Come bisogna impartire i primi insegnamenti (Quint. Inst. I 1, 1-7)

Il pensiero che sta alla base dell’Institutio oratoria di Quintiliano mostra che l’autore non si accontentò del proprio ruolo di intellettuale-funzionario e rifiutò orgogliosamente e con coerenza di considerare l’oratoria come semplice strumento dell’amministrazione imperiale. Al contrario, sul grande modello di Cicerone, anch’egli attribuiva alla formazione retorica il valore centrale di un’educazione globale, che facesse del cittadino essenzialmente un individuo morale.

Nel primo capitolo dell’opera, che i grammatici medievali hanno trasmesso sotto il titolo di Quemadmodum prima elementa tradenda sunt, Quintiliano esamina quella che deve essere l’educazione del futuro oratore dai primissimi anni di vita fino ai sette anni, quando il bambino cominciava a frequentare il ludus litterarius, corrispondente all’odierna scuola primaria; l’autore spiega che occorre avere la massima cura per la formazione dei bambini, che sono tutti – per la stessa predisposizione naturale – portati a imparare e a usare il pensiero. Primo degli scrittori latini di cui si ha notizia a occuparsene, Quintiliano passa in esame i più importanti problemi pedagogici inerenti alla prima infanzia, discutendo delle doti e delle capacità di nutrici e tutori, raccomandando agli stessi genitori una buona preparazione culturale e analizzando quale sia l’età più adatta per introdurre i bambini agli studi.

Siccome la prima età è estremamente duttile rispetto a ciò che le viene proposto, bisogna evitare che le persone con cui l’infante si relaziona possano trasmettergli insegnamenti sbagliati, che sarebbero difficili da correggere in seguito. Per questo è bene che le nutrici, i genitori e i pedagoghi (per lo più servi di origine greca che svolgevano il ruolo di maestri nell’ambito domestico) siano non solo moralmente irreprensibili, ma anche il più possibile colti e corretti, anche nel linguaggio.

In questo capitolo, l’Institutio oratoria offre un’idea abbastanza chiara di quello che doveva essere l’insegnamento in Roma antica e delle idee di Quintiliano in proposito. L’autore, infatti, appare come un educatore umano e comprensivo, ottimisticamente convinto – e lo dice quasi fin da subito – che nessuno sia del tutto negato per lo studio.

Una madre che allatta il figlio alla presenza del padre (dettaglio). Rilievo, marmo, 150 d.C. dal sarcofago di M. Cornelio Stazio. Paris, Musée du Louvre.

[1, 1] Igitur nato filio pater spem de illo primum quam optimam capiat: ita diligentior a principiis fiet. falsa enim est querela, paucissimis hominibus uim percipiendi quae tradantur esse concessam, plerosque uero laborem ac tempora tarditate ingenii perdere. nam contra plures reperias et faciles in excogitando et ad discendum promptos. quippe id est homini naturale, ac sicut aues ad uolatum, equi ad cursum, ad saeuitiam ferae gignuntur, ita nobis propria est mentis agitatio atque sollertia: unde origo animi caelestis creditur. [2] Hebetes uero et indociles non magis secundum naturam hominis eduntur quam prodigiosa corpora et monstris insignia, sed hi pauci admodum fuerunt. argumentum, quod in pueris elucet spes plurimorum: quae cum emoritur aetate, manifestum est non naturam defecisse sed curam. «Praestat tamen ingenio alius alium». [3] Concedo; sed plus efficiet aut minus: nemo reperitur qui sit studio nihil consecutus. hoc qui peruiderit, protinus ut erit parens factus, acrem quam maxime datur curam spei futuri oratoris inpendat. [4] Ante omnia ne sit uitiosus sermo nutricibus: quas, si fieri posset, sapientes Chrysippus optauit, certe quantum res pateretur optimas eligi uoluit. et morum quidem in his haud dubie prior ratio est, recte tamen etiam loquantur. [5] Has primum audiet puer, harum uerba effingere imitando conabitur, et natura tenacissimi sumus eorum quae rudibus animis percepimus: ut sapor quo noua inbuas durat, nec lanarum colores quibus simplex ille candor mutatus est elui possunt. et haec ipsa magis pertinaciter haerent quae deteriora sunt. nam bona facile mutantur in peius: quando in bonum uerteris uitia? non adsuescat ergo, ne dum infans quidem est, sermoni qui dediscendus sit. [6] In parentibus uero quam plurimum esse eruditionis optauerim. nec de patribus tantum loquor: nam Gracchorum eloquentiae multum contulisse accepimus Corneliam matrem, cuius doctissimus sermo in posteros quoque est epistulis traditus, et Laelia C. filia reddidisse in loquendo paternam elegantiam dicitur, et Hortensiae Q. filiae oratio apud triumuiros habita legitur non tantum in sexus honorem. [7] Nec tamen ii quibus discere ipsis non contigit minorem curam docendi liberos habeant, sed sint propter hoc ipsum ad cetera magis diligentes.

Ercole bambino uccide i serpenti. Affresco pompeiano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

[1, 1] Ordunque, un padre, appena gli è nato un figlio, concepisca per lui le migliori speranze possibili: così ne avrà più cura fin dagli inizi della sua educazione. Falsa è, infatti, la lamentela, che a pochissimi sia stata concessa la capacità di assimilare ciò che viene insegnato e che, invece, i più perdano tempo e fatica per lentezza d’ingegno. Vero è, al contrario, che si trovano tanti dotati di buona penetrazione e inclini a imparare. Perché ciò è naturale per l’uomo; e a quella guisa che gli uccelli sono generati per volare, i cavalli per correre, le fiere per incrudelire, così è tipicamente nostra la solerte attività dello spirito, per cui si crede che l’animo umano abbia origine divina. [2] Quelli duri di comprendonio, invece, e coloro che sono refrattari all’apprendimento non sono conformi alla natura umana più di quanto non lo siano i corpi anomali e straordinari per mostruosità, ma costoro sono sempre stati una rarità. Prova, questa, del fatto che nei ragazzi brilla la speranza di moltissime possibilità: e, quando queste svaniscono con il passare degli anni, è chiaro che è venuta meno non la natura, ma la diligenza degli educatori. «Non tutti hanno la stessa intelligenza». [3] D’accordo; ma conseguirà risultati più o meno buoni: non si trova nessuno che non abbia raggiunto con l’applicazione una pur minima meta. Chi si sarà ben reso conto di ciò, non appena divenuto genitore, dedichi la maggiore attenzione che si possa avere alla speranza del futuro oratore. [4] Tanto per cominciare, le nutrici dovranno esprimersi con un linguaggio corretto: di loro Crisippo si augurava che fossero, se possibile, esperte di filosofia o, quantomeno, voleva che si scegliessero le migliori, per quanto permesso dalle circostanze. Non c’è dubbio che per prima cosa bisogna tener conto della loro moralità: occorre però che parlino anche correttamente. [5] È la nutrice che il bambino ascolterà per prima, sono le sue parole che egli cercherà di ripetere balbettando. E per natura noi siamo attaccatissimi alle prime suggestioni dell’innocenza: così come il sapore, del quale si impregnano i recipienti nuovi, rimane persistente né si potrà mai più cancellare la tinta della lana, che ne ha mutato l’originario candore. Il guaio è che proprio le suggestioni peggiori restano maggiormente impresse. Ciò che è buono si cambia facilmente nel peggio: quando mai potresti trasformare i difetti in virtù? Perciò, l’allievo, nemmeno finché è ancora nell’infanzia, si abitui a un linguaggio che dovrebbe poi disimparare. [6] Sarebbe ugualmente auspicabile che i genitori fossero istruiti quanto più possibile. E non parlo solo del padre. È noto, per esempio, che alla formazione oratoria dei Gracchi contribuì non poco la madre Cornelia, il cui stile coltissimo è stato tramandato anche ai posteri per mezzo delle sue lettere; e si dice che Lelia, figlia di Gaio, si esprimeva nel parlare con la medesima raffinatezza del padre; l’orazione tenuta da Ortensia, figlia di Quinto, davanti ai Triumviri si legge ancora oggi e non solo in omaggio al suo sesso. [7] Ciò non vuol dire che coloro ai quali non toccò in sorte di poter studiare essi stessi debbano aver minore cura nell’educazione dei figli; anzi, proprio per questo dovranno essere più attenti in tutto il resto.

Contrariamente alla pratica degli altri trattati antichi sull’eloquenza, che si concentravano sulla formazione oratoria in senso tecnico (quella che cominciava alla sequela di un rhetor professionista), l’Institutio quintilianea prende le mosse proprio dall’infanzia del futuro oratore, dedicando pagine celebri all’educazione domestica. Dopo il proemio, che enuncia e chiarisce gli obiettivi che sostengono la composizione dell’opera e ne riporta il piano complessivo, tutto il primo capitolo del I libro è dedicato ai criteri che devono regolare la scelta e la cura dell’ambiente umano più idoneo alla crescita culturale e personale del bambino, nell’ipotesi di base che qualsiasi individuo possa, in futuro, diventare un oratore perfetto. L’interesse particolare insito in questa pagina sta, oltre che nelle consuete ragioni specifiche interne all’opera e al profilo dell’autore, nel fatto che precedenti trattati pedagogici a cui Quintiliano può essersi ricollegato sono andati perduti (tra gli altri, il Περὶ παίδων ἀγωγῆς, De liberis educandis di Crisippo di Soli, a cui l’autore fa espressamente riferimento, talvolta per dissentirne); dunque, si devono a questa sezione alcune delle nozioni pervenute sugli orientamenti pedagogici e didattici del mondo antico.

L’invito iniziale al padre rientra nel più ampio quadro di quella pedagogia tesa verso un ideale di perfezione, al quale Quintiliano si attiene scrupolosamente, riprendendo e approfondendo uno spunto già ciceroniano. A tale perfezione ideale possono teoricamente accedere tutti; dunque, gli educatori dovranno trattare qualsiasi bambino come potenzialmente diretto a raggiungerla. È vero che non tutti hanno le stesse qualità intellettuali, ma ognuno può ottenere significativi risultati attraverso lo studio (parr. 1-3).

Scena di allattamento. Statuetta, terracotta, II-III sec. d.C., da Bordeaux. Saint-Germain-en-Laye, Musée Archéologie Nationale.

E così, Quintiliano inizia le proprie raccomandazioni a partire dai primi contatti che il bambino ha con il mondo delle parole: l’ambiente domestico con le balie (parr. 4-5). Nutrix va inteso in senso più ampio di quello di «balia che allatta», e cioè come «governante», quella figura che si prendeva cura dei bambini anche successivamente all’allattamento; poteva essere una serva di origini greche e allora aveva il compito di familiarizzare i piccoli con la sua lingua-madre (i sostenitori della tradizione erano contrari a quest’impiego, preferendo che le madri stesse provvedessero all’allattamento, alla cura e all’educazione dei figli). Quest’importanza accordata alla correttezza linguistica delle nutrici pare interesse autenticamente quintilianeo ed è legato alla constatazione che il primo approccio del bambino al linguaggio avviene per imitazione.

Dopo aver parlato delle nutrici, l’autore passa ai genitori (parr. 6-7), per i quali insiste particolarmente sull’importanza anche della partecipazione materna alla formazione dell’infante (nec de patribus tantum loquor), adducendo exempla illustri di madri colte.

L’incipit dell’Institutio manifesta con evidenza, sul piano stilistico, la ricerca di chiarezza e armoniosità che Quintiliano persegue sul modello ciceroniano. Alcuni nessi e scelte terminologiche infatti sono ripresi dall’Arpinate. Per esempio, tarditate ingenii è nesso già ciceroniano (cfr. Cic. orat. 229); agitatio, deverbativo di agito (frequentativo di ago), si trova più di una volta nel lessico filosofico di Cicerone, in riferimento alla mens con il significato appunto di «attività»; si è ben lontani dal senso negativo che Seneca attribuiva al termine o ai suoi sinonimi, in riferimento all’assenza di equilibrio interiore.

Per quanto riguarda la costruzione del periodo, si nota il chiasmo et facile in excogitando et ad discendum promptos (I 1, 1), che accosta i due gerundi con variatio del caso. Tutto il paragrafo si segnala per la ricerca accurata di concinnitas. Un altro chiasmo compare poco dopo, sicut aves ad volatum, equi ad cursum, ad saevitiam ferae… ita nobis…; qui l’esempio costruito sulle diverse specie animali è di ascendenza ciceroniana ed è funzionale a inserire anche l’uomo all’interno della varietà delle specie.

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Arato di Soli

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 41-42.

Sulla biografia di Arato non si hanno molte notizie, nonostante circolassero in antico ben quattro vitae, derivate dal commentatore Boeto di Sidone. Nativo di Soli in Cilicia, si trasferì da giovane ad Atene, dove frequentò l’ambiente degli Stoici, che lasciò nella sua formazione una significativa impronta. Nel 276 da Atene si trasferì a Pella, in Macedonia, alla corte di Antigono II Gonata (276-239 a.C.), sovrano di notevole cultura e simpatizzante con il pensiero stoico, filosofo e letterato egli stesso. A Pella si trovavano altri intellettuali di prestigio, come il poeta tragico ed elegiaco Alessandro Etolo, attivo anche presso la Biblioteca di Alessandria intorno al 280 a.C.; il filosofo e poeta satirico Timone di Fliunte (320-230 a.C.); il filosofo Menedemo di Eretria, fondatore della scuola di pensiero che portava il nome della sua città natale. Molta della produzione letteraria di Arato nacque proprio in questo contesto culturale, e, però, buona parte di essa è andata perduta: come la raccolta Κατὰ λεπτόν («Argomenti leggeri»), che conteneva anche delle trenodie per defunti importanti (Ἐπικήδεια), degli epigrammi (dei quali almeno due si sono conservati in Anth. Pal. XI 437 e XII 129) e vari inni. In occasione della vittoria di Antigono sui Galati a Lisimachia (277 a.C.) o delle nozze del sovrano con Fila, figlia di Seleuco, avvenute l’anno precedente, Arato compose un Inno a Pan (un frammento del quale va forse identificato con SH 958: vd. Barigazzi 1974), andato perduto. Inoltre, il poeta scrisse delle ἠθοποιίαι ἐπιστολαί (SH 106), «lettere sulla formazione del carattere»; i suoi scritti didascalici furono significativi per la storia della letteratura antica: restano cinque titoli di opere astronomiche, che almeno parzialmente citano sezioni dei Φαινόμενα (Fenomeni), a cui si aggiunge un Κανών, in cui, fra l’altro, si descrivono le orbite dei pianeti attraverso calcoli matematici (cfr. Leonida di Taranto, Anth. Pal. IX 25, 3). Di Arato si conoscono anche sette titoli di testi che trattano di anatomia e farmacopea: si conserva un frammento sulle suture craniche. Di questi libri, tuttavia, la Ὀστολογία (SH 97) non era un’opera sull’anatomia ossea, ma più probabilmente un trattatello sulla negromanzia tramite gli scheletri.

Antigono II Gonata e Fila. Affresco, ante 79 d.C. dalla domus di Fannio Sinistore a Boscoreale.

 

Secondo le vitae I e III, Arato lasciò poi la Macedonia per soggiornare qualche tempo in Siria, presso Antioco I Sotere, fratello di Fila, dove attese alla revisione critica dell’Odissea e, probabilmente, anche dell’Iliade. Tornato in Macedonia vi rimase fino alla morte, avvenuta forse poco prima di quella del suo protettore Antigono Gonata, scomparso nel 240/239.

 

Antigono II Gonata. Dramma, zecca macedone ignota 277-239 a.C. ca. AE 6,26 g. Obverso: Pan innalza un trofeo militare (monogramma A – B).

 

L’opera maggiore di Arato, quella per cui i contemporanei lo considerarono un novello Esiodo, fu un poema in esametri, i Fenomeni, giunto fino a noi con i commenti di vari grammatici. L’opera, che forse fu commissionata da Antigono Gonata, è un trattato di astronomia; il suo autore ebbe come modello gli scritti del matematico Eudosso di Cnido (408-355 a.C.), discepolo di Platone e di Archita, filosofo pitagorico e matematico di Taranto (400 ca. a.C.).

 

London, British Library. Ms. Harley 647 (IX sec.), Arato di Soli, Phaenomena, ff. 10v-11r. Le costellazioni dei Pesci e di Perseo.

 

Il poema di Arato si apre con un’invocazione a Zeus e descrive poi la volta stellata del cielo, distinguendo le costellazioni dei due emisferi. Successivamente, il poeta espone la teoria dei circoli che dividono la sfera celeste, e il sorgere e il tramontare delle costellazioni. L’ultima parte dell’opera è dedicata alla descrizione dei segni premonitori delle variazioni meteorologiche, attraverso l’osservazione del mondo naturale e del comportamento degli animali. Per il suo contenuto, in alcuni manoscritti questa sezione del poema, che fu poi tradotta in esametri da Cicerone, porta il titolo di Pronostici attraverso i segni naturali. I contemporanei di Arato espressero giudizi molto lusinghieri sulla sua opera che, pur avendo il suo archetipo in Esiodo, si riallacciava anche al più tardo filone didascalico di Xenofane, Parmenide ed Empedocle. In particolare, ne fu molto ammirata la λεπτότης, la «sottigliezza»; un apprezzamento che rientra perfettamente nel gusto dell’epoca e che aveva la sua massima espressione in Callimaco, autore di un epigramma altamente laudativo nei confronti del poeta (Anth. Pal. IX 507; cfr. anche Leonida, Anth. Pal. IX 25). Tra l’altro, come si è ricordato, Arato stesso aveva intitolato Κατὰ λεπτόν una delle sue antologie poetiche, nome che sembra alludere proprio a questa qualità, quasi come se fosse la sua personale σφραγίς; a conferma di ciò pare essere anche l’acrostico λεπτή in Arat. 783-787. Gli antichi celebravano di Arato anche la dedizione al lavoro e le notti insonni, la sua profonda dottrina, la ripresa stilistica di Esiodo, le competenze didascaliche, ma anche la δύναμις di filosofo naturale (frutto, cioè, della sua visione stoica del mondo), che a dispetto di altri poeti-astronomi doveva essere una sua caratteristica esclusiva (cfr. Boeto di Sidone, Scholia in Aratum vetera, p. 12 f. Martin).

 

«Atlante Farnese» che regge il globo celeste. Statua, marmo, copia romana di III sec. d.C. da originale ellenistico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

Già prima di lui, un allievo di Eudosso, Cleostrato di Tenedo, era stato il primo a mettere in versi le proprie conoscenze astronomiche. Altri Fenomeni – in prosa o in poesia – furono composti anche dal già menzionato Alessandro Etolo, ma anche da Ermippo di Smirne (III secolo), da Egesianatte di Alessandria (II secolo) e da Alessandro di Efeso (I secolo a.C.). Rispetto a questa tradizione, comunque, il poema di Arato riscosse un subito successo, al punto che, a scapito delle opere omonime e dell’astronomia matematica (sic), divenne ben presto un elemento fondamentale della ratio studiorum successiva: in effetti, il papiro più antico che conserva i vv. 480-494, P. Hamb. 121, risalente alla prima metà del II secolo d.C., rivela proprio il suo impiego come testo scolastico (cosa che contribuì al fiorire di un’intensa attività di commento).

 

Paris, Bibliothèque nationale de France. Ms. lat. 8878. Beatus de Liebana, Commentaria in Apocalypsin (ante 1072), f. 139v. Cielo stellato.

 

Per il lettore moderno, tuttavia, risulta difficile condividere tanto entusiasmo; però è innegabile che nel mondo antico Arato ebbe una straordinaria fortuna, come dimostra il gran numero di scienziati e di grammatici che lo lo studiarono: il più celebre di tutti fu probabilmente Ipparco di Nicea, uno dei più grandi astronomi greci, vissuto nel II secolo a.C. e autore di un dotto commento in tre libri sui Fenomeni. Inoltre, dal I secolo a.C. al IV d.C., da Varrone Atacino a Cicerone, da Germanico a Manilio e a Festo Avieno, anche la cultura romana si impegnò, con esiti diversi, nella traduzione dell’opera, mentre illustri poeti come Virgilio (Buc. III 60, Georg. I) e Ovidio (Fas. III 105-110) attinsero al testo arateo, com’è dimostrato da evidenti reminiscenze di esso. Perfino l’apostolo Paolo, nel discorso Areopagitico (Act. 17, 28-29) citò il v. 5 del proemio, senza precisare il nome del poeta (ὡς καί τινες τῶν καθ’ ὑμᾶς ποιητῶν εἰρήκασιν, «come hanno detto alcuni dei vostri poeti»), per dimostrare che non è necessario cercare Dio lontano da noi, dal momento che tutti «viviamo, ci muoviamo e siamo in Lui, come hanno detto alcuni dei vostri poeti: infatti, noi siamo sua stirpe (τοῦ γὰρ καὶ γένος ἐσμέν)».

 

Andreas Cellarius, Planisphaerium Arateum. Illustrazione, 1661, da Harmonia macrocosmica.

 

Una così vasta fortuna dell’opera di Arato, che si protrasse, attraverso le traduzioni latine, durante il Medioevo e il primo Rinascimento, fu probabilmente dovuta al fatto che il poema vide la luce in un’epoca in cui non esisteva quella distinzione fra arte e scienza per noi rigorosa e irrinunciabile; in conseguenza di ciò, esso poté essere apprezzato dal pubblico di età ellenistica come un’illustre testimonianza della poesia erudita che, riallacciandosi all’antica tradizione esiodea, si arricchiva del gusto della ricerca rara e minuziosa, tipico dei tempi nuovi, ed esponeva, con abbondanza e varietà di informazioni e con limpida eleganza di stile, il tema dell’astronomia, da sempre carico di grande attrattiva.

 

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Il teatro e gli strumenti della μίμησις

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca, 2, A. Il teatro, Messina-Firenze 2004, 17-19.

Gli studi sul teatro greco di Siracusa e su quelli più antichi del mondo greco (fra cui quelli di Atene e di Epidauro) consentono una conoscenza abbastanza chiara della struttura architettonica dell’edificio e delle tecniche scenografiche in uso nel V secolo a.C., l’età d’oro del dramma attico. Per quanto concerne l’architettura teatrale, la cavea e l’orchestra, in cui agiva il coro, avevano una forma trapezoidale; la scena vera e propria (σκηνή), su cui svolgeva l’azione, era un edificio lungo e basso, a pianta rettangolare, con una fronte decorata rivolta al pubblico. Esso occupava la base dello spazio dell’orchestra ed era coperto da un tetto piano, a cui si poteva accedere dall’interno per mezzo di scalette; vi si trovavano anche i camerini per gli attori e per i coreuti. Il muro della σκηνή, posto di fronte all’orchestra, sosteneva un sistema di meccanismi scenici, consistenti in alti pali formati da più parti a incastro; su di essi venivano montati i telai delle varie scene, dipinti su stoffa o su pelle, riposti, quando non servivano, in una fossa scavata lungo tutto il fronte della σκηνή. Davanti a quest’ultima si trovava una vasta pedana di legno, un po’ più alta del piano dell’orchestra, chiusa alle due estremità da opere in muratura: era il palcoscenico vero e proprio, a cui si accedeva dalla σκηνή attraverso tre porte e da cui si poteva scendere nell’orchestra.

Ricostruzione planimetrica del Teatro di Dioniso, Atene.

Sotto il piano di quest’ultima si trovavano delle fosse attraverso le quali, senza essere visti dagli spettatori, si giungeva direttamente al centro dell’orchestra; venivano usate per simulare il sorgere delle ombre dei defunti dalle profondità della terra (scale caronie), mentre le apparizioni divine erano calate dall’alto per mezzo di carrucole o con una specie di gru, detta μηχανή (di qui l’espressione deus ex machina). Gli ambienti erano di solito costruiti mediante teloni dipinti, montati su leggeri telai di legno, che occupavano tutto il muro frontale della σκηνή, con aperture in corrispondenza delle porte. Per la loro realizzazione ci si rivolgeva a pittori di una certa fama, come Agatarco, che fu scenografo di Eschilo e di Sofocle, oltre che autore di un trattato sulla prospettiva. Qualche notizia sulla scenografia dei vari drammi si può ricavare dagli accenni contenuti nel testo stesso, dagli scolii e dalla pittura vascolare, che si ispirò frequentemente a scene e a personaggi del teatro tragico.

Ipotesi di ricostruzione del Teatro di Dioniso in Atene proposta da Moretti (da MORETTI 2000, p. 297).

Fra le fonti letterarie più tarde si hanno le indicazioni contenute nella Poetica aristotelica, che si preoccupa soprattutto di evidenziare il processo di catarsi operato sul pubblico dal teatro tragico, grazie alla sua eccezionale efficacia mimetica (VI 6 1449b):

ἐπεὶ δὲ πράττοντες ποιοῦνται τὴν μίμησιν, πρῶτον μὲν ἐξ ἀνάγκης ἂν εἴη τι μόριον τραγῳδίας ὁ τῆς ὄψεως κόσμος· εἶτα μελοποιία καὶ λέξις, ἐν τούτοις γὰρ ποιοῦνται τὴν μίμησιν.

Poiché sono dunque persone in azione che compiono l’imitazione, e per prima cosa ne consegue di necessità che un elemento della tragedia sarà l’allestimento dello spettacolo; poi la musica e il linguaggio: in questo modo, infatti, essi realizzano l’imitazione.

Secondo le forme dell’arte, la μίμησις dell’azione era il risultato di tre elementi essenziali, che interagivano costantemente: ὁ τῆς ὄψεως κόσμος («l’allestimento dello spettacolo»), la μελοποιία (la «sintesi di musica vocale e strumentale») e la λέξις (il «linguaggio»).

A proposito dell’allestimento scenico, l’opera di massimo impegno fu probabilmente, verso la metà del V secolo a.C., l’Orestea di Eschilo, la sola che possa darci un’idea di quali fossero le necessità scenotecniche di un’intera trilogia. Le indicazioni contenute nel testo di ciascuno dei drammi, infatti, ci fanno pensare che tutte le scene dovessero essere già montate fin dall’inizio sui pali della σκηνή, l’una a ridosso dell’altra. Bisogna dire che gli scenografi non si proponessero un eccessivo realismo: pur ispirandosi alle forme e alle strutture dell’architettura loro contemporanea, essi preferivano risultati decorativi piuttosto imitativi, come possiamo dedurre dalle pitture vascolari che riproducono scene di tragedia con edifici dalle forme stilizzate, esili e snelle.

Policleto il Giovane, Teatro di Epidauro, 360 a.C. c. [veduta aerea].
La scelta dei colori prediligeva toni piuttosto vivaci sia nella scenografia sia nei costumi di coreuti e attori – altro importante elemento ai fini dell’effetto generale; una così ricca policromia di rossi, azzurri, gialli e bianchi sarebbe un po’ troppo accentuata per il nostro gusto, ma forse non sembrava tale alla luce del giorno, in piena primavera mediterranea: era infatti questa la stagione delle Grandi Dionisie, in cui avevano luogo gli agoni tragici e le rappresentazioni dei drammi.

Il teatro antico faceva uso anche di meccanismi abbastanza sofisticati, il più comune dei quali era la già ricordata μηχανή, o «gru» (il primo a servirsene sarebbe stato Euripide), con la quale si calava dall’alto, sulla scena, l’attore che interpretava la parte di una divinità. Vi era poi l’ἐκκύκλημα, una sorta di «piattaforma girevole», che serviva per aprire il fondo della scena e mostrare agli spettatori l’interno di un edificio e delle sue stanze; funzione analoga aveva l’ἐξώστρα, una specie di «balcone» mobile che poteva essere spinto fuori quando le esigenze sceniche lo richiedevano. Meccanismi come il κεραυνοσκοπεῖον e il βροντεῖον, le «macchine» dei fulmini e dei tuoni, permettevano di ottenere effetti speciali di luce e di suono.

Ricostruzione schematica delle principali macchine teatrali in uso sulla σκηνή (link).

Le nostre conoscenze della musica greca antica sono abbastanza numerose e approfondite per farci capire l’importanza attribuita a quest’arte nel mondo ellenico, ma troppo ridotte e frammentarie per consentircene la conoscenza diretta.

Il mondo greco non considerò né praticò mai la musica come un’arte a sé stante, ma la vide sempre come un complemento non solo della poesia e della danza, ma anche della recitazione, dello sport e delle attività militari. Il legame più stretto fu, da sempre, quello con la poesia, perché la lingua ellenica, melodica e ritmica per sua stessa natura, fece sì che i Greci sentissero la musica come un abbellimento della parola cantata o declamata, privilegiando questo suo uso rispetto a quello puramente strumentale. Questa «unione di parole e di suoni», indicata con il termine μελοποιία, caratterizzò sempre le principali manifestazioni artistiche, sportive, religiose della vita sociale pubblica e privata.

Pittore Epitteto. Sileno con aulos. Pittura vascolare da kylix attica a figure rosse, c. 520-500 a.C. da Vulci. Paris, Cabinet des Médailles.

In ambito teatrale, la musica apparve come un secondo linguaggio, adatto a esprimere, come quello parlato, sentimenti, passioni e stati d’animo; il suo carattere prevalente era la melodia, tanto che anche i cori cantavano all’unisono. L’accompagnamento strumentale, assai semplice, si limitava a raddoppiare il canto, oppure aggiungeva suoni di abbellimento consoni o dissoni rispetto alla voce dell’attore; lo strumento poteva riempire con qualche nota anche le pause della voce, ma, in genere, questi interventi strumentali erano solo decorativi.

La tradizione attribuisce a Eschilo parecchie innovazioni nell’ambito della tragedia, fra cui il progressivo ampliarsi delle parti dialogate rispetto a quelle corali, con la conseguente necessità di un’approfondita ricerca linguistica, propria, pur con aspetti diversi, anche di Sofocle e di Euripide. Tutti riuscirono, infatti, al di là delle loro scelte soggettive, a esercitare sugli spettatori un potente effetto psicagogico (e quindi, secondo Aristotele, catartico), al quale contribuivano tutti gli strumenti dell’«imitazione» (μίμησις): l’allestimento scenico dello spettacolo, la musica e il linguaggio.

Aristofane e Sofocle. Doppia erma, marmo, 130 d.C. dalla villa di Adriano a Tivoli. Paris, Musée du Louvre.

La struttura della tragedia, quale noi la conosciamo attraverso i drammi che ci sono pervenuti, rappresenta il punto di arrivo di un lungo processo di sviluppo; uno degli aspetti di questo percorso evolutivo è rappresentato dallo spazio sempre maggiore concesso al dialogo rispetto alle parti corali, che andarono progressivamente riducendosi. Una volta entrato in scena, il coro, formato al tempo di Eschilo da dodici elementi (che divennero quindici all’epoca di Sofocle), si disponeva secondo uno schema quadrangolare, dividendosi in due semicori. Guidati da un corifeo, i coreuti innalzavano il loro canto, in armonia con la musica dei flauti ed eseguivano le complesse figure dell’ἐμμέλεια, una danza austera e solenne.

Sia gli attori che i coreuti portavano la maschera, dapprima preciso riferimento rituale al culto dionisiaco, in seguito semplice strumento teatrale, destinato a connettere i personaggi secondo tipi fissi (uomo, donna, giovane, vecchio, re, araldo, sacerdote, dio) e forse anche ad amplificare la voce dell’attore.

I costumi indossati dagli attori tragici erano ricchissimi e tali da aumentare l’imponenza della figura; a ciò contribuivano, in età più tarda, anche i coturni, calzari forniti di una suola di sughero assai alta.

Pittore di Pronomo. Eracle e Papposileno (dettaglio). Pittura vascolare da un cratere a volute apulo a figure rosse, 400 a.C. c. da Ruvo di Puglia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Gli inizi del dramma attico

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca, 2, A. Il teatro, Messina-Firenze 2004, 14.

La prima data certa di una rappresentazione drammatica ad Atene è fatta risalire alle Grandi Dionisie della LXI Olimpiade (536-533 a.C.), durante le quali andò in scena un dramma del poeta Tespi, considerato l’inventore della tragedia e nativo del demo attico di Icaria; a costui era attribuito il merito di aver introdotto l’uso del prologo, della maschera e del dialogo fra il coro e un attore. Di lui si sa ben poco; secondo alcune fonti, sarebbe stato amico di Solone, molto più anziano di lui, e la sua fortuna come poeta tragico sarebbe da ricollegare al nuovo impulso dato da Pisistrato al culto di Dioniso.

Pittore di Esiodo. Musa che accorda due cithareis. Pittura vascolare da una coppa attica a fondo bianco, 470-460 a.C. c. da Eretria. Paris, Musée du Louvre.

Quasi contemporaneo di Tespi fu Cherilo, che iniziò la sua attività nel 523 a.C. ca., che gareggiò con Eschilo e Pratina negli agoni del 499/8 a.C. Sebbene fosse stato più volte vincitore (le fonti alessandrine gli assegnano ben tredici vittorie), di lui resta solo il titolo di un dramma, l’Alope, che probabilmente raccontava la storia dell’omonima eroina attica, amata dal dio Poseidone.

Il primo poeta drammatico di cui si hanno notizie più certe fu l’ateniese Frinico, nato intorno al 535 a.C. Egli conseguì la sua prima vittoria negli agoni celebrati fra il 511 e il 508 a.C., ottenendone sicuramente un’altra nel 476 a.C., con il dramma Le Fenicie, di cui fu corego Temistocle. Fra le opere di Frinico, scomparse assai presto dalla circolazione, merita di essere ricordato anche un altro dramma, La presa di Mileto (entrambi erano di argomento storico e narravano vicende della Prima guerra persiana). Secondo Erodoto (VI 21), la rappresentazione della Presa di Mileto suscitò nel pubblico una tale commozione che le autorità cittadine multarono il poeta di mille dracme, per aver ricordato loro una così dolorosa sconfitta.

All’introduzione del dramma satiresco, come si è detto, è legata la figura di Pratina di Fliunte, quasi contemporaneo di Frinico. Di Pratina, le cui opere erano già scomparse nel IV secolo a.C., restano il titolo di una tragedia, le Cariatidi, che trattava il mito delle seguaci di Artemide a Carie (città della Laconia), e quello di un dramma satiresco, I lottatori, che fu rappresentato dopo la morte del poeta da suo figlio Aristias, nel 467 a.C.

Le origini della tragedia: testimonianze antiche

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca, 2, A. Il teatro, Messina-Firenze 2004, 7-12.

I frammenti dei poeti tragici prima di Eschilo sono troppo esigui per fare chiarezza sull’origine e lo sviluppo della poesia drammatica; per colmare almeno in parte questa grave lacuna bisogna ricorrere alle testimonianza di alcuni autori antichi, il più importante dei quali è sicuramente il filosofo Aristotele (384-322 a.C.), che condusse un’attenta indagine sulle origini del dramma. Purtroppo, le sue opere su questo specifico argomento sono andate perdute; resta solo il primo libro della Poetica, nel quale l’autore, confrontando i caratteri del genere epico e di quello tragico, affronta in più punti il problema dell’origine e dello sviluppo del dramma. In IV 5; 7 1449a, Aristotele afferma:

γενομένη δ’ οὖν ἀπ’ ἀρχῆς αὐτοσχεδιαστικῆς καὶ αὐτὴ [sc. ἡ τραγῳδία ] καὶ ἡ κωμῳδία, καὶ ἡ μὲν ἀπὸ τῶν ἐξαρχόντων τὸν διθύραμβον, ἡ δὲ ἀπὸ τῶν τὰ φαλλικὰ ἃ ἔτι καὶ νῦν ἐν πολλαῖς τῶν πόλεων διαμένει νομιζόμενα, κατὰ μικρὸν ηὐξήθη προαγόντων ὅσον ἐγίγνετο φανερὸν αὐτῆς· καὶ πολλὰς μεταβολὰς μεταβαλοῦσα ἡ τραγῳδία ἐπαύσατο, ἐπεὶ ἔσχε τὴν αὑτῆς φύσιν.

καὶ τό τε τῶν ὑποκριτῶν πλῆθος ἐξ ἑνὸς εἰς δύο πρῶτος Αἰσχύλος ἤγαγε καὶ τὰ τοῦ χοροῦ ἠλάττωσε καὶ τὸν λόγον πρωταγωνιστεῖν παρεσκεύασεν· τρεῖς δὲ καὶ σκηνογραφίαν Σοφοκλῆς.

ἔτι δὲ τὸ μέγεθος· ἐκ μικρῶν μύθων καὶ λέξεως γελοίας διὰ τὸ ἐκ σατυρικοῦ μεταβαλεῖν ὀψὲ ἀπεσεμνύνθη, τό τε μέτρον ἐκ τετραμέτρου ἰαμβεῖον ἐγένετο. τὸ μὲν γὰρ πρῶτον τετραμέτρῳ ἐχρῶντο διὰ τὸ σατυρικὴν καὶ ὀρχηστικωτέραν εἶναι τὴν ποίησιν, λέξεως δὲ γενομένης αὐτὴ ἡ φύσις τὸ οἰκεῖον μέτρον εὗρε· μάλιστα γὰρ λεκτικὸν τῶν μέτρων τὸ ἰαμβεῖόν ἐστιν· σημεῖον δὲ τούτου, πλεῖστα γὰρ ἰαμβεῖα λέγομεν ἐν τῇ διαλέκτῳ τῇ πρὸς ἀλλήλους, ἑξάμετρα δὲ ὀλιγάκις καὶ ἐκβαίνοντες τῆς λεκτικῆς ἁρμονίας.

Derivava la sua origine dall’improvvisazione, non solo la tragedia, ma anche la commedia: quella dei corifei che intonavano il ditirambo, e questa da chi guidava le processioni falliche che ancor oggi in varie città sono rimaste nell’uso; e poi a poco a poco si accrebbe, perché i poeti coltivavano ciò che in essa appariva spontaneo; così, dopo essere passata attraverso vari mutamenti, la tragedia si arrestò perché aveva raggiunto la sua propria natura.

Fu Eschilo per primo a portare il numero degli attori da uno a due, a ridurre le parti corali, e a far primeggiare il dialogo; a Sofocle si debbono i tre attori e la scena.

Poi c’è la grandiosità: partendo da brevi racconti e linguaggio ridicolo, richiese tempo per acquisire nobiltà, dovendo abbandonare la sua impronta satiresca. Il metro divenne il trimetro giambico al posto del tetrametro: da principio usavano il tetrametro perché la composizione era appunto satiresca e molto ballata, ma quando il linguaggio prevalse, fu la natura stessa a trovare il metro adatto, perché il trimetro è fra tutti il più discorsivo; e la prova è che nel nostro discorrere giornaliero ci capita di pronunciare trimetri molto spesso, ma esametri molto poco, e sentiamo di uscire dal ritmo prosastico.

Aristotele. Busto, marmo greco e onice, copia romana di II sec. d.C., dal complesso della SS. Annunziata. Firenze, Galleria degli Uffizi.

L’accenno più significativo all’origine del dramma è dato dall’espressione ἀπὸ τῶν ἐξαρχόντων τὸν διθύραμβον, che può essere intesa sia «da quelli che cantavano il ditirambo» sia «da quelli che intonavano il ditirambo». La prima interpretazione appare piuttosto generica, limitandosi a ricollegare l’origine della tragedia alla nascita del ditirambo; la seconda si richiama al fr. 77 D. di Archiloco, in cui il poeta si vanta di saper intonare il ditirambo in onore di Dioniso, quando la sua mente è «fulminata dal vino». Da questi labili indizi si è dedotto che la tragedia ebbe origine quando coloro che intonavano il ditirambo, iniziando il canto, si contrapposero al coro, creando così un dialogo, primo indizio dell’azione drammatica. In entrambi i casi, comunque, il canto in onore di Dioniso era assunto come primo germe della tragedia.

Successivamente, Aristotele accenna a un altro elemento originario del dramma, τό σατυρικόν «l’elemento satiresco», di carattere comico, anch’esso collegato al ditirambo. Col tempo, esso si sarebbe attenuato fino a scomparire; a mano a mano che si accresceva la dignità dei contenuti del dramma anche la struttura metrica cambiò, sostituendo il tetrametro trocaico, un metro vivace e adatto a danze veloci e ritmate, con il trimetro giambico, discorsivo e più consono alle esposizioni e ai dialoghi. Per Aristotele e per i suoi contemporanei il collegamento fra l’aspetto ditirambico e quello satiresco doveva essere chiaro; per noi non è così e le scarse informazioni della Poetica non bastano a svelarci l’enigma.

Pittore Amasi. Dioniso fra i comasti. Pittura vascolare da un’anfora a figure nere, 550-525 a.C. c. Paris, Musée du Louvre.

La sola informazione certa di cui disponiamo è che il dramma satiresco andava in scena dopo la trilogia tragica; ma le notizie fornite dal lessico Suda, secondo il quale l’inventore di questo genere letterario sarebbe stato un poeta di poco anteriore a Eschilo, Pratina di Fliunte, che avrebbe sviluppato in senso comico i cori satirici in uso nella sua patria, impediscono tuttavia di ricollegarlo al ben più antico ditirambo.

Si potrebbe pensare che τό σατυρικόν aristotelico, inteso come elemento comico, comparisse già nei ditirambi di Arione, che, secondo Erodoto (I 23), sarebbe stato l’inventore di questo genere poetico. In seguito, il tono più severo della tragedia lo avrebbe quasi cancellato, finché esso sarebbe stato ripreso da Pratina in una nuova forma drammatica, il dramma satiresco, appunto, la cui comicità era accentuata dal contenuto apertamente burlesco e dalla presenza di coreuti mascherati da satiri, divinità agresti con attributi caprini, tradizionali compagni di Dioniso. Aggiungendo a queste notizie un’altra informazione del Suda, secondo cui lo stesso Arione sarebbe stato anche l’inventore della poesia tragica, i vari elementi dell’enigma potrebbero essere collegati così: Arione per primo compose ditirambi cantati da coreuti travestiti da satiri con attributi caprini (τράγοι o τραγικοί); da questo ditirambo, di carattere narrativo o forse dialogico, sarebbe nata la prima rudimentale composizione tragica, come dice appunto Aristotele nella Poetica. In seguito, questa nuova forma d’arte subì, nella sua evoluzione, tali cambiamenti da apparire completamente diversa e indipendente dalle sue origini.

Arione in groppa al delfino. Mosaico, III sec. d.C. dalle Grandi Terme di Thina. Sfax, Musée Archéologique.

Il solo elemento che non scomparve mai rimase la connessione della tragedia con il culto di Dioniso, al quale, in età classica, era stato innalzato un altare nei teatri.

La presenza del nome del dio su tavolette risalenti al XIII secolo a.C. e provenienti da Pilo in Messenia dimostra che questa divinità era venerata in Grecia fin da tempi antichissimi; tale culto, affievolitosi nei secoli successivi, riprese vigore verso il VII secolo a.C., come dimostrano appunto i ditirambi di Arione. Se dunque la tragedia deriva dal ditirambo, il collegamento con l’antico culto di Dioniso è rappresentato dal travestimento caprino dei coreuti, mentre la sua struttura trarrebbe origine dal dialogo fra il coro e un singolo personaggio, forse il corifeo. Due difficoltà si oppongono a questa teoria: la prima, di cui non si è in grado di dare una spiegazione, riguarda la disposizione dei coreuti, che nel coro ditirambico stavano in cerchio intorno all’altare di Dioniso, mentre il coro tragico ebbe sempre, sulla scena, una disposizione rettangolare. La seconda concerne le divinità agresti che formavano il corteo del dio: in ambiente attico, infatti, non si trattava di satiri, bensì di sileni, raffigurati in numerose pitture vascolari di V secolo a.C., con orecchie e coda equine. Tuttavia, questo diverso teriomorfismo fra creature semiferine che finirono poi con l’essere assimilate, potrebbe essere giustificato con la loro diversa provenienza geografica (dal Peloponneso i satiri, dall’Attica i sileni), senza intaccare la loro caratteristica essenziale e comune: quella di essere, cioè, demoni agresti della fertilità, dal carattere allegro e sessualmente esuberante, amanti della danza, della musica e dell’ebbrezza.

Pittore di Amasis. Sileni che vendemmiano e preparano il vino. Pittura vascolare da un’anfora a campana attica a figure nere, 540-430 a.C. c. Würzburg, Martin von Wagner Museum.

La seconda importante testimonianza sull’origine della tragedia compare in Erodoto (V 67): lo storico narra che, agli inizi del VI secolo a.C., Clistene, tiranno di Sicione nel Peloponneso, essendo in guerra contro Argo, proibì ai suoi sudditi il culto dell’eroe argivo Adrasto, celebrato con cori tragici (τραγικοῖσι χοροῖσι) che ne rievocavano le tristi vicende (πάθεα). Al suo posto, il tiranno introdusse il culto dell’acerrimo nemico di quell’eroe, il tebano Melanippo, i cui resti furono fatti portare in città. Fatto ciò, Clistene «restituì» (ἀπέδωκε) i cori tragici a Dioniso, mentre le altre parti del culto furono riservate a Melanippo. Il passo, che evidenzierebbe l’origine del carattere triste e severo della tragedia, nata dal ricordo delle sventure di un eroe, pone tuttavia un problema di difficile soluzione circa l’esatto significato dei termini τραγῳδία e τραγικός.

Fino al IV secolo a.C., il sostantivo si intese comunemente come «canto dei capri», alludendo ai coreuti mascherati da satiri; pertanto, all’aggettivo fu dato il significato di «caprino». In seguito, però, gli eruditi alessandrini avanzarono l’ipotesi che τραγῳδία significasse invece «canto per il capro», sia che l’animale fosse dato in premio al vincitore, sia che fosse la vittima sacrificale di un rito propiziatorio. In questo senso, i «cori tragici» di cui parla Erodoto potrebbero essere quelli in onore dell’eroe defunto (in questo caso Adrasto), mentre il sacerdote offriva in sacrificio un capro, per evocarne lo spirito (cfr. l’analogo rito in Od. IX). Forse il sacerdote intonava il «coro tragico» proprio in questa fase della cerimonia, narrando le vicende dell’eroe tragico e la sua fine, mentre i partecipanti al sacrificio gli rispondevano, instaurando un dialogo come quello ipotizzato a proposito del ditirambo di cui parla Aristotele.

Pittore Cleomelo. Un anziano conduce un caprone al sacrificio. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 510-500 a.C. c. Malibu, J. Paul Getty Museum.

Questa teoria sembra confermata da una notizia del lessico Suda: il poeta Epigene di Sicione, seguendo l’esempio di Clistene, avrebbe tentato di introdurre il culto di Dioniso a Corinto, dedicandogli i cori tragici; ma il popolo reagì con violenza al grido di “Ουδέν πρός τόν Διόνυσον!” («Niente a che fare con Dioniso!»), esprimendo in questo modo la volontà di rimanere estraneo al culto del dio. Ma la stessa fonte dà anche un’interpretazione diversa dello slogan: «Questo non ha niente a che fare con Dioniso!», aggiungendo che il pubblico esprimeva con queste parole il proprio dissenso verso i poeti tragici che, invece di ispirarsi ai fatti di cui il dio era stato protagonista, gli avessero preferito personaggi e avvenimenti della tradizione epica.

Per quanto riguarda il collegamento fra tragedia ed elemento satiresco, le informazioni di Erodoto e del Suda non forniscono alcun aiuto; d’altra parte, il dramma satiresco non ha niente in comune con il dramma attico del V secolo a.C., cosa che induce a ipotizzare per esso uno sviluppo parallelo, ma diverso da quello della tragedia. La testimonianza erodotea, invece, indica con chiarezza l’origine del contenuto luttuoso della tragedia, quale la conosciamo fin da Tespi, evidenziando al tempo stesso la tendenza dei poeti tragici ad attingere i loro soggetti dall’ἔπος eroico, anziché dai miti di Dioniso. Anche la coloritura dorica della lingua, sempre mantenuta nei cori della tragedia, troverebbe giustificazione nel fatto che Sicione e Corinto, le località menzionate da Erodoto, siano entrambe nel Peloponneso; al tempo stesso, ammettendo l’origine peloponnesiaca del dramma, sarebbe confermata la tradizione secondo cui Pratina di Fliunte, inventore del dramma satiresco, lo avrebbe considerato un aspetto secondario, comico, invece che drammatico, di questo nuovo genere poetico. Tali ipotesi, indubbiamente allettanti, sembrano però inconciliabili con l’autorità del testo aristotelico e con la certezza che, in ambiente attico, la tragedia non potesse essere scissa dalle manifestazioni del culto dionisiaco.

Pittore di Antimene. Dioniso e il suo tiaso. Pittura vascolare da uno psykter attico a figure nere. 525-500 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Il tentativo di superare il dissidio esistente tra le fonti antiche sull’origine della tragedia ha spinto molti studiosi moderni, tra la seconda metà del XIX secolo e il XX, a formulare suggestive teorie di carattere filosofico, antropologico, psicanalitico; ma data l’ampiezza e la complessità di questi studi, preferiamo lasciar parlare gli antichi su questi argomenti.

Epos e tragedia. | Fra le varie teorie, ci sembra opportuno evidenziare anche il rapporto fra ἔπος e tragedia, al quale è concesso di solito un minore risalto, considerando tre testimonianze antiche, offerte rispettivamente dalla Poetica di Aristotele, da un passo del III libro della Repubblica di Platone (ripreso poi nel X) e da un’affermazione di Isocrate, contenuta in un’orazione parenetica a Nicocle, figlio di Evagora, re di Cipro, che era stato suo discepolo.

Riguardo al primo testo, è importante far notare come Aristotele, pur collegando con un breve cenno la tragedia al ditirambo, si dedichi poi a un raffronto analitico più ampio fra la struttura del poema epico e quella della tragedia, tralasciando del tutto la questione del rapporto tra dramma e culto dionisiaco.

Pittore di Teseo. Dioniso con tralci di vite su un carro-nave fra due satiri che suonano l’aulos. Pittura vascolare da uno skyphos attico a figure nere, 500-450 a.C. London, British Museum

Il passo platonico propone invece una classificazione della poesia in base alla tecnica usata nel racconto del mito, distinguendo fra «narrazione semplice» e «narrazione mimetica». Con la prima definizione si indica il racconto in terza persona a opera di un narratore esterno; la seconda, invece, fa riferimento al dialogo fra personaggi, i quali ricostruiscono e riproducono drammaticamente l’azione, così che il pubblico non è più destinatario passivo della narrazione, ma risulta coinvolto più profondamente, come diretto testimone degli eventi, attribuendo ai protagonisti del dialogo gesti e comportamenti adeguati alla situazione. Quanto all’ἔπος omerico, esso dà così via a un terzo tipo di struttura del discorso, la cosiddetta «narrazione mista». La sola differenza fra il dialogo «epico» e quello teatrale è, pertanto, costituita dalla presenza della «voce narrante», che, fra una battuta e l’altra, interviene nella forma della «narrazione semplice», per indicare chi parla e chi risponde. Con tale osservazione Platone ribadisce al tempo stesso la sua certezza riguardo alla forte componente drammatica e mimetica insita nella poesia epica, e la sostanziale unità tra ἔπος e tragedia, come si deduce dall’affermazione in Rep. X 607a, in cui si dichiara che Ὅμηρον ποιητικώτατον εἶναι καὶ πρῶτον τῶν τραγῳδοποιῶν («Omero è il più eccellente e il primo fra i poeti tragici»). Tale unità si infranse quando scomparve la presenza del poeta-narratore e i personaggi ebbero la possibilità di esprimersi con un mimetismo più diretto, trasmettendo così anche la pubblico la forte tensione emotiva tipica dell’azione tragica. Platone, poi, criticò questa forma d’arte proprio perché suscitava negli spettatori sentimenti intensi e irrazionali, mentre Aristotele attribuì al «terrore» e alla «pietà», ispirati dai drammi, una positiva funzione catartica.

Se le riflessioni dei filosofi riguardano soprattutto  l’evoluzione formale della tragedia e i suoi effetti psicagogici sul pubblico, Isocrate approfondì invece il diverso modo con cui Omero e i drammaturghi si accostarono al mito: poiché tutti costoro furono ottimi conoscitori della natura umana, amante di per sé di racconti favolosi, ὁ μὲν γὰρ τοὺς ἀγῶνας καὶ τοὺς πολέμους τοὺς τῶν ἡμιθέων ἐμυθολόγησεν, οἱ δὲ τοὺς μύθους εἰς ἀγῶνας καὶ πράξεις κατέστησαν, ὥστε μὴ μόνον ἀκουστοὺς ἡμῖν ἀλλὰ καὶ θεατοὺς γενέσθαι («l’uno [sc. Omero] narrò come miti le lotte e le guerre dei semidei, mentre gli altri [sc. i tragediografi] trasformarono i miti in lotte e imprese, cosicché potessero essere gustati da noi non solo con l’ascolto, ma anche con la vista», Or. II 49).

Talia, musa del teatro (dettaglio). Rilievo, marmo, II sec. d.C. ca. da un sarcofago romano con le Muse. Paris, Musée du Louvre.

A questo sintetico cenno sulle relazioni, forse non adeguatamente analizzate, fra epica e tragedia, è possibile aggiungere un beve ma significativo detto di Eschilo, che, pur non essendo stato l’iniziatore del genere tragico, fu però uno dei suoi più antichi rappresentanti. Egli affermava infatti che le sue tragedie non erano altro che «briciole dei ricchi pranzi di Omero» (Ath. Deipn. VIII 747e), intendendo dire con ciò che l’ἔπος, compresi i poemi ciclici, offriva al poeta tragico un vastissimo repertorio di miti e leggende di cui servirsi come meglio credeva, adattando alle sue esigenze personaggi famosi o quasi sconosciuti, situazioni talora appena accennate o episodi già ampiamente definiti, ma tutti forniti per loro stessa natura di un’implicita potenzialità tragica.

Alcuni aspetti, considerati tipici del genere tragico, se analizzati in rapporto a una loro possibile matrice epica possono suffragare quest’ultima affermazione:

  • maggiore libertà e creatività del poeta rispetto al racconto mitico;
  • conflittualità esasperata fra i personaggi (con diatribe che mimano l’ambiente quotidiano);
  • accentuato senso del pathos;
  • maggiore autonomia di giudizio da parte del pubblico;
  • teoria delle tre unità (di tempo, di luogo e di azione).

Il primo punto appare strettamente connesso con le responsabilità che l’autore tragico si assumeva, nel momento in cui decideva di procedere alla «sceneggiatura» del mito; infatti, benché quest’ultimo dovesse rimanere inalterato nei suoi aspetti essenziali e nella sostanza, il passaggio da racconto a δρᾶμα («azione») implicava di per sé l’ampliamento o la riduzione di certe parti, l’aggiunta o lo sviluppo dei personaggi, la puntualizzazione dei ruoli e del linguaggio. Ma il punto di forza della nuova forma d’arte era rappresentato soprattutto dalla funzione paradigmatica (cioè il fatto di fornire degli «esempi»), ragione principale dell’opera e realizzata con vari mezzi, il più efficace dei quali appariva la trasposizione del mito dalla dimensione dell’essere, immobile e perfetta, a quella del divenire, mutevole e fluida, concretamente agganciata alla soggettività dell’autore e alla realtà del suo tempo. Da ciò scaturiva anche l’interesse, altrimenti poco giustificabile, degli spettatori, i quali, pur trovandosi di fronte a situazioni e a personaggi loro ben noti, attendevano di vedere come il poeta avesse saputo rinnovarli con la sua creatività, dando vita a una trama di cui era agevole seguire il percorso e comprenderne il messaggio.

Pittore anonimo. Attore con maschera. Pittura vascolare frammentaria a figure rosse, 350-340 a.C. c. da Taranto.

Inoltre, la scomparsa della voce narrante, che agiva nell’epica da elemento catalizzatore anche nei momenti di più profonda tensione, costringeva i personaggi del dramma ad affrontarsi in modo più diretto, giustificando il tono di conflittualità talora esasperata tipico del rapporto fra i protagonisti della vicenda tragica.

Anche lo sviluppo dell’oratoria politica e giudiziaria e, più tardi, l’avvento della Sofistica, esercitarono la loro influenza, incontrando l’approvazione di un pubblico che da sempre apprezzava le capacità dialettiche e retoriche, sottolineate da situazioni in cui ciascuno dei personaggi tentava di far prevalere il proprio punto di vista, opponendo a quello dell’antagonista un’assoluta chiusura: ciò conferiva al dialogo tragico una tensione non lontana dai toni, spesso violenti e polemici, dell’oratoria agonale, tipici dell’ambito pubblico.

Il clima di conflittualità e di pathos che caratterizzava l’azione tragica scaturiva spesso dal tentativo del drammaturgo di chiarire a se stesso e agli spettatori i punti cruciali delle più profonde problematiche esistenziali: il rapporto fra l’uomo e la divinità, il modo di affrontare il dolore e le miserie (retaggio della condizione umana), la ricerca di se stessi e dei fondamentali valori dell’essere, il rapporto difficile e talora traumatico con il proprio ego e con gli altri, nell’ambito familiare, in quello della stirpe, della città. Il valore paradigmatico che il poeta attribuiva a questa ricerca e ai suoi esiti (di qui, la scelta di personaggi ed eventi ben noti, dai quali il pubblico potesse facilmente cogliere il messaggio dell’autore) lo spingeva ad analizzare non tanto le gesta di un eroe quanto le sue sofferenze, poiché nell’ottica pessimistica propria del mondo greco, l’evoluzione spirituale e la crescita interiore dell’individuo derivavano più spesso dal patire che dall’agire, perché l’uomo imparava a conoscersi e a conquistare una nuova dignità, nata da una più profonda e sofferta consapevolezza di sé e dei propri limiti, non nella gioia o nella fortuna, ma nel dolore, nella sconfitta, nell’umiliazione, di fronte al fallimento o alla morte.

Euripide. Testa, copia romana in marmo del I sec. d.C. da originale greco di Lisippo. Malibu, J. Paul Getty Museum.

Se, dunque, il fine del poeta tragico era quello di suggerire al suo pubblico una risposta ai più drammatici interrogativi dell’umanità, egli disponeva tuttavia di strumenti assai meno diretti rispetto a quelli dell’aedo epico, la cui voce narrante influenzava costantemente le scelte degli ascoltatori. Anche il tragediografo poteva affidare il proprio messaggio alla voce del coro e coinvolgere gli spettatori nella vicenda per mezzo dei dialoghi, che evidenziavano la conflittualità fra personaggi; ma il fatto stesso che lo spettatore dovesse tener conto di punti di vista diversi e contrastanti conferiva al dramma una relatività e una pluralità di ottiche estranea all’ἔπος e molto più ricca di spunti di riflessione e di rielaborazione personale.

Un’ulteriore diversità del dramma rispetto alla poesia epica fu rappresentata dall’uso costante, ma non canonico, dell’unità d’azione, di tempo e di luogo, scambiata poi, per un’errata interpretazione del testo aristotelico, per una norma rigida e irrinunciabile. Infatti, l’estensione del racconto epico giustificava la presenza di numerosi personaggi; poiché le loro azioni avvenivano in momenti e luoghi differenti, il poeta era costretto, per motivi di chiarezza e di logica, a narrazioni parallele e a frequenti procedimenti di analessi e di prolessi. Ma il poeta tragico, che si focalizzava sulle vicende di un solo personaggio o di una collettività che agiva come un singolo individuo, non necessitava più di queste tecniche narrative, o, quantomeno, vi ricorreva assai meno spesso, quando l’intreccio del dramma le rendeva indispensabili.

Epica e tragedia continuarono a coesistere nella cultura greca del V e del IV secolo a.C.; anzi, bisognerà aggiungere che l’ἔπος ebbe forse un peso più rilevante del dramma nell’istruzione primaria dei cittadini, benché i poemi omerici e ciclici, usati a scuola come «libri di testo», proponessero modelli umani e valori ammirati, ma ormai lontani e non più adeguati alla mentalità dei tempi. L’evoluzione sociale e politica verificatasi nell’arco di due secoli aveva infatti favorito il sorgere di un nuovo spirito, più critico e dialettico, flessibile e aperto al cambiamento molto più di quanto consentissero i canoni rigidi e assoluti della morale eroica. Scomparse o attenuate molte certezze, il pubblico era ormai maturo per comprendere e apprezzare in tutta la sua geniale creatività il messaggio dialettico e problematico del dramma.