ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. III. L’Ellenismo e la tarda grecità, Firenze 2004, 42.
I dati biografici e, soprattutto, cronologici relativi a Nicandro, nato a Claros presso Colofone, luogo celebre per il culto di Apollo e per un famoso santuario del dio, appaiono piuttosto confusi già nelle fonti antiche. Alcuni lo considerarono infatti contemporaneo di Teocrito, altri lo assegnarono alla generazione successiva e altri ancora lo vollero coetaneo di Attalo III Filometore, che regnò su Pergamo dal 138 al 133 a.C. Tale incertezza sembra essere stata causata dall’esistenza di un altro Nicandro, storico e antiquario, forse antenato di questo autore, contemporaneo e amico di Teocrito, vissuto al tempo di Attalo I (241-197 a.C.) e ricordato come poeta epico in un’iscrizione delfica (Syll.³ 452). Al più giovane Nicandro, figlio di Dameo (quello più antico è figlio di Anassagora), sono attribuiti due poemi didascalici, uno intitolato Θηριακά (Rimedi contro i veleni animali) e l’altro Ἀλεξιφάρμακα (Antidoti, o Contravveleni)[1]. Il primo (958 versi), dedicato a un certo Ermesianatte, amico del poeta, si apre con alcune notizie generali sull’origine dei veleni, che sarebbero nati dal sangue dei Titani; poi, si descrive ogni specie animale letale, spiegando gli effetti dei loro sieri; quindi, si prendono in considerazione i rimedi più comuni contro i veleni animali, mescolando in modo abbastanza generico nozioni scientifiche e credenze popolari. Successivamente, il poeta dedica un’ampia trattazione al veleno dei serpenti, indicando i periodi dell’anno in cui essi sono più pericolosi e ritenendo le femmine più micidiali dei maschi. Segue un’ultima parte, dedicata ai rimedi contro le punture dei ragni e degli scorpioni. L’Ἀλεξιφάρμακα (630 versi), invece, descrive i vari tipi di pozione velenifera, i miasmi tossici e gli eventuali antidoti. Secondo le fonti antiche, il materiale di questi trattati proverrebbe dalle opere di due autori didascalici: Numenio, discepolo del medico Dieucle di Eraclea, vissuto verso la metà del III secolo a.C., e un tale Apollodoro, la cui attività risale agli inizi dello stesso secolo.
Paris, Bibliothèque nationale de France. Supplément grec 247 (metà X sec.), Νικάνδρου Ἀλεξιφάρμακα, f. 48r. Un pastore nel bosco.
In ogni caso, la fortuna dei Θηριακά e degli Ἀλεξιφάρμακα nel mondo antico fu notevole: il successo dei due poemetti si dové alla loro utilità per il vasto pubblico, alla perfezione dei versi (Nicandro era uno dei più fedeli assertori della perfezione armonica dell’esametro callimacheo), e a un’abile e innovativa manipolazione del linguaggio. Nicandro, infatti, aveva abilmente inserito nel verso dell’epica i termini zoologici e tossicologici più oscuri: di conseguenza, gli hapax legomena di queste opere divennero il terreno di caccia ideale per i grammatici antichi e tardi. Leggere questi testi è tuttavia esteticamente frustrante per i moderni: Nicandro ha accolto con indifferenza l’uniformità compilativa dei suoi modelli, intensificandola nei suoi trattati in versi: negli Ἀλεξιφάρμακα, dunque, si passano in rassegna le caratteristiche di ciascun veleno, la sintomatologia dei loro effetti, i possibili antidoti; nei Θηριακά si forniscono accurate descrizioni dei segni identificativi dei serpenti e dei sintomi del loro morso. Le digressioni perdono il loro effetto di animare la trattazione e mantengono una funzione eminentemente tecnica (per esempio, quella di segnare il passaggio da un capitolo all’altro).
Paris, Bibliothèque nationale de France. Supplément grec 247 (metà X sec.), Νικάνδρου θηριακά, f. 6r. Una vipera maschio; una vipera femmina che attacca un uomo.
Altri poemi didascalici a cui è associato il nome di Nicandro, alcuni dei quali sono noti solo da frammenti o dal loro titolo, mostrano chiaramente l’ambizione di creare un’enciclopedia in versi: i due libri di Γεωργικά sulla coltivazione dei campi e sul giardinaggio[2]; i Μελισσουργικά, sull’apicultura; gli Ὀφιακά, una monografia sui serpenti e una raccolta di figure mitiche morse da questi rettili. A queste opere si aggiungono altri due titoli: Περὶ χρηστηρίων πάντων (Sulle medicine utili) e Ἰάσεων συναγωγή (Una raccolta di terapie). Ci sono alcuni indizi di due ulteriori testi che dovevano trattare rispettivamente di cinegetica e di mineralogia. Un’altra opera perduta dello stesso Nicandro, i Προγνωστικά, sarebbe, secondo la Suda, una parafrasi in esametri dell’omonimo trattato pseudo-ippocratico.
Antonio del Pollaiolo, Apollo e Dafne. Olio su tavola, 1470. London, National Gallery.
Fra le opere non pervenute di Nicandro, però, non si può non ricordare il poema mitologico, intitolato Ἑτεροιούμενα (Metamorfosi), dedicato, secondo una consuetudine iniziata dagli Aἴτια callimachei, a leggende di eroi ed eroine trasformati dagli dèi in piante o animali. I pochissimi versi sopravvissuti di quelli che dovevano essere quattro o cinque libri di poesia non potrebbero bastare a darci un’idea dell’argomento, se non avessimo i riassunti dei miti, contenuti in un’opera di Partenio e nel compendio realizzato da Antonino Liberale, forse liberto di Antonino Pio. Non è certo che quest’opera abbia influenzato le Metamorfosiovidiane.
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Bibliografia:
Cᴀᴍᴇʀᴏɴ A., 𝐶𝑎𝑙𝑙𝑖𝑚𝑎𝑐ℎ𝑢𝑠 𝑎𝑛𝑑 𝐻𝑖𝑠 𝐶𝑟𝑖𝑡𝑖𝑐𝑠, Princeton 1995, 194-207.
Per un aggiornamento bibliografico, si vd. il sito A Hellenistic Bibliography [sites.google.com].
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Note:
[1] Ciononostante, Cameron (1995) attribuisce entrambi i poemi didascalici al Nicandro più vecchio e segue, perciò (se si dà credito alle vitae Arati), l’antica opinione che il poeta di Soli e questo autore fossero contemporanei.
[2] Il retore Ateneo di Naucrati, vissuto al tempo di Commodo, ci ha conservato circa cento versi di questo poema didascalico sull’agricoltura, che, secondo Quintiliano (Inst. X 1, 56), avrebbe fornito numerosi spunti all’omonima opera di Virgilio; ma si tratta di un’affermazione tutta da dimostrare, dato che non sembra che nessuno dei frammenti superstiti, che trattano della coltivazione delle rose e di altre piante da fiore, sia mai stato utilizzato da Virgilio.
in PIAZZI F., GIORDANO RAMPIONI A., Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina. 2. Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004, pp. 572-573.
[1] Ut alimenta sanis corporibus agricultura, sic sanitatem aegris medicina promittit. Haec nusquam quidem non est siquidem etiam inperitissimae gentes herbas aliaque prompta in auxilium uulnerum morborumque nouerunt. [2] uerum tamen apud Graecos aliquanto magis quam in ceteris nationibus exculta est, ac ne apud hos quidem a prima origine, sed paucis ante nos saeculis. Ut pote cum uetustissimus auctor Aesculapius celebretur, qui quoniam adhuc rudem et uulgarem hanc scientiam paulo subtilius excoluit, in deorum numerum receptus est. [3] huius deinde duo filii Podalirius et Machaon bello Troiano ducem Agamemnonem secuti non mediocrem opem commilitonibus suis attulerunt; quos tamen Homerus non in pestilentiā neque in uariis generibus morborum aliquid adtulisse auxilii, sed uulneribus tantummodo ferro et medicamentis mederi solitos esse proposuit. [4] Ex quo apparet has partes medicinae solas ab iis esse tentatas, easque esse uetustissimas. Eodem uero auctore disci potest morbos tum ad iram deorum immortalium relatos esse, et ab iisdem opem posci solitam uerique simile est interisse quidem tum morbis plurimos, cum fuerint nulla auxilia aduersae ualetudinis, plerumque tamen eam bonam contigisse ad bonos mores, quos neque desidia neque luxuria uitiarant.
Esculapio. Testa, marmo, II sec. d.C. Bad Deutsch-Altenburg, Museum Carnuntinum.
[1] Come l’agricoltura procura gli alimenti per i sani, così la medicina garantisce la salute per gli ammalati. Questa, in verità, non è assente in nessuna parte del mondo, se è vero che anche le popolazioni più arretrate conoscono erbe e altri preparati disponibili per la cura di ferite e di malattie. [2] Ma, tuttavia, presso i Greci fu perfezionata parecchio di più che tra le altre civiltà, e neppure presso di loro fin dalla prima origine, ma pochi secoli prima di noi, visto che Esculapio viene celebrato come l’inventore più antico, il quale, poiché perfezionò in modo un po’ più accurato questa scienza ancora arretrata e rozza, fu accolto nel novero degli dèi. [3] In séguito i suoi due figli, Podalirio e Macaone, che seguirono il capo Agamennone nella guerra di Troia, offrirono un aiuto non da poco ai propri commilitoni; eppure, Omero mostrò che essi non portarono alcun aiuto durante la pestilenza né in vari generi di malattie, ma che erano soliti soltanto curare le ferite con strumenti di ferro e con medicamenti. [4] E da ciò appare evidente che da costoro furono affrontate queste sole parti della medicina e che esse sono le più antiche. Inoltre, secondo la medesima testimonianza, si può apprendere che a quei tempi le malattie erano attribuite all’ira degli dèi immortali e che a loro di solito si chiedeva aiuto, ed è probabile che, fra i rimedi inesistenti alla malattia, non essendovi alcun aiuto per la salute inferma, la maggior parte godesse comunque di buona salute grazie a buoni comportamenti, che né la pigrizia né l’eccessiva agiatezza avevano guastato.
di G.B. CONTE, Erudizione e discipline tecniche, in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 324-330.
Alla scienza, nell’antichità, non era attribuito un valore autonomo. Infatti, era considerata un momento dell’indagine filosofica. La ricerca scientifica era un mero supporto alla visione generale del mondo prospettata dal filosofo e lo studio della natura serviva per liberare l’uomo da paure e superstizioni, come dimostrano le Naturales quaestiones di Seneca, un’opera nella quale la connessione stretta tra scienza e filosofia è particolarmente evidente. A maggior ragione non godeva di grande apprezzamento la ricerca tecnologica, in quanto sia la scienza applicata sia tutto ciò che aveva attinenza con il lavoro manuale era di competenza delle classi subalterne, dei «meccanici», che non potevano aspirare in alcun modo a raggiungere il prestigio riservato ai ceti dominanti.
Tuttavia, nella letteratura latina esiste una solida, ancorché esigua, tradizione di opere scientifiche, concepite con intento didascalico, in forma enciclopedica e rivolte a un pubblico di media cultura. Lo scopo di questi manuali era quello di fornire un’informazione il più possibile ampia, puntuale, precisa su tutti gli argomenti che il buon pater familias avrebbe dovuto conoscere. In generale, il prestigio della retorica impediva la nascita di una prosa che – sul modello di quella filosofica di Aristotele – rinunciasse agli ornamenti e puntasse alla definizione di una terminologia precisa e al rigore dell’argomentazione. D’altra parte, a che una vera e propria prosa scientifica non si formasse, contribuiva anche la forte tradizione del poema didascalico, cui aveva già fatto ricorso, per esempio, Lucrezio.
Tra il 27 e il 23 a.C. Marco Vitruvio Pollione, che era stato ufficiale del genio sotto Cesare e addetto alla costruzione di macchine da guerra e che in tempo di pace aveva svolto la professione di architetto (egli stesso ricorda di aver progettato e costruito la basilica nel foro di Fano), pubblicò un trattato De architectura in dieci libri, dedicato ad Augusto, il quale gli aveva garantito una pensione, permettendogli così di mettere a frutto la sua cultura e la sua esperienza tecnica, componendo l’opera con cui voleva guadagnarsi la fama presso i posteri. Probabilmente non a caso il trattato comparve negli stessi anni in cui il princeps si era proposto un vasto programma di rinnovamento dell’edilizia pubblica sia a Roma sia nel resto dell’impero. Il I libro tratta dei luoghi adatti alle costruzioni, il II dei materiali da impiegare, il III e il IV degli edifici sacri, il V degli edifici amministrativi e pubblici in genere, il VI e il VII delle abitazioni private, l’VIII dell’idraulica, il IX degli orologi solari e il X di meccanica (cioè della costruzione di gru, ordigni idraulici e bellici). La tradizione ha privato, però, l’opera di Vitruvio dei disegni che – per sua stessa dichiarazione – la corredavano.
Nella concezione dell’autore, l’architettura era vista, in senso quasi aristotelico, come imitazione dell’ordine provvidenziale della natura. Perciò, Vitruvio richiedeva al suo architetto ideale il possesso di una cultura ricca e varia, quasi del tipo di quella che già Cicerone esigeva per l’oratore (il paragone non è peregrino, perché il modello del De oratore è effettivamente presente al pensiero vitruviano). Specialmente nei proemi, di grande interesse per la comprensione dello statuto delle discipline tecniche a Roma, Vitruvio insisteva sul fatto che l’architetto non dovesse essere solo uno specialista, ma doveva possedere una vasta cultura generale: la conoscenza dell’acustica era richiesta per la costruzione dei teatri, quella dell’ottica per l’illuminazione degli edifici, quella della medicina per l’igiene delle aree edificabili. Ma la preparazione enciclopedica che Vitruvio auspicava per l’architetto ideale, che gli avrebbe consentito di risolvere brillantemente qualsivoglia problema tecnico, faceva perno sostanzialmente sulla filosofia. Appare evidente, dai proemi di Vitruvio, l’esigenza di conferire all’architetto il prestigio sociale e culturale che gli antichi di solito negavano ai rappresentanti delle discipline tecniche e la giustificazione dell’architettura di fronte al pubblico è ricercata attraverso una connessione costante alla filosofia, che si risolve, però, in una subordinazione (almeno sul piano programmatico). L’ossequio alla filosofia, che Vitruvio proclama nei proemi, incide, in realtà, piuttosto scarsamente sulla trattazione vera e propria, dove la concreta esperienza dell’architetto è ovviamente predominante. La differenza tra le parti proemiali e quelle didascaliche dell’opera vitruviana si rispecchia anche nello stile: le prime fanno uso piuttosto abbondante di ornamenti retorici, mentre nelle seconde il periodare è asciutto e disadorno, e la lingua non si perita ad ammettere volgarismi e tecnicismi di origine greca.
Giacomo Grigolli, Ritratto di Vitruvio. Busto, marmo, 1878. Verona, Protomoteca della Biblioteca Civica.
Un diverso modo di conferire dignità alle discipline tecniche era quello di collocarle all’interno di una complessiva enciclopedia dedicata alle artes, come aveva fatto Varrone nei suoi Disciplinarum libri IX. Fu la strada scelta da Aulo Cornelio Celso, vissuto in età tiberiana, il quale fu autore di un vasto manuale enciclopedico, che trattava di ben sei artes: agronomia, medicina, arte militare, retorica, filosofia e giurisprudenza. Dell’opera sopravvivono solo gli otto libri relativi alla medicina (i libri VI-XIII dell’opera completa). La trattazione di Celso è estremamente chiara ed efficace, tanto da aver fatto supporre ad autorevoli studiosi della medicina antica che egli fosse un medico di professione; la questione, molto dibattuta, non ha ancora trovato una soluzione: Celso si serve sicuramente di fonti greche, ma la sua disquisizione presenta molte caratteristiche tipicamente romane, che inducono a credere che egli non fosse un semplice compilatore.
Rivelando notevoli doti di equilibrio e di spirito critico, l’autore evita infatti di addentrarsi nelle controversie dogmatiche delle scuole mediche greche e cerca di mantenere una posizione equidistante fra quelli che, utilizzando categorie moderne, si potrebbero definire «empiristi» e «razionalisti»: si trattava dei due opposti indirizzi che ancora al suo tempo si affrontavano alacremente, gli uni volti a indagare le «cause occulte» delle malattie e quindi propensi all’anatomia e alla vivisezione, gli altri limitantisi alla considerazione delle cause evidenti, sotto la guida dell’esperienza, e rivolti a curare più che a comprendere. Le doti di sobrietà e di equilibrio, unitamente a quelle, molto notevoli, dello stile (Quintiliano, in seguito, avrebbe giudicato Celso scrittore di discreta eleganza, e la tradizione umanistica lo avrebbe collocato fra i migliori prosatori latini) hanno contribuito a fare, nei secoli, la fortuna dei De medicina.
Medico che visita un giovane paziente. Rilievo, marmo. Getty Museum.
Di poco posteriore a Celso fu un altro scrittore, Scribonio Largo, il quale si occupò, a differenza di lui, esclusivamente di medicina. Si sa che visse al tempo di Claudio. Di lui rimane solo un libro di ricette (Compositiones), scritto senza pretese letterarie, unicamente per fini pratici. Invece, sotto il nome di Antonio Musa, medico di Augusto e di Orazio, rimane uno scritto intitolato De herba vettonica (ma si tratta di un’opera di età più tarda).
Fra le discipline tecnico-scientifiche, l’agronomia occupava una posizione di privilegio: data la tradizione di proprietari terrieri degli aristocratici romani, membri illustri della classe senatoria, come Catone e Varrone, non avevano disdegnato di scrivere di questo argomento. D’altra parte, infatti, quello romano era un popolo originariamente agricolo e la terra aveva da sempre rappresentato un elemento di sicurezza economica per chi l’avesse posseduta, garantendo profitti più elevati e ritenuti più sicuri rispetto a quelli derivanti da altre attività.
Un trattato ancora più impegnativo (De re rustica) fu pubblicato da Lucio Giunio Moderato Columella, contemporaneo di Seneca e originario di Gades in Hispania. Poco si sa, tuttavia, del suo ambiente sociale di provenienza, ma un’iscrizione di Taranto (CIL IX, 235 = ILS 2923 = AE 2000, 357) lo presenta come tribuno della legio VI Ferrata, di stanza in Syria: il tribunato nelle legioni costituiva spesso per l’aristocrazia provinciale il modo migliore di iniziare la carriera militare, politica o civile al di fuori della propria patria. Preso domicilio a Roma, o nei dintorni, Columella si dedicò prevalentemente alla pratica e allo studio dell’agricoltura.
Contadino intento alla mietitura. Bassorilievo, marmo, da Buzenol (Belgio).
Il suo trattato, dunque, ebbe due redazioni: della prima rimane solo il libro De arboribus, mentre si possiede interamente la seconda, molto più vasta, in dodici libri. Columella tratta successivamente della coltivazione dei campi, degli alberi, della vite, dell’allevamento degli animali di grossa taglia e di quelli da cortile, dell’allevamento delle api, della coltivazione degli orti e del mantenimento dei giardini, dei doveri del fattore e della fattoressa. Il libro X (De cultu hortorum) è in esametri: ciò rappresenta un omaggio dell’autore alla tradizione delle Georgiche virgiliane, e insieme il tentativo di colmare un vuoto lasciato consapevolmente da Virgilio che, nel VI libro del suo poema didascalico, dopo aver accennato brevemente ai giardini, lamentando la mancanza di spazio, aveva lasciato ad altri il compito di trattarne in maniera più accurata.
Columella scrive in una prosa limpida e scorrevole, e anche i suoi versi sono di fattura discreta; le fonti sono quelle consuete: gli scrittori di agricoltura greci e latini, da Senofonte a Catone e a Varrone, mentre è spesso presente, anche nelle parti in prosa, il ricordo di Virgilio. Ma predominante è l’esperienza personale dell’autore. L’opera di Columella si apre con il riconoscimento di una vasta crisi dell’agricoltura italica, le cui cause sono da ricercarsi nel disinteresse dei proprietari, nell’inadeguato sfruttamento dei vastissimi latifondi, nella mancanza di una seria preparazione scientifica in materia. Ciò ha determinato una deficienza ormai strutturale dell’agricoltura in Italia, portando alla supremazia di alcune province nell’esportazione di prodotti d’eccellenza, come vino e olio.
Mercato ortofrutticolo e seminatura dei campi. Rilievo, dal Belgio. Luxembourg, Musée Luxembourgeois
Nelle pagine introduttive, l’autore critica il fatto che non vi siano scuole e maestri per agricoltori, a differenza di quanto avviene per le altre arti e professioni, pur essendo l’agricoltura la più bella e la più nobile delle attività. Ma la formazione dell’agricoltore perfetto pare un compito impossibile, tanto vaste e varie sono le competenze necessarie. A soluzione del problema, Columella sembra affacciare l’ideale di una cultura enciclopedica quale quella che Cicerone aveva prospettato per l’oratore (non a caso i trattati ciceroniani sono frequentemente richiamati da Columella) o quella che Vitruvio richiedeva per il suo architetto. Il diffondersi, nelle varie discipline, di questo ideale enciclopedico è prova della persistente necessità della loro subordinazione alla filosofia, che sembra la via obbligata attraverso la quale esse devono passare per acquisire dignità e, paradossalmente, statuto autonomo.
Il richiamo, frequente nelle pagine di Columella, alle figure idealizzate degli antichi proprietari terrieri, che dividevano la propria vita fra la cura dei campi e l’attività politica, può far credere che la preferenza dell’autore vada al piccolo podere, il cui proprietario possa facilmente e direttamente controllare; una conferma di ciò sembrerebbe potersi trovare nella frequente critica all’assenteismo dei proprietari latifondisti. In realtà, anche se Columella non dà indicazioni esplicite sulle dimensioni del suo podere ideale, dal complesso dell’opera si evince che i suoi precetti sono per la massima parte rivolti a proprietà di grande estensione. Ciò risulta chiaro, per esempio, dalla sezione I 6 dedicata all’estensione della villa e delle sue parti, in cui vengono descritti sia i locali destinati ai servi e alla lavorazione e alla conversazione dei prodotti, sia quelli, rigorosamente distinti, destinati alla residenza del proprietario; a tal proposito viene elencata tutta una serie di commoda che avrebbe fatto gridare allo scandalo i Romani di antico stampo, di cui pure Columella tesse l’elogio. Il richiamo alla prisca moralità non è, probabilmente, solo di maniera: una contraddizione non dissimile da quella che si riscontra in Columella affiorava, forse con maggiore consapevolezza da parte dell’autore, anche in Vitruvio, che, mentre continuava a privilegiare l’antico modello del cittadino parsimonioso, forniva indicazioni per la costruzione delle sontuose dimore dei ricchi romani. Columella si rivela realisticamente consapevole del fatto che per richiamare in campagna i proprietari inurbati – il mezzo migliore di incrementare la produzione era, infatti, individuato nel sottoporla alla sorveglianza diretta del dominus, che avrebbe dovuto effettuare frequenti soggiorni nei propri poderi – non sarebbe bastata l’esortazione moralistica, ma sarebbe stato più opportuno provvedere le villae agricole di tutte le comodità offerte da un palazzo cittadino.
Vita rurale. Mosaico, III sec. d.C. Oudna, Villa dei Laberii. Tunis, Musée du Bardo.
Columella era fautore di una tendenza che proponeva la massima intensificazione e realizzazione dell’attività agricola, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda; perciò, sincera appare, nell’opera, una certa ostilità verso il latifondo, abbandonato e trascurato dai ricchi proprietari, e sempre più improduttivo. Al contrario, si rivelano acute le sue proposte di organizzazione del lavoro dei servi, sottoposti al ferreo controllo che avrebbe dovuto essere esercitato dal villicus. Tuttavia, il rimedio proposto dall’autore era largamente utopistico: più realisticamente Plinio il Vecchio si sarebbe reso conto del fatto che, finché fosse perdurato il predominio della manodopera servile, sarebbe stata impossibile ogni effettiva razionalizzazione della produzione agricola; i servi, privi d’iniziativa e disinteressati al lavoro, non avrebbero mai lavorato al massimo delle proprie energie.
Si capisce come, nel momento in cui il dominio di Roma andava estendendosi fino ad abbracciare gran parte del mondo conosciuto, e anche terre fino ad allora ignote, la geografia acquistasse sempre più importanza, sia per fini pratici sia per intenti celebrativi: infatti, proprio a partire dall’età augustea, si assiste a un fiorire di testi assai vasti, complessi, quasi monumentali, che trattavano degli argomenti più disparati, offrendo una vera e propria sintesi del sapere dell’epoca. Il benessere diffuso, inoltre, consentiva a intellettuali, eruditi e tecnici di attendere ai propri interessi culturali e scientifici, con l’assenso del princeps cui le opere erano dedicate. Dal canto suo, l’imperatore vedeva nella letteratura tecnico-scientifica un ulteriore strumento di propaganda del buon governo. Quanto alla geografia, se ne era già occupato Varrone, il quale vi aveva dedicato pure opere specifiche, come fa pensare, per esempio, il titolo De ora maritima citato da Servio. Dai pochi frammenti che si conservano è possibile supporre che nei libri di geografia Varrone fondesse il taglio erudito e antiquario, a lui consueto, con l’attenzione ad aspetti più pratici, come, per esempio, le distanze fra i vari luoghi.
Anche di Cornelio Nepote sono tramandate notizie di carattere geografico, ma della sua opera in questo ambito, si sa molto poco.
M. Vipsanio Agrippa. Testa, bronzo, fine I sec. a.C.
Si occupò della materia uno dei personaggi politici più importanti dell’età augustea, Marco Vipsanio Agrippa, nientemeno che comandante supremo dell’esercito di Ottaviano, suo genero (ne sposò la figlia Giulia) e suo coetaneo (essendo nato, come lui, nel 63 a.C.). Agrippa, mosso certamente anche da finalità egemoniche, compose una gigantesca carta geografica del mondo allora conosciuto. Questa carta era accompagnata da commentarii – non è chiaro se fossero pubblicati a parte o anche riportati in calce alla carta stessa – i quali fornivano dati sull’estensione dei diversi territori, sulle distanze tra i luoghi, ecc. Quando, nel 12 a.C., Agrippa scomparve, Augusto in persona si premurò che l’opera del genero fosse portata a compimento e sistemata in una porticus, appositamente costruita nel Campo Marzio. Plinio il Vecchio, nella sezione della Naturalis historia dedicata alla geografia (altra testimonianza di quanto fosse importante questa scienza), cita con sommo rispetto Varrone e Agrippa.
Una generazione prima di Plinio, sotto il principato di Caligola o di Claudio, si colloca il primo autore latino che si possa definire, per quel che si sa, un geografo “puro”, e la cui opera sia interamente pervenuta. Si tratta di Pomponio Mela, spagnolo di Tingentera, del quale si possiede una Chorogràphia(«Descrizione dei luoghi») in tre libri.
Rimini sulla Tabula Peutingeriana, esemplare del XII-XIII secolo di una carta delle principali vie dell’Impero romano.
Nella premessa alla sua Chorogràphia l’autore si lamenta che gli argomenti di cui si accinge a parlare non lascino spazio a uno stile elevato e al dispiegarsi dell’eloquenza. Questo «complesso d’inferiorità» sembra comune a molta parte della prosa tecnica latina, la quale si caratterizza proprio per la ricerca costante di uno stile più alto e spesso ricco di arcaismi, in contrasto con la prosaicità del contenuto. Lo stile di Mela, per esempio, si ispira principalmente a quello di Sallustio, e abbonda in arcaismi e ricercatezze linguistiche.
Sul piano contenutistico, la Chorogràphia descrive la terra prendendo come punto di riferimento-base il Mediterraneo, che segue in senso antiorario partendo dalle Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra), dove fa ritorno alla fine della descrizione.
L’autore non sembra affatto interessato agli aspetti più specificamente “tecnici” della sua disciplina: in lui, infatti, mancano cifre e dati, nonostante si riveli ottimo conoscitore delle fonti greche e latine. Mela è mosso piuttosto da interessi etnografici, e la sua facundia si dispiega soprattutto quando si trova a parlare di regioni lontane o poco conosciute; in quel caso, si lascia anche spesso trasportare dal gusto per i dettagli fiabeschi e meravigliosi.
Justus Perthes, Orbis Terrarum secundum Pomponium Melam, in W.H. Schoff, The Periplus of the Erythraean Sea. Travel and Trade in the Indian Ocean, London-Bombay-Calcutta 1912, p. 100
A Marco Gavio Apicio, contemporaneo di Tiberio, i manoscritti assegnano un corpus di ricette culinarie diviso in dieci libri – in realtà, formatosi con l’apporto di varie stratificazioni successive al IV secolo – che prende il titolo di De re coquinaria. Il nucleo apiciano di questa raccolta, derivato probabilmente, a sua volta, da due diverse opere (una sulle salse e una sull’elaborazione completa di alcuni piatti) non è facilmente ricavabile dalla massa composita di ricette che è pervenuta, dovuta a un maldestro compilatore tardoantico che dimostra di conoscere assai poco la terminologia tecnica e, in generale, la materia culinaria.
Alla base del De re coquinaria stanno opere di carattere medico (spesso, infatti, le ricette sono fornite in funzione delle loro proprietà dietetiche o come medicinali per disfunzioni dell’apparato digerente) e trattati di culinaria greca. Lo stile espositivo è privo di qualsiasi eleganza retorica e formale, gli ingredienti sono indicati con puntigliosa essenzialità in una lingua spesso pedestre; ma dietro questa totale semplicità si scorge pur sempre l’attenzione rivolta alla creatività e all’elaborazione scenografica dei piatti, la cui punta estrema può essere riassunta con la stessa paradossale conclusione dell’autore: «A tavola nessuno riconoscerà ciò che mangia».
Gatto che azzanna un anatra. Uccelli, pesci e conchiglie. Mosaico, ante 79 d.C. Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
da BIONDI I., Storia e antologia della letteratura greca. 2B. La prosa e forme di poesia, Messina-Firenze 2004, pp. 112-118.
All’invasione dell’Attica da parte spartana, Pericle aveva reagito con una strategia che puntava sulla possibilità di Atene di rifornirsi via mare: aveva fatto raccogliere tutta la popolazione attica entro le mura cittadine (decisione che era stata poco gradita ai contadini), abbandonando le campagne alle devastazioni del nemico. Senonché, a breve distanza dall’inizio delle ostilità, intervenne un fatto nuovo che sconvolse i piani strategici dello statista ateniese.
Nel corso del 430 a.C., infatti, dall’Etiopia, attraverso l’Egitto, la Libia e Lemno giunse ad Atene una spaventosa epidemia di peste polmonare, malattia fino ad allora sconosciuta (e ancor oggi imprecisata); il malanno, favorito dall’eccezionale calura estiva e dalle precarie condizioni igieniche della città, si diffuse rapidamente in tutta Atene, sovraffollata di profughi provenienti da ogni angolo dell’Attica.
Tucidide, che ne fu contagiato e sopravvisse, lasciò un’accurata e particolareggiata descrizione dei sintomi della malattia, certo di fare opera utile se essa fosse ricomparsa in seguito, visto che la mortalità fu indubbiamente accresciuta dall’ignoranza della tipologia del male e delle cure necessarie, se non per guarirlo, quantomeno per limitarne la diffusione.
Michael Sweerts, La pestilenza in un’antica città. Olio su tela, 1652-54.
Tucidide. Busto, calco da copia romana del I sec. a.C. da originale greco del IV sec. a.C. Moskow, Pushkin Museum.
[47, 2] Subito all’inizio dell’estate [del 430] i Peloponnesiaci e i loro alleati invasero l’Attica con due terzi delle loro forze, come avevano fatto in precedenza (li guidava Archidamo, figlio di Zeussidamo e re dei Lacedemoni), e, dopo essersi accampati, cominciarono a devastare il territorio. [3] Non erano in Attica ancora da molti giorni, quando la peste cominciò a manifestarsi per la prima volta tra gli Ateniesi: si diceva che fosse scoppiata anche prima, sia dalle parti di Lemno sia in altre località; tuttavia, non si ricordava che ci fosse mai stata da alcuna parte una pestilenza talmente estesa né una tale strage di persone. [4] Né i medici erano di aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta, ma anzi loro stessi morivano più di tutti, in quanto più di tutti si avvicinavano ai malati; né serviva nessun’altra conoscenza umana. Tutte le suppliche che facevano nei templi o l’uso che facevano di oracoli e cose simili, tutto ciò era inutile; e, alla fine, essi se ne astennero, sgominati dal male. [48, 1] Il primo luogo in cui cominciò a manifestarsi fu, a quel che si dice, l’Etiopia, nella parte al di là dell’Egitto[1], poi scese anche in Egitto, in Libia e nella maggior parte del territorio del Re. [2] Nella città di Atene piombò all’improvviso, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo; così da parte loro fu detto che i Peloponnesiaci avevano gettato veleni nei pozzi: là, infatti, non c’erano ancora fontane. Successivamente giunse anche nella parte alta della città, e da quel momento i decessi aumentarono di molto. [3] Ora, sulla peste sia un medico sia un profano potranno parlare ciascuno secondo le proprie conoscenze, dicendo da che cosa probabilmente abbia avuto origine e quali siano le cause di un tale sconvolgimento, cause che potrà considerare capaci di provocare il mutamento di salute; quanto a me, invece, io dirò in che modo si è manifestata e mostrerò i sintomi, osservando i quali, caso mai scoppiasse un’altra volta, si sarebbe maggiormente in grado di riconoscerla, sapendone in anticipo qualcosa[2]: io stesso ho contratto la malattia e io stesso ho visto altri che ne hanno sofferto.
[49, 1] Quell’anno, come era riconosciuto da tutti, era stato eccezionalmente immune da altre malattie: ma se qualcuno aveva già qualche indisposizione, in tutti i casi essa finiva in questa. [2] Gli altri, invece, senza nessuna causa apparente, mentre erano sani, improvvisamente erano colti da violente vampate di calore alla testa e da arrossamento e infiammazione agli occhi, e tra le parti interne la faringe e la lingua erano subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. [3] Poi, dopo questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da forte tosse. E quando si fissava nello stomaco, lo sconvolgeva e ne derivavano vomiti di bile di tutti i generi nominati dai medici, e questi erano accompagnati da una grande sofferenza. [4] Alla maggior parte dei malati vennero conati di vomito a vuoto, ma producevano violente convulsioni: per alcuni ciò si verificò dopo che era trascorso molto tempo. [5] Esternamente il corpo non era troppo caldo al tatto, né era pallido, ma rossastro, livido e con eruzioni di piccole pustole e di ulcere. L’interno, invece, bruciava in modo tale che i malati non sopportavano di essere coperti da vesti o tele di lino leggerissime, né sopportavano altro che l’esser nudi; e ciò che avrebbero fatto con il più grande piacere sarebbe stato gettarsi nell’acqua fredda: questo, in realtà, lo fecero molti dei degenti trascurati, che si precipitavano alle cisterne in preda a una sete inestinguibile; eppure, bere di più o di meno non faceva alcuna differenza. [6] E la difficoltà di riposare e l’insonnia li affliggevano costantemente. Il corpo per tutto il tempo in cui la malattia era nella fase acuta non deperiva, ma resisteva inaspettatamente alla sofferenza; e così la maggior parte dei malati moriva il nono o il settimo giorno a causa del calore interno, sebbene avesse ancora un po’ di forza; oppure, se si salvavano, la malattia scendeva ancora nell’intestino, si produceva in esso un’ulcerazione violenta e insieme sopraggiungeva un attacco di diarrea completamente liquida; e, in seguito, a causa della debolezza che essa provocava, i più decedevano. [7] Infatti, il male percorreva tutto il corpo partendo dall’alto, stabilendosi prima nella testa; e se uno si salvava dal pericolo più grave, l’ammalarsi delle estremità era un sintomo del malanno. [8] Colpiva infatti anche gli organi sessuali e le punte di mani e piedi; e molti sopravvivevano con la perdita di queste parti, alcuni anche rimettendoci gli occhi. Alcuni, quando si ristabilivano, sul momento furono colti da amnesia per tutte le cose, senza distinzioni, e perdettero la conoscenza di se stessi e dei propri familiari. [50, 1] La natura della malattia era inspiegabile, e furono vari i modi in cui essa si abbatté sui singoli individui con troppa violenza perché la natura umana potesse sopportarla: ma questo fu l’aspetto in cui più chiaramente si manifestò come un male diverso dalle solite malattie; infatti, gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di carne umana, benché ci fossero molti cadaveri insepolti, non li toccavano, o se ne assaggiavano, morivano. [2] Questa ne è la prova: la sparizione di tali uccelli divenne chiara e non se ne vedevano vicino a un cadavere né altrove. I cani, però, offrivano una più evidente possibilità di osservazione di quanto stava accadendo, dacché vivono insieme all’uomo.
[trad. G. Donini]
Philipp Foltz, L’epitaffio di Pericle per i caduti del primo anno di guerra. Olio su tela, 1852.
La peste e la forza dell’imprevedibile
Il brano considerato si colloca subito dopo la conclusione del λόγος ἐπιτάφιος («discorso funebre») pronunciato da Pericle in onore dei caduti dell’anno 431/0 a.C., così che la drammaticità e l’orrore di queste pagine assumono un risalto ancora maggiore dal confronto con le immagini di splendore e di grandiosità evocate dall’oratore con il suo elogio di Atene. All’inizio dell’estate del 430 a.C., dunque, dopo che l’esercito di Archidamo aveva invaso l’Attica, in Atene cominciarono a manifestarsi i sintomi della «malattia» (ἡ νόσος). Secondo una vaga indicazione cronologica di Tucidide, essa era apparsa «anche prima» nell’isola di Lemno, nell’Egeo settentrionale, e prima ancora, in Etiopia, in Egitto, in Libia e in Persia; perciò, anche se queste localizzazioni appaiono piuttosto imprecise, sembrerebbe contraddittoria la successiva affermazione dello storico, secondo la quale i medici non erano in grado di curare la malattia «per ignoranza» (ἀγνοίᾳ), perché si trovavano di fronte a essa per la prima volta. I progressi della medicina come scienza, al tempo di Tucidide, erano stati notevoli, tanto che i medici erano in grado di formulare diagnosi e di consigliare terapie in base all’osservazione dei sintomi e del decorso di una malattia; perché, dunque, essi apparvero così impotenti di fronte al λοιμὸς (alla «peste»)?
I testi medici del tempo non fanno parola del morbo e la prima descrizione dei sintomi e del decorso della malattia è proprio quella fornita da Tucidide; ciò è probabilmente dovuto al fatto che l’epidemia sollevava un problema epistemologico che le teorie della medicina antica e l’eziologia abitualmente applicata per scoprire l’origine dei mali non erano in grado di risolvere. Si trattava, infatti, di spiegare un duplice fenomeno: da un lato, che uno stesso male potesse colpire un popolo nella quasi totalità, nello stesso tempo e nello stesso luogo; dall’altro, che questo male avesse origini geografiche lontane e diverse. La principale difficoltà consisteva nel trovare una spiegazione identica per i due fenomeni; infatti, se il primo poteva essere affrontato sulla base delle dottrine ippocratiche (anamnesi, prognosi e diagnosi), pur rimanendo insoluto il problema dell’efficacia saltuaria delle terapie, il secondo era destinato a rimanere inspiegato. Infatti, le teorie ippocratiche non fornivano alcuna informazione circa i concetti di veicolo, diffusione e meccanismo del contagio, e nemmeno una giustificazione agli spostamenti geografici della malattia. Inoltre, essa sembrava sottrarsi anche alle più comuni spiegazioni di carattere eziologico, visto che il contagio si estendeva senza tener conto dell’età, del sesso, della maggiore o minore robustezza della costituzione fisica degli individui.
La sola spiegazione che la medicina antica poteva fornire era quella di indicare l’aria come possibile veicolo di infezione, ma ciò non bastava a chiarire come il male potesse essersi sviluppato in regioni tanto lontane e attecchire, poi, con tanta virulenza in ambiti geografici del tutto diversi, visto che si era convinti che ogni luogo avesse una propria fisionomia ben differenziata da quella di altre zone.
Anche la medicina «clinica», cioè quella che si fondava sull’assistenza presso il «letto» (κλίνη) degli ammalati, era resa impossibile dalla rapidità con la quale il contagio si estendeva, impedendo l’utilizzazione delle indicazioni che essa forniva abitualmente per mezzo dell’analisi delle cause, dell’interpretazione dei sintomi e dell’osservazione del decorso del male. Tali deduzioni, infatti, si basavano sull’attenta analisi di casi individuali, mentre in presenza di un’epidemia, come quella descritta da Tucidide, l’individuo scompariva nella massa e non aveva più alcun significato in quanto singolo.
Pertanto, l’evidente inadeguatezza della scienza medica, dovuto i motivi che abbiamo appena accennato (oggi possiamo affermare che essa dipese dall’ignoranza della microbiologia), contribuì a creare in Atene quel clima di assoluta precarietà del vivere che fu, secondo Tucidide, la causa prima dello sfacelo morale che coinvolse i cittadini, in preda al terrore irrazionale della morte considerata ormai da ciascuno come un flagello imminente e inevitabile. In ultima analisi, ciò che accadde fu, per dirla in termini tucididei, una vittoria dell’ἀγνοίᾳ («ignoranza»), del παράλογον («imprevisto») e della τύχη («sorte»), sulla γνώμη («decisione») di chi aveva voluto la guerra senza poter umanamente prevedere quanto sarebbe accaduto, e anche di tutti coloro che rimasero vittime del contagio prima di potersi rendere conto di quale fosse la natura del male che li stava sterminando.
Robert Thom, La cura dei malati nel tempio di Asclepio.
Nella descrizione della peste di Atene, l’opera di Tucidide rivela, accanto all’accuratezza dello storico, una venatura di amaro pessimismo di fronte alle conseguenze morali suscitate nei singoli e nella collettività dalla presenza costante della morte e dal senso di totale impotenza e precarietà esistenziale che ne scaturisce. Secondo l’ottica dell’autore, la catastrofe ha contribuito, insieme ai disagi della guerra, a rivelare non solo la fragilità della natura umana, abbastanza prevedibile per chi, come il nostro storico, sia per carattere incline al pessimismo, ma ha messo anche in luce (e questo appare molto più grave) come un evento del genere possa, in un tempo relativamente breve, mettere in crisi regole di vita e istituzioni, ritenute saldissime per la loro stessa natura e perché sostenute da una lunghissima e rispettata tradizione.
François Perrier, La peste di Atene. Olio su tela, 1640.
[51, 1] Tale era dunque, in generale, l’aspetto della malattia, se si tralasciano molti altri fenomeni straordinari, secondo il modo in cui essa si manifestava in ciascuno, diversamente da una persona all’altra. In quel periodo, nessuna delle solite malattie le affliggeva contemporaneamente a questa; e se anche c’era, si sommava a questa. [2] Alcuni morivano per mancanza di cure, altri anche accuditi con estrema attenzione. Non si affermò nemmeno un solo rimedio, per così dire, che si dovesse applicare per portare a un miglioramento: infatti, proprio quello che giovava a uno era dannoso ad altri. [3] Nessun corpo si dimostrò sufficientemente forte per resistere al morbo, che fosse robusto o debole, ma esso li portava via tutti, anche quelli che erano curati con ogni genere di dieta. [4] Ma la cosa più terribile di tutte nella malattia era lo scoramento quando uno si accorgeva di essersi ammalato (poiché i malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di più e non resistevano), e il fatto che per aver contratto la malattia uno dall’altro, mentre si curavano, morivano come pecore: questo provocava il maggior numero dei decessi. [5] Da una parte, se non erano disposti a far visita gli uni agli altri, per paura, morivano abbandonati, e molte case furono spopolate per mancanza di qualcuno che potesse venire a curare i malati che vi abitavano; d’altra parte, quelli che si recavano dagli afflitti perivano, soprattutto coloro che cercavano di praticare la bontà. Grazie al loro senso dell’onore non si risparmiavano nell’entrare nelle case degli amici, dato che, alla fine, addirittura i familiari interrompevano per stanchezza anche i lamenti per quelli che non ce la facevano, sopraffatti com’erano dall’immensità del male. [6] Tuttavia, più degli altri coloro che erano scampati avevano compassione per chi stava morendo o era ammalato, perché avevano già avuto l’esperienza della malattia e perché loro ormai erano in uno stato d’animo tranquillo. Il morbo, infatti, non coglieva due volte la stessa persona in modo da ucciderla. E gli altri si congratulavano con loro; ed essi stessi, nella gran gioia del momento, avevano un po’ di vana speranza che anche in futuro nessuna malattia li avrebbe mai più potuti annientare.
[52, 1] Oltre al male già esistente li opprimeva anche l’afflusso di gente dalla campagna alla città: ciò affliggeva maggiormente coloro che erano arrivati da fuori. [2] Poiché non c’erano alloggi disponibili, ma essi abitavano in capanne soffocanti per la stagione dell’anno, la strage avveniva con grande confusione: corpi di moribondi giacevano uno sopra l’altro, e persone mezze morte si muovevano barcollando per le strade e intorno a tutte le fontane per desiderio di abbeverarsi. [3] I templi, nei quali si erano sistemati, erano stracolmi di cadaveri, dato che la gente vi moriva: infatti, poiché il male imperversava, le persone, non sapendo che cosa ne sarebbe stato di loro, si volgevano al disprezzo tanto delle cose sacre quanto di quelle profane. [4
] Tutte le consuetudini che avevano seguito in precedenza per le sepolture furono sconvolte; e seppellivano i cadaveri, ciascuno come poteva. E molti ricorrevano a modi vergognosi di sepoltura, per mancanza delle attrezzature necessarie, poiché avevano già avuto parecchi morti in famiglia: mettevano il cadavere del proprio defunto su una pira altrui, anticipando quelli che l’avevano costruita, e poi vi appiccavano il fuoco. Altri gettavano la salma che stavano portando sopra un’altra che già bruciava, e poi se ne andavano.
[53, 1] Anche per altri aspetti la malattia segnò nella città l’inizio di un periodo in cui il disprezzo per le leggi era più diffuso. Infatti, più facilmente si osava fare cose che prima di allora si sarebbero fatte di nascosto, senza mostrare che si seguiva il proprio piacere: vedevano che era rapido il mutamento di sorte dei ricchi, che morivano improvvisamente e di coloro che prima non possedevano nulla, ma che subito divenivano padroni dei beni dei morti. [2] Così pensavano di dover godere rapidamente di ciò che avevano e di servirsene a loro capriccio, considerando le proprie vite e le proprie ricchezze egualmente effimere. [3] E nessuno era pronto a sopportare fatiche per ciò che era considerato onesto, poiché pensava che non vi era certezza di non perire prima: ciò che al momento presente era piacevole, e che in qualunque modo era vantaggioso ai fini del piacere, questo divenne onesto e utile. [4] Nessun timore degli dèi e nessuna legge umana li tratteneva: da una parte, giudicavano che fosse la stessa cosa essere religiosi o meno, dal momento che vedevano tutti morire egualmente, e, dall’altra, nessuno si aspettava di vivere fino a quando ci sarebbe stato un giudizio sulle proprie colpe e di scontarne la pena: pensavano che molto maggiore fosse l’incombente punizione già decretata contro di loro, e che prima che si abbattesse fosse ragionevole godersi un po’ la vita.
[trad. G. Donini]
The physician Hippocrates tries to save the locals during the plague of Athens (alamy.com)
Sofferenza fisica e degradazione morale
Il brano esaminato, uno dei più noti di Tucidide, è unanimemente considerato l’archetipo di tutte le descrizioni delle epidemie che compaiono nella letteratura classica e moderna, da Lucrezio a Virgilio, da Giovanni Boccaccio ad Alessandro Manzoni, da Edgar Allan Poe a Albert Camus. In esso, lo storico affronta il tema del «cambiamento» (μεταβολή) che alcune circostanze provocano nel comportamento umano.
Secondo l’ottica di Tucidide, prima responsabile dello sconvolgimento delle abitudini di vita è la guerra, che, portando con sé disagi, privazioni e sofferenze, causa anche la perdita dei valori morali e un progressivo imbarbarimento. A tutto ciò si sovrappongono i disastrosi effetti dell’epidemia scoppiata nell’estate del 430 a.C., durante l’invasione dell’Attica da parte delle truppe peloponnesiache, guidate da Archidamo. Ciò che particolarmente colpisce, nell’attenta analisi di Tucidide, è l’importanza attribuita al senso di precarietà dell’esistenza come causa scatenante di un processo di profonda e inarrestabile degradazione morale.
L’uomo dell’antichità ha sempre considerato la propria esistenza come qualcosa di estremamente breve e incerto di per sé; carestie, guerre, miseria, malattie, mortalità altissima in età infantile e giovanile la rendevano un bene tanto prezioso quanto poco duraturo, mentre la presenza della morte acquisiva, per questi stessi motivi, qualcosa di quotidiano e di familiare. Tuttavia, dalla fine delle Guerre persiane al secondo anno della Guerra del Peloponneso, e soprattutto nel quindicennio dal 445 al 430 a.C., Atene aveva goduto di un periodo di pace e di benessere economico mai prima visto – contesto, che aveva contribuito, almeno in parte, a diminuire quel senso di incertezza esistenziale di cui si è appena accennato. Di conseguenza, all’inizio della guerra, il peggioramento delle condizioni di vita individuali che aveva coinvolto, anche se in misura ben diversa, ricchi e poveri, e che era stato anche causa della diminuzione del favore popolare nei confronti di Pericle, si sommò improvvisamente, all’inizio dell’epidemia, a tutti gli errori derivanti dal dilagare inarrestabile di un flagello fino ad allora sconosciuto.
Di fronte al morbo che travolgeva in una strage indiscriminata che era amorevolmente assistito e chi organizzava abbandonato nei rifugi di fortuna, che uccideva o lasciava in vita senza un motivo apparente, chi dimostrava a ogni momento l’impotenza dei medici inaffidabilità dei rimedi, l’istinto di sopravvivenza assunse le forme dell’indifferenza verso uomini e dèi e della trasgressione più totale di ogni norma civica e religiosa. Infatti, abbandonati dei canoni di comportamento che si fondavano su ben consolidate tradizioni educative, di colpo divenute inutili di fronte alla presenza continua della morte che distruggeva ogni possibile idea di stabilità e di durata, le persone si abbandonarono il modo più semplice e istintuale per sentirsi vive: la ricerca del piacere, in ogni sua manifestazione e con ogni mezzo.
La legge divina non garantiva ai pii una vita più lunga, mentre alla legge umana mancava il tempo per essere applicata o per incutere l’antico, salutare, timore a chi era consapevole che forse, di lì a qualche ora, la morte avrebbe colto anche lui. Se è vero che Sofocle, componendo l’Edipo re, si ricordò della peste di Atene per descrivere quella di Tebe (cosa non impossibile, se la tragedia fu scritta fra il 425 e il 410 a.C., e non, come sostengono alcuni studiosi, nel 433), è interessante confrontare la sua ottica con quella di Tucidide. Per il poeta tragico, animato da una profonda religiosità, la pestilenza è dovuta all’ira di un dio, e basta un intervento di purificazione per farla cessare, anche se a prezzo delle terribili sofferenze di Edipo, che, da sovrano di Tebe, si trasforma nel φαρμακός («capro espiatorio»); per lo storico, che guarda gli eventi umani con un’ottica assolutamente immanente, al posto della collera divina si pone il παράλογον («l’imprevedibile»), che agisce nelle vicende umane e nella Storia senza possibilità di controllo. In questa situazione, caratterizzata da una tragicità ben diversa da quella sofoclea, non c’è spazio per un eroe liberatore; c’è invece una massa che, perduta ogni consapevolezza di umanità – se non quella, spaventosa, della propria mortalità –, si aggrappa istintivamente alla vita, a ogni mezzo, lecito o illecito, che possa far dimenticare che ogni attimo potrebbe essere l’ultimo, mostrandosi in tutta la sua miseria materiale e morale all’occhio distaccato, ma non impietoso, dello storico.
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Note:
[1] In realtà, le zone africane chiamate “Etiopia” dai Greci erano tutte a sud dell’Egitto, ma, a quanto pare, Tucidide distingue l’Etiopia propriamente detta da altre zone di quello che per i Greci era l’estremo meridione della Terra, come l’India, che si ritenevano abitate da Etiopi. Etimologicamente, infatti, gli Etiopi erano la “gente dalla faccia bruciata”.
[2] In realtà, non c’è accordo fra gli studiosi sulla natura di quell’epidemia: ha maggiore fondatezza l’opinione che si sia trattata di una forma di tifo.
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Sitografia:
Solving the Mystery of an Ancient Epidemic [theatlantic.com]
di R. MUGELLESI, Scienza, morale e altro, introduzione a Lucio Anneo Seneca, Questioni naturali, Milano 2004, pp. 7-36.
Nel corpus senecano a noi giunto le Naturales Quaestiones occupano uno spazio autonomo e, almeno nel contenuto, distinto dalle altre opere. L’argomento è lo studio della natura, in alcuni dei suoi aspetti scelti da Seneca nell’ambito della meteorologia[1] della geologia (mi riferisco al libro VI riguardante i terremoti). E sicuramente nell’antichità non conosciamo molte opere di questo genere, se escludiamo le trattazioni dei filosofi presocratici[2] – di alcuni dei quali Seneca è testimone autorevole –, Platone, ma soprattutto i Meteorologica[3] di Aristotele a noi giunti in quattro libri di cui forse il quarto è spurio.
Pseudo-Seneca. Statua, marmo, fine I sec. d.C. Museo Archeologico di Pozzuoli.
I rapporti tra Seneca e la produzione scientifica greca sono stati analizzati da più studiosi, con diverse posizioni. Vottero[4] sottolinea la forte influenza della dossografia nell’opera senecana, contraddistinta dalla presenza di termini come quidam, sententia, auctor, e verbi come opinari e placere. I rinvii possono essere anonimi, ma per lo più compaiono i nomi degli autori antichi a cui Seneca fa riferimento, sia greci sia latini. Punto fisso è sicuramente la dipendenza nella trattazione di certi argomenti[5], ma difficile è stabilire se Seneca li conoscesse di prima mano o piuttosto non fosse la sua una conoscenza indiretta, magari su compendi a noi ignoti[6]. Occorre comunque dire che la Quellenforschung relativa alle Naturales Quaestiones sembra orientata a riconoscere un’unica fonte che, se per Zeller e Diels era da identificare con Posidonio, per altri doveva essere riconosciuta in Asclepiodoto, che è citato da Seneca ben cinque volte[7]. Non è comunque facile stabilire con certezza tali assunti. Nel caso di Posidonio, possiamo basarci, oltre che sui nove frammenti ricordati da Seneca[8], sui venti di Strabone e i sei di Diogene Laerzio, ma, come osserva giustamente Vottero[9], non è possibile sapere se appartenessero sicuramente all’opera sulla meteorologia e se provenissero direttamente da Posidonio. E anche per quanto concerne Asclepiodoto, scolaro di Posidonio (auditor Posidonii), nessun autore lo ricorda, a parte Seneca, e la citazione in VI 17, 3, ove qualcuno vorrebbe intravedere il titolo steso dell’opera, Naturalium Causae, è oggetto di molte discussioni[10]. È stata avanzata l’ipotesi[11] che Seneca abbia attinto le sue teorie da una raccolta dossografica denominata da Diels[12]Vetusta Placitae databile intorno alla metà del I sec. a.C., forse redatta dal filosofo Ario Didimo di Alessandria. Poiché i Vetusta Placita si dividevano in due parti, una dedicata all’Etica, l’altra alla Fisica, si è cercato di dimostrare che Seneca potrebbe aver tenuto presenti entrambe le sillogi, in particolare la prima per le altre opere in prosa, la seconda per le Naturales Quaestiones. Se riscontri puntuali sono stati notati, resta però da precisare che i cosiddetti Vetusta Placita sono giunti a noi attraverso un doppio strato di epitomi: senza contare – ma questo non stupisce più di tanto – che non troviamo in Seneca riferimento a tale florilegio. Le argomentazioni addotte per rispondere a questo dubbio si basano da una parte sulla prevalente consuetudine antica di non citare mai i florilegi, dall’altra sulla prassi senecana per cui gran parte della produzione letteraria a lui precedente, fatte le dovute eccezioni, non sarebbe stata letta direttamente[13]. Riteniamo che la Quellenforschung sia comunque ancora aperta e suscettibile di nuovi risultati: lasciamo dunque la ricerca agli esperti in questo campo e ritorniamo al nostro testo.
Nella prefazione al II libro Seneca afferma che la ricerca nel suo complesso sull’universo si suddivide in caelestia (astronomia), sublimia (meteorologia) e terrena (geologia): la prima parte indaga la natura degli astri in base alla loro grandezza e alla loro forma, ovvero i fenomeni celesti così definiti in quanto si verificano nella zona più alta dell’universo; la seconda si occupa dei fenomeni che accadono tra cielo e terra (nubi, piogge, neve, grandine, terremoti e tutte le alterazioni provocate o subite dall’aria); la terza parte si occupa di tutta la fenomenologia riguardante il suolo terrestre (tra geologia e geografia). La collocazione dei terremoti nei sublimia è spiegata dallo stesso Seneca attraverso la dottrina pneumatica in base alla quale tale fenomeno, pur rientrando propriamente nella geologia, di fatto è trattato alla stregua di un fenomeno meteorologico in quanto causato dall’aria: penetrata nella terra attraverso le sue porosità e non potendo più uscirne, essa finisce per causare gravi scuotimenti sussultori e ondulatori.
Per considerare più da vicino la trattazione dei singoli libri osserveremo innanzitutto che la scelta degli argomenti non sembra dettata da un intento particolare: l’unico legame sembra sussistere tra i libri III e IVa, tra la trattazione delle acque e quella del Nilo. […]. Il libro I si apre dunque con una lunga praefatio che, con tono e stile assai elevati, invita gli uomini a sollevarsi dalla propria pochezza verso la conoscenza di Dio a cui è possibile giungere solo attraverso lo studio attento della natura. Quindi, vengono trattati i fuochi celesti, non solo le meteore ignee di vario genere (la tipologia è assai vasta), ma, in particolare, gli aloni, l’arcobaleno, le verghe, i pareli e i paraseleni. Il libro II, dopo aver avanzato considerazioni di carattere generale sull’aria e sulla terra, prende in esame i tuoni, i fulmini e i lampi, non senza dedicare largo spazio alle opinioni degli scienziati antichi, tra cui Anassimene, Anassimandro, Anassagora, Diogene di Apollonia, nonché al potere divinatorio del fulmine: nell’ampia digressione (capp. 32-52) non mancano riferimenti alla dottrina etrusca che Seneca mostra di conoscere assai bene e al rapporto tra divinità e fato. Il terzo analizza la diversa tipologia delle acque terrestri con riferimenti a teorie aristoteliche come quella presente in De gener. et corrupt. 2, 4, ovvero la reciproca mutabilità dei quattro elementi originari: nel cap. 10 è sostenuto, infatti, il concetto che anche la terra si può trasformare in acqua. E non meno interessante, al cap. 15, l’analogia istituita tra la terra e il corpo umano, secondo un principio medico di origine greca (forse Prassagora di Coo): come nelle vene scorre il sangue e nelle arterie l’aria, così nella terra scorrono insieme aria e acqua[14]. Il libro IVa presenta una lacuna nell’ultima parte: si conservano la praefatio imperniata sul sentito problema dell’adulazione e la parte relativa al Nilo e alle sue piene. Il libro IVb è, invece, acefalo e a noi è giunta solo la parte relativa alle nubi, alla grandine e alla neve. Il libro V considera i venti e la loro origine senza trascurare le brezze, i turbini, nonché la rosa dei venti e i venti locali. Il libro VI, come abbiamo già detto sopra, è tutto dedicato allo studio dei terremoti, mentre il libro VII si occupa delle comete riservando largo spazio alla dossografia relativa allo studio del fenomeno.
Un’analisi delle N.Q. non può prescindere, innanzitutto, dal confronto con la produzione scientifica greca: di fronte a questo problema la prima risposta che ci diamo è che, richiamando i testi scientifici greci, le N.Q. non sembrano davvero distinguersi per originalità di contributi. Stahl[15], nel libro dedicato alla scienza romana, sostiene che essa «si mantenne sempre su un pino decisamente mediocre» e addirittura qualcuno[16] ha affermato che non c’è scienza romana. Pur senza essere così categorici, non si può negare che i Romani non hanno saputo sviluppare né superare l’alto livello scientifico e tecnologico raggiunto dalla civiltà greca, in particolare ellenistica: oltre ad Euclide e Archimede, numerosi furono in quel periodo gli scienziati a cui è debitrice la stessa scienza moderna: Eratostene è stato il primo matematico che ha fornito la misura della lunghezza del meridiano terrestre, mentre Aristarco di Samo ha ideato l’astronomia eliocentrica. Ebbene, prescindiamo pure da «Varrone, esponente di una cultura prescientifica, del tutto estranea alla scienza. Gli scrittori romani di epoca imperiale, come Plinio e Seneca, sono invece affascinati dalla lettura di opere scientifiche ellenistiche delle quali, non potendo seguire la logica delle argomentazioni, apprezzano le conclusioni proprio perché giungono loro inaspettate e meravigliose; credono quindi di poter emulare i loro modelli eliminando i nessi logici o sostituendoli con connessioni che, anche se arbitrarie, sono più facilmente immaginabili e portano più rapidamente al risultato voluto, che è la meraviglia del lettore»[17]. Così Plinio, Nat. hist. XI 29, nello spiegare la vita delle api, sostituirà alla dimostrazione scientifica del greco Pappo[18] la seguente semplicistica spiegazione a proposito della forma esagonale delle celle dei favi: «Ogni cella è esagonale, perché ognuna delle sei zampe dell’ape ha fatto un lato». E Seneca non è meno ascientifico quando sostiene in N.Q. II 31, 1 e 53, 1 che il vino colpito dal fulmine si congela, tornando allo stato liquido dopo non più di tre giorni e allora uccide o rende pazzo chi lo beve: al motivo di tale fenomeno egli avrebbe dedicato ricerche personali. Se, invece, guardiamo al resto della produzione scientifica latina, dovremmo prendere atto che, in questo ambito, l’opera senecana costituisce la trattazione più rappresentativa e forse l’unica in questo campo di prosa scientifica a orientamento filosofico: del resto, a Roma[19], specialmente nel I sec. dell’Impero, vi fu «une véritable vie scientifique».
Ragazzo che recita la lezione al maestro. Sarcofago di M. Cornelio Stazio, rilievo, marmo, II sec. d.C. Paris, Musée du Louvre.
Se altri autori hanno inteso inoltrarsi nel mondo della natura per cercare di comprendere gli intimi meccanismi e misteri, di nessuno a noi è giunta una trattazione articolata, anche se non del tutto coerente, come le Naturales Quaestiones. Più che opere scientifiche nel senso stretto, il De rerum natura di Lucrezio e gli Astronomica di Manilio[20] rientrano nel genere del poema didascalico, anche se entrambi, ma soprattutto Lucrezio, ne fanno un uso assai originale. Nell’uno, la trattazione della fisica epicurea è il tramite per assicurare agli uomini la serenità e liberarli dalla paura della morte, nell’altro, l’indagine degli astri, in una visione assolutamente stoica, diviene il mezzo per garantire all’umanità quel grado di conoscenza di certi fenomeni necessario per comprendere la legge cosmica. Ma l’intento poetico e il fervore filosofico allontanano le due opere dai postulati di una trattazione scientifica: anche in Seneca, come vedremo, la compresenza di scienza e filosofia diminuirà sovente la severità del trattato, ma restano comunque la vastità del materiale esaminato e, almeno in quelle sezioni, la ricerca di un’adesione alla mentalità scientifica.
Interesse per l’astronomia, di fatto coincidente con l’astrologia, aveva avuto in era repubblicana Nigidio Figulo[21], autore di diverse opere, tra cui anche un trattato De vento, riconducibile sempre ai suoi interessi astrologici. A lui si rifà Igino[22], forse il bibliotecario di Augusto, nel suo trattato sull’Astronomia, in quattro libri, in cui si occupa di costellazioni, di cosmologia e dei movimenti della sfera celeste. E potremmo aggiungere anche Pomponio Mela[23], vissuto sotto Claudio, che, nei tre libri De chorographia, seppur corredati di informazioni piuttosto arretrate, ci informa sulle conoscenze geografiche dei Romani.
Come si evince dalla praefatio all’opera di Pomponio Mela, era presente negli antichi la consapevolezza che la trattazione scientifica e tecnica rientrava nei canoni di un genere «minore»[24]: lo riscontriamo nell’epistola prefatoria del De architectura di Vitruvio così come in quella diretta a Tito nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio[25].
Un simile atteggiamento non traspare in alcuna delle prefazioni superstiti delle Naturales Quaestiones: non in quella dei toni moralistici del libro III, che molti ritengono il primo dell’ordinamento originale, non in quella del libro I: questo assai probabilmente non rappresenta il vero inizio dell’opera senecana, anche se proprio l’impegnativo prologo e l’argomento si presterebbero. Ma se pure il trattato si aprisse, come in molti manoscritti, con il libro IVb giuntoci acefalo, l’attuale primo, secondo la felice teoria del «proemio al mezzo», costituirebbe un luogo deputato per «dichiarazioni di poetica», ovvero per affermare un programma letterario nelle forme più consapevoli. Ebbene, che le Naturales Quaestiones si distinguano dal resto della produzione scientifica latina lo si può intuire subito se mettiamo a confronto proprio la praefatio del primo libro con quelle citate sopra, a cui possiamo aggiungere la praefatio agli Astronomica di Manilio: non c’è alcun riferimento a un presunto senso d’inferiorità nei confronti dei generi alti. Potrebbe bastare questa differenziazione a farci comprendere che Seneca non sentiva, nelle Naturales Quaestiones, un impegno diverso dalle altre opere morali e l’andamento ha in effetti i toni di tanti Epistulae morales. Ampia e articolata (ben cento paragrafi), essa non è legata al resto dell’opera se non nella misura in cui vuole chiarire il vero intento di Seneca al lettore-discepolo: così lo scienziato indossa le vesti del maestro filosofo e la scienza diventa il tramite per il raggiungimento della virtù. Secondo la teorizzazione esposta nelle Epistulae (89[26], ma soprattutto 88[27] e 90[28]), la philosophia si differenzia dalle ceterae artes come, all’interno della philosophia medesima, l’ambito etico (philosophia moralis) si distingue quello fisico (philosophia naturalis): Quantum inter philosophiam interest, Lucili virorum optime, et ceteras artes, tantum interesse existimo in ipsa philosophia inter illam partem quae ad homines et hanc quae ad deos pertinet (praef. 1). Alzare gli occhi al cielo, arrivare alla luce dalle tenebre terrene, penetrare nei profondi recessi della natura è conoscere Dio e misurare la nostra piccolezza: O quam contempta res est homo nisi supra humana surrexerit (praef. 5) e, alla fine, sciam omnia angusta esse mensus deum (praef. 17). L’impianto filosofico che Seneca intende dare alle sue ricerche scientifiche appare chiaro fin dall’esordio e tutta l’opera mostra l’urgenza del suo impegno: «Se la filosofia s’identifica con la scienza e la filosofia tende al perfezionamento morale, anche la scienza deve tendere al perfezionamento morale»[29].
L’impostazione dei libri, almeno di quelli completi, procede in modo simile e le argomentazioni filosofiche possono essere presenti, oltre che nelle praefationes, anche negli epiloghi e nelle digressioni.
Scena di scuola. Rilievo, marmo, inizi III sec. d.C. ca. da Neumagen. Trier, Rheinisches Landesmuseum.
Oltre che il libro I, le riflessioni del filosofo morale animano il proemio del III (forse l’originale libro I) in cui si ribadisce il concetto che lo studio della natura aiuta l’uomo ad allontanarsi dalle cose terrene e a comprendere i veri valori della vita: Ad hoc proderit nobis inspicere rerum naturam: primo discedemus a sordidis; deinde animum ipsum, quo sano magnoque opus est, seducemus a corpore; deinde in occultis exercitata subtilitas non erit in aperta deterior; nihil est autem apertius his salutaribus quae contra nequitiam nostram furoremque discuntur, quae damnamus nec ponimus (praef. 18).
L’incipit del libro IVa è una lunga condanna dell’adulazione e i toni che Seneca assume sono assolutamente quelli del predicatore e del maestro di virtù. L’invito a tenersi lontano dalla folla e a non prestare il fianco all’adulazione (a turba te, quantum potes, separa, ne adulatoribus latus praebeas, praef. 3) è un consiglio che ritroviamo nel De brev. vitae 18, 1 o nelle Ep. 7, 1; 8, 1; 10, 1: la conferma della propria saggezza «aristocratica»[30]. Analogamente l’invito rivolto a Lucilio affinché rivolga ogni suo interesse su se stesso (Fugiendum ergo et in se recedendum est; immo etiam a se recedendum, praef. 20) si configura con la sentenziosità ricorrente nelle opere filosofiche: De tranquillitate animi 17, 3; De brev. vitae 2, 5[31]. Pur nella loro brevità, anche le aperture dei libri VI e VII offrono spunti di riflessione morale: la prima, invitando gli uomini a razionalizzare la paura dei terremoti (nullum malum sine effugio est, VI 1, 6), la seconda, a superare uno stadio di ottusità per innalzarsi verso il divino, ovvero verso la perfezione (Nemo usque eo tardus et hebes et demissus in terram est ut ad divina non erigatur ac tota mente consurgat, VII 1, 1).
Nell’organizzazione di ogni libro, dunque, alla prefazione, più o meno articolata, segue l’analisi del singolo fenomeno naturale e sono discusse le diverse teorie degli autori che lo hanno esaminato: quindi, si apre l’argomentazione di Seneca, che può accettare la tesi di altri o proporne una propria, di solito in linea con gli Stoici[32].
In pendant con la prefazione, il libro è provvisto di un epilogo. Nel I libro, dopo aver cercato di spiegare certi fenomeni (l’arcobaleno e i fuochi celesti) con la teoria speculare, Seneca introduce una digressione sull’uso perverso degli specchi, prendendo come esempio un personaggio sconosciuto, Ostio Quadra, che di essi si era servito in modo dissoluto. È l’occasione per mostrare la decadenza dei costumi e per condannare uno strumento che dovrebbe essere usato per diventare più virtuosi e non per abbandonarsi al vizio. Al termine del II libro compare una lunga riflessione sull’importanza di conoscere la teoria dei fulmini. Liberarsi dalla paura dei fulmini significa liberarsi anche da quella della morte[33] a cui nessuno può sottrarsi: O te dementem et oblitum fragilitatis tuae, si tunc mortem times cum tonat! (59, 9); eo itaque fortior aduersus caeli minas surge et, cum undique mundus exarserit, cogita nihil habere te tanta morte perdendum (59, 11). Il filosofo morale ricompare accanto allo scienziato anche al termine del III libro: alla descrizione «drammatica» del diluvio segue una breve riflessione sul ritorno del mondo all’antico ordine, secondo la nota teoria stoica della palingenesi del cosmo. Ma lo stato di innocenza non durerà a lungo poiché cito nequitia subrepit. Virtus difficilis inventu est, rectorem ducemque desiderat: etiam sine magistro vitia discuntur (30, 8). Analogamente il V libro si chiude con un’ampia argomentazione sul cattivo uso dei venti da parte degli uomini e, richiamando il ben noto tópos diatribico dei mali derivati dalla navigazione oltre i confini e dalle guerre di conquista. Seneca conclude minima esse quae homines emant vita. Immo, Lucili carissime, si bene illorum furorem aestimaveris, id est nostrum (in eadem enim turba volutamur), magis ridebis, cum cogitaveris vitae parari in quae vita consumitur (18, 16). Anche dalla conoscenza dei terremoti e delle loro cause (libro VI) l’uomo può trarre vantaggio e divenire più forte, il che, per il filosofo, conta maggiormente che divenire più dotto: ma l’uno non può sussistere senza l’altro, poiché la forza dell’animo proviene dai buoni studi e dallo studio della natura (non enim aliunde animo venit robur quam a bonis artibus, quam a contemplatione naturae, 32, 1). Comprendere che la morte è una legge di natura significherà affrontarla con animo sereno e addirittura (con la consueta ricerca senecana dell’effetto) andarle incontro (effice illam tibi cogitatione multa familiarem, ut, si ita tulerit, possis illi et obviam exire, 32, 12). Nei tre capitoli che chiudono il VII libro (30-32), Seneca ripete ampiamente il giudizio morale negativo sull’umanità che progredisce solo nel vizio, anziché concentrarsi sulla scienza e sulla conoscenza del divino. Ma le riflessioni si allargano a considerare la necessità di uno studio approfondito della natura a cui sono invitati i contemporanei e, insieme, le generazioni future: ne consegue una esaltazione del progresso scientifico (30, 5), che, secondo la prassi antica, andava distinto da quello tecnologico, nei confronti del quale sussiste la piena condanna[34]. Come è detto nell’Ep. 90, le conquiste tecnologiche nascono dal vizio, ma le conoscenze scientifiche aiutano il raggiungimento della virtù e quindi rientrano nelle competenze del filosofo. Per questo le amare considerazioni sulla decadenza delle scuole filosofiche[35], presenti nel cap. 32, sottolineano con forza lo stretto legame di questo problema con il dilagare della corruzione e il venir meno della virtù.
«Testa del filosofo». Testa, bronzo, seconda metà del V sec. a.C. ca. da un relitto dalle acque di Ponticello, Villa S. Giovanni (RC). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.
Non negheremo comunque che l’interesse di Seneca per la scienza fosse sincero e, del resto, sappiamo che lo aveva coltivato fin da giovane, scrivendo un trattato sui terremoti e altre opere scientifiche perdute: all’opera giovanile De motu terrarum allude egli stesso in VI 4, 2. Ma, come abbiamo già avuto modo di dimostrare, sull’interesse scientifico si afferma la passione del filosofo, sulla scienza trionfa l’etica. In questo risiede il limite scientifico, se ci accostiamo alle analisi condotte nella prospettiva di uno scienziato moderno, eppure, in questo, si condensa l’impronta originale di un pensatore complesso e acuto che non riesce a distaccarsi dalla forte esigenza morale presente nel resto della sua produzione.
Gli studi compiuti sulle Naturales Quaestiones, numerosi, negli ultimi anni, hanno messo a fuoco tradizione e originalità: alcuni approfondendo la compresenza di scienza e filosofia[36], altri cercando di riconoscere la realtà dei dati riportati[37], altri indagando sul forte peso delle trattazioni scientifiche greche[38], altri soffermandosi in modo particolare sul rapporto con il resto della produzione senecana[39].
Una lettura critica delle Naturales Quaestiones non può ignorare i tanti contributi: eppure, è un’opera che ancora necessita di un’analisi d’insieme in cui, oltre a indagare sulle peculiarità della parte scientifica o le modalità della riflessione filosofica, si approfondisca e si metta in luce il rapporto tra forma e contenuto: si tratta dunque di un’analisi che evidenzi i diversi livelli linguistici e di stile nelle sezioni prettamente scientifiche da una parte, e dall’altra nelle sezioni (prefazioni, epiloghi e digressioni) ove prevale l’impegno filosofico o il tono moralizzante o l’attitudine predicatoria. Se, infatti, la filigrana di lettura è questa compresenza di scienza e morale, l’una condizionante l’altra, le scelte stilistiche nonché la ricchezza espressiva del linguaggio senecano costituiscono gli strumenti indispensabili per cogliere i movimenti profondi del suo pensiero.
Come abbiamo osservato sopra, le sezioni scientifiche seguono uno schema, non fisso, ma abbastanza regolare. Nella descrizione del fenomeno e della discussione delle teorie esistenti, non sembra che Seneca si preoccupi molto di ricostruire fedelmente i sistemi e i contorni storici degli autori citati; d’altra parte, raramente il fenomeno è spiegato in seguito a un’osservazione diretta e, quando si presenta il caso, si tratta sempre di brevi indicazioni. Prevale invece il principio[40] per cui la stessa esperienza è confrontata con la teoria già formulata, a conferma, cioè, di quanto è già noto, secondo un metodo che potremmo definire “deduttivo”, non induttivo: la conferma è data in parte dalla stessa frequenza delle formule che introducono la spiegazione del fenomeno «per analogia» o «verosimiglianza» (tam… quam; non aliter quam; ut… sic; veri ergo simile est; tale quiddam, ecc.). In I 12, 1, ad esempio, nell’esporre la teoria speculare, Seneca inizia con il riferimento all’esperienza dei catini pieni di olio o di pece per osservare meglio l’eclissi di sole; ma il ragionamento che segue è costruito su spiegazioni già esistenti richiamate da quemadmodum… ita (due volte) e sicut.
Ciò che sembra interessare maggiormente Seneca è invece l’esposizione di ipotesi diverse, più o meno condivisibili; anzi, quanto più sono complesse, tanto più sembra che gli interessino, come se discutere una pluralità di opinioni lo garantisse nella serietà del metodo d’indagine.
In questo confronto con gli autori che lo hanno preceduto, anche Stoici, non manca di dichiarare la sua libertà di vedute, criticando certe posizioni definite fabulae, mendacia o ineptiae: IVb 6, 1non tempero mihi quominus omnes nostrorum ineptias proferam; 7, 2quanto expeditius erat dicere: mendacium et fabula est[41].
Un’esigenza sembra comunque essere primaria per Seneca ed è quella di dimostrare l’origine naturale dei fenomeni, quasi una prova di scientificità. Come è stato notato[42], tale atteggiamento non sempre è dichiarato apertamente, ma è certo presente in diversi passi dell’opera: particolarmente indicativo, nella sequenza di III 27-29 relativa al diluvio, il collegamento tra tale fenomeno e l’operato della natura: 27, 2nihil difficile naturae est, utique ubi in finem sui properat. E anche se natura e Dio coincidono nella visione stoica del mondo, 28, 7Utrumque fit, cum deo visum ordiri meliora, vetera finiri, è l’universo che racchiude in sé i suoi principi informativi, il sole, la luna, gli astri, gli animali e il diluvio che lege mundi venit, 29, 3. A riprova dell’intento senecano, la similitudine stabilita con l’organismo umano (già presente nello stoico Cleante), un’analogia che, diversamente articolata, ricorre in altri passi dell’opera (II 6, 6; V 4, 2; VI 14, 1-2, ecc.): anche nel seme (ut in semine) è contenuta la virtù informativa di tutto l’uomo futuro (omnis futuri hominis ratio) e il bambino non ancora nato racchiude in sé il principio che stabilirà la barba e i capelli bianchi (et legem barbae canorumque nondum natus infans habet).
Il manifestarsi di questa esigenza presuppone la stessa idealizzazione dello stato di natura, un concetto perdurante nello sviluppo del pensiero latino, a cui inevitabilmente è collegata la condanna del progresso, almeno di quello tecnologico. Qui sta il limite, come si è già accennato sopra, della ricerca scientifica a Roma. È evidente che a questa separazione tra scienza e tecnica avranno contribuito anche altri fattori, come quello socio-economico[43], ma è certo che Seneca rappresenta, nelle Naturales Quaestiones, l’autentico interprete del suo tempo: superiorità della teoria sulla pratica, dunque, e quindi del pensiero sull’attività manuale, aderenza e rispetto dei canoni «naturali» e, come logica conseguenza, l’inevitabile unione di scienza e morale, forse per la prima volta messa così bene in luce.
Siamo distanti dalla descrizione enciclopedica di Plinio il Vecchio, per il quale si trattava di mostrare i fenomeni della natura, in tutti i suoi aspetti, non di discuterne le cause: nobis propositum est naturas rerum manifestas indicare, non causas indagare dubias (Nat. hist. XI 8). Dietro a questo principio comprendiamo che l’unico atteggiamento possibile è quello del «catalogatore» o dell’archivista, che dovrà mettere ordine nello scibile umano[44] rischiando, in questo, di restare legato a una visione statica della realtà: più moderna la posizione critica di Seneca, per il quale lo studio della natura è un processo aperto agli sviluppi delle scoperte future (VII 30, 5 e 6; 32, 1).
Se consideriamo adesso le parti scientifiche da un punto di vista linguistico e stilistico, appare evidente che la costruzione si presenta assai simile a quella dei Dialogi[45]: non ci soffermeremo qui sull’analisi dettagliata dei singoli aspetti, catalogati con estrema minuzia da Vottero[46], che passa in rassegna ogni fenomeno dello stile senecano, ivi compresi quelli peculiari delle sezioni moralizzanti. Vorremmo limitarci, nell’esame di queste parti, a segnare le modalità del rapporto tra Seneca e il destinatario, ovvero l’amico Lucilio Iuniore, a cui erano stati dedicati anche le Epistulae, il dialogo De providentia e i perduti Moralis philosophiae libri e del quale molti elementi biografici sono forniti nella prefazione del libro IVa. A Lucilio si rivolge in maniera continua, talora citandolo per nome, altre volte con appellativi che denotano affetto e stima, cosicché egli diventa il vero interlocutore e il referente di domande, interrogazioni retoriche, generiche osservazioni e obiezioni. E può egli stesso porre questioni a Seneca, l’occasione fittizia per sviluppare una controtesi; in questi casi si ricorre a inquis o al più generico (e diatribico) inquit. Non basta. Dobbiamo sottolineare che anche l’inserimento, nel corso della trattazione teorica, delle citazioni poetiche talora ha la stessa funzione di una voce «altra», che si inserisce nel contesto «dialogico», quasi fosse un altro interlocutore. È il caso di molte citazioni ovidiane che, tratte per lo più dalle Metamorfosi, non hanno «funzione morale, ma il preciso scopo d’illustrare vividamente l’imponente gamma dei fenomeni naturali, colti nella tensione perenne del loro dinamismo metamorfico»[47]. L’osservazione vale naturalmente, e a maggior motivo, per le citazioni virgiliane che, considerando la devozione di Seneca verso il grande maestro, sono le più numerose: anch’esse non appaiono mai all’improvviso e s’inseriscono nella stessa concatenazione logica del pensiero senecano di cui evidenziano e chiariscono il nodo importante, soprattutto nei passi di riflessione filosofica e morale, in un ricco gioco polifonico. Con ciò, non dimenticheremo di evidenziare, accanto alla funzione morale delle citazioni poetiche, l’altra funzione che lo stesso Seneca torna speso a chiarire, ovvero la necessità di concedere una pausa di «alleggerimento stilistico» all’interno di una prosa impegnata, filosofica e scientifica:Ep. 58, 25sic nos animum aliquando debemus relaxare et quibusdam oblectamentis reficere; e l’una deve coesistere accanto all’altra: Sed ipsa oblectamenta opera sint; ex his quoque, si observaveris, sumes quod possit fieri salutare[48].
Uno specchio da toletta con scena mitologica di Leda e il cigno, in argento lavorato a sbalzo. Pezzo del tesoro di Boscoreale, I secolo a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
L’andamento espositivo delle parti scientifiche non si discosta, nei suoi aspetti essenziali, dalle altre opere senecane: una prosa serrata che non rinuncia alla variatio né al gusto delle sententiae e che, ugualmente, attinge al bagaglio retorico privilegiato, ovvero le interrogazioni dirette, le opposizioni, le metafore e la consueta ricchezza di figure retoriche, connotative dello stile senecano, ma se anche abbellire il suo periodare con la battuta inattesa (ἀπροσδόκητον) o la ricerca di parole nuove o inconsuete. Seneca è consapevole della difficoltà della materia trattata: così, per maggiore chiarezza, ricorre più volte all’accostamento del termine greco[49] a quello latino, oppure adopera l’attenuazione (uso del verbo solere, ad es., o ut(i), quando si mette a confronto con gli altri), oppure ricerca la forza chiarificatrice delle imagines derivanti dall’ambito militare, giuridico o medico. I periodi sono di solito caratterizzati dalla tipica concisione senecana, ma non mancano sequenze espositive lunghe e complesse, di certo in coincidenza con la trattazione di teorie discusse da più autori e di difficile interpretazione.
Se adesso rivolgiamo la nostra attenzione a quelle parti dell’opera in cui, come abbiamo già rilevato più volte, Seneca concentra ogni interesse sulla finalizzazione dello studio della natura a scopi morali, ci troveremo coinvolti da uno stile appassionato e da un linguaggio ricco di sfumature e di effetti, che riconduce il lettore all’ambito predicatorio e filosofeggiante dei Dialogi, delle Epistulae, e, non ultimo, al pathos e alle rappresentazioni drammatiche delle Tragoediae. In effetti, oltre al consueto impiego degli strumenti retorici caratterizzanti lo stile senecano dell’«interiorità»[50], che personalizzano i tratti salienti delle prefazioni e degli epiloghi, possiamo individuare accenti e risorse descrittive di notevole originalità, in particolare nelle digressioni presenti all’interno della trattazione scientifica. Tutte hanno in comune, come scopo ultimo, l’invito a meditare sulla decadenza dei costumi e sulla malattia morale della società contemporanea, sull’allontanamento dallo stato di natura a opera del lusso e dei vizi degli uomini: sono temi ben noti, tante volte trattati da Seneca nel resto della sua produzione, e nel commento spesso richiameremo i confronti diretti. Ma è ovvio che la nostra attenzione è richiamata non tanto dalla novità degli argomenti quanto dalla particolare collocazione in un’opera scientifica.
Anticipata dalla teoria speculare che nel primo libro è introdotta per spiegare certi fenomeni naturali e agganciandosi strettamente alla fine del cap. 15 in cui si presentano certe caratteristiche degli specchi (8sunt specula, quae faciem prospicientium obliquent, sunt quae in infinitum augeant, ita ut humanum habitum modumque excedant nostrum corporum), la digressione sull’uso distorto degli specchi da parte di Ostio Quadra prepara le riflessioni generali dell’epilogo nel cap. 17[51]. Il passaggio dalla sezione scientifica al racconto è segnalato quasi formularmente: Hoc loco volo tibi narrare fabellam[52], e fabella (come fabula) è un segnale immediato per il lettore che, attraverso il divertimento della storiella, arriverà a comprendere più facilmente il messaggio sotteso, ovvero la condanna della libido e della perversione nella società contemporanea[53]. La distorsione morale di Ostio Quadra è costruita attraverso un’insistenza continua della terminologia afferente all’ambito della corruzione, della malattia, della colpa, della mostruosità (monstrum, portentum, portentuosus), ma soprattutto del furor (16, 1 libido… ingeniosa… ad incitandum furorem suum). E il furor evoca tutta una casistica di personaggi che da tale passione sono trascinati fuori dalla razionalità e dai comportamenti da essa dipendenti: così Caligola o Ciro in De ira III 21. Ma furor significa anche spingersi oltre ogni limite nell’odio o nell’amore fino a portare i personaggi a livelli animaleschi: sono questi i protagonisti delle tragedie senecane, da Atreo a Medea. La bestialità di Ostio Quadra ci è segnalata dal termine admissarius per indicare il partner: il termine indica lo stallone in Varrone, De re rust. 2, 7. E ancora, in 16, 3, allorché la fantasia di Seneca si spinge ad auspicargli quasi una morte per autocannibalismo, il verbo usato è lancinare, un verbo che proviene dalla sfera animale e significa appunto sbranare: come Atreo (Thy. 778-779) lancinat gnatos pater / artusque mandit ore funesto suos.
Se la descrizione della lussuria di Ostio Quadra si pone in forte contrasto con i toni elevati della praefatio, in cui si celebra la luce divina a cui l’anima deve tendere attraverso lo studio della natura, nella fabella domina l’oscurità della colpa, anzi nessuna notte potrebbe nascondere le sue mostruosità: 16, 6At illud monstrum obscenitatem suam spectaculum fecerat et ea sibi ostentabat, quibus abscondendis nulla satis alta nox est.
È la ricerca del paradosso, dell’effetto, ricercato con gli strumenti retorici, le dilatazioni linguistiche, le esasperazioni delle imagines che sta alla base della «sua» nuova drammaticità teatrale. Seneca intende scuotere gli animi per spingerli alla virtù e la via percorsa è molto vicina al linguaggio delle tragedie: dall’exemplum negativo l’uomo può risalire alla luce della conoscenza. A ben guardare, i tratti salienti della sua negatività altro non sono che il ribaltamento degli aspetti positivi della divinità: è questo il paradosso estremo a cui si può arrivare! Ostio Quadra si connota come un autentico dio al contrario, un dio del male, e celebra da sacerdote il parossismo libidinoso come Atreo, nella tragedia citata, aveva osannato il trionfo del suo odio: Thy. 885-888Aequalis astris gradior et cunctos super / altum superbo vertice attingens polum. / Nunc decora regni teneo, nunc solium patris. / Dimitto superos: summa votorum attigi. Nel monologo finale (un’importante tessera di questo breve mosaico drammatico) Ostio Quadra appare fiero del suo furor che ha escogitato mezzi oltre i limiti consentiti dalla natura, collocandolo in una sfera sovrumana: 16, 8inveniam, quemadmodum morbo meo et imponam et satisfaciam. La stessa scelta del verbo invenire ci riconduce di nuovo al linguaggio dei personaggi tragici, per i quali la volontà di superare la norma viene evidenziata più volte da espressioni analoghe: è ancora Atreo che parla in 273-275Fateor, immane est scelus, / sed occupatum: maius hoc aliquid dolor / inveniat[54]. In questa ottica i richiami linguistici tra la prefazione e la fabella ci appaiono più comprensibili: se nella praef. 13 si parla della magnitudo di Dio qua nihil maius cogitari potest, in 16, 2 sono gli specchi che fanno apparire più grandi le immagini e si richiama la magnitudo del partner, anche se falsa, (specula) imagines longe maiores reddentia… ac deinde falsa magnitudine ipsius membri tamquam vera gaudebat[55]. Questo meccanismo (consapevole o meno), che prevede la costruzione del personaggio «annerendo» i modelli positivi, è rintracciabile in altri confronti: così, ad es., il filosofo, in I praef. 3, dichiara che la sua conoscenza della natura non si limiterà agli aspetti esteriori, ma s’inoltrerà nei recessi più profondi (secretiora); analogamente, al negativo, Ostio Quadra non si contenterà di vedere, ma vorrà vedere meglio le sue nefandezze, con l’aiuto degli specchi. La «prova oculare», richiamata quasi ossessivamente nella fabella, rinvia, per contrasto, all’insistenza del vedere con gli occhi della mente presente nella praefatio, istanza primaria del filosofo-maestro[56]. Come ultima riprova di questa operazione senecana di «annerimento», vorremmo aggiungere il confronto con il protagonista di un exemplum positivo, un certo Tullio Marcellino, in Ep. 77, 5-9, in particolare per il ruolo della servitù. Avendo deciso di suicidarsi, servi parere nolebant, tanto erano a lui devoti, e, in punto di morte, distribuì loro del denaro mentre essi piangevano e cercò di confortarli: 8minutas… summulas distribuit flentibus servis et illos ultro consolatus est. Ostio Quadra, al contrario, come fosse un tiranno, era odiato dai suoi servi al punto che saranno proprio loro a ucciderlo e il divino Augusto stesso ritenne che l’uccisione non dovesse essere vendicata, anzi, quasi dichiarò pubblicamente che era stato ucciso a ragione, 16, 1et tantum non pronuntiavit iure caesum videri.
Specchio con figura maschile. Argento, I sec. d.C. da Pompei, Casa del Menandro. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Come nella fabella di Ostio Quadra, ritroviamo lo stesso stile prorompente, figurato, ridondante in altre digressioni delle Naturales che sono accomunate dall’ansia moralistica del vecchio[57] filosofo e da un profondo pessimismo che emerge proprio nelle parti moraleggianti, un pessimismo comune a tante pagine delle Epistulae, forse una conferma che l’opera è stata probabilmente composta nel periodo tardo, dopo il ritiro dalla vita pubblica, più o meno contemporaneamente alle altre opere dedicate a Lucilio: concorre una serie di indicazioni temporali che delimitano il periodo agli anni dopo il 60, forse 62-63 d.C.[58]
È stato osservato molto giustamente che «la fabella di cui Ostio Quadra è il protagonista è un punto di condensazione del linguaggio moralistico: vi troviamo, in sovrabbondanza, i tratti di quel moralismo di tipo “sistematico” che abbiamo inizialmente rilevato in Seneca, ma uniti a una particolare ricerca di profondità simbolica»[59]. In effetti, come abbiamo visto, lo specchio è un oggetto con notevole valore simbolico in quanto, pur essendo un prodotto della natura, diventa poi, nelle mani di Ostio Quadra, lo strumento per saziare la sua lussuria e quindi l’elemento da cui muovere per una più profonda analisi della decadenza dei costumi (vd. cap. 17).
Un’analoga funzione di utilizzazione distorta di un oggetto «buono» la si può ritrovare nelle altre digressioni a fine moralistico presenti nelle Naturales: si tratta della morte della triglia in III 17-18, dei mangiatori di neve in IVb 13 e dell’affine fabula delle miniere in V 15. Preceduto da una descrizione a fosche tinte del mondo sotterraneo, del tutto assimilabile al paesaggio infernale e alla natura delle tragedie, abitato da animalia tarda et informia e da pesci che si scavano (eruuntur) anziché essere pescati, ha inizio l’inquietante affresco di un convivio malato, alla ricerca di sensazioni che accontentino gli occhi prima che la gola (oculos ante quam gulam, III 17, 3). Come in I 16, la lussuria è appagata dal «vedere»; qui la depravazione consiste nell’assistere alla morte di un pesce che poi verrà consumato e Seneca si sofferma, con dettagli quasi ossessivi, sullo spettacolo offerto dal cambiamento del colore, nel trapasso dalla vita alla morte: siamo molto vicini a quel gusto dell’orrido che informa le macabre descrizioni tragiche. Lingua e stile, in un unico sforzo, concorrono a evidenziare la perversione di uomini appartenenti alla classe sociale ricca, di uomini che non esitano a disertare il funerale di un parente, che rappresentava, per gli antichi, un momento importante e di coesione: ora non esiste più nemmeno il valore della tradizione, esiste solo la spasmodica ricerca, in particolare visiva, del piacere (III 18, 7oculis quoque gulosi sunt) e quasi una follia collettiva all’inseguimento di sensazioni nuove (III 18, 3tantum ad sollertiam luxuriae pereuntis accedit, tantoque subtilius cotidie et elegantius aliquid excogitat furor usitata contemnens!).
Anche la fabula di V 15, nel raccontare la spedizione ordinata da Filippo per verificare lo stato di una vecchia miniera, riconduce al tema dell’avaritia e dei vitia degli uomini che, per amore del guadagno, si spingono fino nelle profondità della terra a rischio della loro vita. L’oscurità del mondo sotterraneo, ancora una volta metafora della colpa, desta terrore (V 15, 1 non sine horrore visos) e, come in III 16, 5, evoca le tenebre infernali: là dove hanno osato discendere, potranno conoscere terrarum pendentium habitus ventosque per caecum inanes… et aquarum nulli fluentium horridos fontes et alteram perpetuamque noctem, V 15, 4. In un contesto di studio sulla natura come le Naturales, appare davvero distante una tale rappresentazione «innaturale» (si ricordino i pesci scavati!) e irreale. È l’ansia moralistica di Seneca che, nell’indicare le vie percorse dagli uomini per la loro rovina, violando la natura e i suoi misteri, non esita a introdurre descrizioni che lo avvicinano, ad es., ad Albinovano Pedone, trasmessoci da Seneca retore, Suas. 1, 15: in comune una natura senza luce, vaga e spaventosa, lo scenario per la sua dissuasio da imprese empie per troppa audacia e quindi sacrileghe, riferita alle conquiste militari e alla sete di dominio[60].
In una sequenza contraddistinta da un forte uso dell’ossimoro (4 pauperrimum… divitiae) e dalla ricorrente intensificazione di termini attinenti alla sfera della sete (5 aestus, ebrietas, torret, incalescit, ecc.) nonché a quella del commercio (3 mercemur, emere, emptus), ritroviamo l’utilizzazione deformata di un oggetto appartenente alla natura da parte di uomini ricchi e lussuriosi: si tratta della neve e dei mangiatori di neve in IVb 13.
Un letterato nel suo studio. Rilievo, marmo, III-IV sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà romana.
La digressione prende inizio dall’obiezione del discepolo Lucilio, che pone al maestro la domanda a cui Seneca ha risposto più volte nel corso dell’opera: perché soffermarsi sullo studio di certi aspetti della natura, in questo caso, della neve, quando si potrebbe divenire migliori sapendo perché essa non la si debba comprare? E il maestro risponderà con una lunga analisi del commercio e della consumazione della neve, che, in quanto acqua e, soprattutto, aria, non è niente: l’acqua stessa contra se ingeniosa luxuria redegit ad pretium: adeo nihil illi potest placere nisi carum, IVb 13, 4. In I 16, similmente, a proposito di Ostio Quadra, era la libido a essere ingeniosa… ad incitandum furorem suum. Questa società di ricchi, annoiati dal troppo cibo e dal benessere, ha reso la neve un bene commerciabile e ha «inventato» il modo di pressarla per superare l’estate (13, 3invenimus quomodo stiparemus nivem ut ea aestatem evinceret). Come nelle altre digressioni, anche qui diviene importante la funzione visiva (10 videbis) sulla rappresentazione di uomini pallidi e ammalati (10graciles et palliolo focalique circumdatos, pallentes et aegros) in preda all’arsura dei cibi e al gelo della neve: senza attenuazioni, febris est (11). Con un linguaggio fortemente metaforizzato Seneca ci offre ancora un esempio di trionfo della luxuria sulla ratio: 11luxuria invictum mallum et ex molli fluidoque durum atque patiens! È il paradosso che chiude la digressione: la lussuria finisce per assumere addirittura le doti essenziali del saggio e dell’ottimo Romano, e forse più di questo non si poteva dire![61]
Vorremmo terminare l’analisi sulle diverse modalità del linguaggio e dello stile senecano nelle digressioni o excursus a sfondo moraleggiante e filosofico con alcune osservazioni sulla rappresentazione apocalittica del diluvio universale nel cap. 27 del III libro (l’argomento è presente anche nei capitoli finali 28-30). All’interno della trattazione sulle acque e sui mari, Seneca, consapevole di allontanarsi dall’argomento trattato, apre così il suo excursus: Sed monet me locus ut quaeram, cum fatalis dies diluvii venerit, quemadmodum magna pars terrarum undis obruatur. Segue un grandioso affresco dell’evento o κατακλυσμός, che, secondo la visione stoica, accompagnava l’ἐκπύρωσις alla fine di un ciclo nella vita del mondo, o anno cosmico[62]. Di nuovo la domanda: come si concilia tale descrizione con un’opera scientifica? Potremmo ipotizzare un pezzo di bravura per allentare la pesantezza della trattazione teorica, se i particolari descrittivi non fossero di così vasto respiro e se le finezze psicologiche nell’analisi degli stati d’animo non ci riconducessero ancora una volta alla profonda conoscenza dei sentimenti umani mostrata da Seneca in tanti passi delle sue opere filosofiche. In effetti, come nelle digressioni esaminate precedentemente lo specchio, la triglia, la neve rappresentavano oggetti «naturali», sui cui uso distorto si innestava la riflessione moralistica, così anche il diluvio nasce dalla natura ed è una legge dell’universo: all’origine il mondo racchiudeva in sé gli astri, gli animali e tutti quegli elementi da cui un giorno esso sarebbe stato cambiato (III 29, 3–4In his fuit inundatio, quae non secus quam hiems, quam aestas, lege mundi venit… omnia adiuvabunt naturam, ut naturae constituta peregantur). Ma il senso sotteso è una riflessione ricorrente nel pensiero filosofico di Seneca: è il concetto che i casi della fortuna possono colpire, come e quando vogliono, opere umane e naturali: Ep. 91, 11iuga montium diffluunt, totae desedere regiones, operta sunt fluctibus quae procul a conspectu maris stabant. Anche il diluvio, dunque, è un accadimento previsto dalla natura e avrà fine una volta che sarà portata a compimento la rovina del genere umano, dopodiché avrà inizio una nuova era d’innocenza per l’umanità, l’età dell’oro; ma ben presto ritornerà la corruzione: 30, 8cito nequitia subrepit. Le digressioni, dunque, non appaiono mai sganciate dalla natura e dai suoi elementi e le accomuna l’accostamento di costanti spunti di ragionamenti moralistici e filosofici, in uno stile serrato e figurato, teso alla ricerca di sensazioni forti e linguisticamente innovativo. In particolare, nella rappresentazione del diluvio, Seneca gareggia con il modello Ovidio, che in Met. I 253-312 aveva descritto il diluvio universale: ma alla descrizione epica ovidiana egli contrappone una rappresentazione che, nei suoi elementi costitutivi, è raffigurata con tinte forti, drammatiche, riecheggianti passi delle sue tragedie[63]. L’intensificazione drammatica è raggiunta attraverso l’insistenza crescente (αὔξησις) dei motivi: la nox e la mancanza della luce solare (cfr. Oed. 1-5), la nebbia fitta, la mancanza di vento, i crolli progressivi (27, 6nihil stabile est), la paura e lo sbigottimento. L’apparato epico ovidiano affidato all’intervento divino è del tutto assente ed è sostituito da una visione catastrofica dell’evento, narrata al presente, per renderne più potente la drammaticità: se poi Seneca si permette di criticare il suo modello (sono sciocchezze aver detto che il lupo nuota tra le pecore!)[64], non viene comunque meno l’ammirazione per i suoi versi, e appare chiaro che il poeta tragico, più che il filosofo stoico, ha cercato il superamento del modello.
A ripercorrere la nostra analisi, ne scaturisce una complessità di motivi che rendono le Naturales Quaestiones una delle opere più rappresentative di Seneca, ma certo gli aspetti più originali sembrano proprio questa compresenza di interesse morale, filosofico e di studio scientifico, il dialogo continuo tra il maestro e il discepolo e, non ultimo, la potenza stilistica insieme all’intensità delle parole e dei colores.
Paul Merwart, Deucalione solleva la sposa. Olio su tela, 1880.
[3] Aristotele, Meteorologica, ed., trad. e note di P. Louis, Paris 1982: nell’introduzione è discussa l’autenticità del libro IV che l’editore sostiene con vari argomenti: sarebbe stato composto da Aristotele, pur non corrispondendo che imperfettamente al progetto iniziale dell’autore (p. xviii).
[4] D. Vottero, Fonti e dossografia nelle “Naturales quaestiones” di Seneca, RAALBAN 61 (1987-1998), pp. 5-42.
[5] Sappiamo con certezza che l’opera aristotelica era nota ad Eratostene nell’elaborazione della teoria sulla formazione dei fiumi attraverso le acque fluviali, in particolare per la spiegazione delle piene del Nilo dovute alle piogge abbondanti (Proclo, In Plat. Tim. 37d). E possiamo aggiungere Strabone, Geografia IV 1, 7, che ricorda il parere di Aristotele per spiegare con un avvenuto terremoto la presenza di massi nella regione francese di Crau. Oltre a Seneca, del cui debito ad Aristotele avremo modo di occuparci ripetutamente nel commento, è probabile che lo stesso Lucrezio se ne sia ricordato quando descrive la violenza dei tifoni (VI 422 sgg.).
[13] Tra la biografia relativa a tale questione, ci limitiamo a citare J. Borucki, Seneca philosophus quam habeat auctoritatem in aliorum scriptorum locis afferendis, Diss. Borna-Leipzig 1926: la sua posizione è diversa da quella discussa subito sopra nella misura in cui sostiene che Seneca avrebbe, invece, letto molto, anche degli autori precedenti.
[18]Collezione, V, parte I, 1-2: egli spiega che la forma esagonale delle celle risponderebbe a un principio di ottimizzazione, in quanto tale forma geometrica, dato l’alto rapporto area-perimetro, garantisce più miele.
[19] J. Beaujeu, La vie scientifique à Rome au premier siècle de l’Empire, Conférence faite le 6 Avril 1957, Université de Paris 1957, p. 10.
[26] Viene introdotta, nei paragrafi 9-17, la tripartizione della philosophia in moralis, naturalis, rationalis: alla prima Seneca dedicherà i suoi maggiori interessi, della seconda, che comprende anche la metafisica e la teologia, secondo la dottrina stoica che identificava Dio e la natura, si occuperà nelle Naturales, la terza, la logica, non è ricordata nella praefatio.
[28] Seneca polemizza con Posidonio che aveva attribuito ai sapientes l’invenzione delle artes e intende ribadire la superiorità del pensiero filosofico su di esse, prodottesi dal dilagare della luxuria: la semplicità della natura si afferma sul progresso legato alle artes, par. 9: Felix illud saeculum fuit ante architectos, ante lectores!
[29] I. Lana, La concezione della scienza e della tecnica a Roma da Augusto a Nerone, II, Torino 1971, p. 165.
[32] Per una valutazione degli aspetti compositivi delle Naturales Quaestiones rinviamo a G. Stahl, Aufbau, Darstellungsform und philosophischer Gehalt der Naturales Quaestiones des L. Annaeus Seneca, Diss. Kiel 1960 e a W. Trillitzsch, Senecas Beweisführung, Berlin 1962.
[35] Sul problema, si vedano le osservazioni generali di E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, vol. III, Firenze 1979.
[36] P. Cubeddu, Natura e morale in Seneca. Il dibattito sulle “Naturales Quaestiones” negli anni 1900-1970, Sandalion 1 (1978), pp. 123-152; O. Baldacci, Seneca scienziato, in Letterature comparate: problemi e metodo. Studi in onore di E. Paratore, II, Bologna 1981, pp. 585-595; D. Weber, Ethik und Naturwissenschaft. Die Praefatio zu Senecas Naturales Quaestiones, Wien 1995.
[37] S. Chabert, Sismologie (Questions Naturelles, Liv. VI), AUG 15 (1903), pp. 154-190 ; G. Maurach, Zur Eigenart und Henkunft von Senecas Methode in den Naturales Quaestiones, Hermes 93 (1965), pp. 357-369.
[38] F.P. Waiblinger, Senecas Naturales Quaestiones. Griechische Wissenschaft und römische Form, München 1977; N. Gross, Senecas Naturales Quaestiones: Komposition, naturphilosophische Aussagen und ihre Quellen, Stuttgart 1989.
[39] J. Müller, Über die Originalität der Naturales Quaestiones Senecae, in Fest-Gruss aus Innsbruck, Innsbruck 1893, pp. 1-20. Osservazioni sparse si possono leggere nelle principali opere di carattere generale su Seneca, indicate nella ricca bibliografia di D. Vottero, op. cit., pp. 77 sgg.
[40] L’osservazione è di P. Parroni, op. cit., p. 475.
[41] Altri esempi si possono leggere in D. Vottero, op. cit., p. 41.
[43] La tecnica rientrava nei compiti delle classi inferiori e degli schiavi e quindi veniva denigrata dal ceto intellettuale, ma, oltre a ciò, il progresso tecnologico poteva significare la perdita di un equilibrio sociale ed economico consolidato. A conferma si ricorda la storiella del vetro infrangibile il cui inventore fu fatto uccidere dal sovrano per timore di una svalutazione dell’oro! Narrata da Trimalcione in Petr. Sat. 51, si ritrova anche in Plinio, Nat. hist. XXXVI 195. Intorno a questa problematica si veda A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, introd. e trad. di P. Zambelli, Torino 1967.
[44] Per un’interpretazione del pensiero pliniano si veda la lucida analisi di G.B. Conte, L’inventario del mondo. Ordine e linguaggio della natura nell’opera di Plinio il Vecchio, in G. Plinio Secondo, Storia naturale, I, Torino 1982, pp. xvii-xlvii.
[46] D. Vottero, Note sulla lingua e lo stile delle “Naturales Quaestiones” di Seneca, AAST 119 (1985), pp. 61-86, di cui possiamo leggere una riduzione nell’Introduzione già citata, pp. 42 sgg.
[47] G. Mazzoli, Seneca e la poesia, Milano 1970, p. 243, ed Enciclopedia virgiliana, s.v. Seneca, Lucio Anneo, vol. IV, pp. 766-768, Roma 1988; si veda, sull’argomento, G. Lurquin, Le citation poétique dans les ouvrages en prose de Sénèque le philosophe, Louvain 1947, assai utile per la raccolta completa delle citazioni, più discutibile per la classificazione, che si basa su principi non sempre convincenti. Accanto a Virgilio (in particolare, l’Eneide) e Ovidio (soprattutto le Metamorfosi, libri I e XV), sono citati Menando, Lucrezio, Tibullo (il verso è erroneamente attribuito a Ovidio), Nerone, Lucilio Iuniore e un certo Vagellio, autore sconosciuto.
[54] Ugualmente funzionali i verbi quaerere ed excogitare come l’affine pergere: Medea 898-900Quaere poenarum genus / haut usitatum iamque sic temet para: / fas omne cedat, abeat expulsus pudor.
[57] È Seneca stesso che fa riferimento alla sua età ormai tarda nel libro III praef. 1; 2; 3 e nelle allusioni al suo precario stato di salute nel libro I praef. 4.
[58] Intorno al problema della datazione, rinviamo a D. Vottero, op. cit., pp. 20-21. Il terminus post quem è il 62, anno del terremoto in Campania ricordato in VI 1-2, il terminus ante quem forse il 64, di cui non sono ricordati eventi salienti.
[61] Anche Plinio, in Nat. hist. XIX 55, fa riferimento al commercio dell’acqua e al costume di bere la neve e il ghiaccio, ma, come osserva acutamente S. Citroni Marchetti, op. cit., pp. 170-171, «Plinio appartiene in parte a questo tipo di moralismo, ma vi appartiene senza vera consapevolezza: più che dipingere con gli stessi colori egli parla, spontaneamente, usando il medesimo linguaggio».
[62] Vasta la bibliografia sull’argomento; si veda D. Vottero, op. cit., pp. 440-441, note 1 e 2.
[64]III 27, 13Ni tantum impetum ingenii et materiae ad pueriles ineptias reduxisset: nat lupus inter oves, fulvos vehit unda leones: il richiamo critico è a Ov. Met. I 304. Cfr. G. Mazzoli, op. cit., pp. 245-247.
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