Anassagora di Clazomene

di G. Reale – D. Antiseri, Il pensiero occidentale. 1. Antichità e Medioevo, Brescia 2013, pp. 53-55.

 

Anassagora prosegue il tentativo di risolvere la grande difficoltà suscitata dalla filosofia degli eleati. Nato intorno al 500 a.C. a Clazomene e morto intorno al 428 a.C., Anassagora operò per un trentennio ad Atene. Fu probabilmente proprio suo il merito di aver introdotto il pensiero filosofico in questa città, destinata a diventare la capitale della filosofia antica. Scrisse un trattato Sulla natura, di cui ci sono pervenuti frammenti significativi.

Anche Anassagora si dichiara perfettamente d’accordo sull’impossibilità che il non essere sia e che quindi “nascere” e “morire” costituiscano eventi reali:

«I Greci però non hanno una giusta concezione del nascere e del morire: nessuna cosa, infatti, né nasce né perisce, ma dalle cose che sono “si attua” il comporsi e il separarsi; pertanto in questo modo dovrebbero propriamente chiamare il nascere “comporsi” e il morire “separarsi”»[1].

Dramma, Clazomene 190-30 a.C. AE 7,24 gr. Rovescio: ΚΛΑΖΟΜΕΝΙΩΝ, statua di Anassagora, voltata a sinistra, assisa su un globo con destra alzata in atto di parlare.
Dramma, Clazomene 190-30 a.C. AE 7,24 gr. Rovescio: ΚΛΑΖΟΜΕΝΙΩΝ, statua di Anassagora, voltata a sinistra, assisa su un globo con destra alzata in atto di parlare.

 

Queste “cose che sono”, che, componendosi e scomponendosi, danno origine al nascere e al morire di tutte le cose, non possono essere solo le quattro radici di Empedocle. Acqua, aria, terra e fuoco sono, infatti, ben lungi dallo spiegare le innumerevoli qualità che si manifestano nei fenomeni. I semi (σπέρματα) o elementi da cui derivano le cose dovranno essere tanti quante sono le innumerevoli quantità delle cose, appunto «semi aventi forme, colori e gusti di ogni genere»[2], vale a dire infinitamente vari. Questi semi sono, dunque, l’originario qualitativo pensato eleaticamente non solo come ingenerabile (eterno), ma anche come immutabile (nessuna qualità si trasforma nell’altra, essendo appunto originaria). Insomma, questi “molti” originari sono ciascuno, come Melisso pensava, l’Uno.

Ma questi semi non sono solo infiniti di numero presi nel loro complesso (infinite qualità), ma anche infiniti presi ciascuno singolarmente, ossia sono infiniti anche in quantità: non hanno limite in grandezza (sono inesauribili) e nemmeno nella piccolezza, perché si possono dividere all’infinito, senza che la divisione arrivi a un limite, ossia senza che arrivi al nulla (dato che il nulla non è). Si può, dunque, dividere all’infinito qualsivoglia seme (qualsiasi sostanza-qualità) in parti sempre più piccole, e le parti che si otterranno saranno sempre della medesima qualità. Proprio per queste caratteristiche di essere-divisibili-in-parti-che-sono-sempre-uguali, i semi sono stati chiamati omeomerie (il termine compare in Aristotele, ma non è impossibile che sia anassagoreo), che vuol dire “parti similari”, “parti qualitativamente eguali” (che si ottengono quando si divide ciascuno dei semi).

In origine le omeomerie costituivano una massa in cui tutto era «mescolato insieme», in modo che «nessuna si distingueva». Successivamente una divina Intelligenza determinò un movimento che dalla caotica mescolanza originaria produsse una ordinata mescolanza, da cui scaturirono tutte le cose. Ciascuna e tutte le cose, di conseguenza, sono ben ordinate mescolanze, in cui esistono tutti i semi di tutte le cose, anche se in misura piccolissima, variamente proporzionati. È la prevalenza di questo o di quest’altro seme che determina la differenza delle cose. Perciò, dice giustamente Anassagora: «Tutto è in tutto»; o anche: «In ogni cosa c’è parte di ogni cosa»[3]. Nel chicco di grano prevale un dato seme, ma vi è incluso tutto, in particolare il capello, la carne, l’osso, ecc.: «Come infatti – egli dice – potrebbe prodursi da ciò che non è capello il capello e la carne da ciò che non è carne?»[4]. È dunque per questo motivo che il pane (il grano), mangiato e assimilato, diventa capello, carne, e tutto il resto: perché nel pane ci sono i «semi di tutto». È questo un paradosso che si spiega perfettamente, se si tiene presente la problematica eleatica, che Anassagora voleva risolvere: «La carne non può nascere dalla non-carne, né il capello dal non-capello, in quanto impedisce il divieto parmenideo del non-è» (G. Calogero). Così il filosofo di Clazomene tentava di salvare l’immobilità sia “quantitativa” sia “qualitativa”: nulla viene dal nulla né va nel nulla, ma tutto è nell’essere da sempre e per sempre, anche la qualità apparentemente più insignificante (il pelo, il capello).

Abbiamo detto che il movimento che dalla caotica mescolanza originaria fa nascere le cose viene impresso da una divina Intelligenza. Ecco come Anassagora ce la descrive in un frammento pervenutoci, che segna uno dei vertici del pensiero presocratico:

 

«Tutte le altre cose hanno parte di tutto, l’Intelligenza invece è infinita, indipendente, e non mescolata ad alcuna cosa, ma è sola, lei in se stessa.  Infatti, se non fosse in sé, ma fosse mescolata ad altro, parteciperebbe di tutte le cose, anche se mescolata a una qualunque. In tutto infatti si trova parte di tutto, come ho detto prima, e le cose mescolate la ostacolerebbero, sicché non avrebbe potere su nessuna cosa, come invece ha essendo sola in sé. È infatti la più sottile di tutte le cose e la più pura, ha perfetta conoscenza di tutto e grandissima forza; e quante cose hanno vita, più grandi o più piccole, tutte domina l’Intelligenza. E l’Intelligenza dette impulso alla rotazione di tutto quanto, così che avesse inizio il moto rotatorio. E la rotazione iniziò dapprima dal piccolo, svolgendosi poi verso il grande, e si svolgerà ancora di più. E l’Intelligenza riconobbe tutte le cose che si formavano per mescolanza, e quelle che si formavano per separazione e quelle che si dividevano, e quelle che stavano per essere, e quelle che erano e ora non sono, e quante sono ora e quali saranno, l’Intelligenza le dispose tutte, e la rotazione che compiono le stelle e il sole, la luna e quella parte di aria e di etere che si va separando. Ed è proprio la rotazione che provocò il separarsi. E dal rado si separa il denso e dal freddo il caldo e dall’oscuro il luminoso e dall’umido l’asciutto. E vi sono molte parti di molti. Nessuna cosa, però, si separa del tutto, né alcuna cosa si divide dall’altra tranne l’Intelligenza. L’Intelligenza, dunque, è tutta uguale, sia la maggiore che la minore. Nessun’altra cosa, invece, è simile ad alcuna, ma ciascuna è ed era costituita dalle cose in essa più visibili e di cui partecipa in misura maggiore»[5].

 

Il frammento – assai noto e giustamente celebrato – contiene una intuizione veramente grandiosa, vale a dire l’intuizione di un principio che è una realtà infinita, separata da tutto il resto, la “più sottile” e “più pura” delle cose, uguale a se stessa, intelligente e sapiente porta a un affinamento notevolissimo del pensiero dei presocratici: non siamo ancora alla scoperta dell’immateriale ma siamo certamente allo stadio che immediatamente lo precede.

Platone e Aristotele, pur apprezzando questa scoperta, lamentano il fatto che Anassagora non abbia utilizzato l’Intelligenza in modo sistematico, ma solo quando non sapeva trarsi d’impaccio e che spesso abbia preferito continuare a spiegare i fenomeni con i modelli usati dai precedenti filosofi. Ma proprio l’impatto con Anassagora segnerà una svolta decisiva nel pensiero di Platone, il quale ci dice espressamente, per bocca di Socrate, di aver imboccato la nuova strada della metafisica per sollecitazione e insieme per delusione provocata dalla lettura del libro di Anassagora[6].

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Note:

[1] DK 59, B 17 = SIMPL. Phys. 163, 18: τὸ δὲ γίνεσθαι καὶ ἀπόλλυσθαι οὐκ ὀρθῶς νομίζουσιν οἱ Ἕλληνες˙ οὐδὲν γὰρ χρῆμα γινεται οὐδὲ ἀπόλλυται, ἀλλ’ ἀπὸ ἐόντων χρημάτων συμμίσγεταί τε καὶ διακρίνεται. καὶ οὕτως ἂν ὀρθῶς καλοῖεν τό τε γίνεσθαι συμμίσγεσθαι καὶ τὸ ἀπόλλυσθαι διακρίνεσθαι.

[2] DK 59, B 4 = SIMPL. Phys. 157, 9: σπέρματα πάντων χρημάτων καὶ ἰδέας παντοίας ἔχοντα καὶ χροιὰς καὶ ἡδονάς.

[3] DK 59, B 11 = SIMPL. Phys. 164, 22: ἐν παντὶ παντὸς μοῖρα ἔνεστι.

[4] DK 59, B 10 = SCHOL. GREGOR. NAZ. XXXVI 911: πῶς γὰρ ἄν, φησίν, ἐκ μὴ τριχὸς γένοιτο θρὶξ καὶ σὰρξ ἐκ μὴ σαρκός;

[5] DK 59, B 12 = SIMPL. Phys. 156, 13: τὰ μὲν ἄλλα παντὸς μοῖραν μετέχει, νοῦς δέ ἐστιν ἄπειρον καὶ αὐτοκρατὲς καὶ μέμεικται οὐδενὶ χρήματι, ἀλλὰ μόνος αὐτὸς ἐπ’ ἐωυτοῦ ἐστιν. εἰ μὴ γὰρ ἐφ’ ἑαυτοῦ ἦν, ἀλλά τεωι ἐμέμεικτο ἄλλωι, μετεῖχεν ἂν ἁπάντων χρημάτων, εἰ ἐμέμεικτό τεωι˙ ἐν παντὶ γὰρ παντὸς μοῖρα ἔνεστιν, ὥσπερ ἐν τοῖς πρόσθεν μοι λέλεκται˙ καὶ ἂν ἐκώλυεν αὐτὸν τὰ συμμεμειγμένα, ὥστε μηδενὸς χρήματος κρατεῖν ὁμοίως ὡς καὶ μόνον ἐόντα ἐφ’ ἑαυτοῦ. ἔστι γὰρ λεπτότατόν τε πάντων χρημάτων καὶ καθαρώτατον, καὶ γνώμην γε περὶ παντὸς πᾶσαν ἴσχει καὶ ἰσχύει μέγιστον˙ καὶ ὅσα γε ψυχὴν ἔχει καὶ τὰ μείζω καὶ τὰ ἐλάσσω, πάντων νοῦς κρατεῖ. καὶ τῆς περιχωρήσιος τῆς συμπάσης νοῦς ἐκράτησεν, ὥστε περιχωρῆσαι τὴν ἀρχήν. καὶ πρῶτον ἀπό του σμικροῦ ἤρξατο περιχωρεῖν, ἐπὶ δὲ πλέον περιχωρεῖ, καὶ περιχωρήσει ἐπὶ πλέον. καὶ τὰ συμμισγόμενά τε καὶ ἀποκρινόμενα καὶ διακρινόμενα πάντα ἔγνω νοῦς. καὶ ὁποῖα ἔμελλεν ἔσεσθαι καὶ ὁποῖα ἦν, ἅσσα νῦν μὴ ἔστι, καὶ ὅσα νῦν ἐστι καὶ ὁποῖα ἔσται, πάντα διεκόσμησε νοῦς, καὶ τὴν περιχώρησιν ταύτην, ἣν νῦν περιχωρέει τά τε ἄστρα καὶ ὁ ἥλιος καὶ ἡ σελήνη καὶ ὁ ἀὴρ καὶ ὁ αἰθὴρ οἱ ἀποκρινόμενοι. ἡ δὲ περιχώρησις αὐτὴ ἐποίησεν ἀποκρίνεσθαι. καὶ ἀποκρίνεται ἀπό τε τοῦ ἀραιοῦ τὸ πυκνὸν καὶ ἀπὸ τοῦ ψυχροῦ τὸ θερμὸν καὶ ἀπὸ τοῦ ζοφεροῦ τὸ λαμπρὸν καὶ ἀπὸ τοῦ διεροῦ τὸ ξηρόν. μοῖραι δὲ πολλαὶ πολλῶν εἰσι. παντάπασι δὲ οὐδὲν ἀποκρίνεται οὐδὲ διακρίνεται ἕτερον ἀπὸ τοῦ ἑτέρου πλὴν νοῦ. νοῦς δὲ πᾶς ὅμοιός ἐστι καὶ ὁ μείζων καὶ ὁ ἐλάττων. ἕτερον δὲ οὐδέν ἐστιν ὅμοιον οὐδενί, ἀλλ’ ὅτων πλεῖστα ἔνι, ταῦτα ἐνδηλότατα ἓν ἕκαστόν ἐστι καὶ ἦν.

[6] DK 59, A 47. PLAT. Phaedo 97b: ἀλλ’ ἀκούσας μέν ποτε ἐκ Βιβλίου τινός, ὡς ἔφη, Ἀναξαγόρου ἀναγιγνώσκοντος καὶ λέγοντος, ὡς ἄρα νοῦς ἐστιν ὁ διακοσμῶν τε καὶ πάντων αἴτιος, ταύτηι δὴ τῆι αἰτίαι ἥσθην καὶ ἔδοξέ μοι τρόπον τινὰ εὖ. ἔχειν τὸ τὸν νοῦν εἶναι πάντων αἴτιον καὶ ἡγησάμην, εἰ τοῦθ’ οὕτως ἔχει, τόν γε νοῦν κοσμοῦντα πάντα κοσμεῖν καὶ ἕκαστον τιθέναι ταύτηι ὅπηι ἂν βέλτιστα ἔχηι… [c] εἰ οὖν τις βούλοιτο τὴν αἰτίαν εὑρεῖν περὶ ἑκάστου ὅπῃ γίγνεται ἢ ἀπόλλυται ἢ ἔστι, τοῦτο δεῖν περὶ αὐτοῦ εὑρεῖν, ὅπῃ βέλτιστον αὐτῷ ἐστιν ἢ εἶναι ἢ ἄλλο ὁτιοῦν πάσχειν ἢ ποιεῖν˙ ἐκ δὲ δὴ τοῦ λόγου τούτου οὐδὲν ἄλλο σκοπεῖν προσήκειν ἀνθρώπῳ καὶ περὶ αὐτοῦ ἐκείνου καὶ περὶ τῶν ἄλλων ἀλλ’ ἢ τὸ ἄριστον καὶ τὸ βέλτιστον. ἀναγκαῖον δὲ εἶναι τὸν αὐτὸν τοῦτον καὶ τὸ χεῖρον εἰδέναι˙ τὴν αὐτὴν γὰρ εἶναι ἐπιστήμην περὶ αὐτῶν. ταῦτα δὴ λογιζόμενος ἅσμενος /ηὑρηκέναι ὤιμην διδάσκαλον τῆς αἰτίας περὶ τῶν ὄντων κατὰ νοῦν ἐμαυτῶι τὸν Ἀναξαγόραν καί μοι φράσειν πρῶτον μὲν πότερον ἡ γῆ πλατεῖά ἐστιν ἢ στρογγύλη, ἐπειδὴ δὲ φράσειεν, ἐπεκδιηγήσεσθαι τὴν αἰτίαν καὶ τὴν ἀνάγκην, λέγοντα τὸ ἄμεινον καὶ ὅτι αὐτὴν ἄμεινον ἦν τοιαύτην εἶναι, καὶ εἴ μοι ταῦτα ἀποφαίνοι, παρεσκευάσμην ὡς οὐκέτι ποθεσόμενος αἰτίας ἄλλο εἶδος. καὶ δὴ καὶ περὶ ἡλίου οὕτω παρεσκευάσμην ὡσαύτως πευσόμενος, καὶ σελήνης καὶ τῶν ἄλλων ἄστρων τάχους τε πέρι πρὸς ἄλληλα καὶ τροπῶν καὶ τῶν ἄλλων παθημάτων, πῆι ποτε ταῦτ’ ἄμεινόν ἐστιν ἕκαστον καὶ ποιεῖν καὶ πάσχειν ἃ πάσχει. οὐ γὰρ ἄν ποτε αὐτὸν ὤιμην, φάσκοντά γε ὑπὸ νοῦ αὐτὰ κεκοσμῆσθαι, ἄλλην τινὰ αὐτοῖς αἰτίαν ἐπενεγκεῖν ἢ ὅτι βέλτιστον αὐτὰ οὕτως ἔχειν ἐστὶν ὥσπερ ἔχει˙ ἑκάστωι οὖν αὐτῶν ἀποδιδόντα τὴν αἰτίαν καὶ κοινῆι πᾶσι τὸ ἑκάστωι βέλτιστον ὤιμην καὶ τὸ κοινὸν πᾶσιν ἐκδιηγήσεσθαι ἀγαθόν˙ καὶ οὐκ ἂν ἀπεδόμην πολλοῦ τὰς ἐλπίδας, ἀλλὰ πάνυ σπουδῆι λαβὼν τὰς βίβλους ὡς τάχιστα οἷός τ’ ἦ ἀνεγίγνωσκον, ἵν’ ὡς τάχιστα εἰδείην τὸ βέλτιστον καὶ τὸ χεῖρον. ἀπὸ δὴ θαυμαστῆς ἐλπίδος, ἵν’ ὡς τάχιστα εἰδείην τὸ βέλτιστον καὶ τὸ χεῖρον. ἀπὸ δὴ θαυμαστῆς ἐλπίδος, ὦ ἑταῖρε, ὠιχόμην φερόμενος, ἐπειδὴ προϊὼν καὶ ἀναγιγνώσκων ὁρῶ ἄνδρα τῶι μὲν νῶι οὐδὲν χρώμενον οὐδέ τινας αἰτίας ἐπαιτιώμενον εἰς τὸ διακοσμεῖν τὰ πράγματα, ἀέρας δὲ καὶ αἰθέρας καὶ ὕδατα αἰτιώμενον καὶ ἄλλα πολλὰ καὶ ἄτοπα (Ma avendo udito una volta un tale che, a quanto disse, leggeva un libro di Anassagora e affermava che è l’intelletto l’ordinatore e la causa di tutte le cose, godetti di tale causa e mi parve che in certo modo stava bene che causa di tutte le cose fosse l’intelletto e pensai che, se la cosa era in questi termini, l’intelletto ordinatore ordinasse tutto e disponesse ogni cosa nel modo migliore˙ [c] …per conseguenza, se di ciascun essere uno volesse trovare la causa per la quale viene alla luce o perisce o esiste, deve trovare qual è il suo modo migliore di esistere o di subire o di fare alcunché. In forza dunque di tale ragionamento nient’altro conviene all’uomo indagare e intorno a se stesso e intorno agli altri esseri se non ciò che è il meglio e l’ottimo, ed è necessario che costui conosca anche il peggio, perché è la stessa la scienza dell’uno e dell’altro. Ragionando così, credevo tutto contento d’aver trovato in Anassagora il maestro della causa degli esseri secondo il mio intendimento, e che egli mi avrebbe detto in primo luogo se la terra è piatta o rotonda e, dopo avermelo detto, me ne avrebbe spiegato la causa e la necessità, indicandomi il meglio e che è bene per essa essere così e se avesse detto che sta al centro m’avrebbe spiegato che è bene per essa stare al centro e se me l’avesse dimostrato mi preparavo a non desiderare più alcun genere di cause. Così pure riguardo al sole ero pronto a imparare le stesse cose e alla luna e agli altri astri e alla velocità che hanno gli uni verso gli altri e ai rivolgimenti e agli altri fenomeni, in che modo è bene che ogni corpo faccia e subisca quel che subisce. Non avrei mai pensato in realtà che lui, dicendo che tutte queste cose sono ordinate dall’intelletto, aggiungesse ad esse un’altra causa se non questa, che cioè il meglio per loro è di stare come stanno: e perciò pensavo che egli, avendo attribuito a ciascuna cosa in particolare e a tutte in comune questa causa, avrebbe pure spiegato quel che è il meglio per ciascuna e il bene comune a tutte. E non avrei ceduto queste speranze a nessun prezzo, ma presi quei libri con somma cura e quanto più presto potei li lessi per imparare al più presto quel che è il meglio e il peggio. Ed ecco, amico mio, che da quella meravigliosa speranza crollai trascinato giù, perché, andando avanti nella lettura, vedo che il mio eroe non si serviva affatto dell’intelletto e non gli attribuiva nessuna causa nell’ordinamento delle cose e ricorreva all’aria, all’etere, all’acqua e ad altre molte e strane cose).

 

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Bibliografia:

 

Anassagora, Testimonianze e frammenti (con testi originali a fronte), a cura di D. Lanza, Firenze 1966.

Aristotele e la bioetica

di F. Pascual, Aristotele e la bioetica, Alpha Omega 10 (2007), 423-452 (cit. passim).

 

Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene. Dettaglio - Aristotele con il volume dell''Etica'. Affresco, 1509-1510. Città del Vaticano, Stanza della Signatura, Palazzi Apostolici.
Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene. Dettaglio – Aristotele con il volume dell”Etica’. Affresco, 1509-1510. Città del Vaticano, Stanza della Signatura, Palazzi Apostolici.

[…] È importante aver presente che la biologia aristotelica si trova in stretto rapporto con la sua teoria sulle quattro cause (materiale, formale, efficiente, finale). Speciale rilevanza ha l’idea di finalità nei viventi, sottolineata continuamente negli scritti di Aristotele e contrapposta all’idea di casualità propria delle teorie meccanicistiche del suo tempo[1]. Per Aristotele, la natura non fa niente invano, ma tutto è orientato alla ricerca del meglio (nella misura del possibile). Questa idea diventa una costante della biologia aristotelica[2], e ci fa capire il rapporto che esiste fra organo e funzione: una funzione (una certa capacità operativa e integrata nell’insieme del vivente secondo le necessità vitali) non esiste perché un vivente ha un determinato organo, ma l’organo esiste perché un vivente ha la necessità di avere tale funzione[3].

L’uomo, un vivente speciale
In questa cornice possiamo collocare la visione aristotelica sull’uomo, un essere speciale perché, oltre al fatto di avere le caratteristiche dei viventi dotati di sensibilità e locomozione (è, a pieno diritto, un animale), possiede anche una dimensione tutta particolare, dovuta al suo intelletto (noûs), che gli permette certe attività (intellettive, volitive) che non dipendono in tutto dalla corporeità. Sull’anima indica, già dall’inizio del testo, che lo studio dell’anima potrebbe non essere competenza esclusiva del fisico (cioè, di chi studia le realtà non separate dalla materia e soggette così alla generazione e alla corruzione), ma forse anche del «metafisico»[4], se rimane provato che ci siano atti dell’uomo dovuti all’anima senza dipendere dal corpo[5]. Quelle parti o dimensioni dell’anima umana che dipendono da organi corporali periscono con essi, ma la parte dell’anima che non dipende dalla corporeità sarebbe immortale[6]. Lo studio di tale dimensione viene sviluppato specialmente nel libro III di Sull’anima, e così risulta legittimo considerare l’uomo come un vivente speciale, in quanto il suo intelletto (almeno l’intelletto attivo), il noûs, non dipende totalmente dalla materia. Questa sua proprietà spiega pure perché tale intelletto sia immortale e, allo stesso tempo, non possa essere trasmesso in modo ordinario, come si riceve il patrimonio corporale attraverso la riproduzione, ma viene ricevuto dall’esterno[7].
L’uomo, dunque, in quanto animale nel quale è presente un intelletto che lo fa speciale, è un essere dotato di razionalità, capace di svolgere un’attività teoretica; è un essere divino, molto superiore agli animali[8]. Grazie alla sua ragione l’uomo può essere educato nelle diverse dimensioni della sua anima. Infatti, una parte della sua anima irrazionale è in grado di ascoltare e di rispettare certe regole che gli vengono tramite la parte razionale, il che spiega l’educazione morale e la possibilità di sviluppare le virtù etiche[9], mentre un’altra parte dell’anima irrazionale non è controllabile, cioè è pienamente irrazionale, e potremmo chiamarla «vegetativa» in quanto regola la nutrizione e la crescita[10]. L’etica perfino ha un ruolo essenziale nella conservazione della vita e della salute umana, grazie a questo rapporto fra l’anima razionale e quella parte dell’anima irrazionale aperta alla ragione.
Tutti gli sforzi umani orientati a raggiungere il miglior stile di vita non sono in grado d’impedire l’arrivo della vecchiaia e del momento fatale della fine del percorso temporale. L’invecchiare e il morire sono, dunque, due affezioni involontarie (non scelte e, normalmente, nemmeno volute) che appartengono in modo essenziale alla nostra condizione naturale[11].
Occorre aggiungere una parola sulla diversità degli esseri umani. Secondo Aristotele, non tutti gli esseri umani sono «uguali». La differenza più rilevante consiste nell’essere in grado o meno di esercitare le attività razionali. Sotto questo profilo, per esempio, il bambino si troverebbe in una condizione di una certa «inferiorità», sottomesso alle decisioni di chi ne è tutore fintanto che viva secondo gli impulsi e non sia in grado di agire secondo ragione[12]. Qualcosa di simile si può dire sullo schiavo: benché partecipi della ragione, non la «possiede» in modo proprio, e sarebbe naturalmente orientato a vivere sottomesso ad altri[13].
Più complesso è il tema della differenza e complementarietà fra l’uomo (il maschio) e la donna. La differenza sessuale risulta centrale per poter permettere la riproduzione (come abbiamo già detto, il vivente cerca di lasciare nel mondo qualcuno simile a sé), e così si spiega che i due sessi non possono vivere separati fra di loro[14]. Ma la diversità sessuale non origina una diversità di specie: uomo e donna sono della stessa specie[15].
Sussistono, comunque, differenze che spiegano l’esistenza di un rapporto diverso fra l’uomo e la donna, ma un rapporto che si colloca nella prospettiva della vita domestica e che risulta simile al rapporto del governante con i governati. Questo implica accettare la dignità della donna ma, allo stesso tempo, «difendere» la sua situazione di obbedienza nei confronti del marito[16].
In altre parole, e contro un modo d’interpretare Aristotele distorto, la donna e lo schiavo non sono esseri sotto-umani, perché entrambi hanno la ragione (benché non la «possiedano»), e sotto questo profilo sono «identici» agli uomini; ma da un punto di vista «sociologico» e fisiologico sono diversi, in quanto che per la situazione concreta e per alcune caratteristiche fisiche (non spirituali) sono stati situati in una condizione che Aristotele (in modo sbagliato, secondo noi), considera d’inferiorità nei confronti degli uomini liberi. Ma esistono dei testi dove si mostra l’idea di uguaglianza (o quasi) fra uomo e donna, specialmente nell’Etica nicomachea. In questa opera si afferma, per esempio, che la vera giustizia domestica si ha soprattutto fra uomo e donna, più che verso il figlio e gli schiavi[17]; e si afferma pure che il rapporto fra uomo e donna è fondato non solo sulla procreazione, ma va oltre essa e porta verso l’aiuto vicendevole, producendo sia piacere che utilità, e perfino in esso può esserci qualcosa di simile all’amicizia fondata sulla virtù (la quale esige, secondo lo Stagirita, un rapporto paritario)[18].
Rimangono, tuttavia, alcuni testi delle opere biologiche dove si parla della donna come risultato di una certa «deviazione» riproduttiva nei confronti dell’uomo (che sarebbe l’essere umano in senso pieno), ma una deviazione necessaria, in quanto che senza di essa non potrebbe esserci riproduzione né continuità del genere umano[19]. In altre formule non molto felici, Aristotele parla della donna come se fosse un «maschio sterile», oppure un «maschio mutilato»[20], per il fatto di non poter produrre uno sperma maturo, ma solo uno sperma impuro (al quale manca il principio dell’anima), oppure una deviazione nella natura[21]. In questa visione, per quanto riguarda la riproduzione il maschio sarebbe superiore e migliore, perché è lui causa del movimento, mentre la femmina sarebbe soltanto come la materia[22]. Tuttavia, sarebbe proprio la materia (il fattore femminile) a determinare se il concepito sarà uomo oppure donna per il modo con il quale modifica l’azione causale dello sperma[23], mentre oggi sappiamo che è lo sperma di origine maschile che «determina» in certo senso il sesso genetico del concepito, mentre le altre caratteristiche sono il risultato della «sintesi» fra l’informazione genetica dei due gameti.

La sessualità aperta alla generazione della vita
Aristotele dedica numerosi studi al tema della riproduzione. Tale fenomeno, come abbiamo visto, risulta essenziale nei viventi, e permette la continuità biologica della specie, mentre gli individui concreti si trovano sottomessi ad un processo inevitabile che conduce alla morte.

Askos decorato con scene di rapporto sessuale. 440 a.C. ca. Atene, Museo Archeologico del Ceramico.
Autore ignoto. Scena di rapporto sessuale. Pittura vascolare da un askos attico a figure rosse, 440 a.C. ca. Museo Archeologico del Ceramico (Atene).

Riprendendo un’idea presente in Platone[24], Aristotele ricorda che gli individui temporali arrivano ad una forma di «eternità» grazie alla riproduzione, nel lasciare dietro di sé un altro simile al progenitore[25], benché, come è ovvio, tale «eternità» sia solo un tentativo provvisorio e insoddisfacente (almeno per le creature razionali) per contrastare la caducità dell’esistenza terrena.
Centriamo adesso la nostra attenzione sulla riproduzione umana, che in buona parte dipende dalle analisi aristoteliche sulla riproduzione animale. I principi della generazione sono, come abbiamo visto, l’uomo e la donna nella loro complementarietà sessuale: senza tale complementarietà sarebbe impossibile la permanenza della vita umana sulla terra. L’uomo e la donna sono «strumenti» della generazione, senza aver fatto una scelta su questo punto, perché è naturale il voler lasciare un essere simile a sé. Sotto questo profilo, l’uomo è simile agli altri viventi, animali e piante[26].
Per Aristotele, tuttavia, il maschio e la femmina sono principi della riproduzione in modi diversi. Il maschio è origine del movimento e della forma (grazie allo sperma), in grado di generare in un altro. La femmina, invece, è portatrice della materia, e gode anche della facoltà di generare in sé[27]. L’idea che il seme maschile sarebbe la causa efficiente e il mestruo femminile la causa materiale si trova pure in Metafisica (VIII 4, 1044a34-b1), dove si parla anche delle cause formale e finale dell’uomo. In un altro passo della Metafisica (VII 9, 1034a33-b4) si dice che lo sperma ha la forma in potenza, il che permette che un uomo sia in grado di generare un altro uomo, grazie allo sperma…
Occorre ricordare che è l’essere in atto, l’adulto, a poter generare grazie allo sperma (che non è ancora compiuto), mentre non è vero l’opposto (cioè, che sarebbe falso affermare che prima viene il seme e dopo l’uomo)[28].
Secondo le conclusioni alle quali poté arrivare, Aristotele considera che il maschio è un essere in grado di produrre lo sperma, che sarebbe una specie di residuo utile del cibo; la femmina, invece, può solo produrre un tipo di sperma impuro (anche residuo utile del cibo), atto per dare la materia al concepito, sperma che viene espulso nelle mestruazioni[29].
L’argomento usato da Aristotele per arrivare all’anteriore conclusione è doppio: in primo luogo, non si possono formare simultaneamente due secrezioni spermatiche; in secondo luogo, la mestruazione non ci sarebbe se la donna fosse in grado di produrre spermi maturi[30]. Sebbene per il mondo contemporaneo queste teorie siano ormai superate, è giusto sottolineare come Aristotele riconosce la necessità di mettere insieme due fattori, maschile e femminile, e come rifiuta la possibilità di una generazione (negli esseri sessuati) senza il concorso delle due figure genitoriali[31]. In altre parole, la femmina non si limita ad offrire il luogo dello sviluppo per il seme[32], ma va oltre per il fatto di dare la materia (cioè, il corpo, come vedremo in seguito) sulla quale possa agire lo sperma maschile[33]. Non è giusto, allora, dire che per Aristotele il figlio sarebbe solo frutto del maschio, come è stato affermato da qualche autore[34].
Lo sperma maschile è causa motrice (efficiente) e non partecipa con la sua materia nel nuovo individuo, ma solo con la sua causalità, specialmente attraverso il calore presente in esso come pneûma o soffio vitale[35]; in certo senso, tale sperma possiede un’anima, ma in potenza[36]. L’essere in potenza dello sperma maschile prima del suo venir deposto nella donna è, tuttavia, diverso dal modo di essere in potenza che sarebbe proprio dell’embrione ottenuto come risultato della fecondazione[37]. Si potrebbe applicare all’embrione la distinzione dei due tipi di potenza che sono evidenziati parlando dell’essere sapiente in Sull’anima: l’uomo è sapiente in quanto può imparare (primo senso), l’uomo è sapiente in quanto ha già imparato, ma non usa in un momento concreto il suo sapere (secondo senso). Per la vita dell’embrione sarebbe da applicare il primo senso di potenza, in quanto già c’è vita umana, ma questa non si è sviluppata in tutte le sue capacità[38].
Con queste proposte, Aristotele si oppone in modo frontale alla teoria antica che oggi riceve il nome di «pangenesi», secondo la quale lo sperma avrebbe origine da tutte le diverse parti del corpo. Secondo Aristotele, basta allo sperma la sua condizione di causa efficiente capace di agire sulla causa materiale (il mestruo femminile) per poter giustificare il fatto che da un essere umano nasce un altro essere umano[39].
Per quanto riguarda la fecondità umana, Aristotele raccoglie diverse osservazioni sulla pubertà, i suoi segni e il tempo nel quale l’uomo e la donna conservano la propria fertilità, come anche sui momenti ottimali per generare. Secondo lo Stagirita, l’uomo inizia a segregare seme (sperma) ai 14 anni, ma il seme sarebbe fertile solo dai 21 anni fino ai 65-70 anni (circa). La donna comincia ad essere fertile dalla pubertà (benché l’età migliore per il concepimento va rimandata alcuni anni), mentre perde la propria fertilità più precocemente, intorno ai 45-50 anni[40]. Ci sono cause, nella donna e nell’uomo, che provocano una diminuzione oppure un’assenza della fecondità, e su di esse Aristotele offre diverse spiegazioni[41].
Un dato da non perdere di vista è quello della «qualità dei concepiti», perché da coppie troppo giovani nascono figli più piccoli e più deboli, almeno fra gli animali; occorre, allora, cercare l’età migliore al fine di procreare bene i propri figli[42]. Sotto questo profilo, e in un modo che ricorda le proposte di Platone nella Repubblica e nelle Leggi sulla procreazione, Aristotele offre indicazioni concrete per perseguire figli ben concepiti, stabilendo limiti di età per il matrimonio che permettano che i coniugi siano contemporaneamente ben disposti alla procreazione: dai 18 anni per le donne e intorno ai 37 per gli uomini. Si devono pure stabilire limiti oltre i quali non sarebbe opportuno generare, perché da genitori troppo avanti in età possono nascere figli imperfetti di mente oppure deboli di forza[43]. Ma su questo torneremo più avanti.
Per quanto riguarda i momenti normali nei quali si producono i rapporti sessuali nella specie umana, non ci sono epoche specifiche (mentre fra gli animali è più frequente avere tempi concreti per i rapporti sessuali), perché l’essere umano può fare l’amore in qualsiasi epoca dell’anno[44]. Tuttavia, sarebbe opportuno aver presenti, per i rapporti orientati al concepimento di figli sani, il momento climatico, i venti, ecc., secondo i consigli dei medici e dei fisici[45].

Dal concepimento dell’uomo fino alla sua nascita

Scultura erotica, in calcare dipinto. Rappresenta l'unione fra Iside e Osiride. 305-30 a.C. New York, Brooklyn Museum
Gruppo scultoreo in calcare dipinto. Scena di accoppiamento (forse fra Osiride e Iside). 305-30 a.C. ca. Brooklyn Museum.

Negli animali vivipari, l’azione dello sperma sul mestruo (materia) provoca quel movimento e quel riscaldamento necessario perché venga fuori una forma specifica, cioè, perché avvenga l’inizio dell’esistenza di un nuovo individuo appartenente ad una specie determinata[46].
Il risultato della prima mescolanza fra lo sperma maschile (che offre il principio di animazione) e il residuo (mestruo, sperma impuro) della femmina è un embrione[47]. In esso, il corpo procede dalla femmina, mentre l’anima avrebbe la sua origine dal maschio[48]. La vita del nuovo essere, maschio o femmina a seconda del tipo di azione dello sperma sulla materia (mestruo) si sviluppa all’interno della donna, trovandosi così vicino al cibo necessario per il proprio sviluppo[49]. La specie umana, come accade nel cavallo e in altri vivipari, genera nell’interno della femmina un essere simile all’adulto, senza produrre prima un uovo dal quale venga fuori, in un momento successivo, l’embrione[50].
L’embrione avrebbe, in certo modo, tutti gli organi in potenza[51], benché non siano presenti in alcune delle diverse tappe di crescita nel grembo materno.
Lo sviluppo procede, dunque, attraverso diverse tappe, una intrauterina, e un’altra dopo la nascita[52]. Tale sviluppo si può capire solo tramite un principio che sia sempre presente nell’embrione, fin dall’inizio, cioè l’anima (che non si trova separata, ma sarebbe «parte» del nuovo individuo). La formazione degli organi non si realizza in modo simultaneo, allo stesso tempo, ma in un certo ordine e gradazione[53].
Uno dei primi organi ad essere formati è il cuore, che è principio del vivente e permette l’originarsi degli altri organi[54]. Dopo la formazione del cuore, che appare molto precocemente negli embrioni, magari nei primissimi giorni di sviluppo[55], si susseguono le diverse fasi di sviluppo presentate nel libro II di Riproduzione degli animali, secondo un modello, come abbiamo già indicato, di tipo epigenetico: con una gradazione nel susseguirsi degli organi e dell’attuazione delle diverse potenzialità insite dall’inizio della vita dell’embrione.
Un punto che ha suscitato molte discussioni riguarda la teoria che è nota sotto il nome di «animazione successiva», che si colloca nella cornice della visione epigenetica appena menzionata[56]. L’embrione non avrebbe fin dall’inizio la stessa anima dell’adulto, ma riceverebbe per primo l’anima vegetativa e poi, nelle seguenti fasi di sviluppo, l’anima sensitiva e, nel caso degli uomini, l’intelletto (che, come abbiamo visto, viene dal di fuori), perché sarebbe assurdo considerare l’embrione come inanimato, come privato di vita[57]. Per Aristotele, infatti, non si è animale fintanto che non si è sviluppata la percezione sensoriale, cioè, fino a una certa tappa del proprio percorso vitale, prima della quale l’animale ha soltanto una vita di vegetale[58].
Tuttavia, se abbiamo presente che lo sperma maschile è la fonte e la causa dell’anima, come abbiamo visto in precedenza, allora la teoria dell’animazione successiva non sembra un punto fisso nel pensiero aristotelico, ma forse una spiegazione che illustra come si fanno presenti in atto certe possibilità che all’inizio (cioè, secondo la moderna embriologia, dalla fecondazione) erano presenti soltanto in potenza, il che è detto esplicitamente in Riproduzione degli animali II 3, 736b13-15[59].
Nella cornice della teoria dell’animazione successiva è giusto menzionare un testo di Ricerche sugli animali che ha dato luogo a interpretazioni fuorvianti[60]. In questo passo Aristotele indica che «sembra» che il feto femminili cominci a muoversi verso il giorno 90 nel lato destro, mentre il feto maschili inizierebbe a muoversi verso il giorno 40 nel lato sinistro. Tuttavia, il testo riconosce che non ci sia una rigorosa esattezza su questi dati, e ricorda come alle volte la femmina si muove nel lato destro, e come su questi segnali esiste una variazione secondo il più e il meno. In altre parole, Aristotele risulta molto cauto e sembra affidarsi ai dati del tempo. Perciò, risulta erroneo dire che secondo lo Stagirita il maschio inizia a esistere nel giorno 40 e la femmina nel giorno 90[61], quando il testo, in modo assai prudente, non parla dell’inizio dell’esistenza, ma dei segni di sviluppo che sarebbero diversi a seconda del sesso del concepito (che è già un esistente).
La crescita dell’essere umano non avviene soltanto nel grembo materno[62], ma continua dopo il parto, come abbiamo detto in precedenza. Aristotele osserva come l’essere umano nasce, dopo 9 mesi (possono essere di meno o di più), in una situazione particolare, molto imperfetta; anzi, i bambini appena nati si configurano esternamente come imperfetti, avendo sviluppato di più la parte superiore del corpo, e di meno quella inferiore. Questo spiega perché i bambini dormono tanto tempo nelle prime fasi di crescita, dovendo continuare il loro sviluppo per diversi mesi[63]. Hanno, dunque, bisogno di più tempo per armonizzare il corpo, e hanno bisogno, come abbiamo indicato prima, di educazione, per poter mettere ordine e disciplina a quella parte irrazionale che è in grado di ascoltare la ragione e di cercare i propri desideri in modo giusto, secondo l’idea di medietà della quale abbiamo già parlato.
Il bisogno che hanno i figli di assistenza e di educazione viene sorretto dalla naturale amicizia che sorge in ambito familiare, specialmente fra i genitori e i figli. Infatti, come indica Aristotele, i genitori amano i figli come se fossero una parte di sé, e i figli possono amare i genitori quando scoprono che esistono in quanto derivano da loro. Tuttavia, sono le madri ad amare di più, perché hanno un maggiore coinvolgimento nell’esperienza della procreazione[64].

La morte come fine inevitabile del percorso vitale
Avevamo già visto come il vivente si caratterizza per tre fenomeni fondamentali: nutrizione (alla quale va associata la generazione), crescita, deperimento. Il processo della vita porta a tutti verso una fine inesorabile, la morte, preceduta, nei percorsi «normali», dall’invecchiamento. La morte si produce quando il vivente «espelle» la sua anima, quando lascia di essere animato, il che significa che rimane un qualcosa, il corpo, ma privato dell’anima[65].
La morte è un fenomeno che appartiene a tutti gli animali[66]. Si tratta di un fatto inevitabile, un evento necessario: ogni vivente, per necessità, morirà un giorno, in quanto costituito da contrari. Ciò che invece non è necessario è la modalità secondo la quale possa avvenire la morte, particolarmente in ambito umano, dove le nostre scelte possono mutare circostanze e fattori che rimandano oppure accelerano l’arrivo del momento conclusivo della propria esistenza[67]. La morte appartiene, dunque, in modo radicale all’esistenza umana, e questo permette di affermare che l’essere mortale sarebbe un «proprio», cioè, una qualificazione inerente all’uomo in quanto vivente[68]. Aristotele spiega la morte con l’idea dell’abbandono del principio vitale che risulta più facile per il fatto che col passar del tempo diminuisce il caldo; usa perfino l’immagine di una fiamma, debole e fragile nella vecchiaia, che si spegne in modo indolore quando arriva il momento finale[69].
Uno dei segni più chiari per capire se la morte sia o non sia avvenuta sarebbe la cessazione del battito cardiaco. Come osserva Aristotele, il cuore, primo organo ad essere formato nelle fasi embrionali, è anche l’organo che per ultimo smette di lavorare quando arriva la morte[70].
Alla luce dell’inevitabilità della morte, il desiderio di non morire, un desiderio presente in molti uomini, risulta «erroneo», in quanto ha come oggetto una meta irraggiungibile, un fatto impossibile[71].
Le modalità della morte sono diverse, come è già stato detto. In una classificazione preliminare notiamo due possibilità contrapposte: la morte naturale, dovuta alla specifica costituzione del proprio corpo che percorre diverse tappe fino a quella della vecchiaia; oppure, la morte violenta, dovuta a qualche causa esteriore allo stesso agente[72].
[…]

 


[1] Cfr. Fisica II 8-9, 198b10-200b8; Parti degli animali I 1, 639b11-642b4; I 2, 645a23-b23; Riproduzione degli animali I 1, 715b15-16; V 1, 778b6-14. Tuttavia, non si deve cercare sempre e per ogni cosa la sua finalità, come viene indicato in Parti degli animali IV 2, 677a15-18.
[2] Cfr. come esempio Parti degli animali II 13, 658a9; III 1, 661b24; IV 11, 691b3-4; Locomozione degli animali 2, 704b15-18; 8, 708a8-13; Riproduzione degli animali I 4, 717a14-21; V 8, 788b20-27.
[3] Cfr. Parti degli animali IV 12, 694b12-14.
[4] Il termine «metafisico» non appare in nessun’opera aristotelica; comunque si capisce in Sull’anima tale nozione, secondo quanto viene spiegato all’inizio del libro VI della Metafisica sulla «filosofia prima».
[5] Cfr. Sull’anima I 1, 403a3-b19.
[6] Cfr. Sull’anima II 1, 413a3-6; III 5, 430a10-25; Metafisica XII 3, 1070a23-26.
[7] Cfr. Riproduzione degli animali II 3, 736b26-29. Come si spiega in Sull’anima I 4, 408b19-30, l’indebolimento di certe capacità intellettive non è dovuto ad un indebolimento dell’anima, ma del corpo nel quale essa si trova. Su questa tematica e alcuni problemi ad essa connessi, cfr. R. GRASSO – M. ZANATTA, La forma del corpo vivente…, 29-37, 225-263. Come si evidenzia in questa ultima citazione, non tutti sono d’accordo su come interpretare l’intelletto aristotelico né sulla legittimità di considerarlo immortale.
[8] Cfr. Parti degli animali II 10, 656a7-8 (anteriormente citato in parte); IV 10, 686a25- 687b5; Locomozione degli animali 5, 706b5-10; Etica nicomachea X 7, 1177a13-17, 1177b30-1178a8.
[9] Alle virtù etiche, diverse dalle virtù dianoetiche (proprie o esclusive dell’anima razionale) sono dedicati numerosi passi delle opere etiche di Aristotele. Solo nell’ambito delle virtù etiche si può parlare della medietà o giusto mezzo, inteso come quel modo di agire per il bene umano in un ambito concreto di azione e secondo le circostanze e l’idiosincrasia dell’agente. Sulla dottrina della medietà, cfr. specialmente Etica nicomachea II 6-9, 1106a14-1109b26.
[10] Cfr. Etica nicomachea I 13, 1102a27-b33. Risulta importante sottolineare che la nutrizione, un fatto possibile grazie al fuoco inteso come concausa, viene sempre regolata direttamente dall’anima (la vera causa della nutrizione) e non dallo stesso fuoco (che per natura sua cresce in modo smisurato fintanto ci sia del combustibile); cfr. Sull’anima II 4, 416a9-19.
[11] Accanto ai testi prima citati sull’invecchiare come parte necessaria del percorso dei viventi, cfr. Etica nicomachea V 8, 1135a33-b2.
[12] Cfr. Etica nicomachea III 1, 1111a24-b3.
[13] Cfr. Politica I 5, 1254b20-24. La condizione umana dello schiavo non viene negata da Aristotele (cfr. Politica I 13, 1259b18-1260b7).
[14] Cfr. Politica I 2, 1252a24-34, dove si parla anche dello schiavo.
[15] Cfr. Metafisica X 9, 1058a29-b25. Approfondiamo più avanti il tema della riproduzione umana.
[16] Cfr. Politica I 12, 1259a37-b10 e alcune parti di I 13.
[17] Cfr. Etica nicomachea V 6, 1134b15-18.
[18] Cfr. Etica nicomachea VIII 12, 1162a16-33.
[19] Cfr. Riproduzione degli animali IV 3, 767b7-13; IV 6, 775a10-20. Le teorie antiche per spiegare la differenziazione sessuale sono presentate da Aristotele in Riproduzione degli animali IV 1-2, 763b20-767a35.
[20] Cfr. Riproduzione degli animali II 3, 737a28-30.
[21] Cfr. Riproduzione degli animali IV 3, 767b7-10; IV 6, 775a14-15.
[22] Cfr. Riproduzione degli animali II 1, 732a4-10. Sulla superiorità in genere del maschio rispetto alla femmina, cfr. Parti degli animali II 2, 648a12; per le motivazioni di tali idee rimandiamo a ciò che viene spiegato nella seguente sezione.
[23] Cfr. Metafisica X 9, 1058b21-24.
[24] Cfr. Simposio 206c-e.
[25] Cfr. Riproduzione degli animali II 1, 731b32-732a1; Sull’anima II 4, 415a22-b8.
[26] Cfr. il testo già citato di Politica I 2, 1252a24-34.
[27] Cfr. Riproduzione degli animali I 2, 716a2-b12; I 19, 727b31-33; I 20-21, 728a17-730a27; II 3, 737a28-30; II 4, 738b10-27; II 5, 741a6-b10; III 2, 750b3-4 (nella femmina degli uccelli esiste la materia spermatica, il che permette l’esistenza di uova sterili; sulle uova sterili, cfr. anche Ricerche sugli animali V 1, 539a32-b5); III 11, 762b2-9; IV 1, 765b6-766b27 (dove si parla della differenza fra maschio e femmina come differenza fra contrari, e viene ribadito che la femmina è incapace di dare forma al concepito, mentre il maschio dà origine allo sperma e diventa causa della forma); IV 4, 771b19-23; V 3, 784a5-7.
[28] Cfr. Metafisica XII 7, 1072b35-1073a3; XIV 5, 1092a15-17.
[29] In altre formule, Aristotele afferma che la femmina non produce uno sperma dello stesso tipo di quello prodotto dal maschio (cfr. Riproduzione degli animali I 19, 727b6-7), ma solo uno sperma inferiore (I 20, 728a26-31; II 4, 738a9-b9) il che avrebbe potuto portare alla conclusione, se Aristotele avesse avuto gli strumenti necessari, a capire che esiste veramente un gamete (sperma) femminile, ma diverso da quello maschile (cfr. una quasi affermazione di uno sperma nelle mestruazioni in Riproduzione degli animali I 20, 728b21-27). Occorre aver presente che la ricerca scientifica arrivò a conoscere l’esistenza degli ovuli soltanto nel XIX secolo, con le ricerche di Karl Ernst von Baer.
[30] Cfr. Riproduzione degli animali I 19, 726a28-727b33; Parti degli animali IV 10, 689a11-16. Una sfumatura diversa si può leggere in Ricerche sugli animali (I 3, 489a10-13; X 2-7, 634b25-638a10), dove si parla dello sperma prodotto dalla donna, ma con alcuni dubbi e perplessità di fronte all’esistenza di questo sperma femminile, soprattutto alla fine. Dobbiamo segnalare che non è chiaro se i libri VII, IX e X di Ricerche sugli animali siano stati scritti dallo stesso Aristotele. Il mondo greco, specialmente nei trattati ippocratici, aveva ipotizzato l’esistenza di semi maschili e femminili, semi che tramite la loro mescolanza sarebbero in grado di formare gli embrioni. Tale idea si trova anche in autori come Alcmeone e Anassagora. Cfr. E. SÁNCHEZ, in ARISTÓTELES, Reproducción de los animales, Gredos, Madrid 1994, 84, n. 88.
[31] Cfr. Riproduzione degli animali I 18, 722b10-17; 724a10-13: il fatto che la femmina non produca lo sperma non implica affermare che essa non sia anche responsabile della riproduzione, sebbene in un modo diverso dal maschio.
[32] Cfr. Riproduzione degli animali I 19, 726a34-b1.
[33] Cfr. Riproduzione degli animali I 20, 729a21-33; I 21, 730a24-28. Per Aristotele, infatti, la materia è un elemento essenziale perché sia possibile la generazione, come viene indicato in Parti degli animali II 1, 646a31-b10: l’uomo genera un altro uomo (come accade anche nelle piante) grazie a certa materia che è presente in ognuno, ma sempre secondo l’essenza. Sulla formula «l’uomo genera l’uomo», cfr. Parti degli animali I 1, 640a25; Metafisica VII 7, 1032a22-25; VII 9, 1034b2; cfr. anche Sulla generazione e corruzione II 6, 333b7-9.
[34] Per Aristotele, secondo N.M. Ford, «il bambino è frutto solo del maschio» (N.M. FORD, Quando comincio io? Il concepimento nella storia, nella filosofia e nella scienza, traduzione di Rodolfo Rini di When did I begin? Conception of the human individual in history, philosophy and science (1988), Baldini&Castoldi, Milano 1997, 63), il che non corrisponde a quanto abbiamo detto, perché anche la causa materiale ha un ruolo di grande rilevanza nella riproduzione umana.
[35] Cfr. Riproduzione degli animali III 11, 762a18-b12.
[36] Cfr. Riproduzione degli animali I 21, 729a34-730a28; II 1, 735a5-28; II 3, 737a16-18.
[37] L’idea viene espressa in modo abbastanza chiaro in Metafisica IX 7, 1049a13-18. Per un commento di questo passo, cfr. R. LUCAS, Antropologia e problemi bioetici, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 79-82, il quale riprende alcune idee di E. Berti.
[38] Cfr. Sull’anima II 5, 417a21-b1 e ciò che diremo più avanti. Per ulteriori riflessioni sull’embriologia di Aristotele, cf. K.L. FLANNERY, «Applying Aristotle in contemporary embryology», The Thomist 67 (2003), 249-278.
[39] Cfr. Riproduzione degli animali I 17-18, 721b6-724a13. Sulla pangenesi nell’antichità, cfr. E. SÁNCHEZ, Introducción a ARISTÓTELES, Reproducción de los animales, 32-33 e 84-85, n. 91, che ricorda come anche Darwin difese questa strana teoria, che in certo modo trova il suo precursore in Anassagora.
[40] Cfr. Ricerche sugli animali V 14, 544b22-545b31; VII 1, 581a13-b3.
[41] Cfr. Riproduzione degli animali I 18, 725b30-726a6; II 7, 746b16-747a22.
[42] Cfr. Ricerche sugli animali VII 1, 582a26-28; Politica VII 16, 1335a6-35.
[43] Cfr. Politica VII 16, 1334b29-1335a35 e 1335b26-35.
[44] Cfr. Ricerche sugli animali V 8, 542a26-27.
[45] Cfr. Politica VII 16, 1335a35-b12.
[46] Cfr. Riproduzione degli animali I 22, 730b9-25.
[47] Cfr. Riproduzione degli animali I 18, 724b17-18; I 20, 728b34-35; II 3, 737a30-34.
[48] Cfr. Riproduzione degli animali II 4, 738b21-739a1. In Metafisica V 24, 1023b3-5, viene indicato che il figlio procede dal padre e dalla madre.
[49] Cfr. Riproduzione degli animali I 22, 730b2-9.
[50] Cfr. Ricerche sugli animali I 5, 489b10-13; Riproduzione degli animali II 1, 732a25-b2.
[51] Cfr. Riproduzione degli animali II 4, 439b33-740a23.
[52] Cfr. Riproduzione degli animali II 1, 733b1-23.
[53] Cfr. Riproduzione degli animali II 1, 733b31-734a16. In certo modo, Aristotele fa propria quella posizione biologica che oggi è denominata come epigenesi.
[54] Cfr. Riproduzione degli animali II 4, 740a3-13; Sulla giovinezza e la vecchiaia III 468b28-31: negli animali dotati di sangue, ciò che si forma per primo è il cuore oppure qualcosa di analogo al cuore. Per Aristotele il cuore sarebbe l’organo centrale e dirigente negli animali dotati di esso, e non il cervello (come invece avevano difeso Platone e altri pensatori del tempo). Sulla centralità del cuore, cfr. Parti degli animali, specialmente III 4, 665a33-667b10 (dove perfino si dice che il cuore sarebbe come una specie di essere vivente all’interno degli animali che ce l’hanno, 666b16-17).
[55] Cfr. Parti degli animali III 4, 665a33-b2: nelle uova si può vedere, in alcuni casi, il cuore già al terzo giorno, e appare precocemente anche in altri esseri viventi, come si osserva in alcuni embrioni abortiti.
[56] Per una corretta comprensione della teoria dell’«animazione successiva», secondo la formulazione che di essa fece san Tommaso d’Aquino, cfr. J.A. IZQUIERDO LABEAGA, «San Tommaso, maestro di bioetica?…», 9-30.
[57] Cfr. Riproduzione degli animali II 3, 736a28-737a17.
[58] Cfr. Riproduzione degli animali V 1, 778b33-779a2. La teoria dell’animazione successiva ha trovato diversi difensori in tempi moderni, come fa vedere N.M. FORD, Quando comincio io?…, 95-97.
[59] Su questa tematica secondo la moderna ricerca scientifica e la riflessione filosofica, fra la sterminata bibliografia che potrebbe essere citata cfr. R. LUCAS, Antropologia e problemi bioetici, 73-118; PONTIFICIA ACADEMIA PRO VITA, L’embrione umano nella fase del pre-impianto. Aspetti scientifici e considerazioni bioetiche, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006; PONTIFICIA ACADEMIA PRO VITA, Identità e statuto dell’embrione umano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998.
[60] Cfr. Ricerche sugli animali VII 3, 583b3-9. Abbiamo già detto che non tutti gli studiosi accettano l’autenticità del libro VII di quest’opera.
[61] Troviamo tale errore, per esempio, in N.M. FORD, Quando comincio io?…, 65: «Noi sappiamo che Aristotele era in errore quando faceva risalire l’inizio dell’esistenza del maschio al quarantesimo giorno e quello della femmina al novantesimo».
[62] In Politica VII 16, 1335b12-19, Aristotele offre alcuni consigli concreti per le donne in stato di gravidanza, in ordine a garantire per gli embrioni il miglior ambiente possibile per la loro crescita, in un modo somigliante alle indicazioni date da Platone per le donne incinte.
[63] Cfr. Riproduzione degli animali V 1, 779a23-25; Del sonno e della veglia 3, 457a4-7.
[64] Cfr. Etica nicomachea VIII 12, 1161b16-30.
[65] Cfr. Sull’anima II 1, 412b25-28.
[66] Cfr. Sulla respirazione XVIII 478b22-24.
[67] Cfr. Metafisica VI 3, 1027a34-b16.
[68] Cfr. Topici V 7, 137a35-b1.
[69] Cfr. Sulla respirazione XVII-XVIII, 479a7-b7. In Retorica I 5, 1361b13-14, 27-34 si dice che la bellezza (in senso di virtù) della vecchiaia consiste nell’essere in grado di resistere le fatiche proprie dell’età e nel vivere liberi dai dolori.
[70] Cfr. Riproduzione degli animali II 5, 741b15-24.
[71] Cfr. Etica nicomachea III 2, 1111b19-23. Il testo, a mio avviso, non va interpretato come una negazione dell’immortalità dell’anima, ma come una constatazione dell’inevitabilità del morire. Qualche affermazione similare si trova nella Lettera VII (334e) di Platone, dove si dice che nessun uomo è nato immortale.
[72] Cfr. Sulla respirazione XVII, 478b24-28. Sarebbe anche violenta la morte come scelta suicida. Aristotele formula un giudizio negativo, di condanna, sul suicidio oppure sui comportamenti rischiosi che implicano il desiderio di morire, in quanto essi implicano una mancanza di coraggio e una certa ingiustizia contro la città; cfr. Etica nicomachea III 7, 1116a12-15; V 11, 1138a6-14 (torneremo su questo passo più avanti).