimenticare che gli eventi della fine del V secolo ad Atene possono fornirci un valido punto di partenza.

Pittore Duride. L’assegnazione delle armi di Achille presieduta da Atena. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 500-450 a.C. ca. da Cerveteri. Berlin, Antikensammlung.

Uno si divide in due

Inutile illudersi, anche solo per un attimo, di poter accedere immediatamente alla realtà del dibattito contraddittorio e al conflitto nelle sue modalità. Lo storico della Grecia classica sa di non disporre di alcun documento che gli permetta di assistere di persona alla seduta di un’assemblea o fornisca informazioni precise sullo svolgimento di una lotta politica. senza archivi, senza alcuna raffigurazione plausibile, in parole o immagini, di una votazione, egli è costretto ancora una volta ad attenersi al discorso. Discorso è il racconto storico-grafico che ha già sempre compiuto una cernita nella realtà: per esempio, senza la scoperta, in occasione degli scavi sull’agorà, di innumerevoli tessere per l’ostracismo con il nome di un certo Kallixenos, questo personaggio, seppur tanto importante che molti Ateniesi ne temevano l’influenza, sarebbe rimasto uno sconosciuto nella storia politica di Atene, e in effetti, in mancanza di racconti storici sul suo conto, tale è rimasto. Discorsi e discorsi a posteriori sono i decreti che, anziché rendere conto dello svolgimento effettivo di un’assemblea, costruiscono e limitano il ricordo che è opportuno conservarne.
Discorso per discorso, tanto vale fare un passo indietro e tentare di mettere in luce quello che un po’ dappertutto i Greci dicono di una vittoria in assemblea, giacché sono stati loro ad inventare il politico secondo la modalità della vittoria.
Ora, dall’Odissea alla Guerra del Peloponneso, i Greci dicono continuamente: “la tesi peggiore ha la meglio…”; “avrebbe avuto la meglio se…”; “rischia di avere la meglio…”; “ha già avuto la meglio…”. Può succedere senz’altro che si prenda una buona decisione, capace di far dimenticare la minaccia o, per un pelo, di annullare gli effetti perniciosi di una votazione precedente. Curiosamente, però, per annunciare questa buona novella spesso i testi rinunciano al lessico della vittoria. Come se il fatto stesso della vittoria fosse tendenzialmente un male. Vi sono idee indubbiamente più rassicuranti, come la legge della maggioranza che presiede a tutte le votazioni e dovrebbe essere una garanzia. Quando però la maggioranza ha la meglio “per il bene”, sembra sempre che il voto sia stato raggiunto per un pelo, e l’ideale resta quello delle decisioni prese all’unanimità, come se, nel proclamare a gran voce l’unità di quel tutto che è la pólis, fosse fatto di dimenticare che, per un momento – quello del dibattito, cioè dell’assemblea – , la città necessariamente si divide. Dimenticare la divisione, dimenticare il dibattito… La pólis greca, è stato detto, «non si conosce se non mascherata». Si aggiunga a tale constatazione un’ipotesi: che sia così perché essa maschera a se stessa, con encomiabile costanza, l’effettiva realtà del suo funzionamento.
Interessarsi alla legittimità del conflitto, dunque, significa ben presto tentare di comprendere ciò che i Greci hanno detto intorno alla sua illegittimità. Significa riflettere sullo sforzo, in certo modo costitutivo, dell’unità della concezione politica dei Greci, volto a neutralizzare l’esistenza del politico come níkē e come krátos: come vittoria e superiorità di un partito sull’altro. Alla città alle prese con la guerra, l’Iliade contrappone la città in pace, quella del matrimonio e dell’amministrazione della giustizia. Ora, in seno alla pace, ecco che la giustizia è conflitto (neíkos) – il che non dovrebbe sorprendere troppo in Grecia, dove ogni processo è una battaglia, nel caso specifico una battaglia seria, in cui ne va della vita di un uomo. Ecco che, in questa bella città, «la gente grida in favore dell’uno o dell’altro e, per sostenerlo, finisce col formare due partiti». Riconoscimento sereno della legittimità del conflitto? Si obietterà che la decisione non spetta ad alcuno dei due gruppi, ma a una procedura complessa che mette in gioco un histōr e il consiglio degli Anziani – in questa città in cui la Città non è ancora nata, si può forse immaginare una divisione del tutto provvisoria, e che non coinvolga il destino della collettività perché nulla deve sancirla? A ogni modo questa faccenda si conclude con un concorso di sentenze che, come la parola del buon re di Esiodo, sanno rovesciare una situazione «dolcemente». Pare davvero che nulla debba minacciare dall’interno la bella città omerica. In compenso il poeta dell’Iliade non esita ad assegnare un nome e un posto ben precisi al male assoluto: il nome Erís, “lotta”, o Kēr oloē, “trapasso funesto”, il cui posto non sta entro le mura, ma alle porte della città assediata dall’esercito degli assalitori. Alcuni secoli più tardi la redistribuzione di questi dati è cosa fatta e, alla fine delle Eumenidi, Eschilo oppone la guerra straniera, che conferisce fama ed è l’unica buona perché è l’unica in grado di procurare gloria alla pólis, a quel flagello che è la guerra intestina. S’intende che solo la città caratterizzata da una situazione di pace interna potrà – come è suo dovere e destino – condurre la guerra al di fuori, e a questa guerra non presiede il trapasso funesto, ma la “bella morte” dei cittadini per la patria. le due città omeriche, quella che celebra matrimoni e quella che combatte, ne formano una sola, figura della città buona, mentre la divisione, divenuta minaccia assoluta, si insedia nella città malata, lacerata dallo scontro dei cittadini fra di loro.
Vi è una bella differenza tra la divisione delle opinioni e lo scontro sanguinario. Tuttavia, nel fare questo passo, stiamo solo imitando i Greci, i quali lo fanno di continuo – questa almeno la nostra ipotesi.
La guerra civile: per un Greco l’abominio della desolazione. Invece di indugiare sul carattere “naturale” di tale condanna (quale potrà mai essere per uno storico lo statuto della natura?), bisogna interessarsi al nome che i Greci danno a questo scontro: stásis. Stásis, come ha notato lucidamente Moses I. Finley, designa etimologicamente null’altro che una posizione: che poi la posizione sia divenuta partito, che il partito sia sempre necessariamente costituito ai fini della sedizione, che una fazione ne convochi un’altra, sempre, e che quindi esploda la guerra civile, tutto ciò rinvia a un’evoluzione semantica la cui interpretazione non andrebbe cercata «nella filosofia, ma nella società greca stessa». E nella concezione greca della città, aggiungiamo noi, dove la stessa condanna viene alla luce, da Esiodo che stabilisce un’equivalenza tra agorà e neíkos – tra il luogo della parola scambiata e i conflitti, spiacevole incarnazione della Cattiva Lotta – alla città ateniese del 403, che non sa bene come classificare gli uomini che sono «insorti per la democrazia», passando per Eschilo e l’auspicio espresso da Atena nelle Eumenidi di una «vittoria che non sia cattiva» – s’intenda: che non sia vittoria di una parte della città sull’altra. Stásis, o la divisione divenuta lacerazione. Stásis: da Solone a Eschilo, una piaga profonda nel fianco della città.
Nella città degli ándres cara agli storici greci, con la stásis fa irruzione il disordine: ecco che in Tucidide, quando narra gli eventi del 427 a Corcira, nella falla così aperta si insinuano i dimenticati dal racconto: le donne e gli schiavi, gli uni e le altre che combattono a fianco del partito popolare. Ecco che la battaglia imperversa all’interno della pólis, una battaglia senza grandi imprese, senza trofei, ma non senza vittoria, una battaglia che imita e svia quella che è lecito sferrare contro il nemico esterno. Ecco che, in uno spostamento mostruoso del sacrificio, lo sgozzamento (sphagē) si abbatte sugli stessi cittadini; ecco che le donne, di solito costrette a rimanere in pianta stabile all’interno della casa, salgono sui tetti, e gli schiavi diventano compagni di battaglia.
La stásis mette in crisi i modelli e le loro certezze rassicuranti. Gli storici moderni dell’Antichità le hanno riservato un trattamento particolare. Tradotta con l’espressione “guerra civile”, essa viene concepita come un evento la cui ripetizione costituisce, per esempio in Glotz – ma già in Fustel de Coulanges – la trama della “storia della Grecia” (e tuttavia, secondo le categorie dello stesso Glotz, la guerra civile è ciò che l’invenzione del politico avrebbe dovuto scongiurare, giacché la città avrebbe instaurato il voto come “rimedio preventivo” alla divisione sanguinaria: in principio, dunque, ma anche nel mezzo e alla fine, la guerra civile, inevitabile ricorrenza di un male fondatore della città?). Quando la chiamano col suo nome greco, gli storici solitamente la riconducono alla competizione, a quello spirito agonistico in cui, da Jacob Burckhardt in poi, si ravvisa l’impulso greco alla vita in città. Va osservato inoltre – benché spesso lo si dimentichi – che, se le cose stanno così, allorché condanna la stásis, come fa regolarmente, la concezione greca della città è costretta a cancellarne a ogni costo l’origine politica, per esempio assimilandola a una malattia, nósos, caduta sinistramente dall’alto del cielo, allo scopo di preservare l’immagine consensuale del politico. Ma in occasione di questa operazione di salvataggio che assomiglia a un diniego, che cosa ne è della coscienza greca del politico?
Bisogna insistere su questa operazione di pensiero. Per comprendere la stásis e poterci accostare adeguatamente equipaggiati all’Atene del 403, città convalescente che rifiuta anche la memoria della divisione. Per tentare inoltre, forse, di assegnare uno statuto al consenso ugualitario della pólis, mettendolo in rapporto con la lacerazione effettiva a essa immanente.
È questo il nostro progetto, per il momento appena abbozzato. È questo l’obiettivo della ricerca in cui stiamo per addentrarci, con ogni probabilità per lungo tempo. Prendiamo congedo finalmente dalla finzione dello storico dilettante di politica: l’incontro con il tema stásis non è affatto sopraggiunto come risultato di un percorso teorico unitario, come quello che abbiamo tentato di ricostruire finora. Né improvviso né veramente padroneggiato, l’incontro con un tema è il prodotto delle tortuosità di una ricerca, e spesso ha luogo ben prima di rendersene conto, nel corso di un cammino, in buona parte inconsapevole, attraverso investimenti teorici che coesistono a lungo prima di incrociarsi.

Pittore di Marlay. Clitennestra uccide Cassandra di fronte all’altare di Apollo. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 425 a.C. ca. Ferrara, Museo Archeologico Nazionale.

Nel punto di intersezione, “stásis

Col senno di poi, una volta avvenuto l’incontro, le cose sembrano chiare. Si può ricostruire un percorso dicendo per esempio che una ricerca sulla stásis si situa nel punto di intersezione tra due ricerche già avviate indipendentemente, che verranno poi sviluppate secondo un movimento unitario. Potremmo esprimerci in questo modo. Preferiamo tuttavia resistere alla tentazione della trasparenza. In realtà si avanza a tastoni, e qualche volta capita di trovare qualcosa. Nel caso specifico, a uno studio centrato sull’idea di città ha fatto seguito un percorso nell’immaginario ateniese dell’autoctonia, per arrivare a constatare un bel giorno che, grazie a uno di quei movimenti di bilanciare che, in una ricerca, sembrano a posteriori annullare gli scarti, ci si ritrova ancora una volta dal lato dell’idea di città – questa volta, però, della città nel suo rapporto con la divisione, con la sua divisione.
Come chiunque, con approvazione o fastidio, può constatare, per una lunga tradizione della storiografia greca la città per eccellenza è Atene. Non si potrebbe, tuttavia, procedere impunemente a tale identificazione, se non fosse già stata elaborata dagli Ateniesi stessi con una certa insistenza, se Atene cioè non si fosse pensata e non fosse riuscita a imporsi come la Città. Studiando l’orazione funebre ateniese, pensavamo di potere indicare uno dei luoghi in cui tale operazione è stata effettuata. Centrale, nell’orazione funebre in onore dei cittadini ateniesi caduti in battaglia, è il modello della “bella morte”, quella del combattente che assurge a eterna gloria avendo conquistato il valor militare. Muoiono gli uomini, la città rimane, onnipotente, indivisibile come l’idea di unità; morti sono i cittadini allorché l’oratore si fa avanti per esaltare Atene attraverso gli Ateniesi: su questi morti astratti la città costituisce la propria idealità. Grazie a questo trasferimento di gloria Atene si colloca in una nobiltà senza tempo, e la democrazia, di cui gli oratori tessono a profusione l’elogio, trova il proprio fondamento nell’aretē, nella qualità eminentemente aristocratica del valore. L’aspetto essenziale sta appunto nell’impossibilità, caratteristica della democrazia greca come regime modello, di inventare una lingua democratica per dire se stessa. In verità ciò ha inizio già col termine dēmokratía, che evoca la vittoria o la superiorità (krátos) del popolo, e che perciò viene pronunciato accompagnato da numerose precauzioni retoriche. La democrazia: una vittoria che sarebbe pericolosa al punto da non potere essere assunta se non sul registro, a un tempo nobile e guerresco, dell’aretē? La paura della stásis è sempre vicina, e in effetti, lavorando sull’orazione funebre, ci eravamo già imbattuti in questa domanda; non era però ancora venuto il momento di interrogarsi sulla concezione civica della divisione: nel campo del valore tutto si riassorbe in seno all’unità della città, una come dev’esserlo il luogo geometrico dei simili. Quel che catturava l’attenzione nel discorso della democrazia sul proprio valore era il processo in virtù del quale l’orazione funziona per noi come ideologia e per gli Ateniesi come una delle voci privilegiate dell’immaginario cittadino.
Stabilire la collocazione e il ruolo svolto dal mito nel gioco mutevole di questo immaginario: tale era allora la nostra preoccupazione. L’esempio scelto, quello del mito ateniese dell’autoctonia, proveniva dall’orazione funebre, dalla quale tuttavia ci si era allontanati per tentare di contestualizzare il mito nella città, nello spessore composito dei suoi “strati”, nella cartografia dei suoi luoghi e dei suoi molteplici discorsi. Presentati come autoctoni nell’orazione funebre, in realtà gli Ateniesi lo sono per derivazione, nel cerimoniale sull’Acropoli come sulla scena tragica, in quanto eredi dell’infante Erittonio, autoctono primordiale nato dalla terra cittadina. Dalla riflessione ateniese sulla cittadinanza, che trova la propria fondazione mitica nella nascita di Erittonio, scaturiscono due questioni, appena dissimulate nei discorsi e nell’immaginario: quella della posizione delle donne – e della divisione dei sessi – e quella della parentela all’interno della città. Autoctoni sono gli ándres di contro alle donne, questi parenti acquisiti o che si vorrebbero tali. Gli ándres inoltre, in quanto autoctoni, stabiliscono tra loro, lontano dalle donne, un luogo per pensarsi, un luogo in cui la città si dà come unitaria e costituita da identici: la parentela originaria di coloro che hanno ciascuno individualmente un padre, e tutti collettivamente la stessa madre. Al tentativo di comprendere come venisse pensato ad Atene il nome di questa madre (, la Terra? oppure la vergine Atena?) ci eravamo dedicati allora e, di conseguenza, all’individuazione del posto delle donne nella concezione ateniese della cittadinanza. La parentela sarebbe venuta in seguito, con la città in preda alla stásis… Ma non andiamo troppo in fretta, e soprattutto non cediamo alla tentazione di ricostruire uno sviluppo trasparente: a posteriori, solo a posteriori, ci siamo accorti che allo studio della città unica ha fatto seguito la riflessione sulla divisione dei sessi, e che la divisione dei sessi ha portato surrettiziamente alla città come famiglia divisa.