ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 41-42.
Sulla biografia di Arato non si hanno molte notizie, nonostante circolassero in antico ben quattro vitae, derivate dal commentatore Boeto di Sidone. Nativo di Soli in Cilicia, si trasferì da giovane ad Atene, dove frequentò l’ambiente degli Stoici, che lasciò nella sua formazione una significativa impronta. Nel 276 da Atene si trasferì a Pella, in Macedonia, alla corte di Antigono II Gonata (276-239 a.C.), sovrano di notevole cultura e simpatizzante con il pensiero stoico, filosofo e letterato egli stesso. A Pella si trovavano altri intellettuali di prestigio, come il poeta tragico ed elegiaco Alessandro Etolo, attivo anche presso la Biblioteca di Alessandria intorno al 280 a.C.; il filosofo e poeta satirico Timone di Fliunte (320-230 a.C.); il filosofo Menedemo di Eretria, fondatore della scuola di pensiero che portava il nome della sua città natale. Molta della produzione letteraria di Arato nacque proprio in questo contesto culturale, e, però, buona parte di essa è andata perduta: come la raccolta Κατὰ λεπτόν («Argomenti leggeri»), che conteneva anche delle trenodie per defunti importanti (Ἐπικήδεια), degli epigrammi (dei quali almeno due si sono conservati in Anth. Pal. XI 437 e XII 129) e vari inni. In occasione della vittoria di Antigono sui Galati a Lisimachia (277 a.C.) o delle nozze del sovrano con Fila, figlia di Seleuco, avvenute l’anno precedente, Arato compose un Inno a Pan (un frammento del quale va forse identificato con SH 958: vd. Barigazzi 1974), andato perduto. Inoltre, il poeta scrisse delle ἠθοποιίαι ἐπιστολαί (SH 106), «lettere sulla formazione del carattere»; i suoi scritti didascalici furono significativi per la storia della letteratura antica: restano cinque titoli di opere astronomiche, che almeno parzialmente citano sezioni dei Φαινόμενα (Fenomeni), a cui si aggiunge un Κανών, in cui, fra l’altro, si descrivono le orbite dei pianeti attraverso calcoli matematici (cfr. Leonida di Taranto, Anth. Pal. IX 25, 3). Di Arato si conoscono anche sette titoli di testi che trattano di anatomia e farmacopea: si conserva un frammento sulle suture craniche. Di questi libri, tuttavia, la Ὀστολογία (SH 97) non era un’opera sull’anatomia ossea, ma più probabilmente un trattatello sulla negromanzia tramite gli scheletri.
Antigono II Gonata e Fila. Affresco, ante 79 d.C. dalla domus di Fannio Sinistore a Boscoreale.
Secondo le vitae I e III, Arato lasciò poi la Macedonia per soggiornare qualche tempo in Siria, presso Antioco I Sotere, fratello di Fila, dove attese alla revisione critica dell’Odissea e, probabilmente, anche dell’Iliade. Tornato in Macedonia vi rimase fino alla morte, avvenuta forse poco prima di quella del suo protettore Antigono Gonata, scomparso nel 240/239.
Antigono II Gonata. Dramma, zecca macedone ignota 277-239 a.C. ca. AE 6,26 g. Obverso: Pan innalza un trofeo militare (monogramma A – B).
L’opera maggiore di Arato, quella per cui i contemporanei lo considerarono un novello Esiodo, fu un poema in esametri, i Fenomeni, giunto fino a noi con i commenti di vari grammatici. L’opera, che forse fu commissionata da Antigono Gonata, è un trattato di astronomia; il suo autore ebbe come modello gli scritti del matematico Eudosso di Cnido (408-355 a.C.), discepolo di Platone e di Archita, filosofo pitagorico e matematico di Taranto (400 ca. a.C.).
London, British Library. Ms. Harley 647 (IX sec.), Arato di Soli, Phaenomena, ff. 10v-11r. Le costellazioni dei Pesci e di Perseo.
Il poema di Arato si apre con un’invocazione a Zeus e descrive poi la volta stellata del cielo, distinguendo le costellazioni dei due emisferi. Successivamente, il poeta espone la teoria dei circoli che dividono la sfera celeste, e il sorgere e il tramontare delle costellazioni. L’ultima parte dell’opera è dedicata alla descrizione dei segni premonitori delle variazioni meteorologiche, attraverso l’osservazione del mondo naturale e del comportamento degli animali. Per il suo contenuto, in alcuni manoscritti questa sezione del poema, che fu poi tradotta in esametri da Cicerone, porta il titolo di Pronostici attraverso i segni naturali. I contemporanei di Arato espressero giudizi molto lusinghieri sulla sua opera che, pur avendo il suo archetipo in Esiodo, si riallacciava anche al più tardo filone didascalico di Xenofane, Parmenide ed Empedocle. In particolare, ne fu molto ammirata la λεπτότης, la «sottigliezza»; un apprezzamento che rientra perfettamente nel gusto dell’epoca e che aveva la sua massima espressione in Callimaco, autore di un epigramma altamente laudativo nei confronti del poeta (Anth. Pal. IX 507; cfr. anche Leonida, Anth. Pal. IX 25). Tra l’altro, come si è ricordato, Arato stesso aveva intitolato Κατὰ λεπτόν una delle sue antologie poetiche, nome che sembra alludere proprio a questa qualità, quasi come se fosse la sua personale σφραγίς; a conferma di ciò pare essere anche l’acrostico λεπτή in Arat. 783-787. Gli antichi celebravano di Arato anche la dedizione al lavoro e le notti insonni, la sua profonda dottrina, la ripresa stilistica di Esiodo, le competenze didascaliche, ma anche la δύναμις di filosofo naturale (frutto, cioè, della sua visione stoica del mondo), che a dispetto di altri poeti-astronomi doveva essere una sua caratteristica esclusiva (cfr. Boeto di Sidone, Scholia in Aratum vetera, p. 12 f. Martin).
«Atlante Farnese» che regge il globo celeste. Statua, marmo, copia romana di III sec. d.C. da originale ellenistico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Già prima di lui, un allievo di Eudosso, Cleostrato di Tenedo, era stato il primo a mettere in versi le proprie conoscenze astronomiche. Altri Fenomeni – in prosa o in poesia – furono composti anche dal già menzionato Alessandro Etolo, ma anche da Ermippo di Smirne (III secolo), da Egesianatte di Alessandria (II secolo) e da Alessandro di Efeso (I secolo a.C.). Rispetto a questa tradizione, comunque, il poema di Arato riscosse un subito successo, al punto che, a scapito delle opere omonime e dell’astronomia matematica (sic), divenne ben presto un elemento fondamentale della ratio studiorum successiva: in effetti, il papiro più antico che conserva i vv. 480-494, P. Hamb. 121, risalente alla prima metà del II secolo d.C., rivela proprio il suo impiego come testo scolastico (cosa che contribuì al fiorire di un’intensa attività di commento).
Paris, Bibliothèque nationale de France. Ms. lat. 8878. Beatus de Liebana, Commentaria in Apocalypsin (ante 1072), f. 139v. Cielo stellato.
Per il lettore moderno, tuttavia, risulta difficile condividere tanto entusiasmo; però è innegabile che nel mondo antico Arato ebbe una straordinaria fortuna, come dimostra il gran numero di scienziati e di grammatici che lo lo studiarono: il più celebre di tutti fu probabilmente Ipparco di Nicea, uno dei più grandi astronomi greci, vissuto nel II secolo a.C. e autore di un dotto commento in tre libri sui Fenomeni. Inoltre, dal I secolo a.C. al IV d.C., da Varrone Atacino a Cicerone, da Germanico a Manilio e a Festo Avieno, anche la cultura romana si impegnò, con esiti diversi, nella traduzione dell’opera, mentre illustri poeti come Virgilio (Buc. III 60, Georg. I) e Ovidio (Fas. III 105-110) attinsero al testo arateo, com’è dimostrato da evidenti reminiscenze di esso. Perfino l’apostolo Paolo, nel discorso Areopagitico (Act. 17, 28-29) citò il v. 5 del proemio, senza precisare il nome del poeta (ὡς καί τινες τῶν καθ’ ὑμᾶς ποιητῶν εἰρήκασιν, «come hanno detto alcuni dei vostri poeti»), per dimostrare che non è necessario cercare Dio lontano da noi, dal momento che tutti «viviamo, ci muoviamo e siamo in Lui, come hanno detto alcuni dei vostri poeti: infatti, noi siamo sua stirpe (τοῦ γὰρ καὶ γένος ἐσμέν)».
Andreas Cellarius, Planisphaerium Arateum. Illustrazione, 1661, da Harmonia macrocosmica.
Una così vasta fortuna dell’opera di Arato, che si protrasse, attraverso le traduzioni latine, durante il Medioevo e il primo Rinascimento, fu probabilmente dovuta al fatto che il poema vide la luce in un’epoca in cui non esisteva quella distinzione fra arte e scienza per noi rigorosa e irrinunciabile; in conseguenza di ciò, esso poté essere apprezzato dal pubblico di età ellenistica come un’illustre testimonianza della poesia erudita che, riallacciandosi all’antica tradizione esiodea, si arricchiva del gusto della ricerca rara e minuziosa, tipico dei tempi nuovi, ed esponeva, con abbondanza e varietà di informazioni e con limpida eleganza di stile, il tema dell’astronomia, da sempre carico di grande attrattiva.
Alessandro nella zuffa contro i Persiani (ill. di R. Hook).
Intanto i generali di Dario avevano raccolto un grande esercito e lo avevano schierato al passaggio del fiume Granico: si era alle porte dell’Asia ed era quindi necessario lo scontro per potere entrare e affermare la supremazia. Ma la maggior parte degli ufficiali macedoni temevano per la profondità del fiume, l’irregolarità e l’asprezza della riva contrapposta, cui bisognava di necessità giungere combattendo, e alcuni che erano d’avviso che si dovesse rispettare quanto era nella tradizione per quel mese (infatti, nel mese di Daisio i re macedoni non erano soliti portare l’esercito fuori dalla patria); Alessandro ovviò a questa difficoltà ordinando di chiamare quel mese il secondo Artemisio, e quando poi Parmenione non volle che si attaccasse perché ormai era tardi, egli si buttò nella corrente con tredici squadroni di cavalieri, affermando che veniva disonorato l’Ellesponto se ora egli, dopo averlo attraversato, avesse avuto paura del Granico.
Davvero parve che egli agisse come un pazzo guidato da sconsideratezza più che da razionalità nel muovere contro i dardi avversari verso luoghi scoscesi, presidiati da fanti e cavalieri, in mezzo a una corrente che lo trascinava via sommergendolo. Persistette tuttavia nella volontà di attraversare e raggiunse a stento e con fatica quei luoghi che erano zeppi d’acqua e sdrucciolevoli per il fango; ma subito fu costretto a un confuso corpo a corpo con gli avversari prima di poter disporre i suoi, che attraversavano il fiume, in un certo ordine. I nemici, infatti, gli si buttavano addosso gridando e, accostando i cavalli ai cavalli, ricorrevano alle lance, e quando queste si fossero spezzate alle spade. Molti puntavano dritto su di lui (lo si riconosceva per lo scudo e il pennacchio dell’elmo ai lati del quale stava una penna di straordinaria grandezza e candore); raggiunto da un giavellotto al lembo inferiore della corazza, non fu però ferito, e quando Resace e Spitridate, comandanti persiani, gli si avventarono contro contemporaneamente, evitò uno dei due e, buttatosi su Resace, che era vestito di corazza, su di essa infranse la lancia e passò poi al pugnale. I due caddero a terra avvinghiati e Spitridate, di lato, con il cavallo ritto sulle zampe posteriori, egli steso ritto sul cavallo, menò giù un fendente con la scure barbarica: spezzò il cimiero con una delle penne, mentre l’elmo a stento resistette al colpo, tanto che il filo dell’ascia sfiorò i primi capelli. Mentre Spitridate levava l’arma per un secondo colpo, Clito il Nero lo prevenne e lo trapassò da parte a parte con la lancia. Nello stesso tempo cadde anche Resace, colpito dalla spada di Alessandro. Mentre la cavalleria era impegnata in questo violento scontro, la falange dei Macedoni attraversò il fiume e le fanterie vennero alle mani. I nemici, tuttavia, non resistettero a lungo né vigorosamente, ma disordinatamente fuggirono, eccetto i mercenari greci che si raccolsero su un colle e chiesero ad Alessandro di garantire loro la vita. Ma egli, procedendo per impulso più che con razionalità, caricò contro di loro e perse il cavallo trafitto da un colpo di spada al fianco (non era Bucefalo, ma un altro cavallo); e la maggior parte dei Macedoni, che caddero o furono feriti, proprio lì incontrò il proprio destino, perché lì venne a contatto con uomini che sapevano combattere e avevano perso le loro speranze.
Si dice che tra i barbari siano morti ventimila fanti e duemilacinquecento cavalieri; dei soldati di Alessandro, Aristobulo riferisce che ne caddero complessivamente trentaquattro, dei quali nove fanti, e per essi Alessandro ordinò che si erigessero statue di bronzo, realizzate da Lisippo. Volendo rendere partecipi della vittoria gli Elleni, mandò agli Ateniesi in particolare trecento scudi tolti ai prigionieri e, in generale, sul resto del bottino ordinò che si incidesse questa orgogliosissima epigrafe: «Alessandro, figlio di Filippo, e i Greci (tranne gli Spartani) le conquistarono ai barbari che abitano l’Asia». Alla madre, eccettuati pochi pezzi, mandò i vasi e la porpora e quanto di prezioso aveva sottratto ai Persiani.
di F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 2. Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004, pp. 513-515; Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, a cura di G. PORTA, Milano 2011, pp. 1118-1125.
Nella Roma imperiale Alessandro ispirò pose e comportamenti dei vari principi. Nelle scuole di retorica i futuri oratori o avvocati apprendevano repertori di exempla e schemi argomentativi pronti per l’uso, cioè utilizzabili in varie occasioni. La figura del giovane sovrano macedone rientrava negli exempla di patientia, constantia, amicitia, clementia, iracundia, superbia e, soprattutto, cupiditas gloriae. Rappresentava anche, come nel passo di seguito proposto, il tipo del temerario, dell’individuo irrefrenabilmente vitale. Inoltre, la sua personalità – così ricca di virtù e difetti quale emerge dagli «storici di Alessandro» e dalle Historiae di Curzio Rufo – era un modello per la descrizione di tipi umani dalla psicologia complessa, romanticamente contraddittoria, incline a concepire disegni grandiosi e folli. Alessandro fu l’exemplum della magnanimitas (in greco μεγαλοψυχία, letter. «grandezza d’animo»), una qualità umana suscettibile di duplice valutazione morale: qualità positiva in quanto «nobiltà e sublimità d’animo», ma anche vizio da punire e indicare a modello negativo come «ambizione», «vanità», «assenza di misura», «empietà» in quanto incapacità di mantenersi nei limiti dell’umano[1].
Alessandro Magno. Affresco pompeiano, I sec. a.C., dalla Casa dei Vettii. London, The Bridgeman Art Library.
[26] Et, hercule, iuste aestimantibus[2] regem liquet bona naturae eius fuisse[3], vitia vel fortunae vel aetatis[4]. [27] vis incredibilis animi, laboris patientia propemodum nimia[5], fortitudo non inter reges modo excellens[6], sed inter illos quoque, quorum haec sola virtus fuit, [28] liberalitas saepe maiora tribuentis[7], quam a dis petuntur[8], clementia in devictos – tot regna aut reddita, quibus ea ademerat bello, aut dono data[9] –, [29] mortis, cuius metus ceteros exanimat[10], perpetua contemptio, gloriae laudisque ut iusto maior cupido, ita ut iuveni et in tantis sane remittenda rebus[11]; [30] iam pietas erga parentes[12], quorum Olympiada immortalitati consecrare decreverat, Philippum ultus erat, [31] iam in omnes fere amicos benignitas[13], erga milites benevolentia, consilium par magnitudini animi[14] et, quantam vix poterat aetas eius capere, sollertia[15], [32] modus[16] immodicarum cupiditatum, veneris[17] intra naturale desiderium[18] usus nec ulla nisi ex permisso voluptas – ingenii profecto dotes erant. [33] illa fortunae[19]: dis aequare se et caelestes honores accersere et talia suadentibus oraculis credere et dedignantibus venerari ipsum[20] vehementius quam par esset[21] irasci, in externum habitum[22] mutare corporis cultum, imitari devictarum gentium mores, quos ante victoriam spreverat. [34] nam iracundiam et cupidinem vini sicuti iuventa inritaverat, ita senectus mitigare potuisset[23]. [35] fatendum est tamen, cum plurimum virtuti debuerit, plus debuisse fortunae[24], quam solus omnium mortalium in potestate habuit[25]. quotiens illum a morte revocavit! quotiens temere in pericula vectum perpetua felicitate[26] protexit! [36] vitae quoque finem eundem illi quem gloriae statuit. Expectavere eum fata, dum Oriente perdomito aditoque Oceano, quicquid mortalitas capiebat[27], impleret.
E, per Ercole, a chi giudica il sovrano con equità, appare chiaro che le virtù furono peculiarità della sua natura, i difetti imputabili o alla sorte o all’età. Un’incredibile forza d’animo, un coraggio eccezionale non solo fra i re, ma anche tra quelli che ebbero quest’unica prerogativa, una generosità che sovente lo portava a concedere più di quanto si chiede agli dèi, la clemenza per i vinti – tanti i regni restituiti a chi li aveva strappati in battaglia, o elargiti in dono –, un costante disprezzo della morte, il cui terrore raggela chiunque altro, una smania di gloria e di fama tanto superiore al lecito quanto giustificabile in un giovane, e capace per di più di così grandi imprese; inoltre, la devozione ai genitori: Olimpiade aveva stabilito di consacrarla all’immortalità, Filippo era stato vendicato, e ancora, la generosità verso quasi tutti gli amici, l’affetto per i soldati, una padronanza delle situazioni pari alla grandezza del suo animo, un’accortezza che ben di rado un’età come la sua poteva consentire, il dominio dei desideri smodati, la passione amorosa contenuta entro il bisogno naturale e nessun piacere che non fosse tra quelli leciti – queste, sicuramente, le sue doti innate. Il resto va imputato alla fortuna: eguagliarsi agli dèi e pretendere onori divini e credere agli oracoli che a ciò lo inducevano e adirarsi in modo più irruente del lecito con chi rifiutava di venerarlo, mutare il proprio aspetto secondo il costume straniero, assumere le usanze dei popoli sconfitti che, prima di vincere, aveva disprezzato. Riguardo poi alla propensione all’ira e alla sua passione per il vino, come era stata la giovinezza ad acuirle, così la vecchiaia avrebbe potuto mitigarle. Bisogna, tuttavia, riconoscere che, se moltissimo doveva alle sue qualità, di ancor più era debitore alla fortuna: lui solo, infatti, fra tutti i mortali ad averla in suo potere. Quante volte lo ritrasse dalla morte! Quante altre, mentre s’era temerariamente avventurato in mezzo ai pericoli, lo protesse assicurandogli sempre il successo! Essa fissò pure uno stesso termine per lui e per la sua gloria. I fati lo attesero sino a che, domato interamente l’Oriente e raggiunto l’Oceano, non avesse realizzato tutto ciò che era consentito alla sua natura mortale.
Nell’immaginario dell’antichità e del Medioevo Alessandro era, con la sua μεγαλοψυχία, una figura ambigua e le storie su di lui rispondevano a due bisogni opposti, ma complementari. «Da una parte la sua vita realizzava tanti dei desideri dell’uomo. Alessandro appariva come l’unico essere umano che era stato prossimo a raggiungere un’esistenza senza limiti: aveva oltrepassato ogni confine noto alle scoperte geografiche e trovato reami d’ogni tipo per rivendicarli a sé. Regni storici, certo, ma anche, nelle leggende, i cieli e le profondità dell’oceano; perfino, quasi, il Paradiso terrestre […]. D’altra parte, alle storie di inebrianti fantasie e di aspirazioni realizzate venivano continuamente contrapposti i racconti d’ammonimento, gli exempla, gli avvertimenti: Alessandro era piccolo, spesso debole, spaventato, pieno di difetti, a volte persino pusillanime. E anche questo aspetto era benvenuto, perché era rassicurante, perché faceva apparire l’eroe non essenzialmente diverso da noi. Se il mito avesse proiettato esclusivamente l’immagine di un superuomo, non avrebbe avuto gran significato per l’uomo comune […] I racconti su Alessandro, quindi, appagavano i desideri del sogno e il senso di sicurezza della veglia; potevano stimolare un modo avventuroso di vedere le cose, ma anche un atteggiamento moralmente prudente, forse persino un eccesso di virtù»[28].
Benedetto Antelami e allievi, La leggenda del volo di Alessandro. Bassorilievo, pietra, fine XII-inizi XIII sec. dalla Torre di destra. Fidenza, Duomo.
Alessandro, simbolo della tragicità del potere regale
«La persona di Alessandro è per Curzio Rufo un segno di contraddizione. Ora rispetta e onora la famiglia di Dario e ne piange la morte, ora incendia Persepoli in preda al furore bacchico; ora esalta la fedele amicizia dei suoi generali, ora li fa trucidare, dominato dal sospetto. Manda a morte un amico, e poi lo piange in preda al rimorso. In bilico fra virtus e fortuna, ma anche fra moderazione e smodata ambizione, supera ogni mortale eppure pecca pretendendo onori divini. Insomma, Alessandro incarna la tragicità del potere regale: può tutto, e perciò ogni suo gesto si fa simbolo supremo, non per quello che è, ma per quello che rappresenta sulla gran scena del mondo. Quale che fosse l’intenzione di Alessandro, è lo sguardo dei sudditi e dei posteri (del pubblico) che fissa nella memoria i suoi detti e i suoi fatti, li riempie di significato: proprio come accadeva agli imperatori sulla scena non meno «tragica» e non meno intensa a Roma. Da questo oscillare fra due piani, la storia narrata di Alessandro e l’attualità presupposta dell’impero romano, viene l’ispirazione di Curzio Rufo e il fascino delle sue pagine dove non è mai il fatto che conta, ma l’exemplum, e perciò tanto più vividi devono farsi i colori del racconto, sviluppando ogni episodio in grandi scene, ogni battuta in una declamazione»[29]
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Note:
[1] Tutto un filone moralistico della letteratura antica e medievale, costituito da autori come Seneca, Curzio Rufo, Giovanni di Salisbury e molti altri, «rilevò nelle coppie sinonimiche magnanimitas-ambitio, fortitudo–temeritas, le basi lessicali di un complesso reticolo semantico che presiede all’interpretazione in chiave etica (e, quindi, alla condanna) della μεγαλοψυχία di origine aristotelica: qualità positive in quanto “nobiltà e sublimità d’animo”, ma anche vizi da punire e indicare a modello negativo come “ambizione” e “vanità”» (P. Boitani, C. Bologna, A. Cipolla, M. Liborio [eds.], Alessandro nel Medioevo occidentale, Verona 1997, p. 648).
[2]iuste aestimantibus: dativo di relazione, «a chi giudica… con equità». Per una considerazione simile cfr. si vere aestimare Macedonas… volumus di IV 16, 33. L’inciso di questo passo – analogamente si esprime Arr. Anab. VII 29, 1 –, dove la voce del narratore pare coincidere con le valutazioni dell’autore, tenderebbe, secondo la critica più recente, a riequilibrare i giudizi negativi, o particolarmente severi, che su Alessandro circolavano ai tempi di Curzio e dei quali si trova eco, ad esempio, presso Justin. XIII 1, 7; Val. Max. IX 5 ext. 1. La valutazione sull’eroe macedone, pertanto, deve essere obiettiva e non negativa a priori, a differenza di una tradizione storiografica tendenziosa, che esprimeva critiche severe verso Alessandro. Curzio Rufo presenta, a questo punto, secondo il modello delle scuole di retorica, il giudizio finale sul suo personaggio, seguendo lo schema della contrapposizione virtù-fortuna. In altri passi dell’opera è evidente l’influsso delle Suasoriae di Seneca il Vecchio, che forse l’autore aveva letto. Del resto, Alessandro rientrava negli exempla di patientia, constantia, amicitia, clementia, iracundia, superbia e, soprattutto, cupiditas gloriae che il retore Valerio Massimo aveva proposto pochi anni prima. Lo stile di Curzio Rufo è molto vicino al modello liviano, per la facile scorrevolezza di cui dà prova, ma risente comunque della influenza innegabile della retorica di età imperiale.
[3]bona… fuisse: «le virtù furono peculiarità della sua natura». Cfr. ingentia animi bona di V 7, 1: si tratta di una consonanza importante del carattere del Macedone, osservando però come tutte le sue virtù venivano sminuite dalla sfrenata passione per il vino. Dunque, lo storico attribuisce le virtù al carattere di Alessandro, i vizi, invece, all’immenso potere raggiunto dal personaggio e alla sua età ancora giovane, non temperata dalla saggezza della maturità.
[4] Quanto al concetto qui sotteso, e cioè la degenerazione dell’indole naturale a causa degli accidenti della vita, si tratta di un topos piuttosto ricorrente, e non solo nel mondo antico, che può farsi risalire all’epica omerica e, nell’ambito almeno della storiografia, a Hdt. III 80, 3.
[5]laboris… nimia: cfr. laboris ultra fidem patiens in Suet. Iul. 57; una delle tante analogie tra Alessandro e Cesare.
[6] Cfr. illam indolem, qua omnes reges antecessit di V 7, 1.
[7]liberalitas… tribuentis: «una generosità che sovente lo portava a concedere più di quanto si chiede agli dèi». La liberalitas è una qualità morale che si trova esaltata già nelle commedie di Terenzio, all’interno di una visione della vita improntata all’humanitas; in epoca imperiale, essa era richiesta ovviamente al princeps, insieme alla clementia in devictos, di cui Alessandro ha dato prova più volte: ragion per cui l’imperatore Adriano le conferì il crisma dell’ufficialità (cfr., oltre alla documentazione numismatica e a CIL VI 972, Hist. Aug. Hadr. 7, 8: incrementum liberalitatis adiecit; 10, 2; 17, 7). La clemenza è l’atteggiamento di generale benevolenza verso i sudditi, che tradizionalmente la trattatistica greca attribuiva ai regnanti, richiesta a chi esercitava il potere. Alessandro si dimostrò clemente in particolar modo nei confronti della madre di Dario, Sisigambi, che, sopravvissuta alla distruzione della sua famiglia, si lasciò invece morire di dolore alla notizia della morte dell’eroe.
[9] Cfr. hostibus victis regna reddiderat a X 1, 41.
[10] Sono, queste ultime, tra le doti che vengono solitamente attribuite ai grandi uomini: si vd., per tutti, Cic. rep. 5, 9: quae virtus fortitudo vocantur, in qua est magnitudo animi, mortis dolorisque magna contemptio; Hort. fr. 99: magnitudo animi, patientia laborum, mortis dolorumque comtemptio.
[11]gloriae… rebus: «una smania di gloria e di fama tanto superiore al lecito quanto giustificabile (remittenda) in un giovane, e capace per di più di così grandi imprese».
[12]pietas erga parentes: «la devozione ai genitori». Il concetto di pietas è uno degli elementi culturali portanti del mondo latino; basti pensare al pius Enea: quindi, l’attribuire tale qualità morale ad Alessandro equivale a farlo sentire particolarmente vicino alla sensibilità romana. Cfr. IX 6, 26. Sulla devozione di Alessandro per la madre, in particolare, un tema caro a Curzio e che gli consente di inserire tale qualità come attestazione di pietas erga parentes nel catalogo post mortem delle virtù e dei vizi del Macedone, si vd. V 2, 22; VII 1, 12, e VIII 5, 17. Se, però, la pietas verso la madre è costante e innegabile nel corso dell’opera, non altrettanto lineare Curzio rappresenta l’atteggiamento di Alessandro nei confronti del padre Filippo: anzi, sono la maggioranza i passi dai quali, chiaramente o in trasparenza, si evince la conflittualità con il genitore (si vd., a favore del padre, anche III 10, 7; IV 15, 8; contraIV 10, 3; VI 11, 33; VII 1, 6; VIII 1, 24-26, 36 e 52; VIII 7, 13; X 2, 23).
[13]benignitas: «bontà, generosità». Curzio, che talora si fa cogliere in contraddizione, questa volta ha opportunamente moderato l’esaltazione di tale virtus inserendo l’avverbio fere tra omnes e amicos: come si potrebbero, infatti, dimenticare episodi come il processo solamente indiziario contro Filota e la sua condanna a morte (cfr. VI 7–11).
[14] Per concetti del genere, ben attestati specie nelle opere di retorica, si vd. Cic. Phil. 11, 28: pari magnitudine animi et consili praeditus; ad fam. IX 14, 7; XV 4, 5; ad Att. XIV 17a, 7; Liv. III 19, 3.
[15]sollertia: «abilità, perizia». I sostantivi scelti dall’autore per illustrare le qualità di Alessandro presentano un uomo dall’indubbio carisma, offuscato però da alcune scelte politiche negative, che sono illustrate nei paragrafi immediatamente successivi a questi, in cui lo storico parla dei vitia dell’eroe.
[16]modus: «controllo». Una delle contraddizioni curziane, e/o delle sue fonti, nel tratteggiare la figura del Macedone; cfr., infatti, V 7, 1; VI 6, 1; VIII 4, 24. Alcune qualità di Germanico, che Tacito riporta in ann. II 73, 8: mitem erga amicos, modicum voluptatum, assomigliano non poco, pur se espresse con diversa fraseologia, a quelle di Alessandro.
[17]veneris: metonimia per amoris («dell’amore»); per l’espressione veneris usus cfr. Ov. Rem. 357; fast. IV 657; Plin. nat. hist. XI 131.
[19]illa fortunae: «Il resto va imputato alla fortuna».
[20]dedignantibus venerari ipsum: «con chi rifiutava di venerarlo». Il culto dovuto al sovrano, uso appreso dal mondo orientale e introdotto da Alessandro nell’etichetta di corte, suscitò grandi contrasti fra gli amici e i soldati del re macedone. Cfr. elicuitque iram Alexandri in VIII 5, 22, dove il destinatario di tale sfuriata è Poliperconte, reo di essersi preso gioco di un soldato persiano che salutava il Macedone prosternandosi. Filota, poi, nella sua autodifesa, si mostra ben consapevole che una delle ragioni per cui Alessandro lo vuole morto è perché egli ha contestato l’origine divina e, quindi, anche l’atto di venerazione (cfr. VI 10, 25–28). Si vd., inoltre, i casi di Ermolao (VIII 7, 13) e Callistene (VIII 8, 21).
[21]quam par esset: «di quanto fosse giusto». Le colpe di Alessandro, qui segnalate, intollerabili per la mentalità romana, possono essere messe a confronto con il disdicevole comportamento dell’imperatore Caligola, che ad Alessandro si era ispirato, al quale forse allude Curzio Rufo poche pagine dopo. Infatti, in X 9, lo storico confronta la situazione creatasi in Oriente dopo la morte di Alessandro, con quella determinatasi a Roma dopo la morte di un imperatore di cui non fa il nome: egli, però, afferma che il nuovo princepslucem caliganti reddidit mundo («ridiede la luce al mondo ottenebrato»), cosicché alcuni studiosi hanno riconosciuto in queste parole un’allusione a Caligola (caliganti), cui succedette Claudio, che riportò un poco di tranquillità a Roma dopo gli eccessi di chi lo aveva preceduto.
[22]habitum: «costume». Anche Caligola amava costumi orientalizzanti, suscitando grandi preoccupazione nel mondo romano.
[23] L’ira e la passione per il vino sono i vitia aetatis verso i quali l’autore sembra mostrare maggiore indulgenza: se Alessandro avesse raggiunto la maturità, avrebbe potuto anche conseguire maggiore saggezza. Ciononostante, gli eccessi d’ira di Alessandro furono terribili: notissimo l’episodio, narrato in VIII 1, in cui egli uccise l’amico Clito, dopo un violento litigio.
[24]plus… fortunae: «di ancor più era debitore alla fortuna». Nel corso della Historia sono molti gli episodi che suffragano questa tesi.
[25] Ciò non parrebbe del tutto vero, se Vell. II 35, 2 attribuisce analoga prerogativa a Marco Porcio Catone Uticense: semper fortunam in sua potestate habuit. A ben vedere, però, i due personaggi vengono differentemente connotati: la fortuna di Alessandro, scrive Curzio a III 6, 18, sembrerebbe adombrare una costante benevolenza divina, che lo assiste sempre e nonostante la sua temerarietà. Diversamente, Velleio riconosce il dominio della fortuna all’Uticense, proprio perché persona dotata di tutte quelle virtù umane che lo avvicinano alla perfezione divina e gli consentono di essere faber fortunae suae.
[26]perpetua felicitate: lett. «con costante favore».
[27]quicquid… capiebat: «tutto ciò che era consentito alla sua natura mortale». La conclusione dell’autore riporta all’ambito della filosofia stoico-cinica e al rapporto virtù-fortuna da cui aveva preso le mosse il necrologio dell’eroe, più debitore nei confronti della fortuna che delle sue virtù.
di P. Moreno, in Storia e civiltà dei Greci (dir. R. Bianchi Bandinelli), vol. 6. La crisi della pólis: arte, religione, musica, Milano 1990, pp. 703 sgg.
La ricerca archeologica in Macedonia ha portato negli ultimi decenni a scoperte clamorose in ogni campo, ma nulla sembra comparabile al progresso realizzato nella conoscenza della pittura, dove siamo stati sottratti allo sforzo di una ricostruzione analogica per essere ammessi alla diretta visione dei maestri.
La tradizione letteraria faceva intendere che questo dominio periferico del mondo greco aveva assunto una posizione privilegiata nella produzione artistica fin dall’inizio del IV secolo con l’arrivo di Zeusi alla corte di Archelao. Nella generazione successiva, tra i pittori della scuola sicionia, un cittadino di Anfipoli, Pamfilo, può aver rappresentato il tramite per la chiamata di Apelle alla corte di Filippo II. Lo spostamento della corte di Alessandro in Oriente non ha compromesso del tutto questa tradizione, poiché il sovrano continuò a dedicare opere d’arte nel santuario di Zeus a Dion. Nicia eseguì un ritratto di Alessandro e dichiarava l’opportunità di dipingere battaglie di cavalieri e di navi, i soggetti che apparivano nella decorazione del carro funebre del re. Nicomaco eseguì il ritratto di Antipatro, quando questi era reggente della Macedonia, tra il 323 e il 319 a.C., ed il suo discepolo Filosseno dipinse per Cassandro la Battaglia di Alessandro e Dario che si ritiene conservata dal mosaico del Museo di Napoli.
La Battaglia di Alessandro e Dario. Mosaico in opus vermiculatum, tessere policrome. 100 a.C. dalla Casa del Fauno, Pompei. Forse copia di un affresco di Filosseno di Eretria. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Nel 1960 i mosaici di ciottoli dei Palazzi di Pella ci hanno restituito una prima immagine delle pinacoteche che si andavano formando nelle residenze regali. I saggi eseguiti sotto i pavimenti dal 1974 al 1976, hanno dimostrato che la decorazione è coeva alle strutture e che l’insieme si può datare ai primi anni del regno di Cassandro, attorno al 316 a.C. Rispetto alla testimonianza della ceramica, i mosaici offrono il vantaggio di riprodurre figurazioni nelle forme piane del rettangolo e del quadrato, e nelle proporzioni originarie; rispetto alle copie della pittura parietale romana, garantiscono una maggiore fedeltà stilistica ai modelli per la vicinanza cronologica e in qualche caso la contemporaneità di esecuzione.
L’alternanza di soggetti mitologici, eroici e storici, corrisponde alla varietà d’ispirazione degli artisti di età e scuole diverse, che sono stati in rapporto con la Macedonia. A Zeusi è da assegnare la scena della Centauressa che offre da bere al Centauro, per l’affinità con il motivo descritto da Luciano, per i caratteri iconografici del vecchio Centauro e per la forma della kýlix che vi è rappresentata.
Pella (Macedonia). Casa di Dioniso, Centauressa offre da bere a un Centauro. Mosaico, ultimo quarto del IV secolo a.C. Museo Archeologico di Pella.
Il ratto di Elena da parte di Teseo, trova puntuali riscontri nella ceramica italiota alla fine del V secolo. Nel Ratto delle Leucippidi, dipinto dal Pittore di Sisifo su un cratere di Ruvo, il gruppo dell’auriga in attesa con la quadriga rampante, è del tutto simile: coincide perfino il mantello del rapitore appoggiato alla sponda del carro; notevole anche l’affinità della figura fuggente a destra con la Deianira del mosaico. Tenendo conto che Elena rappresentava uno dei soggetti più celebrati di Zeusi, anche questa scena può essere annoverata nel suo catalogo: si confrontino le capigliature con quella della Centauressa su un frammento di ceramica.
Pittore di Sisifo. Teseo rapisce Elena. Pittura vascolare da un cratere a volute apulo a figure rosse, fine V secolo a.C. ca. da Ruvo di Puglia.
Dioniso sulla pantera può essere ascritto, come abbiamo visto, a Nicomaco, e l’Amazzonomachia trova confronti nei vasi di Kerç.
La Caccia al cervo è di un maestro sicionio e lo stesso si può dire per la Caccia di Alessandro e Cratero, in una versione differente da quella realizzata in bronzo da Lisippo a Delfi, ma indubbiamente influenzata da un modello plastico.
Pella (Macedonia). La caccia di Alessandro e Cratero. Mosaico, III secolo a.C. Museo Archeologico di Pella.
L’effetto di una pinacoteca è accresciuto dalla ricchezza delle cornici, che sono coerenti con la cronologia e lo stile delle figurazioni. Il Ratto di Elena è circondato dal motivo del meandro alternato a quadrati con crocette, che inquadra normalmente le campiture vascolari di età classica. La Caccia al cervo ha la cornice floreale, che abbiamo visto ispirata alle invenzioni di Pausia e che, comunque, rivela nella sua asimmetria di essere stata progettata per un pannello verticale, non per il pavimento. Infine l’Amazzonomachia è contornata da una serie di animali passanti che ci ricorda i fregi della ceramica apula e della pittura parietale etrusca.
Pella (Macedonia). Casa del rapimento di Elena, Caccia al cervo. Mosaico opera di Gnosi (Gnōsis epoḗsen), fine IV secolo a.C. Museo Archeologico di Pella.
Se i mosaici di Pella riflettono nel loro insieme il tetracromatismo nella sua versione iniziale – bianco, nero, giallo e rosso – le pitture scoperte nelle necropoli di Mieza, Ege e Dion, rappresentano una fase più avanzata. Mieza è stata definitivamente localizzata alle pendici del Vermion, ai margini occidentali della pianura percorsa dall’Aliacmo, tra le attuali località di Naoussa, Kopanos e Lefkadia. In una grotta presso Naoussa è stato riconosciuto il Nymphaîon dove Filippo trasferì Alessandro negli anni della sua formazione: è questa dunque la sede dove operarono tra il 343 e il 340 a.C. gli artisti che la tradizione mette in contatto con il principe, tra i quali era Apelle.
Lefkadia (Macedonia). Tomba monumentale “del Giudizio”. Radamante, dettaglio della pittura parietale esterna.
Delle sepolture di Mieza decorate con pitture, due prendono nome da Lefkadia e due da Naoussa. Attorno al 300 si data la tomba con facciata a due piani scoperta nel 1954 presso Lefkadia. L’importanza della decorazione esterna per l’origine della pittura ellenistica appare accresciuta attraverso l’analisi recentemente compiuta dal procedimento tecnico. Con la sostituzione dell’azzurro al nero, le possibilità del tetracromatismo sono mutate. I contrasti di colore, determinati da pennellate rapidamente sovrapposte, abbondano in tutte le figure e sono episodi sui quali l’artista contava, che portano al superamento del colore locale per un iniziale cangiantismo. Nelle ombre della testa di Radamante, dove le pennellate azzurre coprono i gialli e i rossi, nascono dei verdi e del porpora; il mantello giallo indossato da Eaco, è coperto a tratti da velature azzurro chiaro, mentre è scurito in altre zone da pennellate di terra rossa: si realizza così una completa tavolozza che l’osservatore riesce a districare solo ripercorrendo il processo di costruzione della figura.
Poco più recente sembra essere la tomba rinvenuta prima del 1887 presso Naoussa, considerata per antonomasia la «tomba macedone» fino alle scoperte del dopoguerra, la cui decorazione è oggi perduta. La camera presentava nella parte superiore del muro di fondo, su un fregio floreale, il gruppo di un cavaliere che colpiva con la lancia un barbaro. La pittura era realizzata a tempera sull’intonaco asciutto. Le figure erano grandi più di metà del naturale, impostate armonicamente entro la lunetta determinata dalla volta a botte: impressionante la resa del cavaliere che procedeva al galoppo da sinistra, impugnando la lancia con la destra abbassata, come Alessandro nel mosaico di Napoli, ma senza frenare l’animale; di effetto realistico la figura del nemico che cercava di parare il colpo gettandosi di lato e protendendo lo scudo, la bocca spalancata in un grido. I colori composti non apparivano qui soltanto come il risultato di parziali sovrapposizioni, ma assumevano una definizione locale, come il verde ottenuto dalla mescolanza dell’azzurro e del giallo, nelle vesti del barbaro. Nasce nelle figure il contrasto dei colori complementari, giallo e blu nel cavaliere, con la presenza del rosso; rosso e verde nel barbaro, con la presenza del giallo.
Naoussa (Macedonia). Tomba di Kinch, affresco parietale con combattimento fra un cavaliere macedone e un fante persiano. 310-290 a.C. ca.
Al 250 a.C. può risalire la costruzione della tomba di Naoussa con facciata di ordine ionico, scoperta nel 1971. Per la forza compositiva e la pienezza dei volumi le figure dei coniugi nel frontone sono tra le più emozionanti creazioni che conosciamo della pittura greca. Nell’ambiente d’ingresso la pittura, condotta a tempera come nella tomba del cavaliere, rappresenta piante d’acqua sul fondo celeste con viva policromia: le foglie e i petali dei fiori sono mossi da pieghe moltiplicate e variate, i colori sono essenziali, smaltati, di grande profondità, ma non privi di passaggi. È questa la versione decorativa e simbolica delle acque del Lete, come le aveva concepite Polignoto all’inizio della Nékyia, popolate di canne palustri. Preziose qualità pittoriche doveva assumere la cassetta rivestita di rilievi in avorio, che si trovava nella camera interna: la struttura lignea è perduta, ma sono stati rinvenuti centinaia di frammenti d’avorio con motivi floreali e cornici, figure di cavalli, teste e braccia di personaggi umani e divini; mancano i panneggi che dovevano essere di materiale diverso, forse oro, trafugato in antico, quando la tomba fu devastata. La complessità delle scene mitologiche, con figure plasticamente sovrapposte, l’effetto cromatico, offerto in questo caso da materiali diversi, le proporzioni e la destinazione funeraria, offrono un imprevisto modello per le urne cinerarie etrusche, prodotte a partire dalla metà del II secolo a.C., che è anche il periodo finale di utilizzazione delle tombe.
Lefkadia (Macedonia). Tomba monumentale del Giudizio. Ricostruzione del prospetto anteriore con policromia.
La più recente delle tombe dipinte di Mieza è quella di Lisone e Callicle, scoperta presso Lefkadia nel 1942: le iscrizioni, che ci danno i nomi dei primi destinatari, portano al 200 a.C. la fondazione del monumento, che fu usato per successive sepolture fino alla caduta del regno di Macedonia. Le pareti della camera sono decorate con un sistema di pilastrini che reggono un architrave continuo: su esso poggia un padiglione, che si identifica con la volta a botte; le lunette che ne risultano, sono immaginate vuote contro il cielo e vi sono rappresentate armi appoggiate sull’epistilio o sospese alla copertura: nel mezzotondo sull’ingresso, c’è uno scudo tra due spade e due corazze, sulla parete opposta uno scudo tra due spade, con due elmi e una coppia di schinieri. L’interpretazione architettonica ricorda la scansione a paraste della camera nella grande tomba di Lefkadia, rispetto alla quale si nota tuttavia un incremento prospettico molto vicino al cosiddetto «secondo stile» pompeiano. Le armi illusionisticamente rappresentate nella loro consistenza e collocazione, richiamano il motivo diffuso nella pittura funeraria apula ed etrusca della seconda metà del IV secolo, ma il controluce segna una successiva invenzione. Le frange della tenda sono comunque uno dei più antichi esempi del motivo detto «mura merlate» che compare in un pavimento di ciottoli a Lycosura e nei mosaici pergameni. L’insieme ricorda la descrizione del baldacchino che sovrastava il carro funebre di Alessandro.
Lefkadia (Macedonia). Tomba di Lisone e Callicle, decorazione parietale interna con panoplia macedone.
Ege, la più antica capitale della Macedonia, è stata recentemente identificata con le località di Palatitza e Vergina. Nel 1939 vi fu scoperto un monumento con camera coperta a volta, ingresso e facciata di ordine ionico, riferibile al tempo di Antigono Gonata (276-239 a.C.): la policromia ha una funzione fondamentale nella decorazione della facciata, con rosso e azzurro nei capitelli e nel fregio, giallo e rosso nel frontone; il fregio rappresenta intrecci floreali in bianco, verde, rosso e giallo sul fondo blu-nero. Nell’atrio il fregio è contornato da un kýma lesbico e da ovuli, con uso del bianco, rosso, giallo, verde e blu sul fondo blu-nero. La decorazione del trono di pietra, stuccato e dipinto, mostra due Grifi con cerbiatto sui fianchi e due Sfingi sui braccioli.
Vergina/Ege (Macedonia). Palazzo reale, ipotesi di restituzione (elaborazione grafica da D. Pandermalis, 1976).
Non lontano dalla residenza reale di Palatitza, che ha dato un grande mosaico con motivi floreali, era stato osservato fin dal secolo scorso il carattere artificiale di un’altura di circa 12m con un diametro di 110. Gli scavi avevano dato alcune stele del primo ellenismo, tra le quali una dipinta, collocata al Museo di Veria, che rappresenta una donna in piedi ammantata, su uno sfondo architettonico: la qualità è molto fine, sul collo è rappresentata l’ombra portata; la testa reclinata col viso incorniciato dal manto è di una sconcertante resa psicologica.
Vergina (Macedonia). Palazzo reale, mosaico pavimentale a motivi floreali.
La situazione del rinvenimento ha mostrato che il materiale non era in situ, ma era stato ammassato nel tumulo in circostanze particolari; ciò è venuto a coincidere con la notizia di Plutarco (Pyrrh., 26) che la necropoli di Ege era stata saccheggiata dai Galati al servizio di Pirro nel 274/73 a.C.: l’immenso cumulo di pietrame e di terra sarebbe stato innalzato da Antigono Gonata per proteggere i resti dei predecessori ed ospitare le successive sepolture regali. L’incremento delle ricerche ha infatti portato nel 1977 e nel 1978 ad una serie di eccezionali scoperte.
Il sorós attribuito ad Antigono incorporava nel margine meridionale un tumulo precedente del diametro di 20m, formato dalla terra rossa della quale sono ammantate le tombe di Verghina, che caratterizzano con la loro ondulazione il paesaggio ai piedi del Palazzo. Questo tumulo minore era a sua volta destinato a proteggere due tombe. La prima era rappresentata da una camera costruita a blocchi sotto il livello del suolo allora praticabile, grande all’interno 2,09m per 3,50, ed alta 3m. La tomba era stata saccheggiata attraverso due aperture, che risultavano richiuse con materiale eterogeneo al momento dell’innalzamento del grande tumulo: dovrebbe dunque essere anteriore alla spedizione di Pirro. Il lato corto orientale e le pareti nord e sud erano dipinte ad affresco.
Vergina (Macedonia). Tomba di Persefone, dettaglio del fregio con le coppie di grifoni affrontati, parete orientale.
Al di sotto della figurazione, corre un fregio continuo con coppie di grifi affrontati e divergenti rispetto a fiori diversi, tra i quali alcuni a calice con corolla in scorcio. Il grifo aveva remote connessioni con il destino dei morti nel mondo orientale e in ambiente minoico; la sua abitazione presso gli Iperborei lo collegava ai morti anche per i Greci: nel IV secolo è attestata la connessione al culto dionisiaco. Le due componenti – il mistero dionisiaco ed il ruolo di psychopompós – si trovano unite nella figurazione di un vaso apulo all’Ermitage, per molti aspetti analoga alla cornice dell’affresco: al centro appare un fiore di scorcio, dal quale emerge una testa femminile, ai lati divergono due grifi. La posizione dei mostri, che volgono il dorso all’immagine principale, si spiega con il simbolico trasporto dell’anima del defunto: in tale funzione appariranno i grifi in un rilievo di età romana. Il fregio della tomba macedone ha dunque lo stesso significato di quello con coppie di grifi e candelabri che circonda il tempio innalzato da Antonino a Faustina dopo la sua morte, una promessa di apoteosi.
Vergina (Macedonia). Tomba di Persefone, una fanciulla seduta (forse la defunta), parete orientale.
Sulla parete meridionale si conservano tre figure femminili, probabilmente le Moire, ed una seduta al centro del lato corto orientale. Per analogia con la tomba del cavaliere di Mieza, quest’ultima è da intendersi come il ritratto della defunta. Un frammento di stele del IV secolo, proveniente dal demo di Acarne, mostra una donna seduta nello stesso atteggiamento, con la mano sinistra portata sul ginocchio destro: su quella mano poggia il gomito destro, la testa, reclinata, posa sulla mano destra; il braccio e la mano sinistra sono avvolti anche qui dal mantello che copre il capo. Un maggiore addensamento di analogie si trova nella figura della sposa sulla pisside siceliota al Museo Puškin, databile al 330-320 a.C., dove ricorre la veduta frontale con il leggero scorcio di tre quarti nelle gambe, gli avambracci avvolti dal mantello, la traversa orizzontale di pieghe tra le ginocchia e soprattutto il mantello tratto sul capo che lascia intuire, attraverso i punti di tensione, gli ornamenti dell’acconciatura. La funzione escatologica della decorazione rende infine particolarmente suggestiva l’identità della figura con il personaggio che appare al margine della rappresentazione del mito eleusino sulla pelíkē attica dell’Ermitage. Si tratta della presunta personificazione di Eleusina: la situazione delle gambe è uguale, come pure l’appoggio della mano sinistra sul ginocchio destro, il gomito destro puntato sulla mano sinistra e l’appoggio del mento alla mano destra; il panneggio corrisponde nell’ampiezza con cui è concepito ed in numerosi dettagli, quale la caduta verticale all’esterno della gamba sinistra, la fascia di pieghe tra le ginocchia e la linea obliqua del mantello che scende dalla spalla destra.
Sulla parete settentrionale è rappresentato il Ratto di Persefone, per quasi tutta la lunghezza. Cominciando da sinistra, appare Hermes in corsa davanti alla quadriga; Ade è in atto di balzare sul carro: con la mano destra impugna le redini e lo scettro presso la sponda, il piede destro è già sul fondale, mentre il sinistro è puntato al suolo. Il dio ha afferrato Persefone al busto col braccio sinistro, la fanciulla è protesa nella direzione opposta a quella del carro, con le braccia levate, il mantello del rapitore le si avvolge ai fianchi. Un vuoto stacca il gruppo dalla figura accosciata di Ciane, la ninfa della fonte di Siracusa, come la cesura dell’esametro di Claudiano (De raptu Proserpinæ, II 205), che riassume la scena: diffugiunt Nymphæ, rapitur Proserpina curru.
Vergina (Macedonia). Tomba di Persefone, Il ratto di Persefone.
La composizione vive di contrasti. Dal piede sinistro al capo di Ade corre una linea obliqua, parallela a quella segnata dallo scettro e da una coppia di raggi della ruota; con questo sistema, che segna la fuga verso sinistra del dio con il suo carro, s’incrocia la tensione di Persefone: il braccio destro diverge esattamente da quello di Ade, così come la testa si piega in direzione opposta. Da una parte la quadriga e dall’altra la figura di Ciane allargano all’infinito la divergenza.
Il volto di Ade (dettaglio).
L’obliquità delle figure non è risolta tutta in superficie, ma si sviluppa in profondità. Lo scorcio di Ade inizia in primo piano con il piede che tocca terra e termina in alto con la testa arretrata: l’andamento prospettico è sottolineato dallo scettro. analogamente nella figura di Persefone le gambe vengono avanti mentre la testa e le braccia affondano in distanza.
Il punto di vista è ribassato. Di qui lo scorcio memorabile del busto di Persefone e delle braccia il cui volume è circoscritto dai bracciali ai polsi. Di qui la pregnanza del gesto di Ciane; la visione obliqua nasconde il gomito sinistro, mentre accentua l’angolo formato dall’avambraccio destro: le mani e il viso si dispongono in una progressiva rotazione che esprime la sorpresa e il terrore.
Persefone (dettaglio).
Nell’incarnato i toni sono quelli usati per le figure femminili sulle altre pareti, c’è del rosa in un chiaroscuro bruno-ocra. L’ombra è applicata a tratti netti sul corpo di Ade e sui cavalli, maggiormente sfumata nelle due fanciulle. Effetti di ombra portata si apprezzano tuttavia tra la spalla destra e il collo di Persefone e sul braccio destro di Ciane: la luce cade dall’alto a sinistra. Il mantello di Ade è di un viola intenso, ottenuto con la mescolanza di rosso e azzurro; nella veste di Ciane appaiono il violetto e il giallo, ma l’azzurro è dominante, con allusione etimologica: kyanós significa “azzurro” e il nome della ninfa richiama le acque profonde.
Ciane (dettaglio).
Tra le numerose scene di ratto, rappresentate nel mondo greco, etrusco e romano, quella che presenta maggiori somiglianze è il rapimento di Crisippo da parte di Laio sulla cista prenestina al Museo di Villa Giulia: colpisce infatti la divergenza delle teste, l’opposta direzione dei busti e delle braccia, il contrasto con il corpo giovanile con il mantello del rapitore, lo scorcio della ruota e soprattutto la torsione di Crisippo che viene a trovarsi come Persefone con il petto verso il basso e le braccia protese. L’opera si data tra il 320 e il 300 a.C., il che rappresenta un dato di grande interesse per la cronologia dell’affresco, poiché la posizione di Persefone non si riscontra in nessuna delle specifiche rappresentazioni del mito.
Escludendo le versioni in cui il rapitore e la fanciulla non sono sul carro, troviamo attorno al 400 a.C. alcuni elementi della composizione su uno stámnos etrusco dei Musei Vaticani, dove però Hermes è rappresentato più in basso, come il barbato servo di Ade, la quadriga va verso destra con la guida di una figura femminile alata e i protagonisti stanno sul carro rigidamente affiancati. Il tipo si ripete attorno al 360 a.C. sul cratere apulo del Pittore dell’Ilioupérsis al British Museum, dove la figura femminile davanti al carro è senza dubbio Ecate. Le urne volterrane restano sostanzialmente fedeli a questo schema.
Una visione più movimentata appare per la prima volta sulla coppa megarese da Tebe al British Museum: la quadriga è condotta da Hermes e la posizione obliqua di Ade e Persefone è in qualche modo simile a quella dell’affresco, ma Persefone è rivolta con il busto e il viso verso l’alto, e la figura femminile che insegue il carro è senza dubbio Demetra. Questo disegno è stato ripreso ed elaborato nella maggior parte dei sarcofagi romani.
Maggiore interesse presentano le pitture e i mosaici di età imperiale. Tra gli affreschi, il più noto è quello della Tomba dei Nasoniche si data agli ultimi anni di Antonino Pio, ma qui il carro procede in direzione inversa rispetto al dipinto di Vergina e la figura di Plutone ha una diversa impostazione. Sulla parete di una casa funeraria di Hermoupolis, databile tra il II e il III secolo, il movimento della scena è sempre inverso, ma ritroviamo la figura di Hermes davanti al carro e tenendo conto dell’inversione speculare vi sono essenziali coincidenze nei gesti di Plutone e Proserpina. Diversa è la scena dell’Ipogeo di Vibia, che tuttavia getta una luce sull’allegoria della tomba macedone, poiché è esplicitamente adattata alla donna che vi era sepolta: abreptio Vibies.
Affresco con il ratto di Proserpina. II-III secolo d.C. ca., dalla Tomba dei Nasoni, Roma.
Contemporaneo alla Tomba dei Nasoni è il mosaico di un mausoleo della Necropoli sotto San Pietro: la scena si svolge nella direzione di quella di Vergina ed Hermes conduce la quadriga; Plutone è simile ad Ade, anche se il giro del mantello è ampliato dietro le spalle; Persefone è quasi tutta perduta. Una più completa rispondenza si nota con il mosaico dal Colombario della Via Portuense al Museo dei Conservatori, riferibile anch’esso all’età antoniniana. Hermes precede la quadriga; sul carro Plutone afferra le redini con la mano destra e con la sinistra stringe Proserpina: il corpo della fanciulla ha un andamento obliquo opposto a quello del dio; a terra è la figura accosciata di Ciane con il braccio destro sollevato ed il mantello che gira dietro le spalle.
Insieme alla pittura di Hermoupolis, al mosaico della Necropoli Vaticana ed a qualche sarcofago, questo pavimento si pone come testimonianza dell’esistenza in ambiente romano di una pittura affine a quella scoperta in Macedonia, con una variante nella posizione del torso di Proserpina. Plinio riferisce che un quadro di Nicomaco, raffigurante il ratto di Persefone, era custodito nel tempio di Giove Capitolino. La coincidenza è promettente. Nicomaco era alla fine della carriera, quando lavorava per Antipatro:
Il pittore prese a dipingere un ritratto di Antipatro, re dei Macedoni; lo dipinse in quaranta giorni e ne ricavò molti talenti. E come il re Antipatro gli disse: «Tu hai ricevuto più di quello che il tuo quadro valeva, poiché lo hai dipinto in pochi giorni», egli rispose: «Non l’ho ultimato in quaranta giorni, maestà, ma ci ho lavorato quarant’anni, poiché io ho studiato per lungo tempo, per poter dipingere con leggerezza e facilità ogni volta che voglio».
Mosaico con il ratto di Proserpina. Dal Colombario di via Portuense, Roma.
Questo periodo viene dunque a sovrapporsi con la prima attività del discepolo Filosseno, che abbiamo ricordato al servizio di Cassandro, figlio di Antipatro. Ora, se è vero che il mosaico di Alessandro riproduce la Battaglia di Filosseno, la pittura di Verghina ci offre un’insperata possibilità di confronto tra le opere dei due pittori. Osserviamo nell’affresco il contorno delle due teste sul carro: il braccio destro allungato di Ade, la testa di tre quarti, l’arco della spalla sinistra e quindi il braccio destro della fanciulla che le nasconde per metà il volto. Nel mosaico di Alessandro, la sequenza si ripete esattamente nel gruppo di Dario con l’auriga: il braccio proteso del re, il volto di tre quarti, il giro della spalla, il braccio destro levato dell’auriga che ne ha il volto parzialmente coperto. Infine, lo scettro di Ade ha l’andamento obliquo della lancia che spunta dal fondo in corrispondenza della mano destra di Dario.
L’identità compositiva è ancor più sorprendente se pensiamo alla diversità del soggetto, da una parte il rapimento d’amore, dall’altra la battaglia; inoltre il carro di Ade va verso sinistra dello spettatore, quello di Dario verso destra; nel gruppo mitologico è il corpo di Persefone che viene a trovarsi davanti a quello di Ade, nella scena storica è Dario che sta davanti all’auriga. Non si può dunque pensare che l’autore della Battaglia abbia imitato materialmente il pittore del Ratto, o viceversa. Si tratta piuttosto di opere della medesima bottega, dove si sperimentava l’efficacia di un certo schema. Plinio (Nat. hist., XXXV 110) collegava direttamente a Nicomaco la tecnica di Filosseno:
Questi, seguendo la celerità del precettore, trovò certe scorciatoie della pittura ancora più brevi.
Il frescante di Vergina è di meravigliosa disinvoltura e le compendiariae che accomunavano i due artisti potevano essere queste silhouettes intercambiabili, con le quali si montava rapidamente una composizione.
La traccia della scuola attica trova seguito nell’affresco che decora la seconda tomba, posta al centro del tumulo in terra rossa. È stato il ritrovamento di questa sepoltura a diffondere la celebrità del complesso, poiché era intatta con i suoi tesori. Si tratta di un’ampia struttura coperta a volta, con facciata architettonica; vi si distinguono due ambienti, l’ingresso con una deposizione femminile e la camera con le ceneri di un uomo. La presenza nella camera del diadema, dello scettro e di tracce di porpora non lascia dubbi sul carattere regale del personaggio, per il quale è stato fatto il nome di Filippo II, morto nel 336 a.C. La pulitura del vasellame, ha portato successivamente alla lettura del monogramma ANT (álpha, ný, taû), graffito sul fondo di una secchia di bronzo. La somiglianza con il simbolo che compare sulle monete di Antigono Gonata è suggestiva, ma si potrebbe pensare anche ad Antipatro, morto nel 319 a.C., la cui autorità, alla scomparsa di Alessandro, abbiamo visto assimilata a quella del basileús. Resta da spiegare la conservazione del corredo: i mercenari di Pirro, raggiunta e saccheggiata la prima tomba, avrebbero ritenuto che fosse l’unica nascosta dal tumulo di terra rossa, interrompendo la ricerca.
Gorytós con scene di Ilioupérsis. Oro, fine IV secolo a.C. dalla Tomba di Filippo II, Vergina.
Un modello pittorico è certamente dietro la decorazione di uno degli oggetti più preziosi, il gorytós, un astuccio per l’arco e insieme per le frecce, lavorato in oro a sbalzo. Vi è rappresentata su due registri la caduta di Troia, ed all’estremità della faretra una figura incedente con scudo, lancia ed elmo a tre creste, da identificare con Ares o Achille. Un esemplare del tutto identico era stato rinvenuto a Karagodenash, nel Kuban, ad oriente della Crimea, ma per lo stato frammentario non era stato possibile ricostruire il soggetto. Altri quattro gorytoí simili, ma con la rappresentazione della vicenda di Achille a Sciro, sono stati trovati lungo l’arco di un migliaio di chilometri dal Don al Bug nella Russia meridionale: essi appartenevano al corredo di sepolture scitiche, databili alla seconda metà del IV secolo per la presenza di anfore greche. Anche il nuovo esemplare dovrebbe essere stato lavorato a Panticapeo, la capitale del regno bosporano, dove si colloca quella produzione, ispirata dall’iconografia attica della fine del V secolo: in particolare l’Ilioupérsis ha affinità compositive con il fregio di battaglia del tempio di Atena Níkē e con quello del tempio di Apollo a Bassai.
Delle urne d’oro, quella rinvenuta nell’atrio ha per decorazione lo stellone macedone sul coperchio e rosette applicate alla cassa: all’interno conservava un tessuto ricamato con uccelli e girali, che ricorda un rilievo tarantino del IV secolo, e propone una diversa via di diffusione, attraverso le stoffe e i tappeti, di tali motivi nell’arte ellenistica e romana. Nell’altra, più riccamente ornata, il disegno di maggior interesse è rappresentato dai girali di acanto della fascia inferiore. Attraverso la cornice del mosaico di Pella con la Caccia al cervo, si è avuta occasione di verificare l’origine pittorica del motivo, ispirato dall’arte di Pausia; nel nostro caso, esso mostra affinità con l’antemio nei gorytoí d’oro che rappresentano Achille a Sciro, e con i vasi apuli della seconda metà del IV secolo. La possibilità di una comune origine sicionia è suggerita dal fatto che il motivo ricorre in Epiro, dove già il pavimento floreale di Epidamno rivelava la partecipazione ad un gusto decorativo esteso da Sicione all’Apulia: una stele di Ambracia ripete sostanzialmente il disegno che appare sul fianco dell’urna di Vergina, con un richiamo anche alla terminazione dei girali che ne ornano la fronte; l’affinità risalta per l’inquadramento entro un rettangolo allungato e per il trattamento prospettico che in un limitato risalto plastico ottiene l’illusione di un’avvolgente profondità.
Vergina (Macedonia). Tomba di Filippo II.
La facciata della tomba sovrappone all’ordine dorico del colonnato e del fregio a metope a triglifi, una fascia continua che misura in lunghezza 5,56m ed in altezza 1,16m, interamente dipinta con scene di caccia. Il primo gruppo da sinistra rappresenta il ferimento di un cervo, tra un cacciatore a piedi ed uno a cavallo colto in un’audace veduta posteriore di tre quarti; un albero spoglio segna la separazione dalle scene più complesse della caccia al leone e al cinghiale. Un gruppo di due cacciatori appiedati con cani, è dominato da un pilastro, sul quale è una piccola statua; inquadrato da due alberi segue un giovane cavaliere, coronato di fronde, di profilo verso destra, con la lancia sollevata, in atto di far impennare la cavalcatura con la sinistra. Seguono due cacciatori a piedi, l’uno armato di lancia, l’altro di ascia, due cani, un leone e un terzo cavaliere di età avanzata, rappresentato di scorcio verso lo spettatore, con la lancia nella destra levata come a colpire il leone, il busto in parte nascosto dal collo della cavalcatura. Altri due pedoni, l’ultimo con una rete, concludono a destra, insieme ad un cinghiale.
Affresco frontonale, ipotesi di restituzione della policromia originale.
La composizione è nata con attento calcolo della superficie disponibile, che il pittore ha diviso in quattro quadrati: le diagonali e le circonferenze iscritte in queste figure, determinano la struttura d’insieme; ma non mancano altre simmetrie, come mostra la stele collocata al primo terzo del fregio. La proporzione dei pieni e dei vuoti, che abbiamo visto eroicamente affermata nella Caccia al cervo di Melanzio, rimane come legge di esattezza geometrica, ma lo spazio si fa tanto più vasto e accogliente, da favorire l’apparente libertà di disposizione delle masse dipinte. L’autore aveva bisogno di rispettare la convenzione della narrazione continua, che vuole rappresentate nello stesso quadro scene successive o almeno indipendenti e, nello stesso tempo, per ragioni compositive e prospettiche, desiderava moltiplicare il riferimento volumetrico alle forme degli alberi, sicché se n’è servito per isolare a sinistra la vicenda secondaria del cervo e per segnalare a destra il passaggio tra le fasi culminanti della caccia al leone ed al cinghiale. Se vogliamo, in questa sequenza c’è ancora il rispetto per la prospettiva a scomparti di Polignoto e le figure sono sempre scaglionate a diversi gradi di altezza e di distanza, ma le aste impugnate dagli uomini segnano quante più linee possibili per avviare l’occhio in profondità e l’andamento del suolo in primo piano rivela la maturità di una prospettiva sfuggente.
La vicenda è tutta ricostruita secondo la struttura dello spazio, ma insieme con l’esercizio geometrico e prospettico, il pittore impiega l’immaginazione. La tendenza al consolidamento della figura, che era propria della scuola sicionia, si unisce infatti a quella estensiva, che mirava alla moltiplicazione e all’arricchimento degli elementi figurativi. La folla dei cacciatori dilaga in un paesaggio invernale, dove la natura è sorpresa nelle sue relazioni e contrasti, nella nascita delle piante dalle asperità del suolo, nella lotta mortale delle fiere e dei cani.
La tavolozza è molto ricca, dal bianco del fondo e di uno dei cavalli, attraverso i toni caldi del giallo-arancio, rosso vivo, bruno, viola pallido e porpora, a quelli freddi più bassi, verde ed ombra azzurra, fino ai toni scuri degli alberi e della maggior parte degli animali. Attraverso queste sfumature avvertiamo per la prima volta in una pittura greca la possibilità offerta alla luce di armonizzare perfettamente con il colore e di plasmare le forme: così è dato l’avvio all’espansione nell’atmosfera.
Senza perdere contatto con il reale, alcuni dei personaggi traggono valore di simbolo dal colore, dagli attributi e dalla propria stessa disposizione. Il cavallo bianco appartiene all’ultimo cavaliere a destra, che sovrasta tutti in altezza: davanti a lui la mischia degli uomini e degli animali si fa più densa, con un’evidente tendenza a far migrare lateralmente il polo d’interesse della composizione. D’altra parte anche il giovane che cavalca al centro riceve una particolare distinzione dagli alberi che lo fiancheggiano e dalla corona di fronde che porta sul capo; nella veduta laterale, animata dal volgersi della testa e del busto, esso richiama la tradizionale figura celebrativa del cavaliere nei monumenti ateniesi.
Sarcofago di Alessandro. Caccia al leone (dettaglio). Marmo lavorato a rilievo, IV secolo a.C. ca. da Sidone. Museo Archeologico di Istanbul.
Un rapporto dinastico lega forse questi personaggi, come i protagonisti della caccia sul sarcofago di Sidone, con il quale la pittura di Vergina ha molti punti di contatto. Vi ritroviamo infatti il carattere marginale della cattura del cervo, rappresentata ad un’estremità della composizione, con uno dei cacciatori che volta le spalle alla scena principale: così a Vergina lo stacco è indicato, oltre che dall’albero, dall’andamento verso il fondo del cavaliere che vi partecipa; la caccia al leone è prevalente ed il trittico si conclude idealmente sul lato corto con la caccia alla pantera. Il destinatario del sarcofago appare nell’atteggiamento del cavaliere che è al centro della pittura, circondato dalla stessa pittoresca alternanza di cavalieri e cacciatori a piedi, singoli o a coppie.
La caccia al cinghiale tra gli alberi spogli era già rappresentata in un rilievo funerario di Xanthos agli inizi del IV secolo, ma è la simultaneità di questo soggetto con la caccia al leone che ci colpisce nel mosaico di Palermo: il sistema narrativo è del tutto simile a quello della pittura di Vergina, con tre alberi sullo sfondo, dei quali uno è privo di foglie; l’uccisore del leone è rappresentato a cavallo in scorcio verso chi guarda, come l’ultimo cavaliere dell’affresco.
Non sarà fuori luogo ricordare che il mosaico di Palermo è stato per molti aspetti confrontato con la Battaglia di Alessandro, alla quale parimenti ci riporta la pittura di Vergina per il suo cromatismo e numerosi dettagli: nella Battaglia i cavalli sono rappresentati con la stessa sperimentata varietà prospettica, di fronte, di tergo e di profilo; Alessandro cavalca verso destra, nella stessa situazione del cavaliere al centro della pittura; l’albero spoglio è quasi uguale nel disegno al secondo di quelli rappresentati a Vergina, ed assume la funzione che ha il pilastro nell’affresco. La Caccia di Vergina sembra così offrirci l’anello mancante per la conoscenza della personalità di Filosseno, e si sarebbe tentati di riconoscere Antipatro e Cassandro nei protagonisti.
Vergina (Macedonia). Tomba del Principe. Fregio della corsa delle bighe (dettaglio), fine IV secolo a.C. ca.
Nell’agosto del 1978, circa nove metri più a nord dell’ultima sepoltura descritta, è stata rinvenuta una terza tomba, più piccola, ma simile nella struttura architettonica. Nella camera era stata deposta una hydría d’argento con le ceneri di un giovane principe. Il corredo comprendeva vasi in argento e bronzo argentato, un sostegno di ferro argentato con lucerne di terracotta, ed armi: di grande interesse iconografico gli ornamenti in avorio di un letto, tra i quali è stato ricostruito un gruppo rappresentante Pan e Dioniso con Arianna o Semele. L’insieme ha suggerito una datazione anteriore a quella della tomba più grande, il che sembra confermato dal confronto delle pitture; nella terza tomba, infatti, il fregio esterno era dipinto su pannelli di legno, che sono andati perduti, ma l’anticamera conserva in ottimo stato una fascia figurata. Al di sotto di una cornice ad ovuli, vi è rappresentata una corsa di bighe. Il terreno è mosso ed accidentato, nei diversi cavalli è colta con grande competenza la varietà dei momenti del galoppo, inoltre la gara è animata da episodi realistici: si vede una delle bighe in scorcio di tre quarti verso il fondo, come se fosse in atto di tentare il superamento di quella che la precede. L’episodio attesta la completa padronanza della prospettiva geometrica da parte del pittore, poiché nelle bighe che corrono allineate secondo l’andamento del fregio, il cavallo verso il fondo è rappresentato leggermente più avanzato dell’altro, ma la situazione giustamente si inverte nella pariglia lanciata in obliquo. Agli accorgimenti adatti a suggerire lo spazio, si aggiunge in misura sorprendente la luce. Questi carri con i loro cavalli proiettano sul terreno ombre fortemente rese con il tratteggio incrociato. Si immagina un sole alto da sinistra, che getta l’ombra sulla testa di un cavallo sul collo di quello vicino, e l’ombra dell’auriga sul dorso dei cavalli che volgono verso il fondo. È sempre il chiaroscuro che rivela l’aderenza delle tuniche e il loro movimento nell’aria, così come un tratteggio attento alla muscolatura, ai tendini e perfino allo scheletro, fa risalire la tensione degli animali.
Sarcofago delle Amazzoni. Lato 3. Guerriere su quadriga (dettaglio). Tempera su pietra, 350-325 a.C. ca. da Tarquinia. Museo Archeologico Nazionale di Firenze.
La biga con i cavalli allungati richiama, anche per la posizione ed il panneggio del conducente, la quadriga raffigurata in un frammento di fregio dal Mausoleo di Alicarnasso. Diverso è il passo della quadriga nel Sarcofago delle Amazzoni da Tarquinia, ma il confronto è interessante per l’impianto prospettico e il chiaroscuro: anche qui si avverte l’ombra tra gli animali accostati e sulle zampe posteriori, ma il trattamento è convenzionale, rispetto all’organicità raggiunta dal maestro di Vergina, e manca quell’invaso naturale della luce.
Dal punto di vista iconografico, l’analogia con la corsa di bighe dipinta nella tomba di Kazanlăk è sorprendente. Si tratta parimenti di un fregio destinato a commemorare i ludi funebri e vi ricorre perfino il motivo ad ovuli nella cornice inferiore; carri, cavalli ed aurighi sono rappresentati con soluzioni di scorcio che ricordano quelle di Vergina, tanto da far riconoscere una tradizione comune. Ma il divario qualitativo è ancor più spiccato che nel Sarcofago delle Amazzoni.
Seutopoli (Tracia). Tomba di Kazanlăk, la corsa dei carri (dettaglio). IV secolo a.C.
Alla luce delle nuove scoperte, acquista infine un significato la decorazione, purtroppo deperita, dalla tomba di Dion, scavata nel 1929 davanti ad una delle porte della città rivolte all’Olimpo. La regolare costruzione a blocchi è simile alle strutture di Mieza, di Ege e soprattutto al monumentale sepolcro di Langaza, a nord di Salonicco.
La facciata simula un’edicola dorica, l’interno dell’atrio è decorato con semicolonne ioniche. La colorazione delle architetture è più parca che negli altri esempi e l’interesse iconografico si concentra nella decorazione del letto di marmo: sulle gambe erano dipinti antemi, sulla traversa una battaglia di cavalieri. La serie comprendeva originariamente una dozzina di figure, delle quali solo le prime tre si sono potute rilevare al momento della scoperta. Il costume caratterizza i primi due combattenti come Traci o Sciti, uno visto di scorcio da dietro, l’altro di profilo a destra con il cavallo caduto sulle ginocchia: il terzo è un Macedone in atteggiamento di vittoria visto di tre quarti. La camera era stata saccheggiata in antico, ma dai frammenti di ceramica è stata datata attorno al 300 a.C. Tenendo conto che a Dion era stato collocato il gruppo in bronzo dei Cavalieri del Granico, l’evidenza degli scorci può indicare uno scambio di esperienze con la plastica sicionia, che è stato più volte avvertito nel sarcofago di Sidone, come nella Battaglia di Alessandro. Anche per questo aspetto, la pittura che si faceva alla corte di Macedonia non appartiene solo alla scuola attica, ma alla koinḗ.
di P. Moreno, in Storia e civiltà dei Greci (dir. R. Bianchi Bandinelli), vol. 6. La crisi della pólis: arte, religione, musica, Milano 1990, pp. 493-501.
[…] La società che regge la produzione della scuola di Sicione non è solo una civiltà di cittadini, ma quella che confluiva nell’unità degli Elleni sotto il regime di un monarca: la pittura, come la plastica, era al servizio del potere e l’appoggio dato da Filippo alla parte aristocratica si risolveva nell’accentuazione di tendenze allegoriche intese all’esaltazione dell’autorità politica.
Attorno al 343, quando Filippo convocò Aristotele per curare l’educazione di Alessandro, anche Apelle fu introdotto alla corte di Macedonia per i buoni uffici di Aristrato e i rapporti mantenuti da Pamfilo con il paese di origine. Apelle diviene così protagonista del passaggio dal sistema delle scuole, in qualche modo legate alla tradizione delle città di maggior prestigio culturale, all’impostazione di un’arte aulica[1]:
È superfluo dire quante volte dipinse Filippo ed Alessandro.
Alessandro gli dimostrò in quale onore lo tenesse con un esempio famosissimo, e infatti avendo ordinato che la più diletta fra le sue concubine, di nome Campaspe, fosse dipinta da Apelle nuda, per ammirazione della sua bellezza, e quello essendosi accorto di essersi innamorato mentre lavorava, gliela diede in dono.
John William Godward, Campaspe. Olio su tela, 1896. Art Renewal Center.
La disponibilità del pittore è confermata dalla notizia dell’editto col quale Alessandro, all’avvento al trono, gli avrebbe confermato la prerogativa di riprodurre la propria effige.
Le imprese di Alessandro in Oriente diedero occasione ad Apelle di cogliere il riflesso storico della vicenda personale del sovrano, che egli aveva iniziato ad illustrare in Macedonia con i suoi ritratti. Ad Efeso, dove il pittore era tornato a stabilirsi al suo seguito, Alessandro partecipò ad una pompḗ, che era insieme una festa religiosa e una parata militare (Arriano, Anabasi, I 18, 2): probabilmente è questa[2] «la processione di Megabizo, sacerdote di Diana Efesina» dipinta da Apelle, insieme ad un Alessandro a cavallo (Eliano, Varia historia, II 3) ed al keraunophóros[3]. La dimestichezza dell’artista con il sovrano alimenta nella letteratura artistica il tópos retorico della visita all’atelier, dove tuttavia si riconosce l’autenticità della cháris ionica, intesa non solo come un ideale estetico, ma come stile di vita, a contrasto con la severità di Melanzio e di altri artisti sicioni[4]:
Aveva anche grazia, per cui era molto gradito ad Alessandro il Grande che veniva frequentemente in bottega[…] ma quando si metteva a dire troppe cose inesatte, lo persuadeva con grazia al silenzio, dicendo che veniva deriso dai ragazzi che preparavano i colori.
Alla stessa fonte biografica, d’impronta peripatetica, risale l’episodio relativo all’Alessandro a cavallo:
Alessandro, vedendo ad Efeso la propria immagine dipinta da Apelle, non la lodò secondo il merito della pittura, ma condotto avanti il cavallo, ed avendo esso nitrito al cavallo nel quadro, come fosse stato vero anche quello, Apelle esclamò: «Maestà, ma il cavallo sembra essere molto più esperto di te in pittura».
Il giudizio di verità naturale, respinto da Zeusi, è divenuto un «esperimento» (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 95) normale per le immagini di animali, mentre nella figura umana l’aspirazione alla cháris porta il pittore ad un’interpretazione soggettiva, che non lasciava persuaso lo stesso Alessandro, poiché Apelle non ne rappresentava (Plutarco, De Alexandri fortuna, II 335f) «la virilità e il carattere leonino», bensì «il volgere del collo e la vaghezza e liquidità dello sguardo». In particolare (Plutarco, Vita Alexandri, 4, 2) «dipingendolo portatore di fulmine, non imitò l’incarnato, ma lo fece più scuro e abbronzato». L’effetto nasceva forse dall’elaborazione del chiarore del fulmine in un’atmosfera altrimenti poco illuminata (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 92): «le dita sembrano sporgere e pare che il fulmine sia fuori della tavola», ma la distanza dal modello era segnata da un esplicito motto del pittore (Plutarco, De Alexandri fortuna, II 335a):
Dipinse Alessandro portatore di fulmine con tanta evidenza e colorito da poter dire che dei due Alessandri, quello di Filippo era invincibile, ma quello di Apelle inimitabile.
La diatriba che divise gli artisti nel confronto tra il keraunophóros e l’Alessandro con la lancia di Lisippo, riuscirebbe meglio giustificata pensando che anche la pittura di Apelle rappresentasse una figura stante, quale l’Alessandro col fulmine inciso da Pirgotele nel conio di un decadramma e tramandato dalle gemme. Ma la pittura pompeiana offre per molti aspetti una seducente alternativa nella figura in trono nella Casa dei Vettii. Il personaggio giovanile è seduto frontalmente, con una dislocazione di piani che ne rende estremamente mobile la posa: la gamba sinistra è avanzata, mentre la destra è fortemente ripiegata, sicché le ginocchia segnano sotto il mantello una profonda obliquità e divaricazione; il torso è in scorcio verso destra, ma il braccio corrispondente porta avanti lo scettro, puntato a terra in primo piano; la sinistra abbassata stringe il fascio delle folgori che prolunga al centro la diagonale dell’avambraccio, mentre la testa diverge verso l’alto, aprendo in lontananza l’irrequieta composizione. L’impressione di trovarci all’inizio del processo di apoteosi nasce dalla fusione di elementi propri della figura del sovrano ispirato dal dio, con quelli della trasfigurazione nella divinità. Simboli regali e insieme divini sono il trono con lo scranno, lo scettro, il manto di porpora e la corona di fronde di quercia, attributo divino il fascio di folgori stretto nella sinistra, motivo di congiunzione tra le sfere del potere celeste ed umano il movimento verso l’alto della testa e dello sguardo. Ma dove le parole di Plinio trovano il più eloquente riscontro è nella folgore obliqua sul grembo, sporgente dalle ginocchia, ottenuta col bianco e col giallo a contrasto della porpora – fulmen extra tabula esse – e nelle dita del piede sinistro che ricevono dall’alto il bagliore ed urtano immediatamente lo spettatore con i riflessi bianchi che le distinguono una ad una nel calzare – digiti eminere videtur. In Nicia il problema è quello di dare risalto plastico all’intera figura, in Apelle l’organicità classica è compromessa dall’evidenza del particolare violentemente illuminato: alla funzione plastica della prospettiva, del colore e della luce, perseguita da Melanzio e da Pausia, si è aggiunto lo splendor, come rappresentazione della fonte di luce nel quadro e dei suoi riflessi sulla figura (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 29).
Alessandro Magno. Affresco pompeiano, I sec. a.C., dalla Casa dei Vettii. The Bridgeman Art Library.
I lettori ricorderanno che tutte queste cose sono state fatte con quattro colori.
In Apelle, la tecnica di applicazione è quella della velatura, osservata da Aristotele[5]:
I colori si mostrano gli uni attraverso gli altri come talora fanno i pittori che passano un colore sopra un altro più vivo.
Una vernice trasparente equilibrava i contrasti[6]:
Le sue invenzioni giovarono nell’arte anche ad altri; una sola cosa nessuno poté imitare: ossia che, terminata l’opera la cospargeva di un atramento così tenue che questo stesso, illuminato, suscitava il colore bianco della lucentezza e proteggeva dalla polvere e dalle impurità, apparendo infine alla mano di chi lo osservasse, ma anche allora con grande accortezza, perché la lucentezza dei colori non offendesse la vista a chi osservava come attraverso una pietra speculare, e di lontano la medesima cosa desse inavvertitamente austerità ai colori troppo floridi.
Le consumate risorse di una tecnica vicina al virtuosismo consentono all’artista di esprimere ogni sfumatura della vita interiore e di dare l’interpretazione dei casi individuali nell’inquietudine del tempo: il «demone» di cui parlava l’epigramma a proposito di Apelle, è quanto avvince ed affascina lo spettatore nella rappresentazione dell’animo umano. Nella straordinaria galleria di re, cortigiani ed artisti, dipinti da Apelle insieme al primo autoritratto di cui si abbia notizia nella pittura antica (Anthologia Palatina, IX 595), l’audace introspezione ed un’individuazione senza riserve consentivano ai metoposkópoi di indovinare il passato e il futuro da ciascun volto (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 88). Clito il Nero, «che si affrettava a battaglia col cavallo e l’attendente che porge l’elmo a lui che lo chiedeva» (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 93), è colui che aveva salvato la vita ad Alessandro al Granico nel 334. «Neottolemo a cavallo contro i Persiani» (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 96) ricorda parimenti le dediche di statue equestri ai caduti del Granico e in qualche modo viene evocato dai cavalieri nel mosaico di Alessandro e nella battaglia sul sarcofago di Sidone. Abrone (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 93), rappresentato in un quadro a Samo, potrebbe essere il pittore altrimenti noto nella cerchia di Apelle. Menandro, che Plinio (Naturalis Historia, XXXV 93) indica come «re di Caria», potrebbe essere il satrapo della Lidia, noto tra il 327 e il 321: il dipinto era a Rodi, dove ci porta la notizia di una breve permanenza di Apelle e dei suoi rapporti con Protogene (Naturalis Historia, XXXV 81-83; 88). «Archelao con moglie e figlia» (Naturalis Historia, XXXV 96) può essere identificato con lo stratego figlio di Teodoro, governatore di Susa sotto Alessandro, poi satrapo di Mesopotamia; Anteo (Naturalis Historia, XXXV 93) eventualmente con il padre di Leonnato. Ad Alessandria si trovava il ritratto di Gorgostene (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 93), attore tragico, ed alla corte di Tolomeo il pittore avrebbe eseguito la caricatura di un buffone (Naturalis Historia, XXXV 89), qualcosa come i grýlloi di Antifilo.
Le forze inquietanti della pittura di Apelle sublimano nell’allegoria. Nell’Odeîon di Smirne si conservava una Cháris (Pausania, IX 35, 6) da intendere come la personificazione dell’ideale estetico del pittore, che si può identificare con la figura di un mosaico di Biblo. D’incerta collocazione la Tychḗ seduta[7], che avrà comunque esercitato un’influenza sull’opera di Eutichide. Ad Alessandria, con l’allegoria della Calunnia, Apelle espresse la crisi dei suoi rapporti con Tolomeo. La necessità di rendersi in qualche modo indipendente dall’ordine costituito delle corti solleva il realismo dell’osservatore ad invenzioni straordinarie. Dalla descrizione di Luciano (Calumniae non temere credendum, 2-5) s’intende che ogni elemento della figurazione era arricchito di sfumature, finezze ed accentuazioni. Luciano metteva in relazione il quadro con un episodio avvenuto un secolo più tardi, il tradimento di Teodote a Tiro del 219, ma se la confusione è nata dall’assedio di Tiro sostenuto nel 315 dalla guarnigione tolemaica contro Antigono, abbiamo un opportuno riferimento cronologico per i rapporti con Tolomeo I (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 89), compromessi dalla simpatia di Apelle per Antigono e dalla rivalità di Antifilo.
Il ritratto e l’allegoria si fondono col genere storico nell’Alessandro trionfante sul carro, che Plinio (Naturalis Historia, XXXV 93-94) descrive a Roma, e suggerisce la partecipazione di Apelle alla prima commissione pittorica che conosciamo da parte dei Diadochi. Si tratta con ogni probabilità di una parte della decorazione del carro funebre di Alessandro[8], attorno al quale erano
quattro tavole figurate parallele e uguali alle pareti. Di queste la prima aveva un carro cesellato, e seduto su questo Alessandro, che aveva tra le mani uno scettro straordinario: attorno al re si trovava una guardia armata di Macedoni ed un’altra di Persiani melofori, e davanti a questi i portatori delle sue armi. La seconda aveva gli elefanti che seguivano la guardia, bardati da guerra, che avanzavano portando sul davanti Indiani, sul dorso Macedoni, armati secondo il costume consueto. La terza torme di cavalieri che mostravano di raccogliersi in schiera. La quarta navi preparate alla naumachia.
La visione prospettica corrisponde a quella descritta da un autore di scuola aristotelica (De audibilibus, 801a 33), con figura che indietreggiano, mentre altre vengono innanzi, e i soggetti ricordano la preferenza espressa da Nicia (Demetrio, De elocutione, 76) per «ippomachie e naumachie». Apelle doveva già aver rappresentato qualcosa di simile ad Efeso, per quel che riguarda lo schieramento di cavalieri.
Nella prima tavola, l’eccezionalità della forma dello scettro, messa in luce dalla descrizione di Diodoro, fa pensare ad un tirso, e la presenza degli elefanti rafforza l’ipotesi che si tratti di una rappresentazione di Alessandro come Dioniso di ritorno dall’India. Poiché il corpo del re fu trasferito ad Alessandria, le tavole che decoravano il carro possono essere state tra quelle che Ottaviano portò più tardi a Roma dall’Egitto: il concetto del tiaso vittorioso attraverso la Carmania interessava particolarmente gli abitanti di Alessandria, che veneravano il fondatore come un giovane dio, coperto dalla spoglia di elefante, e rimase all’origine della processione che i Tolomei organizzavano al momento dell’accessione alla basiléia. Elementi di questa pompḗ passarono al trionfo romano, ma l’interpretazione offerta dal pittore era così lontana dal programma augusteo da farci credere che la prima sistemazione dei dipinti nel Foro di Augusto fosse prevalentemente decorativa (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 27). Come il quadro giovanile con Aristrato a Sicione, anche quest’opera apologetica della maturità di Apelle era però destinata a subire un travisamento. Affermatosi in Roma il processo di apoteosi, Claudio fece sostituire la testa di Alessandro con quella di Augusto[9], e allora accadde che le figure di prigionieri divenissero personificazioni di Bellum e Furor, avvinti dalla Pax Augusta, secondo l’interpretazione di Plinio (Naturalis Historia, XXXV 27; 94) e di Servio (Scholia ad Aeneidem, I 294). L’altra tavola di Apelle portata nel Foro di Augusto rappresentava Alessandro con i Dioscuri (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 27; 93): quando la testa del sovrano fu mutata anche qui in quella di Augusto, i Romani poterono travisare nelle giovani divinità le immagini di Gaio e Lucio Cesare.
I capolavori si addensarono negli ultimi anni, quando Apelle andò a stabilirsi a Coos e ne assunse la cittadinanza (Ovidio, Ars amandi, III 401; Plinio, Naturalis Historia, XXXV 79). Nell’Asklepieîon, Eroda (Mimiambo IV, 72-78) celebrava la decorazione di un interno con un giudizio che, nell’apparente ingenuità del dialogo tra Kokkálē e Kynnō, conferma la tradizione della «linea» (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 81-84) del pittore e la vivacità della polemica con Antifilo:
Vere, cara, sono le mani dell’Efesio in ogni linea di Apelle […]; chi ha visto lui o le sue opere senza restar stupito in contemplazione, come giusto, quello sia appeso per un piede nella bottega di un tintore.
Leonida di Taranto (Anthologia Palatina, XVI 182), raggiungendo Teocrito a Coos, vide l’Afrodite Anadyoménē, lasciandocene la prima, insuperata descrizione:
Nascente dal grembo della madre, ancora ruscellante di spuma, vedi la nuziale Cipride, come Apelle l’espresse, bellezza amabilissima, non dipinta, ma animata. Dolcemente con la punta delle dita spreme la chioma, dolcemente irraggia dagli occhi luminoso desiderio, e il seno, annuncio del suo fiorire, inturgidisce come un pomo. Atena stessa e la consorte di Zeus diranno: «Zeus, siamo vinte al giudizio!».
Afrodite Anadyoménē esce dal mare con due amorini. Affresco pompeiano del I secolo d.C., dalla Casa di Venere.
La notizia di Strabone (XIV 2, 19) che nell’Asklepieîon si conserva tra le opere di Apelle un ritratto di Antigono, consente di datare questo periodo fino agli anni tra il 306 e il 301, quando l’isola fu sotto il controllo del Monoftalmo: si tratta probabilmente dell’Antigono a cavallo (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 93) che chiude l’elenco pliniano dei ritratti ed era preferito, insieme ad un’Artemide (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 96), da «i più esperti d’arte». Da Coos fu portata a Roma anche l’ultima opera del maestro, un’Afrodite, interrotta dalla morte[10].
La critica antica faceva culminare con Apelle il processo di scoperta della pittura classica, poiché il pittore apparentemente non ha inteso rompere col passato, ha espresso la propria ammirazione per i seguaci di scuole diverse ed ha rivissuto in una sintesi più vasta precedenti esperienze. Ma sul piano della teoria artistica egli ha portato a compimento l’innovazione dei maestri di Sicione, che consiste nella relatività e soggettività della rappresentazione. Le motivazioni per cui il pittore avrebbe superato «tutti quelli nati prima e quelli destinati a nascere dopo» (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 79), non sono infatti omogenee alla serie delle precedenti invenzioni: l’ultima di quelle citate da Plinio, lo splendor, per quanto fosse nota all’artista e certamente da lui sviluppata, non gli veniva esplicitamente attribuita […]. Quintiliano[11] invece afferma che Apelle era superiore agli altri per «ingegno e grazia», e di ciò il pittore stesso si sarebbe vantato. Ora i frammenti derivati dagli scritti di Apelle «sulla teoria della pittura» (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 79; 111), non lasciano dubbi sul fatto che cháris e gnōmē fossero doti naturali dell’artista, che nulla avevano a che vedere con i fondamenti obiettivi dell’estetica classica: Apelle stesso ammetteva di venire superato da Melanzio nella composizione, da Asclepiodoro nelle proporzioni (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 79) e da Protogene nella diligenza. […]
Apelle aveva colto un aspetto moderno dell’operare, il senso di una conclusione dal punto di vista artistico che non coincideva con la preoccupazione classica della completezza (Plinio, Naturalis Historia, XXXV 80):
Altra gloria acquistò ammirando un’opera di Protogene d’immenso lavoro e di quanto mai travagliata cura, disse infatti che in quello ogni cosa era pari o anche superiore a lui, ma che egli in una sola cosa era superiore, e cioè che sapeva togliere la mano dalla tavola, col memorabile precetto che spesso l’eccessiva diligenza nuoce.
Apelle credeva alla soluzione del quadro con un colpo di spugna, alla felicità del momento ispirato da Hermes (Hḗrmaion), aveva fede in ciò che si produce da se (autómaton), secondo la formulazione aristotelica – «l’arte ama fortuna e la fortuna ama l’arte» – che compromette il merito convenzionale della ricerca (Dione Crisostomo, Orationes, LXIII 4-5):
Non riusciva a dipingere la schiuma del cavallo travagliato dal combattimento. Sempre più in difficoltà, alla fine, per smetterla gettò la spugna sulla pittura in direzione del morso. Ma poiché questa aveva molti colori, applicò alla pittura il colore più simile alla schiuma desiderato. Apelle vedendo ciò si rallegrò, nella sua incapacità, dell’opera di fortuna e terminò l’opera non per arte, ma per fortuna.
La cháris non è una regola valida per ragioni obiettive e razionali, non è trasferibile attraverso l’insegnamento, come la precettistica sicionia, ma è affidata a sua volta ad una qualità personale, il «genio» dell’artista, che risolve le difficoltà contingenti del modello. Questo infatti non è più scelto secondo il criterio classico del bello, ma viene offerto da circostanze estranee alla selezione estetica […].
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Note:
[1] Plin., Nat. Hist., XXXV 93.
[2] Plin., Nat. Hist., XXXV 93.
[3] Cic., In Verr., IV 135; Plin., Nat. Hist., XXXV 92; Plut. Alex., 4, 2; De Alex. Fort. II, 335a; Ad princ. Iner., 780f; De Is., 360d.
[4] Plin., Nat. Hist., XXXV 85.
[5] Aristot., De sensu, 440a 7-9.
[6] Plin., Nat. Hist., XXXV 97.
[7] Liban., Descr., XXX 1-5; Stob., Ecl., IV 41, 60.
[8] Diod., XVIII 26-27.
[9] Plin., Nat. Hist., XXXV 36; 94.
[10] Cic., De off. III 2, 10; Ad fam., I 9, 15; Plin., Nat. Hist., XXXV 92.
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