La società delle api (Verg. G. IV 149-227)

Dopo essersi occupato nel libro precedente dell’allevamento del bestiame, affrontando questioni connesse a cavalli, bovini, ovini, cani e malattie degli animali, Virgilio si rivolge a un tema particolare e per i moderni apparentemente insolito: l’allevamento delle api, argomento al quale dedica una buona parte del IV libro dei Georgica. Di questi insetti il poeta valorizza una serie di caratteristiche e comportamenti, descrivendone la prodigiosa vita sociale: nella loro comunità ogni individuo esiste in funzione della collettività, assolvendo scrupolosamente i compiti che il suo ruolo gli impone. Benché molti di questi aspetti, oggi, non abbiano alcun fondamento scientifico, tuttavia essi contribuiscono a esaltare in chiave poetica la vita delle api, una società ideale nella quale è possibile cogliere un riferimento alla realtà politica del tempo di Virgilio: l’autore auspicava per l’Italia il ritorno a quell’armonia sociale che decenni di guerre civili avevano logorato e che Ottaviano aveva promesso di restaurare.

Aberdeen, University Library. Univ Lib. MS 24 (inizi XIII secolo), Bestiario di Aberdeen, f. 63r. Sciami di api tornano ai favi.

Nunc age, naturas apibus quas Iuppiter ipse    

addidit expediam, pro qua mercede canoros    

Curetum sonitus crepitantiaque aera secutae  

Dictaeo caeli regem pauere sub antro.   

solae communis natos, consortia tecta  

urbis habent magnisque agitant sub legibus aeuum,  

et patriam solae et certos nouere penatis;         

uenturaeque hiemis memores aestate laborem           

experiuntur et in medium quaesita reponunt. 

namque aliae uictu inuigilant et foedere pacto

exercentur agris; pars intra saepta domorum   

narcissi lacrimam et lentum de cortice gluten 

prima fauis ponunt fundamina, deinde tenacis           

suspendunt ceras; aliae spem gentis adultos    

educunt fetus; aliae purissima mella      

stipant et liquido distendunt nectare cellas;    

sunt quibus ad portas cecidit custodia sorti,    

inque uicem speculantur aquas et nubila caeli,           

aut onera accipiunt uenientum, aut agmine facto      

ignauum fucos pecus a praesepibus arcent:      

feruet opus, redolentque thymo fraglantia mella.       

ac ueluti lentis Cyclopes fulmina massis

cum properant, alii taurinis follibus auras        

accipiunt redduntque, alii stridentia tingunt   

aera lacu; gemit impositis incudibus Aetna;     

illi inter sese magna ui bracchia tollunt 

in numerum, uersantque tenaci forcipe ferrum:         

non aliter, si parua licet componere magnis,    

Cecropias innatus apes amor urget habendi    

munere quamque suo. grandaeuis oppida curae         

et munire fauos et daedala fingere tecta.          

at fessae multa referunt se nocte minores,        

crura thymo plenae; pascuntur et arbuta passim        

et glaucas salices casiamque crocumque rubentem    

et pinguem tiliam et ferrugineos hyacinthos.   

omnibus una quies operum, labor omnibus unus:      

mane ruunt portis, nusquam mora; rursus easdem     

Vesper ubi e pastu tandem decedere campis    

admonuit, tum tecta petunt, tum corpora curant;      

fit sonitus, mussantque oras et limina circum. 

post, ubi iam thalamis se composuere, siletur 

in noctem, fessosque sopor suus occupat artus.          

nec uero a stabulis pluuia impendente recedunt        

longius, aut credunt caelo aduentantibus Euris,          

sed circum tutae sub moenibus urbis aquantur           

excursusque breuis temptant, et saepe lapillos,          

ut cumbae instabiles fluctu iactante saburram,

tollunt, his sese per inania nubila librant.         

  Illum adeo placuisse apibus mirabere morem,          

quod neque concubitu indulgent, nec corpora segnes

in Venerem soluunt aut fetus nixibus edunt;    

uerum ipsae e foliis natos, e suauibus herbis    

ore legunt, ipsae regem paruosque Quirites     

sufficiunt, aulasque et cerea regna refingunt.   

saepe etiam duris errando in cotibus alas         

attriuere, ultroque animam sub fasce dedere:  

tantus amor florum et generandi gloria mellis.

ergo ipsas quamuis angusti terminus aeui        

excipiat (neque enim plus septima ducitur aestas),    

at genus immortale manet, multosque per annos       

stat fortuna domus, et aui numerantur auorum.         

  Praeterea regem non sic Aegyptus et ingens

Lydia nec populi Parthorum aut Medus Hydaspes      

obseruant. rege incolumi mens omnibus una est;       

amisso rupere fidem, constructaque mella       

diripuere ipsae et cratis soluere fauorum.         

ille operum custos, illum admirantur et omnes

circumstant fremitu denso stipantque frequentes,      

et saepe attollunt umeris et corpora bello         

obiectant pulchramque petunt per uulnera mortem. 

  His quidam signis atque haec exempla secuti

esse apibus partem diuinae mentis et haustus 

aetherios dixere; deum namque ire per omnis 

terrasque tractusque maris caelumque profundum;   

hinc pecudes, armenta, uiros, genus omne ferarum,   

quemque sibi tenuis nascentem arcessere uitas:         

scilicet huc reddi deinde ac resoluta referri      

omnia, nec morti esse locum, sed uiua uolare  

sideris in numerum atque alto succedere caelo.

Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Vat. lat. 592 (1075 c.), Exultet. Scena di apicoltura.

Su dunque, ora descriverò quali doti naturali ha dato alle api

Giove in persona, come ricompensa, perché, seguendo i Cureti

sonori e i loro bronzi tintinnanti, vennero a nutrire

il re del cielo sotto l’antro ditteo.

Sole hanno prole in comune e abitazioni congiunte in città,

sole trascorrono l’esistenza secondo leggi grandiose,

sole riconoscono una patria e Penati certi,

e, memori dell’inverno incalzante, faticano in estate

e mettono in comune il frutto del loro lavoro.

Alcune, infatti, provvedono al nutrimento e, secondo un accordo

stabilito, lavorano nei campi; una parte nei recessi delle case

pone la stilla del narciso e il vischioso glutine di corteccia

a fondamenta dei favi, poi vi stende sopra

cere tenaci; altre fanno uscire i figli ormai adulti,

speranza della stirpe; altre ammassano miele purissimo

e gonfiano le celle d’un nettare trasparente.

Ad alcune è toccata in sorte la custodia dei portali

e a turno sorvegliano le piogge e le nubi del cielo

o raccolgono i fardelli di chi arriva o, schierate in colonna,

respingono i fuchi, bestie ignave, dalle mangiatoie.

Ferve il lavoro, profuma di timo il miele fragrante.

E, come quando i Ciclopi approntano in fretta le folgori

dalle masse di duttili metalli, alcuni aspirano e soffiano fuori l’aria

con mantici di pelle taurina, altri immergono in un bacino

i bronzi sfrigolanti – geme al peso delle incudini l’Etna –,

quelli a turno con forza immane sollevano le braccia,

ritmicamente, e rigirano il ferro nella presa delle tenaglie:

non diversamente, se è lecito paragonare il piccolo al grande,

un’innata passione di possedere incalza le api cecropie,

ognuna alla propria mansione. Le anziane badano alle dimore,

a proteggere i favi e a plasmarne i tetti con arte.

Invece, sfiancate tornano a notte fonda le più giovani,

le zampe colme di timo; colgono dovunque il cibo: su corbezzoli

e scuri salici e cassia e croco rossastro

e succoso tiglio e ferrigni giacinti.

Per tutte uno solo è il riposo, una sola è la fatica:

al mattino si riversano dagli accessi; non c’è posa; di nuovo,

quando la sera ordina di abbandonare finalmente il pascolo

nei campi, allora s’avviano a casa, allora si rifocillano;

si leva un ronzio, rumoreggiano intorno alle entrate e alle soglie.

Poi, quando ormai si sono sistemate nelle loro stanze, c’è silenzio

per tutta la notte e il giusto sonno s’impossessa delle stanche membra.

Però, se la pioggia incombe, non s’allontanano troppo dalle loro sedi,

né si fidano del cielo quando giungono gli Euri,

ma raccolgono acqua lì intorno, al sicuro sotto i bastioni della città,

azzardando brevi sortite e spesso portano con sé,

come le barche instabili all’urto dei flutti si zavorrano,

dei sassolini, con i quali si librano in volo tra nubi leggere.

C’è un comportamento, fra le api, che davvero ti stupirà:

non si abbandonano ai congiungimenti né fiaccano con indolenza

i corpi al servizio di Venere né generano i piccoli con il parto:

al contrario, da sole, raccolgono con la bocca i piccoli dalle fronde,

dalle erbe soavi, da sole rimpiazzano il sovrano e i piccoli cittadini

e riplasmano le aule e i reami di cera.

Spesso, inoltre, nel vagabondare spezzano le ali contro duri roccioni

e così rendono l’anima, con libera scelta, sotto il carico;

tanto è l’amore dei fiori, tanta la gloria di produrre il miele!

Dunque, anche se le afferra in breve tempo il limite della vita

– infatti, non sopravvivono alla settima estate –,

la stirpe, però, rimane immortale e per molti anni si regge la fortuna

d’una schiatta e si può risalire agli avi degli avi.

Inoltre, non rispettano altrettanto il loro sovrano

l’Egitto, la vasta Lidia, i popoli dei Parti, i Medi che vivono

sull’Idaspe. Finché il re è incolume, hanno un’anima sola;

quando è morto, subito violano l’obbedienza, saccheggiano

il miele ammassato e distruggono la struttura dei favi.

Il re è il regolatore dei lavori: lo riveriscono e tutte

lo circondano con denso ronzio, gli stanno attorno in gran numero,

lo sollevano sulle spalle e spesso gli fanno scudo con i loro corpi,

e cercano in mezzo alle ferite una morte gloriosa.

Da questi segni e da questi esempi alcuni han detto

che le api hanno parte della mente divina

e afflato dell’etere, che un dio penetra in tutte le cose,

nelle terre, nei tratti di mare, nel cielo profondo.

Di là le greggi, gli armenti, gli uomini, ogni specie animale

attingono, ciascuno nascendo, il soffio vitale;

e là ogni cosa è restituita e ritorna, dissolta;

non c’è spazio alla morte: volano vive le cose

in mezzo agli astri e si ritirano nelle altezze del cielo.

London, British Library. Ms Harley 3244 (c. 1236-1250). Peraldo, Summa teologica (con una Summa de vitiis), f. 57v. Favo con sciame di api.

Affascinato dal micromondo delle api, nella sua trattazione Virgilio ha seguito uno schema tipicamente etnografico: dopo aver descritto l’area di maggiore diffusione di questa specie (clima, vegetazione, ecc.), le attività condotte nelle varie stagioni, il loro comportamento in guerra (!), il poeta si sofferma – come farebbe un etnografo – sugli aspetti più insoliti e curiosi: nel caso delle api, una certa capacità divinatoria di cui questi insetti sarebbero dotati (vv. 191 ss.), la castità (vv. 197 ss.), la grande venerazione per il loro rex (cioè l’ape regina, di cui Virgilio, come quasi tutti i trattatisti antichi, ignorava il sesso femminile) e la loro natura spirituale e divina (vv. 220-221).

Il poeta impiega per le api un lessico umanizzante (natos e tecta urbis, vv. 153-154) non solo in forza di un tópos poetico ma anche perché l’esistenza di questi insetti era considerata la trasfigurazione di una società umana ideale. Si dice, infatti, nei versi successivi che le api vivono tutta la vita magnis sub legibus, grazie alle quali riconoscono patriam… et… penates. Poco dopo (v. 158) si fa riferimento al foedere pacto, all’accordo prestabilito, che presiede al lavoro in campagna, ancora una volta assimilando la società della api a quella umana e alle regole che sanciscono la convivenza del gruppo. Da perfetta comunità organizzata quale sono, le api appaiono anche in grado di far fronte al pericolo: esse si schierano in ordine di combattimento (agmine facto, v. 167: può essere curioso notare che anche l’italiano «sciame» deriva da un termine militare, exagmen, propriamente «colonna di soldati schierati») per allontanare i fuchi; difendono gli alveari, indicati con il termine oppida (v. 178), quasi fossero vere e proprie «città fortificate», e difendono i favi (v. 179, munire favos, anche qui un verbo attinto al lessico militare).

Proprio l’organizzazione delle api consente a Virgilio di sviluppare la trasfigurazione tradizionale della società umana ideale. Questi insetti assurgono a modello di convivenza civile, di Stato perfetto, in cui tutti agiscono per il bene comune aggregati attorno a una figura regale, garante dell’ordine e della concordia, e uniti da un forte senso di legalità reciproca: insomma, esattamente il progetto politico vagheggiato da Ottaviano, che negli anni in cui il poeta componeva i Georgica (37-29 a.C.), stava affermando il proprio potere. A fugare ogni dubbio interviene l’inequivocabile locuzione: parvos Quirites (v. 201), «piccoli Quiriti», utilizzata per definire le api. In questo modo l’allegoria che Virgilio va delineando è resa quanto mai esplicita: le api finiscono per rappresentare, a tutti gli effetti, l’immagine stessa della Romana civitas.

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Riferimenti bibliografici:

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Esiodo

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. 1. Dalle origini al V secolo a.C., Messina-Firenze 2004, 267-279.

1. Una vita per la poesia

Gli antichi erano incerti sulla cronologia di Esiodo, il primo poeta greco che abbia una fisionomia decisamente storica e non leggendaria. Alcuni, come Eforo di Cuma (nato intorno al 390 a.C.), lo considerarono anteriore a Omero; altri, come Senofane (vissuto intorno al 545 a.C.), posteriore; Erodoto (Hdt. II 53), il quale attingeva a fonti locali antichissime, sosteneva che Omero ed Esiodo fossero vissuti entrambi quattro secoli prima di lui, e cioè verso l’850 a.C., e stabilirono i fondamenti della religione dei Greci, nonché una precisa dottrina sugli dèi, assegnando a essi nomi e prerogative e referendo notizie sulla loro origine e sul loro aspetto esteriore. Ma le indicazioni più attendibili sono probabilmente quelle che si possono ricavare dall’opera stessa del poeta, tenendo conto delle notizie autobiografiche che egli stesso fornisce, del quadro sociale e politico della Beozia, quale il poeta lo descrive, oltre che dell’influenza della lingua omerica, evidente nei suoi poemi. In base a tutti questi elementi, è possibile ritenere che Esiodo sia di circa un secolo più recente di Omero e che sia vissuto intorno al 750 a.C.

Pittore di Esiodo. Musa che accorda due κιθάραι. Pittura vascolare da una coppa attica a fondo bianco, 470-460 a.C. c. da Eretria. Paris, Musée du Louvre.

Oltre che per la sua indiscutibile storicità, Esiodo si distingue da Omero anche per il fatto di aver rivelato, per primo nella letteratura occidentale, il proprio nome, posto come una σφραγίς (“sigillo”) all’inizio di uno dei suoi poemi, la Teogonia, violando in questo modo il rigoroso anonimato tipico dei cantori epici, che nascondevano la propria identità nel racconto oggettivo delle gesta eroiche. Dai brani autobiografici contenuti nelle opere maggiori si apprende che il padre del poeta, nativo della colonia eolica di Cuma in Asia Minore, dopo aver esercitato senza successo il commercio, per evitare di finire in miseria, si era trasferito in Beozia, una regione aspra e isolata, le cui uniche risorse erano l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, vivendo in un oscuro villaggio di contadini, nei pressi del monte Elicona: Ascra, definita dallo stesso Esiodo χεῖμα κακῇ, θέρει ἀργαλέῃ, οὐδέ ποτ’ ἐσθλῇ («d’inverno cattiva, aspra d’estate, piacevole mai», Op. 640).

La scelta di questo borgo fu probabilmente determinata dalle affinità culturali della Beozia con l’Eolide d’Asia, oltre che dalla sua vicinanza al monte Elicona, ritenuto dimora delle Muse, e alla città di Tespie, sede del loro culto. Esiodo e suo fratello minore, Perse, crebbero in questo mondo agreste e solitario, dai lunghi e gelidi inverni e dalle estati aride e ardenti, aiutando il padre nel lavoro dei campi. Proprio a Esiodo, che da ragazzo pascolava il bestiame paterno alle pendici boscose dell’Elicona, apparvero le Muse; com’egli narra ampiamente nel proemio della Teogonia (Th. 22-34), si trattò di una vera e propria investitura poetica, dato che le dee gli offrirono un ramo d’alloro e gli insegnarono la divina arte del canto che celebra il passato e il futuro. Questa straordinaria esperienza (sogno? suggestione? rapimento estatico?) fu decisiva per il giovane; venuto a conoscenza della poesia epica forse dagli Omeridi, giunti, nel loro costante errare, anche in Beozia, egli decise di usare il loro stesso metro, l’esametro, per cantare argomenti ben diversi dalle gesta degli eroi: la dura e tenace attività quotidiana con la quale gli uomini strappavano alla terra i mezzi per sopravvivere e l’insieme delle credenze religiose che rispettava e che aveva imparato a conoscere da varie fonti. Fattosi dunque rapsodo di professione, Esiodo compose le Opere e giorni e la Teogonia.

Pittore della Chimera. Sirena barbata. Pittura vascolare da un piatto corinzio, dalla Beozia. 580-579 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Quando il padre del poeta morì, i due figli avrebbero potuto godere di una certa agiatezza, grazie all’eredità toccata loro. Ma Perse dilapidò in poco tempo i suoi beni; e con la complicità di giudici corrotti, riuscì a ottenere anche una parte delle terre toccate al fratello. Non contento neanche di ciò, intentò al poeta una nuova causa, cercando di spogliarlo anche di quanto restava. Questa lite fornì a Esiodo lo spunto occasionale per il suo poema, le Opere e giorni, in cui volle esaltare, in un’ottica altamente morale e religiosa, l’origine e il fine del lavoro umano, voluto da Zeus e destinato a essere la fonte di una ricchezza misurata e onesta, l’unica a cui gli dèi accordino stabilità e lunga durata.

L’attività poetica di Esiodo non mancò di riservargli significative gratificazioni; egli stesso menziona l’unica occasione in cui viaggiò per mare (Op. 654-659):

ἔνθα δ’ ἐγὼν ἐπ’ ἄεθλα δαΐφρονος Ἀμφιδάμαντος

Χαλκίδα [τ’] εἰσεπέρησα· τὰ δὲ προπεφραδμένα πολλὰ

ἄεθλ’ ἔθεσαν παῖδες μεγαλήτορες· ἔνθα μέ φημι

ὕμνῳ νικήσαντα φέρειν τρίποδ’ ὠτώεντα.

τὸν μὲν ἐγὼ Μούσῃσ’ Ἑλικωνιάδεσσ’ ἀνέθηκα

ἔνθα με τὸ πρῶτον λιγυρῆς ἐπέβησαν ἀοιδῆς.

Io allora per i giochi funebri in onore del prode Anfidamante

andai per mare fino a Calcide; molti premi in palio

avevano posto i figli di quell’uomo magnanimo; là ti dico

con un inno io vinsi e riportai un tripode orecchiuto,

e lo consacrai alle Muse Eliconie,

dove per la prima volta mi iniziarono al canto armonioso.

Apollo ed Ercole si contendono il Tripode delfico. Bassorilievo, marmo, I-II sec. d.C. Baltimore, Walters Art Museum.

Si recò a Calcide nell’Eubea, attraversato il braccio di mare chiamato Euripo, per partecipare, con un inno, all’agone poetico tenutosi durante i giochi funebri in onore di Anfidamante, un cittadino in vista, caduto in una battaglia navale durante la guerra tra Calcide ed Eretria per il dominio della pianura del fiume Lelanto. Di questo episodio parla anche Plutarco (Sept. 153f) e, sebbene la datazione dell’evento rimanga incerta (forse fra il 730 e il 700 a.C.), la cronologia del conflitto consentirebbe di collocare la vita di Esiodo approssimativamente tra l’VIII e il VII secolo:

ἀκούομεν γὰρ ὅτι καὶ πρὸς τὰς Ἀμφιδάμαντος ταφὰς εἰς Χαλκίδα τῶν τότε σοφῶν οἱ δοκιμώτατοι ποιηταὶ συνῆλθον ἦν δ᾽ ὁ Ἀμφιδάμας ἀνὴρ πολεμικός, καὶ πολλὰ πράγματα παρασχὼν Ἐρετριεῦσιν ἐν ταῖς περὶ Ληλάντου μάχαις ἔπεσεν.

Sentiamo dire infatti che anche ai funerali di Anfidamante si riunirono a Calcide, tra i sapienti del tempo, i poeti più illustri; Anfidamante era un uomo di guerra che, dopo aver causato molti guai agli Eretriesi, cadde negli scontri per il Lelanto.

Del tutto leggendaria è invece la notizia di una gara poetica fra Omero ed Esiodo, confluita nel cosiddetto Certamen Homeri et Hesiodi, una composizione piuttosto singolare; in essa, il pubblico avrebbe assegnato la vittoria a Esiodo, dimostrando di preferire la celebrazione del lavoro agricolo, duro, ma sereno e pacifico, a quella delle sanguinose opere di guerra. Prive di fondamento sono le informazioni sulla morte del poeta (riscontrabili nel lessico Suda e nelle epitomi del bizantino Giovanni Tzetze), dalle quali si può dedurre, come sola notizia attendibile, che la sua tomba, oggetto di venerazione per gli abitanti di Ascra, fu trasferita nel IV secolo a.C. a Orcomeno, dopo la distruzione del “natio borgo selvaggio” di Esiodo a opera dei Tespiesi.

Pittore di Amasis. Sileni che vendemmiano e preparano il vino. Pittura vascolare da un’anfora a campana attica a figure nere, 540-430 a.C. c. Würzburg, Martin von Wagner Museum.

2. La Teogonia

Con la Teogonia (Θεογονία), composta in esametri, Esiodo si propose per primo l’arduo compito di organizzare il grande numero delle figure divine e dei loro miti, inquadrandoli in uno schema che si richiamava ai “cataloghi” di stampo omerico (cfr., per esempio, il “catalogo delle navi” di Iliade II). Le motivazioni di fondo, alla base dell’ispirazione, derivarono al poeta da un’eccezionale capacità di considerare il mondo e di domandarsi come fosse divenuto quello che era; dare una risposta a questo quesito, per un uomo dell’VIII secolo a.C., non poteva che equivalere a immaginare un complesso di atti, di manifestazioni, di interventi in un mondo di dèi, ciascuno dei quali, con il suo proprio modo di essere e di agire dava esistenza e ragion d’essere agli elementi della natura. In questo modo, il vastissimo patrimonio di storie sacre, libere per loro stessa natura da troppo vincolanti nessi logici e cronologici, fu sistemato attraverso il criterio delle genealogie in un insieme ordinato, fondato sulle categorie logiche di causa ed effetto e di successione nel tempo. In conseguenza di ciò, il mito perse, in buona parte, la sua originaria natura, indipendente da precise connotazioni spaziali e temporali, per assumere caratteristiche di narrazione ordinata e ben comprensibile, e si orientò anche verso quel processo di sempre più completa razionalizzazione, che avrebbe di lì a poco caratterizzato gli esordi del pensiero filosofico.

La Teogonia di Esiodo, dunque, rappresenta un’interpretazione sistematica del mondo fisico e metafisico, ma, nonostante sia un’opera sugli dèi, essa non è un testo religioso: l’autore infatti non manifesta alcun sentimento di pietà o di venerazione particolare per le divinità di cui parla, tranne che per le Muse, sue protettrici.

Pyxis attica a figure rosse. Opera attribuita al pittore Esiodo. Il pastore Tamiri e le Muse, 460-450 a.C. ca. Boston, Museum of Fine Arts.

Il poema si apre con un’invocazione alle Muse che dimorano sull’Elicona, il monte poco distante da Ascra. Le divine fanciulle apparvero al poeta che stava pascolando gli armenti, esortandolo a celebrare la stirpe degli immortali; Esiodo si affrettò a obbedire e cominciò la sua opera, narrando proprio la nascita delle Muse e indicando per primo i loro nomi e i loro attributi (vv. 1-115).

Dopo il proemio, il poeta descrive il Caos primordiale; questo non era disordine, confusione o mescolanza, ma un immenso spazio vuoto, un’enorme voragine, un baratro (χάος < χαίνω < χάσκω, “aprirsi”, “spalancarsi”). Da esso nacquero Eros, Gea, Erebo e Notte; quest’ultima produsse i suoi contrari, l’Etere luminoso e il Giorno, mentre da Gea ebbero origine Urano, i Monti e Ponto. A questo punto intervenne Eros, che, con la sua potenza, diede inizio alla serie degli accoppiamenti e delle generazioni. Dall’unione di Urano e Gea nacquero le sette coppie di Titani (occupanti i pianeti che devano nome ai giorni della settimana), il più giovane dei quali fu Crono. Dopo i Titani vennero alla luce i Ciclopi e i giganti Centimani. Ma Urano temeva l’immensa forza dei propri figli e, perciò, appena nati, li ricacciava tutti nell’ampio ventre della madre (vv. 116-160).

Secondo il racconto esiodeo, dunque, esistevano divinità molto antiche, la cui nascita si sottraeva a qualsiasi tentativo di individuazione cronologica; ma esistevano entità soprannaturali anche più recenti, che da quelle erano derivate attraverso complicati intrecci genealogici: nessuna di loro, insomma, esisteva da sempre, ma era immortale.

Soffocata dai figli che non potevano più uscire dal suo grembo, Gea produsse dalle sue stesse viscere l’acciaio e ne fabbricò una grande falce; poi chiese l’aiuto di Crono, il più giovane e astuto tra i Titani. Quest’ultimo attese il momento in cui Urano stava per congiungersi alla madre e lo evirò. Il membro reciso cadde nel mare e formò una schiuma bianca (ἀφρός), da cui nacque una fanciulla bellissima, Afrodite, la dea dell’amore. Crono prese allora il posto del padre e, unendosi alla titanide Rea, generò con lei molti figli. Tuttavia, poiché temeva che qualcuno di loro potesse detronizzarlo come lui aveva fatto con il padre, li inghiottì tutti appena nati (vv. 161-467).

Pittore di Nausicaa (attribuito). Rea e Crono. Pittura vascolare da una πελίκη attica a figure rosse, c. 460-450 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

Rea era profondamente addolorata per la sorte dei suoi figli. Così, quando si accorse di essere incinta per l’ennesima volta, decise di salvare l’ultimo nato. Al momento del parto si nascose e dopo, avvolta nelle fasce una pietra, la consegnò a Crono, perché la inghiottisse. Il neonato salvato dalla madre era Zeus; egli fu nascosto, con la complicità di Gea, in una caverna del monte Ida, sull’isola di Creta. Qui fu allevato dalle Ninfe e, una volta divenuto adulto, si vendicò del padre, costringendolo a rigettare i figli che aveva divorato e che vivevano ancora dentro di lui, poiché appartenevano alla stirpe degli immortali. Fra loro c’erano Ade, a cui Zeus assegnò l’oltretomba, e Poseidone, che divenne signore della terra e dei mari. In questo modo, Zeus stabilì il suo regno, destinato a durare in eterno e al quale sono subordinati sia gli dèi sia i mortali (vv. 468-506).

Ma la conquista del potere divino non fu senza difficoltà; Zeus incontrò l’opposizione degli altri Titani che tentarono di spodestarlo. Ne scaturì un’immane lotta, detta appunto Titanomachia. Gli dèi, che presero sede sull’Olimpo, furono aiutati dai Centimani e dai Ciclopi, che fabbricarono loro le armi necessarie a combattere gli smisurati zii. Dopo aver assegnato agli altri fratelli le loro prerogative e i poteri, Zeus instaurò la propria definitiva signoria sull’universo. Successivamente, il dio contrasse una serie interminabile di relazioni amorose, da cui gli nacquero le maggiori divinità olimpiche, come Apollo, Artemide, Efesto, Ares, Dioniso, Hermes, ma anche eroi e altri semidei. Atena, invece, uscì armata direttamente dalla testa del padre e divenne la sua figlia prediletta (vv. 507-960). A questo punto, Esiodo inizia il catalogo delle dee, che concepirono figli da uomini mortali, a cui segue un’invocazione alle Muse, perché cantino le donne mortali che generarono dei semidei da unioni divine; in questo modo la conclusione della Teogonia si allaccia al Catalogo delle donne (vv. 961-1022).

Pittore di Atena. Eracle e Atlante. Pittura vascolare da una λήκυθος attica a figure nere, fine VI-inizi V secolo a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

3. Le Opere e giorni

Le Opere e giorni (Ἔργα καὶ ἡμέραι) è un poema in esametri che deve il titolo al suo contenuto; infatti, nella prima parte il poeta descrive le attività degli uomini e, nella seconda, i giorni favorevoli e sfavorevoli per eseguire i vari lavori campestri. Sull’autenticità di quest’ultima sezione sono stati avanzati dei dubbi; si pensa infatti che l’epilogo del poema abbia subito un rimaneggiamento e che il calendario dei giorni abbia sostituito un finale originario. In conseguenza di ciò, anche il titolo dell’opera, che in origine doveva essere solo Opere, sarebbe stato modificato nella forma attuale.

Il contenuto del poema, sul cui interesse biografico si è già detto, si presenta come una singolare mescolanza di tradizione e di innovazione, ben visibile anche nel linguaggio. Esso, da un lato, è strettamente connesso a quello dell’ἔπος omerico, anche se con qualche elemento eolico e beotico; dall’altro, presenta caratteristiche ben diverse, che si evidenziano soprattutto nell’uso di termini particolari, ricollegabili sia alla tradizione popolare, sia al linguaggio misterioso degli oracoli; e forse, riconducibili anche a tradizioni autoctone molto antiche, addirittura pre-omeriche. Peculiarità tipica di questo linguaggio è l’indicare le cose non direttamente con il loro nome, ma con una specie di descrizione-definizione: così la chiocciola è la «porta-casa» (φερέοικος), il ladro, il «dorme di giorno» (ἡμερόκοιτος), il polpo, il «senz’ossa» (ἀνόστεος), la mano, la «cinque-rami» (πέντοζος).

Altra interessante caratteristica del poema è la coesistenza, in esso, di racconti mitici accanto a descrizioni realistiche della vita e dell’attività umana e a consigli ed esortazioni di carattere morale.

L’opera si apre con un proemio caratterizzato da aspetti tradizionali e innovativi al tempo stesso. Contiene infatti l’invocazione alle Muse, tipica della poesia aedica; però, mentre il poeta epico indicava subito dopo in modo conciso ma esauriente l’oggetto del suo canto e lo sviluppava poi coerenza (l’ira di Achille, l’ingegno multiforme di Odisseo), Esiodo chiede alle Muse di celebrare Zeus, loro padre, ma tratta poi dell’esistenza umana, con le sue miserie, i suoi dolori, le ingiustizie. Tuttavia, la figura del dio supremo come garante e difensore della giustizia appare in sottofondo, come una costante presenza su cui si basa il messaggio morale di tutto il poema. Inoltre, se l’esaltazione di Zeus presente nel proemio può richiamare la tradizione innologica, nella quale il nome della divinità era seguito dall’elenco dei suoi attributi e delle sue prerogative, la successiva introduzione di un elemento autobiografico è senz’altro innovativa: Esiodo invoca infatti l’aiuto di Zeus, affinché il dio lo assista nel non facile compito di impartire al fratello Perse i precetti morali su cui dovrà fondare la propria esistenza (vv. 1-10).

Pittore di Klügmann. Una Musa che legge. Pittura vascolare su λήκυθος attico a figure rosse, 435-425 a.C. ca., dalla Beozia. Paris, Musée du Louvre.

Per esortare il fratello alla giustizia, Esiodo gli narra la leggenda delle due Contese (ἔριδες), delle quali l’una è cattiva e odiata da tutti, perché suscita fra gli uomini guerra e discordia; l’altra, invece, nata per prima, è buona e può identificarsi con lo spirito di emulazione, che ispira all’uomo una sana competitività e lo spinge così a migliorarsi. La breve narrazione mitica si conclude con un’apostrofe a Perse, il quale già una volta era andato contro la giustizia, ad accontentarsi della sua parte e a non ricadere più nell’errore commesso, tendando di appropriarsi anche dei beni del fratello, defraudandolo con la complicità di giudici «divoratori di doni», δωροφάγοι (vv. 11-41).

Dopo gli ammonimenti al fratello, Esiodo narra il mito di Pandora: intende così spiegare perché gli uomini siano sottoposti per volontà di Zeus a quella dura necessità del lavoro alla quale Perse vorrebbe sottrarsi, anche a costo di violare la giustizia. Zeus, volendo punire il titano Prometeo, che aveva rubato il fuoco divino per donarlo agli umani, ordinò a Efesto di plasmare una bellissima figura, alla quale tutti gli altri dèi fecero dono delle grazie più seducenti, dandole però anche una mente subdola e ingannatrice. Hermes, poi, la chiamò Pandora, Πανδώρα (“dono di tutti”); la condusse da Epimeteo (Ἐπιμηθεύς, “Colui che pensa dopo”), il fratello sciocco di Prometeo e gliela offrì da parte di tutti gli Olimpi. Prometeo aveva ammonito il fratello a non accettare nessun dono che venisse da Zeus, ma Epimeteo s’invaghì immediatamente di Pandora e volle farla sua. Esisteva sulla Terra un orcio ben chiuso, nel quale si trovavano malattie, vecchiaia, morte e ogni genere di sciagure; e non appena Pandora lo vide, fu presa dall’irresistibile curiosità di sapere che cosa contenesse. Perciò ne alzò il coperchio e tutti i mali si sparsero fra gli umani, che fino ad allora ne erano stati immuni. Così l’esistenza divenne per loro un cumulo di sofferenze e di miserie, a cui non è dato sottrarsi, perché nessun mortale può sfuggire al destino (vv. 42-90).

Dopo essersi soffermato a descrivere con dolente realismo la dura esistenza che Zeus ha inesorabilmente prescritto agli uomini, Esiodo rievoca le quattro ere che hanno preceduto quella attuale. La prima fu l’età dell’oro, felice, serena, allietata da un’eterna primavera, nella quale anche la morte, senza dolore e simile a un sonno soave, non suscitava alcuno spavento. Poi venne l’età dell’argento, durante la quale gli uomini, dopo la nascita, rimanevano bambini per cent’anni, ignari di ogni male. Ma una volta superato questo periodo, diventavano sfrontati, violenti e rifiutavano agli dèi ogni forma di rispetto e di culto. Perciò, Zeus li annientò, sprofondandoli nelle viscere della terra. L’età successiva fu quella del bronzo, in cui gli uomini furono guerrieri terribili e crudeli, avidi solo di lotte e di sangue: finirono perciò con lo sterminarsi a vicenda, scomparendo così dalla faccia della terra. Zeus allora creò la nobile stirpe dei semidei, chiamati anche “eroi”, che fu la generazione precedente a quella che ora abita la Terra. La loro stirpe, assetata di gloria, perì nelle guerre di Tebe e di Troia, e lasciò posto alla quinta generazione, quella del ferro, oppressa da fatiche e miserie d’ogni tipo, tanto che il poeta dichiara apertamente che non avrebbe mai voluto appartenere a essa, ma essere morto prima o nato più tardi. Anche questa generazione è destinata a essere annientata da Zeus e quella che seguirà, sarà caratterizzata dal disprezzo di ogni legge umana e divina; allora Aἰδώς (la “Coscienza”) e Nέμεσις (il “Rispetto”) abbandoneranno definitivamente la Terra, lasciando gli esseri umani sprofondati nel male e in balia di se stessi (vv. 106-201).

Poeta greco (forse Esiodo). Testa, marmo, copia romana I secolo a.C.

Il triste quadro dell’età del ferro, dominata dalla violenza e dalla sopraffazione, senza più alcun freno morale, suggerisce al poeta lo sconsolato apologo dello sparviero e dell’usignolo. Uno sparviero aveva catturato un usignolo e lo teneva serrato fra gli artigli; e mentre quello si lamentava pietosamente, il crudele rapace esclamò: «Che hai da frignare? Ormai sei preda di uno molto più forte di te! Per quanto melodioso possa essere il tuo canto, verrai dove ti porterò io, che deciderò a mio piacere se divorarti o lasciarti libero! Stolto è chi pensa di resistere a qualcuno di più forte di lui!». Dalla dura ma lucida morale dell’apologo, Esiodo trae ancora una volta spunto per rinnovare a Perse il consiglio di onorare la giustizia, perché solo nell’assoluto rispetto di essa uomini e città possono avere una vita felice, sotto lo sguardo onnisciente di Zeus. I malvagi, invece, non devono illudersi di sfuggire alla punizione che li attende: infatti, ogni volta che una legge viene violata e l’ordine infranto, Dike, la vergine figlia di Zeus, se ne lamenta con l’onnipotente padre, che interviene a restaurare l’equilibrio; solo nel rispetto di esso, gli uomini possono prosperare e sono felici, per quanto è concesso ai mortali di esserlo (vv. 202-285).

Di qui fino alla conclusione del poema, la trattazione esiodea verte principalmente, in modo più coerente, sul lavoro dei campi, in rapporto al trascorrere delle stagioni. Si hanno così le descrizioni dell’autunno, dell’inverno, della primavera, dell’estate e della vendemmia, accompagnate ciascuna da precisi ed esaurienti consigli tecnici, con un fine evidentemente didascalico. Poi Esiodo si abbandona ancora all’autobiografismo, rievocando la sua unica esperienza di navigazione e la vittoria ottenuta con un inno nei giochi funebri di Anfidamante. Il poema si conclude con una nuova serie di consigli a Perse; con questi, il poeta intende far capire al fratello e a tutti gli uomini la profonda eticità di un’esistenza fondata sul lavoro e sull’accettazione consapevole delle sacre leggi della giustizia (vv. 286-828).

4. I nuovi valori etico-sociali in Esiodo

Esiodo non è, in assoluto, il primo poeta greco a trattare il tema del lavoro umano, poiché anche l’épos omerico offre numerose informazioni in proposito, soprattutto nell’Odissea, in cui si possono ravvisare situazioni e personaggi apparentemente vicini a quelli descritti nell’opera di Esiodo. Ciononostante, la società omerica, chiusa in un rigido classismo, ha il suo vertice nell’aristocrazia guerriera, che determina ed esprime anche i valori etici dominanti; e in questa classe, l’idea del lavoro è generalmente associata a quella dell’appartenenza a una condizione umile o addirittura servile. In Esiodo, il discorso appare completamente diverso e opposto a questa morale di casta. Quando il poeta afferma che il lavoro non arreca vergogna e che l’unica cosa vergognosa è starsene in ozio (Op. 311-313, ἔργον δ’ οὐδὲν ὄνειδος, ἀεργίη δέ τ’ ὄνειδος. / εἰ δέ κεν ἐργάζῃ, τάχα σε ζηλώσει ἀεργὸς / πλουτεῦντα· πλούτῳ δ’ ἀρετὴ καὶ κῦδος ὀπηδεῖ, «Il lavoro non è vergogna, vergogna è l’inerzia. / Se lavorerai, ben presto il pigro invidierà la tua ricchezza; / e alla ricchezza si accompagnano valore e fama»), egli intende sottolineare la profonda eticità del suo pensiero: non lavorare significa dare spazio all’inerzia (ἀεργίη), che genera tracotanza e discordia e distrugge la giustizia, perché viene meno al disegno di Zeus, che ha voluto che gli uomini ricavassero il loro sostentamento dalla dura e costante fatica. Se la pigrizia dell’uomo suscita lo sdegno degli dèi, essa non manca di suscitare anche il giusto risentimento di coloro per i quali il lavoro è una forma di vita morale, un’ἀρετή, che si contrappone a quella del guerriero. nell’ottica della società in cui Esiodo è vissuto, l’uomo valente (ἐσθλός) è colui che si procura la ricchezza (ὄλβος, πλοῦτος) non solo con i ricchi doni ottenuti da altri o con il bottino di guerra, ma con il proprio lavoro (ἔργον), conquistandosi la fama (κύδος) grazie alla propria onestà.

Pittore anonimo. Aratura e semina dei campi. Pittura vascolare su una coppa attica a figure nere, c. 530 a.C. Paris, Musée du Louvre.

Naturalmente la vita dei campi possiede anche una propria religiosità e riti propri, che non si esaltano nello splendore di cerimoniali solenni, ma che testimoniano comunque il continuo e consapevole rapporto fra uomo e divinità. Quando la gru lancia il suo grido caratteristico, il contadino si accinge alla semina, invocando Zeus Ctonio e Demetra, perché il grano che affida alla terra dia buon frutto (Op. 465 ss.) e gli sia evitato di soffrire la fame nel cuore di un rigido inverno. Da parte loro, gli dèi non mancano di dimostrarsi benevoli verso chi è giusto e pio e gli permettono anche di accumulare un’onesta ricchezza. Anche da questo punto di vista, Esiodo testimonia una significativa innovazione delle concezioni socio-economiche del suo tempo: nel mondo omerico la ricchezza del signore era rappresentata dalla proprietà terriera e dagli allevamenti, di cui egli si limitava a godere i proventi, frutto delle fatiche altrui. I beni del re guerriero si accrescevano con il bottino, con il riscatto dei prigionieri o con il guadagno della loro vendita come servi, con il saccheggio o con la pirateria. A ciò si aggiungevano i premi delle gare e i doni degli ospiti. Tuttavia, questi oggetti, anche se preziosi, non rappresentavano tanto un valore materiale (cioè commerciale), quanto piuttosto un ambito segno di prestigio sociale: accuratamente conservati fra i cimeli di famiglia, destinati a tramandarsi in eredità di generazione in generazione, essi venivano esibiti e ostentati con orgoglio, in omaggio alla convinzione che la ricchezza dovesse essere mostrata per testimoniare il rango di chi la possedeva. In Esiodo, la ricchezza si acquisisce e si mantiene soprattutto con il lavoro, e fra le attività produttive, l’agricoltura in specie è foriera di benessere.

Al secondo posto viene il commercio (ἐμπορίη), che però è anch’esso strettamente legato al lavoro agricolo e che consiste, per lo più, nello smercio delle derrate alimentari. Questo non significa che Esiodo non avesse nozione di un commercio a più ampio raggio, che si realizzava soprattutto grazie alla navigazione: il tempo in cui il poeta visse (tra la metà dell’VIII e del VII secolo a.C.), caratterizzato dal vasto movimento della seconda colonizzazione, non permetteva certo di ignorare questa attività, in conseguenza della quale stava nascendo e prosperando una nuova classe sociale. Esiodo dimostra di non trascurare questo nuovo aspetto dell’economia ellenica e, pur conservando al riguardo un atteggiamento prudente, non ne disconosce i vantaggi, così come non manca di considerarne i pericoli (Op. 619 ss.), con l’equilibrio di chi, assistendo al rapido sviluppo di un’attività inedita, non vorrebbe però che quella tradizionale venisse dimenticata. Anche il commercio può dare naturalmente ricchezza; l’importante è che l’uomo si attenga sempre a criteri di misura e giustizia, senza offendere Zeus né Dike. Se lo facesse, tutto quello che ha accumulato andrebbe in breve tempo distrutto: l’eccesso, infatti, porta fatalmente alla prevaricazione, violando l’equilibrio universale (κόσμος) di cui il Cronide è principio e difensore; ogniqualvolta esso sia infranto dallo spirito di trasgressione (ἀκοσμία) che caratterizza la natura degli umani, il dio supremo interviene per restaurarlo, punendo i colpevoli con inflessibile giustizia.

Anche il mondo divino ebbe un tempo il suo momento di disordine e di violenza, prima dell’avvento di Zeus e degli dèi Olimpi; allora, le divinità non avrebbero potuto porsi come esempio di comportamento per l’umanità. Ma dopo che Zeus ebbe instaurato nel suo regno l’ordine e l’equilibrio, l’uomo ha acquistato un modello da cui non può né deve discostarsi, se non vuole ripiombare in un χάος analogo a quello primordiale. In questo modo, il κόσμος divino, prima noto soltanto come argomento di miti, diviene la base morale della vita associata degli uomini, che trae da esso credibilità e universalità.

5. La poesia di Esiodo

L’opera esiodea, talvolta sottovalutata nel suo valore poetico, influì sulla cultura greca posteriore non tanto dal punto di vista formale e linguistico (come accadde invece con Omero), quanto per la sua eticità severa e profondamente sentita, solida radice di tutta la morale arcaica. La visione esistenziale del poeta, fondata su una religiosità autentica, sul rispetto della giustizia, ma anche sulla realistica e dolente consapevolezza della tendenza umana alla trasgressione, offrì spunti essenziali alla grande poesia tragica del V secolo, dopo essere stata la base del pensiero politico di Solone.

D’altro canto, la viva e sensibile osservazione della vita agreste e del paesaggio in cui essa si svolgeva, portò talvolta Esiodo a raggiungere momenti altissimi di poesia della natura. Si consideri, per esempio, la descrizione dell’ardente estate mediterranea, con il suo assetato paesaggio, in cui brillano, come vivide macchie di colore, i fiori violetti e spinosi del cardo (Op. 582-584):

Ἦμος δὲ σκόλυμός τ’ ἀνθεῖ καὶ ἠχέτα τέττιξ

δενδρέῳ ἐφεζόμενος λιγυρὴν καταχεύετ’ ἀοιδὴν

πυκνὸν ὑπὸ πτερύγων, θέρεος καματώδεος ὥρῃ.

Quando fiorisce il cardo e la cicala canora

posata sull’albero, battendo fittamente le ali,

spande il suo stridulo canto, nei giorni spossanti d’estate.

Capra (Amaltea). Testa (dettaglio), bronzo, 120-100 a.C. ca. Cleveland, Museum of Art.

Dopo le calde giornate dell’estate, la stagione di Demetra, l’apparire della costellazione di Orione indica il sopraggiungere dell’autunno, il tempo di Dioniso. È il momento di pensare a riporre il raccolto, a conservare il foraggio per gli animali, ad affrontare la fatica gioiosa della vendemmia (Op. 597-617):

– Δμωσὶ δ’ ἐποτρύνειν Δημήτερος ἱερὸν ἀκτὴν

δινέμεν, εὖτ’ ἂν πρῶτα φανῇ σθένος Ὠρίωνος,

χώρῳ ἐν εὐαεῖ καὶ ἐυτροχάλῳ ἐν ἀλωῇ.

μέτρῳ δ’ εὖ κομίσασθαι ἐν ἄγγεσιν· αὐτὰρ ἐπὴν δὴ

πάντα βίον κατάθηαι ἐπάρμενον ἔνδοθι οἴκου,

θῆτά τ’ ἄοικον ποιεῖσθαι καὶ ἄτεκνον ἔριθον

δίζησθαι κέλομαι· χαλεπὴ δ’ ὑπόπορτις ἔριθος·

καὶ κύνα καρχαρόδοντα κομεῖν, μὴ φείδεο σίτου,

μή ποτέ σ’ ἡμερόκοιτος ἀνὴρ ἀπὸ χρήμαθ’ ἕληται.

χόρτον δ’ ἐσκομίσαι καὶ συρφετόν, ὄφρα τοι εἴη

βουσὶ καὶ ἡμιόνοισιν ἐπηετανόν. αὐτὰρ ἔπειτα

δμῶας ἀναψῦξαι φίλα γούνατα καὶ βόε λῦσαι.

– Εὖτ’ ἂν δ’ Ὠρίων καὶ Σείριος ἐς μέσον ἔλθῃ

οὐρανόν, Ἀρκτοῦρον δὲ ἴδῃ ῥοδοδάκτυλος Ἠώς,

ὦ Πέρση, τότε πάντας ἀποδρέπεν οἴκαδε βότρυς,

δεῖξαι δ’ ἠελίῳ δέκα τ’ ἤματα καὶ δέκα νύκτας,

πέντε δὲ συσκιάσαι, ἕκτῳ δ’ εἰς ἄγγε’ ἀφύσσαι

δῶρα Διωνύσου πολυγηθέος. αὐτὰρ ἐπὴν δὴ

Πληιάδες θ’ Ὑάδες τε τό τε σθένος Ὠρίωνος

δύνωσιν, τότ’ ἔπειτ’ ἀρότου μεμνημένος εἶναι

ὡραίου· πλειὼν δὲ κατὰ χθονὸς ἄρμενος εἴη.

Ordina ai suoi servi di battere in cerchio il sacro frumento

di Demetra, non appena compare la forza di Orione,

in un luogo ben ventilato, sull’aia perfettamente circolare.

Dopo averlo misurato, riponilo con cura nei recipienti; quando poi

avrai sistemato dentro casa, dopo averlo raccolto, tutto il vitto necessario

ti consiglio di procurarti un servo senza famiglia o una serva

senza figli; una serva con un lattante al seno è un fastidio;

e di nutrire un cane dai denti aguzzi; non risparmiare sul suo cibo,

affinché un ladro, un “dormigiorno”, non ti derubi dei beni.

Poi, riponi foraggio e paglia, affinché tu ne abbia

in abbondanza per i buoi e i muli. Dopo, lascia che i servi

riposino le loro ginocchia e sciogli i buoi.

Quando Orione e Sirio avranno raggiunto il centro della volta

celeste e l’Aurora dalle rosee dita potrà scorgere Arturo,

allora, o Perse, cogli tutti i grappoli e portali in casa:

esponili al sole dieci giorni e dieci notti

e per cinque tienili all’ombra; al sesto, raccogli nei recipienti

i doni di Dioniso apportatore di gioia. Ma in seguito, quando

le Pleiadi e le Iadi e la forza di Orione

saranno tramontate, allora pensa all’aratura

al momento opportuno; e che il grano sotterra dia buon frutto.

Nelle Opere e giorni, in ogni periodo dell’anno, le occupazioni agricole sono indicate e scandite dal sorgere e dal tramontare delle costellazioni: quelle dell’autunno sono Orione, Sirio, le Pleiadi, le Iadi. Tutti questi astri, già ricordati anche da Omero (il lungo viaggio di Odisseo non ha altra guida se non la loro presenza o la loro assenza nel cielo notturno), sono personaggi mitologici mutati in stelle, secondo una trasformazione, detta καταστερισμός. Orione era un cacciatore gigantesco, figlio di Poseidone: siccome aveva tentato di usare violenza ad Artemide, la dea si era vendicata inviando contro di lui un enorme scorpione, che lo uccise pungendolo a un piede. Dopo la sua morte, egli e il suo cane Sirio furono trasformati negli astri che portano il loro nome: entrambi compaiono in cielo nel momento più caldo dell’estate, nei giorni detti appunti della “canicola”, spesso malsani e causa di febbri e malattie (da ricordare, a questo proposito, la similitudine fra l’apparizione di Achille, splendente nelle sue armi, e il funesto brillare di Sirio, in Il. XXII 25-32). Entrambe le costellazioni di Orione e di Sirio rimangono visibili fino al sopraggiungere dell’autunno, quando, secondo il mito, il sorgere dello Scorpione costringe Orione alla fuga. È il momento in cui scompaiono dal cielo anche le Pleiadi e le Iadi, figlie del titano Atlante, mutate in stelle quando il loro padre fu condannato da Zeus a sostenere per sempre sulle sue fortissime spalle la volta del cielo. La loro sparizione segnala l’approssimarsi della stagione più inclemente dell’anno ed è perciò necessario che le messi e il frutto della vendemmia siano accuratamente riposti. Così il brano, che si è aperto con il nome di Demetra, si chiude con quello di Dioniso, il dio del vino e della gioia che da esso deriva.

Pittore di Pan. Un cacciatore e il suo cane. Pittura vascolare da una λήκυθος attica a figure rosse, c. 470 a.C. Boston, Museum of Fine Arts.

Tuttavia, accanto a questa manifestazione di religiosità, tipica della poesia esiodea, si accompagna un palese richiamo ad aspetti più duri e realistici della vita agreste. Salvaguardare i prodotti della terra è necessario alla sopravvivenza tanto quanto averli coltivati e raccolti; pertanto, essi devono essere difesi dai ladri e affidati alla custodia di chi non ha nessun altro impegno, nemmeno affettivo. Di qui, il consiglio di servirsi di «un servo senza famiglia» e di un feroce cane da guardia, robusto, aggressivo e nutrito senza risparmio. Può apparire sconcertante per la sensibilità di oggi che il poeta esorti il fratello a non lesinare cibo per il cane, dopo aver affermato brutalmente che una serva che allatta «è sempre un fastidio», ma l’ottica del poeta è improntata a un realismo ben lontano dallo spirito dell’idillio campestre. L’uomo dell’antichità era pienamente consapevole dell’aspra lotta quotidiana per la sopravvivenza, i sentimenti erano quasi sempre destinati ad avere la peggio e lo ammetteva senza ipocrisie.

Di grande efficacia poetica è anche il passo in cui Esiodo descrive i rigidi giorni invernali, che, per questa loro natura, accomunano tutte le creature nella sofferenza (Op. 504-528):

– Μῆνα δὲ Ληναιῶνα, κάκ’ ἤματα, βουδόρα πάντα,

τοῦτον ἀλεύασθαι καὶ πηγάδας, αἵ τ’ ἐπὶ γαῖαν

πνεύσαντος Βορέαο δυσηλεγέες τελέθουσιν,

ὅς τε διὰ Θρῄκης ἱπποτρόφου εὐρέι πόντῳ

ἐμπνεύσας ὤρινε, μέμυκε δὲ γαῖα καὶ ὕλη·

πολλὰς δὲ δρῦς ὑψικόμους ἐλάτας τε παχείας

οὔρεος ἐν βήσσῃς πιλνᾷ χθονὶ πουλυβοτείρῃ

ἐμπίπτων, καὶ πᾶσα βοᾷ τότε νήριτος ὕλη·

θῆρες δὲ φρίσσουσ’, οὐρὰς δ’ ὑπὸ μέζε’ ἔθεντο·

τῶν καὶ λάχνῃ δέρμα κατάσκιον· ἀλλά νυ καὶ τῶν

ψυχρὸς ἐὼν διάησι δασυστέρνων περ ἐόντων·

καί τε διὰ ῥινοῦ βοὸς ἔρχεται οὐδέ μιν ἴσχει,

καί τε δι’ αἶγα ἄησι τανύτριχα· πώεα δ’ οὔτι,

οὕνεκ’ ἐπηεταναὶ τρίχες αὐτῶν, οὐ διάησι

ἲς ἀνέμου Βορέω· τροχαλὸν δὲ γέροντα τίθησιν

καὶ διὰ παρθενικῆς ἁπαλόχροος οὐ διάησιν,

ἥ τε δόμων ἔντοσθε φίλῃ παρὰ μητέρι μίμνει,

οὔπω ἔργα ἰδυῖα πολυχρύσου Ἀφροδίτης,

εὖ τε λοεσσαμένη τέρενα χρόα καὶ λίπ’ ἐλαίῳ

χρισαμένη μυχίη καταλέξεται ἔνδοθι οἴκου,

ἤματι χειμερίῳ, ὅτ’ ἀνόστεος ὃν πόδα τένδει

ἔν τ’ ἀπύρῳ οἴκῳ καὶ ἤθεσι λευγαλέοισιν·

οὐ γάρ οἱ ἠέλιος δείκνυ νομὸν ὁρμηθῆναι,

ἀλλ’ ἐπὶ κυανέων ἀνδρῶν δῆμόν τε πόλιν τε

στρωφᾶται, βράδιον δὲ Πανελλήνεσσι φαείνει.

Ma il mese di Leneone, giorni terribili, ciascuno dei quali

uccide un bue, sfuggilo, e così pure le sue lunghe gelate

che appaiono sulla terra quando soffia Borea,

che, attraverso la Tracia nutrice di cavalli, si scaglia sull’ampio mare,

scatenandone la furia; e mugghiano la terra e i boschi;

a decine esso stronca nelle forre dei monti le querce dalle alte chiome

e gli imponenti abeti, quando s’abbatte sulla fertile terra

e allora leva un grido tutta l’immensa foresta.

Gli animali rabbrividiscono e infilano la coda fra le zampe,

anche quelli la cui pelle è coperta da un fitto vello; il vento

gelido li penetra, benché abbiano il corpo coperto dalla pelliccia;

passa anche attraverso il cuoio del bue, che non riesce a fermarlo;

raggiunge anche la capra dal folto pelo; ma la violenza

del vento Borea non raggiunge le pecore, grazie alla loro lana

abbondante; però, piega in due, come un cerchio, il dorso del vecchio.

Esso non raggiunge neppure la fanciulla dalla tenera pelle,

ancora ignara delle opere dell’aurea Afrodite,

che se ne sta chiusa in casa presso la cara madre;

dopo aver lavato il corpo delicato e averlo unto con denso olio,

si stende per dormire, ben riparato all’interno della casa

nei giorni invernali, quando il polpo, il “senz’ossa”, si succhia

un tentacolo, nella sua tana senza fuoco in un triste ritiro;

infatti, il sole non gli mostra del cibo su cui gettarsi,

ma compie il suo giro al disotto del popolo e della città

degli uomini neri e appare più tardi a tutti gli Elleni.

Pittore di Brygos. Una donna intenta a cardare la lana. Pittura vascolare da una λήκυθος attica a figure rosse, 480-470 a.C. c. Boston, Museum of Fine Arts.

Il mese di Leneone, che prendeva nome dalla celebrazione delle Lenee, festività in onore di Dioniso, era detto anche Poseideone e coincideva con il periodo più freddo dell’anno, fra gennaio e febbraio. Nel descriverlo, Esiodo si sofferma in primo luogo sulla caratteristica peggiore di questa stagione: le violente bufere di vento, che, nel cuore dell’inverno, infuriavano sul mare e spazzavano la campagna beotica, facendo strage di alberi e costringendo tutte le creature a cercare disperatamente un riparo contro il gelo pungente. Al drammatico realismo rappresentativo della grandiosa scena di tempesta, in cui la natura si mostra nel suo aspetto più ostile, contribuisce la potente intensità di connotazione uditiva determinata dall’originale catacresi di verbi come μυκάομαι (“muggire”) e βοάω (“gridare”), usati ai vv. 508 e 511 per indicare il cupo suono del vento nelle gole montane e lo schianto degli alberi spezzati. Si assiste così al capovolgimento dell’applicazione di questa figura retorica rispetto a Omero, che si serviva spesso di immagini visive e uditive desunte dal mondo naturale per indicare la violenza delle battaglie o l’aggressività dei guerrieri, mentre Esiodo attribuisce qui comportamenti umani agli elementi naturali. Subito dopo, l’attenzione del poeta si rivolge alle creature costrette a subire il morso crudele dell’inverno, rifiutando un τόπος largamente diffuso, secondo cui la natura si sarebbe mostrata più clemente verso le fiere che nei confronti del genere umano, fornendo ai primi un folto pelame per difendersi dal freddo e lasciando invece l’uomo nudo e vulnerabile. Agli occhi di Esiodo, umani e animali soffrono allo stesso modo, con qualche rara eccezione; al suo attendo spirito di osservazione il comportamento delle creature selvatiche (θῆρες, v. 512) e quello degli animali domestici, come capre e buoi, offre lo spunto per quadri di rara incisività descrittiva, a cui l’uso dell’antitesi conferisce una particolare efficacia. Così, all’immagine delle pecore difese dal loro folto manto lanoso si contrappone quella del vecchio ripiegato su se stesso nel tentativo di ripararsi dalla violenza delle raffiche; con la descrizione della fanciulletta ben riparata insieme alla madre nelle stanze più interne della casa, contrasta il surreale squallore della «tana senza fuoco» del polpo, il «senz’ossa», che, non potendo uscire in cerca di prede nel mare tempestoso, cerca di ingannare la fame succhiando uno dei suoi stessi tentacoli. Il sole, in questi giorni, è scomparso dall’Ellade e compie il suo corso nella terra remota degli «uomini neri» (ἐπὶ κυανέων ἀνδρῶν δῆμόν), in una lontananza che rievoca toni di fiaba, forse simili a quelli dei racconti che la fanciulla poco prima descritta ascolta dalla «cara madre», prima di abbandonarsi tranquillamente al sonno nella sua stanza calda e ben protetta.

La grandezza poetica di Esiodo è confermata dal fatto che, circa un secolo più tardi, un grande poeta lirico, Alceo, gli sarebbe stato debitore per la descrizione dell’estate, ripresa, in tempi più recenti, da Carducci, D’Annunzio e Montale. Tuttavia, se questi poeti furono colpiti dall’efficacia rappresentativa dei suoi versi, furono soprattutto Teocrito e Virgilio a comprendere appieno la profondità della sua opera, nutrita da vive e forti qualità umane. Ispirato dal senso della natura, dalla fatica, ma anche dalla bellezza e dalla religiosità della vita dei campi, Esiodo seppe sviluppare nei suoi versi un’acuta meditazione sulla condizione universale dell’uomo, resa talvolta cupa da una nota di amaro pessimismo; ma anche una visione così sconsolata trova un saldo sostegno etico e il conforto della propria infelicità nella sicura consapevolezza degli altissimi valori che l’umanità può esprimere da sé e nel costante arricchimento ricavato dal rapporto con gli altri.

Due donne (forse Demetra e Kore). Statuetta, terracotta, IV sec. a.C. da Tanagra. London, British Museum.

6. La poesia didascalica: una forma di epica

Nei tempi in cui la tradizione orale prevaleva ancora su quella scritta, l’esametro fu usato anche per la composizione di opere didascaliche, destinate cioè a trasmettere insegnamenti e precetti. Si riteneva infatti che l’uso del verso, scandito secondo un ritmo preciso e sempre uguale, favorisse l’apprendimento mnemonico in modo duraturo e più rapido della prosa. Poiché la poesia didascalica si serviva dell’ἔπος (questo è il termine con cui si indicava l’esametro), essa non fu considerata in Grecia un genere letterario autonomo, ma una forma di epica. Esiodo, Empedocle, Parmenide e molti altri, la usarono per la trattazione di argomenti di genere vario, storico, filosofico, tecnico e morale, prima che, in pieno V secolo a.C., la prosa prendesse in questo campo il sopravvento sulla poesia.

Dopo un lungo periodo di declino, l’epica didascalica ricomparve in età ellenistica, con autori come Arato di Soli (315-240 a.C. circa), che si occupò di meteorologia in un grande poema, intitolato Phaenomena, e Nicandro di Colofone (vissuto nel III secolo a.C.), autore di due opere riguardanti gli animali velenosi di vario tipo, dai rettili agli insetti, e la cura contro i loro morsi o punture. Il successo dell’epica didascalica fu notevole anche nel mondo latino: basterà ricordare che al I secolo a.C. appartengono il De rerum natura di Tito Lucrezio Caro, la massima voce dell’Epicureismo latino, e le Georgiche di Publio Virgilio Marone, ispirate oltre che ad Arato e allo stesso Lucrezio, anche all’opera di Esiodo, il più antico poeta didascalico. Cicerone (De finibus IV 4, 10) affermava che questo genere letterario dev’essere considerato come una forma di ars, in cui poeta e destinatario svolgono rispettivamente i ruoli di magister e discipulus; il primo guida il secondo nello studio e nell’apprendimento della res, cioè dell’argomento, del contenuto specifico dell’opera, come la filosofia, l’astronomia, l’agricoltura, la medicina o altro, sviluppato e reso più piacevole poetarum more (“secondo l’uso dei poeti”), che è poi quello di miscere utili dulci (“unire l’utile al dilettevole”), servendosi di tutti gli abbellimenti resi possibili dalla poesia.

Pittore di Achille. Una Musa che suona la lira. Pittura vascolare da un λήκυθος attico con sfondo bianco, 440-430 a.C. ca.

7. Il proemio delle Opere e giorni

Nel corso delle diverse epoche, i canoni della poesia didascalica furono stabiliti dai vari autori prendendo come punto di riferimento gli Ἔργα καὶ ἡμέραι di Esiodo e strutturando le proprie opere secondo uno schema fisso, che prevedeva un proemio, uno o più appelli al destinatario e una serie di digressioni. In particolare, il proemio del poema didascalico si differenziava nettamente da quello epico tradizionale per la sua soggettività; infatti, mentre l’aedo si considerava un puro strumento della Musa ispiratrice, il poeta didascalico rivendicava per sé la scelta degli argomenti e i modi della loro interpretazione ed esposizione. Nel breve prologo delle Opere e giorni, Esiodo esordisce con un’invocazione alle Muse che sembrerebbe in perfetta armonia con la tradizione omerica; ma negli ultimi versi, egli identifica il suo destinatario, il fratello Perse, con il quale erano sorti dei dissapori a proposito della divisione del lascito paterno, ed esprime il proposito dichiaratamente educativo, di annunciare a Perse parole di verità, perché impari a vivere secondo le norme di giustizia, che devono regolare i rapporti fra gli uomini e che sono state sancite dallo stesso Zeus:

Μοῦσαι Πιερίηθεν ἀοιδῇσι κλείουσαι,

δεῦτε Δί’ ἐννέπετε, σφέτερον πατέρ’ ὑμνείουσαι.

ὅν τε διὰ βροτοὶ ἄνδρες ὁμῶς ἄφατοί τε φατοί τε,

ῥητοί τ’ ἄρρητοί τε Διὸς μεγάλοιο ἕκητι.

ῥέα μὲν γὰρ βριάει, ῥέα δὲ βριάοντα χαλέπτει,

ῥεῖα δ’ ἀρίζηλον μινύθει καὶ ἄδηλον ἀέξει,

ῥεῖα δέ τ’ ἰθύνει σκολιὸν καὶ ἀγήνορα κάρφει

Ζεὺς ὑψιβρεμέτης, ὃς ὑπέρτατα δώματα ναίει.

κλῦθι ἰδὼν ἀίων τε, δίκῃ δ’ ἴθυνε θέμιστας

τύνη· ἐγὼ δέ κε Πέρσῃ ἐτήτυμα μυθησαίμην.

O Muse della Pieria, che concedete gloria con il canto,

qua, cantate Zeus, inneggiando il padre vostro,

con l’aiuto del quale gli uomini mortali sono oscuri o famosi,

conosciuti o sconosciuti per volontà del possente Zeus.

Facilmente, infatti, egli rende forti, facilmente abbatte il forte,

facilmente umilia il superbo ed esalta l’umile,

facilmente raddrizza chi è storto e piega l’orgoglioso,

Zeus altitonante, che abita eccelse dimore.

Dammi ascolto, guardando e udendo, e con giustizia raddrizza

le sentenze; io voglio dire a Perse parole di verità.

Gustave Moreau, Esiodo e le Muse. Olio su tela, 1860. Paris, Musée Gustave Moreau.

Il testo è caratterizzato da una raffinata elaborazione retorica, a partire dalla scelta di collocare, alla fine di versi consecutivi, parole che terminano con elementi vocalici analoghi se non identici (vv. 1-2: κλείουσαι / ὑμνείουσαι; vv. 5-6: χαλέπτει / ἀέξει; vv. 7-8: κάρφει / ναίει).

Oltre a questi casi di omoteleuto, tra le figure retoriche si segnalano:

  • il poliptoto, nel nome di Zeus (Δί’, v. 2; Διὸς, v. 4; Ζεὺς, v. 8) e nel verbo ἰθύνω (ἰθύνει, v. 7; ἴθυνε, v. 9);
  • l’anastrofe (ὅν τε διὰ, con nesso relativo, v. 3);
  • la variatio nell’espressione del complemento di causa Διὸς μεγάλοιο ἕκητι (v. 4), rispetto a ὅν τε διὰ del verso precedente;
  • l’anafora interna dell’avverbio ῥέα (“facilmente”, v. 5) e quella iniziale del suo equivalente ῥεῖα (vv. 6-7);
  • la figura etimologica βριάει… βριάοντα (v. 5).

Particolarmente accurata è la disposizione delle parole, spesso funzionale al contenuto dei versi. Ai vv. 3-4, che presentano entrambi Zeus come artefice del destino degli umani, a βροτοὶ ἄνδρες si accompagnano due coppie di aggettivi sinonimici, secondo una disposizione chiastica (ἄφατοί τε φατοί τε, / ῥητοί τ’ ἄρρητοί τε). Gli aggettivi che compongono ciascuna coppia compaiono nella forma positiva e negativa (quest’ultima ottenuta con il prefisso ἀ- privativo) e derivano dalla medesima radice, rispettivamente φη-/φα- e ϝερ-.

Ai vv. 5-6, costituiti da brevi frasi che alludono al potere di Zeus di innalzare oppure di umiliare la condizione umana, si nota il parallelismo nella disposizione delle forme verbali e dei rispettivi complementi oggetto (ῥέα μὲν γὰρ βριάει, ῥέα δὲ βριάοντα χαλέπτει, / ῥεῖα δ’ ἀρίζηλον μινύθει καὶ ἄδηλον ἀέξει), che risulta invece chiastica al verso successivo (ἰθύνει σκολιὸν / ἀγήνορα κάρφει, v. 7).

La particolare successione degli elementi nei due brevi enunciati dei vv. 9-10 (δίκῃ δ’ ἴθυνε θέμιστας / τύνη· ἐγὼ δέ κε Πέρσῃ ἐτήτυμα μυθησαίμην) fa sì che i due soggetti (τύνη ed ἐγὼ) si trovino in posizione ravvicinata, conferendo speciale rilievo ai ruoli concomitanti di Zeus, garante della giustizia, e di Esiodo, poeta-educatore. Il proemio termina ribadendo la funzione dei protagonisti del rapporto educativo: Zeus, che dà le direttive, e il poeta, che le recepisce e le trasmette. A essi si aggiunge l’allievo, nel caso specifico Perse, fratello di Esiodo, ma, idealmente, qualunque essere umano.

Senofonte

di I. Bɪᴏɴᴅɪ, Storia e antologia della letteratura greca. 2.B. La prosa e le forme di poesia, Messina-Firenze 2004, 131-140.

1. La vita

Notizie biografiche | Senofonte, figlio di Grillo, nacque fra il 430 e il 426 a.C. da una famiglia agiata, nel demo attico di Erchia, a una quindicina di chilometri da Atene. Educato secondo l’uso aristocratico, raggiunta l’età per imbracciare le armi, egli militò nei cavalieri (ἱππεῖς); ciò probabilmente influì anche sulle sue successive posizioni politiche, sempre conservatrici, tanto che negli ultimi anni della guerra peloponnesiaca Senofonte non nascose le proprie tendenze filo-spartane. Come molti altri giovani di posizione sociale elevata, anch’egli frequentò Socrate; benché non molto interessato alla speculazione filosofica, nutrì grande ammirazione, stima e rispetto per le qualità umane e morali del maestro, difendendolo sempre dalle accuse che gli furono rivolte. L’avvenimento più importante della vita di Senofonte si verificò nel 401, poco dopo la capitolazione di Atene (404), in un momento assai critico per la vita politica della sua città, quando un suo amico, il beota Prosseno, aggregato a un contingente di mercenari ellenici che Ciro il Giovane, fratello minore del Gran Re Artaserse II, stava raccogliendo per muovergli guerra e detronizzarlo, lo invitò a unirsi a quell’impresa. Senofonte allora chiese consiglio a Socrate; in realtà, egli aveva già deciso in cuor suo il da farsi, approfittando della fortunata opportunità di allontanarsi da Atene, anche perché, dopo la restaurazione democratica di Trasibulo, Senofonte, filo-oligarchico e filo-lacedemone, non era più ben visto in città. Infatti, poco dopo l’inizio dell’impresa persiana, egli fu raggiunto dalla condanna all’esilio, con un bando che sarebbe stato revocato solo nel 370.

Reduce dell’avventurosa spedizione, che ci concluse con la morte di Ciro sul campo a Cunassa e con la ritirata dei 10.000 mercenari, che Senofonte avrebbe raccontato poi nell’Anabasi, egli scelse come sua nuova sede la stessa Sparta; qui strinse amicizia profonda e personale con re Agesilao II, del quale avrebbe composto in seguito un’encomiastica biografia e insieme con il quale, nel 394, partecipò alla battaglia di Coronea. Dagli Spartiati Senofonte ebbe in dono una tenuta a Scillunte, una piccola città dell’Elide, nel Peloponneso nord-occidentale, dove visse per un lungo periodo (quindici o vent’anni), in piena tranquillità, dedicandosi all’agricoltura, alla caccia e forse anche alla scrittura. Proprio in quegli anni si possono infatti collocare la stesura dell’Anabasi e della Ciropedia, quella di alcuni opuscoli, come la già ricordata biografia di Agesilao, oltre che l’abbozzo di una parte delle Elleniche.

Nel 371 il disastroso esito dello scontro a Leuttra pose fine all’egemonia lacedemone sulla Grecia e segnò l’inizio di quella di Tebe; di fronte al comune pericolo, Sparta e Atene si allearono e il bando di esilio che era stato comminato a Senofonte fu revocato. In questa rischiosa situazione, i rapporti con la madrepatria migliorarono, tanto che Senofonte inviò i suoi due figli, Grillo e Diodoro, a combattere a Mantinea, nel 362. Il primo, che cadde in battaglia dopo aver ferito mortalmente il comandante tebano Epaminonda, ebbe dalla città onori solenni. Negli anni fra il 365 e il 355, Senofonte si dedicò anche al completamento delle Elleniche e alla composizione di altri scritti, l’ultimo dei quali è un breve trattato di economia, sulle entrate ateniesi (Πόροι, le Entrate). Non si conosce con esattezza l’anno della scomparsa di Senofonte, ma è probabile che le Entrate siano state la sua ultima fatica e che lui sia spirato di li a poco, tra il 354 e il 350 a.C., forse a Corinto.

Hugo Haerdtl, Senofonte. Statua, marmo austriaco, 1899. Wien, Parlamentsgebäude.

2. Le opere

Un autore dai molteplici interessi | Senofonte fu autore di numerose opere, a testimonianza dei suoi molteplici interessi, che spaziavano dalla storiografia alla trattatistica di argomento diverso. Tuttavia, come spesso accade ai poligrafi, egli non sempre approfondì adeguatamente i vari temi affrontati, ma i suoi meriti di scrittore sono innegabili, così come il pregio di aver offerto numerosi spunti per generi letterari inediti, ripresi e sviluppati poi pienamente in età ellenistica. Poiché non è possibile stabilire con certezza una cronologia delle opere senofontee, per una maggiore sistematicità, esse possono essere suddivise per argomenti: scritti di carattere storiografico, politico e biografico; opere “socratiche”, che hanno per oggetto la figura del maestro e i suoi insegnamenti; scritti minori, di carattere tecnico. Così, al primo gruppo appartengono l’Anabasi, le Elleniche, la Ciropedia, la Costituzione degli Spartani, l’Agesilao e lo Ierone; al secondo, l’Apologia di Socrate, i Memorabili di Socrate, il Simposio e l’Economico; all’ultimo, l’Ipparchico, il Trattato sull’ippica, il Cinegetico e le Entrate.

Senofonte. Busto, marmo. Berlin, Staatliche Museen.

3. Opere storiche, politiche e biografiche

L’Anabasi | L’Anabasi (Ἀνάβασις), o Spedizione di Ciro, è il racconto delle peripezie di un corpo di mercenari greci in marcia attraverso l’Impero achemenide, al servizio di Ciro il Giovane, contro il fratello Artaserse II. Propriamente, il titolo, che significa «marcia verso l’interno», si adatta bene solo al primo libro, che descrive l’avanzata dell’esercito fino a Babilonia; gli altri sei libri (forse la divisione in sette libri non è dovuta all’autore ma ai grammatici alessandrini) narrano invece la difficile ritirata dei Greci verso la costa, dopo che Ciro fu sconfitto dal fratello e ucciso in battaglia a Cunassa, nel settembre 401.

Appoggiato dalla madre Parisatide, donna oltremodo decisa e crudele, Ciro aveva raccolto un numeroso esercito nel quale figurava un contingente di circa 14.000 mercenari ellenici; il 6 marzo 401, il principe ribelle mosse da Sardi, capitale della satrapia di Lidia, e attraverso la Frigia, la Licaonia, la Cappadocia, la Cilicia e la Siria, giunse all’Eufrate. Seguendo il corso del grande fiume, l’armata entrò nella regione di Babilonia e là, il 3 settembre dello stesso anno, si scontrò presso la località di Cunassa con l’esercito di Artaserse, immensamente superiore di numero. Ciro cadde in battaglia; ma il contingente greco, vittorioso nel suo settore, sfondò lo schieramento nemico e avanzò ancor più nell’interno, ignaro della sorte del principe. Informati poi della sua morte e resisi conto della gravità della situazione, i Greci non si persero d’animo e iniziarono la ritirata verso la costa. Inizia qui la fase più drammatica dell’avventura in mezzo a innumerevoli pericoli: il tradimento del satrapo Tissaferne, il quale, fingendosi amico dei Greci, invita i loro strateghi a colloquio e, dopo averli fatti arrestare a tradimento, li fa decapitare; la scarsa conoscenza del territorio, abitato da popolazioni dai costumi ancora primitivi e feroci; la fame e il freddo, che sorprendono gli Elleni sui monti dell’Armenia; il deterioramento dei rapporti all’interno del gruppo, in cui i disagi e il continuo rischio della vita cominciano a far prevalere la legge del più forte; il profondo scoramento, che sembra aver ragione anche dei più energici, fino a quando, l’8 febbraio del 400, essi giungono sulla cima del monte Teche, un picco della catena dei monti Eussini (forse l’od. Kolat-Dagh), dalla quale scorgono il mare. A questo punto, Senofonte, che aveva preso parte all’impresa ούτε στρατηγός ούτε λοχαγός ούτε στρατιώτης («né stratego, né locago, né soldato»), ma come semplice osservatore, acquistando però sempre maggiore autorità nel corso della spedizione, riconsegna gli sparuti resti dell’armata greca al comandante spartano Tibrone, che aveva ricevuto l’incarico di impegnare i superstiti nella lotta contro Tissaferne.

A un’analisi che voglia tener conto più dei risultati raggiunti che delle intenzioni dell’autore, l’Analisi appare non tanto un’opera storica, quanto un libro di memorie, un diario minuzioso, ricco di spunti autobiografici e di attenzione per un ambiante etnografico molto diverso da quello ellenico; manca però, al di là dell’attenta cronaca, una vera e propria indagine critica, che ricerchi le cause profonde degli avvenimenti narrati. Tuttavia, nonostante questo limite, è difficile sottrarsi al fascino di un’opera in cui il narratore è al tempo stesso protagonista e cronista della sua impresa, anche se Senofonte, per dare un’idea di un maggior distacco, usò la tecnica del racconto in terza persona e fece pubblicare l’opera sotto lo pseudonimo di Temistogene di Siracusa. Nel corso del racconto, le sue vicende si intrecciano con quelle di altri personaggi, che di volta in volta emergono nella vicenda e balzano dinanzi agli occhi del lettore con incisiva vitalità, analizzati con umano interesse e con profondità psicologica, come lo spartano Clearco, duro e aggressivo, mercenario e combattente per vocazione, perché la guerra è la sola attività adatta al suo carattere violento e crudele:

Infatti, era capace più di chiunque altro di provvedere che il suo esercito avesse viveri a disposizione e di procurarli; ma era anche capace di inculcare nei presenti l’idea che a Clearco bisognasse obbedire. Questo otteneva con durezza e, difatti, aveva un aspetto truce e voce aspra. Applicava le punizioni con inflessibilità e talvolta con rabbia, tanto che, in certi casi, se ne pentiva. Però puniva con ferma deliberazione, perché era convinto che un esercito senza punizioni non valesse nulla; anzi, raccontavano che era solito dire che un soldato deve temere più il proprio comandante che il nemico […][1].

Suo degno compare, il tessalo Menone, divorato dall’ambizione, avido di potere e di denaro e totalmente privo di qualunque scrupolo morale:

Era evidente che Menone il Tessalo era dominato da una fortissima brama di ricchezza, che desiderava comandare per prendere di più e che desiderava essere onorato per guadagnare di più; voleva diventare amico dei più potenti per non dover scontare la pena, qualora commettesse soprusi. Per realizzare i propri desideri, era convinto che la via più breve fosse quella di spergiurare, mentire e ingannare, e la schiettezza e la sincerità per lui erano la stessa cosa che la stupidità[2].

In contrapposizione a questi due, la natura onesta di Prosseno il Beota, l’amico di Senofonte, un intellettuale affascinato da sogni di eroismo e di gloria, ma non sostenuto da un’adeguata energia e totalmente privo dell’aggressività necessaria per sopravvivere in un ambiente come quello di cui era entrato volontariamente a far parte:

Prosseno il Beota, fin da ragazzo, desiderava diventare un uomo capace di compiere grandi imprese […], ma per quanto appassionatamente aspirasse a tutto ciò, era chiaro d’altra parte che non sarebbe stato disposto a raggiungere alcuno di questi obiettivi a scapito della giustizia, ma sentiva suo dovere il conseguirli operando secondo giustizia e rettitudine, senza compromessi. Quindi, sapeva dare ordini alla gente perbene, ma era incapace di infondere soggezione o paura nei soldati […][3].

Fra gli altri personaggi di rilievo che militano dalla parte di Artaserse, il subdolo Tissaferne, satrapo persiano responsabile di aver scatenato l’odio fra i fratelli Ciro e Artaserse con le sue delazioni, sempre pronto ad agire con perfidia e tradimento; per contrasto, il fedelissimo Artapate, dignitario di Ciro e suo amico, che non sopporta di sopravvivere al suo signore e si taglia la gola sul cadavere di lui, dopo la sconfitta di Cunassa. E infine, lo stesso Senofonte-personaggio, di cui Senofonte-autore non trascura i pensieri, le speranze, le paure, il comportamento, sempre sostenuto da una riflessiva determinazione, in cui alcuni studiosi hanno voluto cogliere una punta di compiaciuta autoesaltazione, tanto che è stata avanzata l’ipotesi che Senofonte abbia deciso di scrivere l’Anabasi per controbattere l’opera di Sofaineto di Stinfalo, il quale, aggregato anch’egli alla spedizione, narrò le sue avventure in un’Anabasi di Ciro, in cui si minimizzava il comportamento di Senofonte durante la ritirata.

Personaggi e episodi si inquadrano in uno scenario esotico, descritto con tale efficacia da divenire esso stesso protagonista: l’immensa piana dell’Eufrate, così diversa dal paesaggio greco, nella sua sconfinata uniformità «piatta come il mare»; gli aspri picchi dell’Armenia, con il gelido vento del nord che intirizzisce e uccide; un paesaggio ostile e desolato, che fa da sfondo alla disperazione degli Elleni, così come la vista del mare dall’alto monte Teche dà luogo a un esaltante coinvolgimento emotivo di tutti i soldati.

Da queste caratteristiche ha avuto origine il successo dell’Anabasi, l’archetipo di un genere narrativo destinato a grande fortuna nella letteratura classica e moderna, quello del diario di guerra; in esso trovano posto i Commentarii di Cesare, ma anche Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, come pure le opere di numerosi scrittori del Neorealismo italiano, da Levi a Rigoni Stern.

I Diecimila di Senofonte. Illustrazione di Y. Lee.

Le Elleniche | Le Elleniche (Ἑλληνικά), o Storia greca, contengono, in sette libri, gli avvenimenti occorsi in Grecia dal 411 (battaglia di Cizico) al 362 a.C. (battaglia di Mantinea), un periodo difficile e complesso, durante il quale le città greche furono impegnate in una lotta senza quartiere che terminò con un distruttivo logoramento reciproco, e che segnò la fine della civiltà della πόλις, aprendo la strada all’egemonia macedone. Con quest’opera, Senofonte si propose di riprende la narrazione di Tucidide dal punto esatto in cui il grande storico l’aveva lasciata; infatti, l’esordio del primo libro immette il lettore di colpo in medias res, senza alcuna forma di introduzione o di proemio, tanto che, per comprendere bene il senso del racconto, è necessario ricollegarsi alle parole conclusive delle Storie tucididee. Anche la suddivisione degli avvenimenti segue lo schema annalistico del precedente e il racconto è caratterizzato da uno stile piuttosto impersonale, che, proseguendo per tutto il libro primo e parte del secondo (per l’esattezza, II 3, 10), si conclude con la presa di Samo da parte di Lisandro nel 404, subito seguita dall’instaurazione del regime dei Trenta. I capitoli che seguono, e poi i libri successivi, presentano invece caratteri assai diversi: l’ordine cronologico annalistico viene abbandonato, lo stile si fa più disteso e descrittivo, ricco di digressioni, con ampio spazio dedicato all’analisi psicologica dei personaggi, secondo una tecnica narrativa che ricorda quella dell’Analisi. Circa la marcata diversità fra questa parte dell’opera e quella iniziale si possono fare solo ipotesi. Probabilmente Senofonte venne in possesso del materiale raccolto da Tucidide per l’ultima parte della sua opera; perciò potrebbe averlo utilizzato mantenendone intatte sia le caratteristiche stilistiche, ben diverse dalle proprie, che la partizione cronologica. Questa teoria è suffragata, anche se non dimostrata, da una testimonianza di Diogene Laerzio (II 57), il quale afferma che Senofonte, pur avendo avuto l’occasione di appropriarsi degli “appunti” di Tucidide, li pubblicò e li rese noti. Un’altra spiegazione potrebbe essere che fra la prima e la seconda parte delle Elleniche sia trascorso un periodo di tempo piuttosto lungo; l’opera, iniziata subito dopo il 404, con il piano di completare quella di Tucidide, sarebbe stata condotta a termine da Senofonte negli anni della maturità, durante il soggiorno a Scillunte. Altri studiosi pensano a una redazione avvenuta addirittura in tre tempi: la parte centrale, da II 3, 10, fino ai primi capitoli del libro quinto, sarebbe stata composta per prima; subito dopo, Senofonte si sarebbe dedicato a raccordare la propria narrazione a quella tucididea e, infine, forse tra il 358 e il 355, avrebbe portato a termine l’opera, utilizzando il materiale raccolto negli anni precedenti.

Certo è che nella parte centrale dell’opera compaiono in modo più evidente i pregi e i difetti dello stile senofonteo; accanto all’abilità di rappresentare con drammatica efficacia personaggi e scene, come la cinica arroganza di Crizia e l’arresto e la condanna a morte di Teramene, o il rientro in patria di Alcibiade, si nota un utilizzo non molto rigoroso delle fonti e una certa confusione nella cronologia, perché, narrando i fatti in base alla loro importanza e non secondo la naturale successione, talvolta lo scrittore si è visto costretto a tornare indietro, ad aggiungere particolari, a scapito della chiarezza e dell’ordine. Interessante è invece il modo con cui Senofonte si serve del discorso diretto; mentre Tucidide preferisce considerare le parole dei personaggi come premessa e giustificazione delle loro azioni, e perciò colloca i discorsi nella parte del racconto più adatta a dare il massimo risalto a questa loro funzione, Senofonte se ne serve soprattutto come mezzo di approfondimento psicologico dei personaggi, con una più ampia varietà di toni e di sfumature, anche perché, almeno in parte, essi si fondavano sul ricordo diretto dell’autore. Tuttavia, quanto di personale compare nel testo e nell’ideologia delle Elleniche non contribuisce alla loro imparzialità; l’ammirazione di Senofonte per Agesilao, la simpatia per i Lacedemoni e il loro sistema politico lo hanno indotto a giudizi non sempre obiettivi, e a osservazioni dettate più dal sentimento che dal raziocinio. Lo dimostra il fatto che, quando Senofonte tenta di motivare concettualmente un evento storico, lo fa ricorrendo a un motivo religioso (Hell. V 4, 1), come quando afferma che la rovina dell’egemonia spartana fu dovuta alla collera degli dèi perché i Lacedemoni avevano violato il giuramento di rispettare l’autonomia delle città greche. Il rigoroso spirito critico di Tucidide e il suo pragmatismo appaiono ben lontani, ma nonostante questi limiti, l’opera di Senofonte rimane una delle più importanti su questo fondamentale periodo della storia greca.

Stele funeraria degli opliti Chairedemos e Lykeas. Marmo pario, 420 a.C. ca. da Salamina. Pireo, Museo Archeologico Nazionale.

La Ciropedia | La Ciropedia (Κύρου παιδεία), considerata spesso il capolavoro di Senofonte per accuratezza stilistica, fu scritta probabilmente verso il 360 e benché il titolo significhi propriamente «educazione di Ciro», l’opera contiene, in otto libri, l’intera biografia di Ciro il Grande, fondatore dell’Impero persiano, limitando al primo libro il racconto della sua educazione. Anche presso i suoi connazionali, le notizie storiche su questo personaggio dovettero mescolarsi ben presto con la leggenda; per esempio, un racconto largamente diffuso presso i Persiani, e riportato anche da Erodoto, narrava che il re dei Medi, Astiage, era sta avvertito da un sogno premonitore, secondo cui un bambino nato da sua figlia Mandane lo avrebbe spodestato. Perciò, la diede in sposa a un persiano di basso rango, Cambise; non contento di ciò, quando seppe che dall’unione era nato un figlio maschio, ordinò di abbandonarlo in una foresta. Ma il piccolo Ciro fu raccolto e allevato da alcuni pastori e, in seguito, riconosciuto da suo nonno. Un simile racconto, che ha tutte le caratteristiche della favola (si notino le analogie con le origini dei grandi fondatori delle civiltà antiche!), dimostra come la figura del monarca orientale fosse divenuta ben presto protagonista di vicende accettate senza alcuna preoccupazione di veridicità storica, non solo dal suo popolo, ma anche da scrittori greci come Antistene e Ctesia, a cui Senofonte attinse con molta libertà.

Può darsi che il progetto di raccontare la storia di Ciro il Grande sia stato suggerito a Senofonte dall’aver conosciuto di persona il suo lontano discendente, Ciro il Giovane, figlio di Dario II, per il quale nutrì molta ammirazione; ma lo scopo che l’autore si prefisse fu soprattutto quella di restituire un’immagine del monarca ideale, moralmente perfetto e altamente consapevole della propria missione. Senofonte immaginò così un personaggio nel quale il valore militare, l’autorità e il senso della giustizia degni di un Gran Re si fondevano con le più nobili qualità umane, come il rispetto per gli dèi e il sentimento profondo dell’onore e dell’amicizia. Per creare una figura simile, lo scrittore ateniese ebbe presenti le qualità di due uomini che aveva ben conosciuto e sinceramente stimato, Socrate e Agesilao. Ma proprio perché Ciro riassume in sé, al massimo grado, le virtù dell’uno e dell’altro, risulta un personaggio letterario, troppo perfetto e idealizzato per essere esistito davvero. Del resto, che Senofonte non si preoccupasse troppo dell’attendibilità storica, lo dimostra anche il modo con cui descrive la forma di governo realizzata da Ciro, un miscuglio di elementi che l’autore ha desunto da quelle costituzioni a lui contemporanee e che riteneva meglio organizzate e più vantaggiose per gli uomini. Inoltre, benché sia noto che Ciro il Grande morì in battaglia, combattendo contro i Massageti, Senofonte non esitò a sostituire questa fine cruenta con un sereno trapasso in tarda età, accompagnato da dotte dissertazioni sull’immortalità dell’anima e da nobili consigli morali impartiti a familiari e amici: una vera morte “socratica”!

Tuttavia, nonostante questa voluta distanza dalla realtà storica, la Ciropedia ha un valore indicativo da non trascurare; in un periodo di drammatici rivolgimenti storici in cui i Greci cercavano di raggiungere una soluzione politica fondata sulla concordia delle varie città sotto l’egemonia morale e culturale di Atene, come avrebbe voluto, per esempio, Isocrate, Senofonte progettò la realizzazione del proprio governo ideale non in una πόλις ellenica, bensì in una monarchia universale, in cui popoli assai diversi fra loro erano tenuti insieme dall’autorità di un sovrano illuminato, precorrendo così una soluzione storica che si sarebbe verificata sotto la monarchia macedone e, più ancora, in quella dei diadochi in epoca ellenistica.

Interessante è anche l’attenzione dello storico per l’educazione a cui erano sottoposti, dai sette anni in poi, i giovani persiani di nobili natali. Con questa parte dell’opera, Senofonte si inserì nel dibattito sulla pedagogia politica, che era stata il principale obiettivo dei sofisti. Ma, mentre questi ultimi si disinteressavano degli aspetti etici del problema (quelli stessi che, invece, erano assolutamente inderogabili per Socrate), ritenendo che la prima qualità del politico fossero le sue capacità dialettiche e la sua forza di persuasione, Senofonte pose a fondamento dell’educazione persiana una solida base etica, costituita dal continuo e severo esercizio della giustizia, unita a una dura disciplina militare, piuttosto simile a quella spartana, per la quale egli non nascose mai la propria ammirazione.

Un altro aspetto non trascurabile della Ciropedia, anzi, forse il più importante, è il suo valore letterario, che permette di considerarla molto simile a un romanzo, il primo romanzo storico della letteratura occidentale, costruito su un’elaborata struttura narratologica. Sull’asse principale della vicenda, costituita dalla biografia di Ciro, si innestano numerose e ampie digressioni, autonome e complete rispetto al nucleo centrale. Fra le più belle, la tragica storia di Gobria, un vecchio principe assiro, animato da un disperato desiderio di vendetta verso il suo sovrano, che gli ha ucciso l’unico figlio per invidia e gelosia, e quella di Pantea e Abradata, patetica e drammatica avventura di amore e morte, vero romanzo nel romanzo. Questi e numerosi altri racconti di più breve respiro trovano spazio nel contesto della vicenda principale, dominata dalla figura di Ciro, che rappresenta anche, in tanta varietà di avvenimenti, l’elemento di unità, sempre presente e sempre coerente con se stesso, dalla lieta infanzia alla pensosa nobiltà della morte.

Combattimento fra Greci e Persiani. Bassorilievo, marmo, fine V secolo a.C. Dal fregio meridionale del Tempio di Atena Nike.

La Costituzione degli Spartani | La Costituzione degli Spartani (Λακεδαιμονίων πολιτεία) delinea nei suoi tratti essenziali il sistema di governo e la vita politica di Sparta, fondati da Licurgo, uno dei più famosi fra gli antichi legislatori, ma a proposito del quale la critica moderna ha avanzato qualche riserva, considerando leggendarie molte delle notizie pervenute su di lui. Secondo Senofonte, che non nutriva alcun dubbio sulla storicità del personaggio e della sua opera, la costituzione lacedemone, diversa da quella di tutte le altre realtà elleniche, fu fonte di benessere, concordia, prestigio politico e gloria militare per gli Spartani, finché essi vi si attennero con rigore. Ma quando permisero che la sua autorità fosse a poco a poco sminuita dall’ambizione e dalla bramosia di ricchezza, conobbero anch’essi la vergogna della decadenza, com’era accaduto agli Ateniesi e ai Persiani. Infatti, le pessimistiche conclusioni di quest’opuscolo hanno lo stesso tono delle ultime pagine della Ciropedia, in cui Senofonte descrive con amarezza la decadenza dell’Impero persiano, degenerato nella mollezza e nella corruzione, dopo il felice regno di Ciro il Grande.

Merry-Joseph Blondel, Licurgo di Sparta. Olio su tela, 1828. Amiens, Musée de Picardie

L’Agesilao | Questa breve biografia del re spartano Agesilao II (Ἀγησίλαος), scritta dopo la sua morte, avvenuta nel 360 a.C., ha carattere decisamente encomiastico. Senofonte, che lo aveva conosciuto di persona, ne era diventato amico e aveva militato ai suoi ordini, volle metterne in risalto le grandissime virtù militari e le eccezionali qualità umane, idealizzandole secondo canoni retorici, ma tentando, al tempo stesso, di mantenersi abbastanza fedele alla realtà storica. Degna di nota è anche la tecnica di cui Senofonte si servì per dare risalto alle doti del suo eroe; infatti i pregi di Agesilao risultano ancor più evidenti grazie al continuo confronto con i difetti di qualche altro personaggio, come il satrapo Tissaferne o il re Artaserse o, più semplicemente, con quelli della maggior parte degli uomini.

L’«Olpe Chigi». Particolare: due falangi oplitiche che si affrontano. Pittura vascolare da un olpe tardo-corinzio a figure nere e policrome. 630 a.C. ca., da Veio. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Lo Ierone | Quest’opuscolo, redatto in forma dialogica, prende spunto dagli aneddoti che si raccontavano sull’amicizia fra Ierone (Ἱέρων), tiranno di Siracusa, e il poeta Simonide di Ceo, suo ospite, e svolge, attraverso una serie di τόποι, il ben noto tema dell’infelicità e della solitudine di chi detiene un potere assoluto. Senofonte immagina che i due discutano sulla condizione del tiranno, confrontata con quella dell’uomo comune. Ierone afferma di non meravigliarsi se gli ignoranti invidiano i tiranni e li credano felici per la potenza e la ricchezza; lo stupisce però che una persona intelligente e colta come Simonide possa cadere nello stesso equivoco. I due prendono allora in considerazione vari fattori, sui quali, secondo l’opinione comune, si fonda la felicità umana: la patria, l’amore dei familiari, della moglie, dei figli, l’amicizia, la stima dei concittadini, la simpatia disinteressata degli altri e l’amara conclusione di Ierone è che sotto nessuno di questi aspetti il tiranno può dirsi più fortunato della gente comune. Ma Simonide, la cui benevola ironia assomiglia molto a quella di Socrate, lo consola dicendogli che anche un monarca assoluto può essere benvoluto e felice, quando governa con giustizia e saggezza, avendo sempre di mira il benessere dei suoi sudditi.

James Barry, L’incoronazione dei vincitori a Olimpia. Olio su tela, 1777-1784 c.

4. Le opere socratiche

L’Apologia di Socrate | Con l’Apologia, che porta lo stesso titolo del ben più celebre dialogo platonico, Senofonte intese tramandare l’orazione che il maestro pronunciò in propria difesa davanti ai giudici. Purtroppo, grava su questo opuscolo, forse la più giovanile delle opere senofontee, il confronto con l’ampiezza e la profondità di pensiero del testo platonico, a cui risulta assai inferiore. La figura di Socrate, così come emerge dalle poche pagine di Senofonte, è quella di uomo stanco e demoralizzato, che avverte il peso dell’età e si preoccupa di ribattere le accuse con argomentazioni che, in verità, non appaiono molto stringenti, e che si concludono con una profezia di sventura per il figlio di Anito. Tuttavia, lo spirito con cui l’opera è redatta è quello di una schietta ammirazione per Socrate, cosa che fa pensare che essa sia stata scritta in contrapposizione al libello antisocratico del sofista Policrate, che circolava fra il 395 e il 390. Alcuni concetti presenti in questa apologia sono poi stati sviluppati più ampiamente nei primi capitoli dei Memorabili.

Socrate. Busto, copia romana in marmo, II sec. d.C. Toulouse, Musée Saint-Raymond.

I Memorabili di Socrate | Anche quest’opera, suddivisa in quattro libri, si inserisce nel filone della letteratura nata in difesa di Socrate, contro libelli che ne diffamavano la memoria, sostenendo che il suo insegnamento aveva un peso importante nel discutibile comportamento politico di alcuni suoi discepoli, come Crizia e Alcibiade. Come già nell’Apologia, Senofonte non si cura di approfondire gli aspetti filosofici del pensiero socratico, ma difende con energia e convinzione l’onestà, la correttezza morale e la profonda religiosità del maestro, domandandosi come sia stato possibile diffondere sul suo conto calunnie tanto infamanti. A proposito del contenuto dei Memorabili, è stato notato che i primi due capitoli del primo libro sembrano costituire una parte a sé per il loro carattere strettamente apologetico, mentre il rimanente dell’opera ha un andamento piuttosto narrativo e descrittivo, e rievoca numerosi episodi, dai quali si ricava un ritratto di Socrate vivace e umanissimo, che testimonia la simpatia e l’affetto del suo antico discepolo. Questa diversità ha fatto supporre che l’opera sia stata composta in due periodi diversi: i primi capitoli intorno al 390, a poca distanza dalla morte di Socrate, per difenderne la memoria, il resto assai più tardi. L’ipotesi più probabile è che il primo progetto di Senofonte riguardasse solo la difesa di Socrate contro le diffamazioni di cui si è detto; poi, forse negli ultimi anni di vita, dopo il ritorno temporaneo ad Atene, l’autore ampliò il nucleo primitivo con i molti ricordi che aveva del suo maestro, scegliendo, secondo il suo gusto, quelli che meglio si adattavano a una descrizione vivace e piacevole. Si venne così delineando un profilo di Socrate che, pur lontanissimo dalla profondità morale del ritratto che ne fa Platone, nella sostanza non è però in contrasto con esso. Questa parte dell’opera mostra chiaramente l’impronta stilistica di Senofonte maturo: lo stile è discorsivo, brillante, con una certa tendenza alla digressione, la più famosa delle quali è quella che racconta il mito di Eracle al bivio, desunto da Prodico.

Il Simposio | Alla vena agile e descrittiva di Senofonte si adatta particolarmente bene il soggetto di quest’opera, scritta fra il 365 e il 362, e omonima del dialogo platonico. In essa si descrive un banchetto, offerto dal ricco ateniese Callia per festeggiare il suo favorito, Autolico, vincitore di una gara di pancrazio alle Panatenee. Gli argomenti trattati dai convitati sono consoni alla gaia atmosfera del convito; Socrate discute sull’amore, sia dei sensi che dello spirito, con una superficiale giocondità che contrasta con la serena profondità del dialogo platonico. Degna di nota la conclusione, in cui si descrive una rappresentazione mimica, molto vivace e realistica, dell’incontro fra Dioniso e Arianna, testimoniando così che il mimo come genere di spettacolo era in uso ben prima dell’Ellenismo.

Pittore Nicia. Simposiasti intenti al gioco del kottabos e ragazza che suona l’aulos. Pittura vascolare da un cratere a campana attico a figure rosse, 420 a.C. ca.

L’Economico | Quest’opera, uno dei più pregevoli documenti della prosa di Senofonte, si colloca, per il suo contenuto, in una posizione intermedia fra gli scritti “socratici” e quelli di carattere tecnico.

Interessante è anche per la sua struttura narratologica, il meta-racconto (cioè un racconto inserito in un altro che gli fa da cornice, come il Fedone di Platone). Socrate e il giovane Critobulo conversano sull’amministrazione domestica; ma quasi subito il filosofo afferma di voler riferire al giovane un lungo colloquio avuto con Iscomaco, un ricco e affabile proprietario terriero, che gli ha dato molte utili indicazioni sulla coltivazione e sull’amministrazione delle proprietà fondiarie. In questa parte dell’opera traspare l’esperienza in materia che l’autore aveva accumulato durante il lungo soggiorno a Scillunte, e anche il suo apprezzamento per l’agricoltura, considerata un’attività produttiva e rasserenante, utile al corpo e allo spirito, educativa e adatta a un uomo libero, più di qualunque mestiere artigiano. Ma il brano più interessante è quello che delinea, con le loro caratteristiche e i loro compiti ben distinti e separati, le figure dei due coniugi proprietari del podere. Poiché la natura ha dato all’uomo la forza fisica, la capacità di sopportare i disagi, il coraggio e lo spirito d’iniziativa, e alla donna invece la timidezza, il pudore, il senso della maternità e l’attaccamento alla casa, è necessario che entrambi collaborino, integrandosi a vicenda, per il benessere comune. Questo è lo scopo del matrimonio e su di esso si fonda l’armonia fra l’uomo e la donna: come l’ape regina sovrintende all’alveare e alle sue componenti, è lei che dovrà occuparsi della gestione della casa e della servitù con operosa attenzione, oltre a curarsi, naturalmente, del marito e dei figli che verranno. Si è ancora lontani da una condizione di pari dignità fra coniugi, perché in questa coppia così affiatata il marito appare come l’educatore della moglie, e le dà consigli perfino su come vestirsi e adornarsi, esortandola a evitare trucchi e cosmetici e a mostrarsi nel suo aspetto più naturale. Inoltre, anche per quanto riguarda la fedeltà coniugale, mentre è escluso in assoluto che la donna possa venir meno a questo principio, il marito si limita a garantirle quella posizione di preminenza che le deriva, nella casa, dalla sua posizione di sposa legittima, riservandosi, per il resto, la più completa libertà.

Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Ms. Strozzi 51 (metà XV sec.), f. 3r. Dedica a papa Niccolò V nella traduzione latina dell’Economico di Senofonte a opera di Lampugnino Birago.

5. Le opere tecniche

L’Ipparchico, Sull’ippica e il Cinegetico | Il primo di questi tre opuscoli tecnici (l’ultimo, il Cinegetico, presenta qualche dubbio di attribuzione) trae spunto dalla diretta esperienza di Senofonte come cavaliere; è infatti un trattatello che riguarda i compiti dell’ἵππαρχος («comandante di cavalleria»), verso il quale l’autore è prodigo di consigli sul modo di disporre i cavalieri in battaglia, su come evitare gli agguati e le insidie del nemico e su come disporre i propri uomini affinché facciano bella figura nelle feste e nelle parate. Tutte queste esortazioni sono rivolte a un giovane cavaliere, in cui alcuni hanno voluto identificare uno dei figli dello scrittore.

Strettamente complementare a questo è il trattato Sull’ippica, che contiene le modalità su come formale un efficiente corpo di cavalleria ateniese, accompagnate da istruzioni sulle qualità dei cavalli, sul modo di allevarli e addestrarli. Lo stesso Senofonte mise in evidenza lo stretto rapporto dell’Ipparchico con quest’opera, rimandando direttamente a essa (Eq. 12, 14) per la trattazione dei compiti dell’ipparco. Oltre che alla propria esperienza, l’autore attinse anche all’opera di un altro esperto nel settore, Simone, di cui sono giunti i frammenti del trattato Sull’aspetto e sulla selezione dei cavalli.

Cavallo e stalliere etiope. Stele funeraria, marmo pentelico, IV-I sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il Cinegetico, invece, riguarda la caccia e l’allevamento, l’addestramento e le caratteristiche dei cani adatti all’attività venatoria, che Senofonte considerava uno svago signorile, ma anche un allenamento molto utile per prepararsi alle fatiche della guerra. Vivacemente descrittiva, e degna delle migliori capacità narrative di Senofonte, la scena della caccia alla lepre (Cyn. 5).

Le Entrate | Qualche parola a sé merita questo libello di carattere molto specifico, che riguarda le fonti della ricchezza pubblica (i πόροι, appunto) di Atene. Scritto sicuramente dopo il 355, perché si accenna all’abbandono del santuario di Delfi da parte dei Focesi, che avvenne in quell’anno, esso dimostra una solida e approfondita conoscenza dei problemi economici della città, con qualche suggerimento per restaurare le finanze pubbliche ormai quasi del tutto esaurite. Interessante, pur nell’aridità della trattazione, il piano di risanamento proposto dall’autore, che si fonda soprattutto su un’adeguata organizzazione dello sfruttamento delle risorse minerarie (cave di marmo e miniere d’argento) con l’uso di manodopera servile, dato che la sconfitta di Atene, la decadenza del suo impero commerciale e l’insuccesso della seconda Lega navale avevano molto impoverito le sue tradizionali risorse economiche. In questo quadro l’agricoltura, che pure Senofonte apprezzava molto, passa un po’ in secondo piano, mentre viene dato forte risalto alla necessità di una pace duratura che, dopo il crollo dei sogni egemonici, permetta l’esecuzione pratica di un piano di lavoro teso a eliminare, da Atene e dal resto della Grecia, situazioni di malcontento causato dall’estrema indigenza, in cui Senofonte coglieva, con acuta concretezza, un perenne rischio di instabilità per la πολιτεία.

Pittore Evergide. Un cane laconico che si spulcia. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 500 a.C. ca. Oxford, Ashmolean Museum.

6. La fortuna di Senofonte

Il giudizio degli antichi e dei moderni | La fortuna di Senofonte fu notevole in tutta l’antichità, soprattutto per le qualità stilistiche e per la purezza del linguaggio (Dɪᴏɢ. II 57, lo definì Ἀττικὴ Μοῦσα, «musa attica»). Questi pregi, però, si rivelano più nelle strutture sintattiche che nel lessico, un attico elegante e colto, ma non privo di forme doriche e ioniche, con caratteri che preludono alla κοινή διάλεκτος, la lingua dell’Ellenismo. Già noto fra i contemporanei, l’autore fu apprezzato fino all’età bizantina; ammirato dagli Stoici, trovò un diretto imitatore in Arriano di Nicomedia (95-175 d.C.), che, nella sua Anabasi di Alessandro (I 12, 3), affermò di considerarsi «un nuovo Senofonte».

Nel mondo romano, lo scrittore fu assai stimato da Catone il Vecchio, da Sallustio, da Cesare e da Cicerone, che lo definì melle dulcior, mentre Quintiliano ne lodò la iucunditatem inadfectatam, «lo stile semplice e gradevole» (Inst. X 1, 82). In età moderna, piuttosto che essere valutato per lo stile, per i contenuti, o come fonte storica, Senofonte fu ritenuto l’archetipo dei generi letterari largamente diffusi, come la biografia, il diario di guerra, il romanzo storico.

Pittore Eufronio. Giovinetto a cavallo; scritta ΛΕΑΓΡΟ[Σ] ΚΑ[Λ]ΟΣ («Leagro è bello»). Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 510-500 a.C. da Vulci, München, Staatliche Antikensammlungen.

7. La novità di Senofonte

Un profilo diverso di uomo e di scrittore | Le varie e avventurose vicende della vita di Senofonte e la sua poliedrica attività di scrittore lo distinguono notevolmente dagli altri personaggi del suo tempo, mettendo in luce caratteristiche che, se da un lato appaiono ancora tradizionali, dall’altro fanno intuire una mentalità aperta più verso il futuro che verso il passato. Gli ideali politici, per esempio, appaiono dominati dall’orgoglio di classe e dal rifiuto della democrazia, che Senofonte riteneva responsabile della decadenza di Atene; a questo regime egli contrapponeva l’arcaica severità della costituzione spartana, non mancando di osservare, però, che nemmeno la città laconica aveva saputo salvarsi dal declino, iniziato appunto quando l’antico rigore aveva cominciato ad attenuarsi. Se ci si limitasse a queste osservazioni, Senofonte apparirebbe come un rigido conservatore, una specie di “vecchio oligarca”; in realtà, la tendenza a dare un amaro risalto ai difetti attuali delle due più grandi città elleniche, i cui aspetti positivi appartenevano a un passato ormai definitivamente concluso, fa intuire in lui un’apertura nuova, volta al superamento dei confini ormai troppo angusti della πόλις. Ciò trova conferma, come si è già accennato, all’ammirazione per il personaggio di Ciro il Grande e per una forma di governo che valica tradizioni e barriere nazionali, per unire popoli di costumi, lingue e tradizioni profondamente diversi, eppure capaci di coesistere sotto la guida illuminata di un unico sovrano, anticipando l’ottica che sarebbe stata propria di Alessandro il Macedone.

La passione per la caccia, per le armi e per i cavalli, altro aspetto essenziale del carattere di Senofonte, testimonia la sua educazione aristocratica, secondo uno schema anch’esso appartenente al passato; ma lo spirito di avventura che dominò tutta la sua esistenza è invece un segno dei tempi nuovi. Se è vero che il viaggiare fu un aspetto tipico della stirpe ellenica, tanto che, da questo punto di vista, si è soliti identificare l’uomo greco con Odisseo, è però altrettanto vero che, nella maggior parte dei casi, questa tendenza fu dovuta a motivi pratici di espansione, commercio, conoscenza o semplice curiosità, e si concluse di solito con un ritorno alla madrepatria, o comunque alla Grecia, considerata superiore a qualunque altra nazione; soprattutto negli Ateniesi, l’attaccamento alla patria fu sempre un sentimento fortemente radicato. Eppure, Senofonte avvertì in misura minore questa limitante caratteristica; benché la sua partenza da Atene avesse anche un motivo contingente nella situazione politica della città, poco favorevole in quel momento a posizioni conservatrici, la decisione di Senofonte scaturì soprattutto dal desiderio di conoscere Ciro il Giovane (un barbaro, secondo l’ottica ateniese), di seguirlo in un paese sconosciuto, non certo per la bramosia di denaro e di potere che dominavano Menone o per sfogare la propria innata aggressività, come Clearco, ma per venire a contatto con una realtà diversa dalla propria e per confrontarsi con essa, con uno spirito di cosmopolitismo che prelude a quello tipico dell’età ellenistica.


[1] Xᴇɴ. An. II 6, 8-10: ἱκανὸς μὲν γὰρ ὥς τις καὶ ἄλλος φροντίζειν ἦν ὅπως ἔχοι ἡ στρατιὰ αὐτῷ τὰ ἐπιτήδεια καὶ παρασκευάζειν ταῦτα, ἱκανὸς δὲ καὶ ἐμποιῆσαι τοῖς παροῦσιν ὡς πειστέον εἴη Κλεάρχῳ. τοῦτο δ’ ἐποίει ἐκ τοῦ χαλεπὸς εἶναι· καὶ γὰρ ὁρᾶν στυγνὸς ἦν καὶ τῇ φωνῇ τραχύς, ἐκόλαζέ τε ἰσχυρῶς, καὶ ὀργῇ ἐνίοτε, ὡς καὶ αὐτῷ μεταμέλειν ἔσθ’ ὅτε. καὶ γνώμῃ δ’ ἐκόλαζεν· ἀκολάστου γὰρ στρατεύματος οὐδὲν ἡγεῖτο ὄφελος εἶναι, ἀλλὰ καὶ λέγειν αὐτὸν ἔφασαν ὡς δέοι τὸν στρατιώτην φοβεῖσθαι μᾶλλον τὸν ἄρχοντα ἢ τοὺς πολεμίους

[2] Xᴇɴ. An. II 6, 21-23: Μένων δὲ ὁ Θετταλὸς δῆλος ἦν ἐπιθυμῶν μὲν πλουτεῖν ἰσχυρῶς, ἐπιθυμῶν δὲ ἄρχειν, ὅπως πλείω λαμβάνοι, ἐπιθυμῶν δὲ τιμᾶσθαι, ἵνα πλείω κερδαίνοι· φίλος τε ἐβούλετο εἶναι τοῖς μέγιστα δυναμένοις, ἵνα ἀδικῶν μὴ διδοίη δίκην. ἐπὶ δὲ τὸ κατεργάζεσθαι ὧν ἐπιθυμοίη συντομωτάτην ᾤετο ὁδὸν εἶναι διὰ τοῦ ἐπιορκεῖν τε καὶ ψεύδεσθαι καὶ ἐξαπατᾶν, τὸ δ’ ἁπλοῦν καὶ ἀληθὲς τὸ αὐτὸ τῷ ἠλιθίῳ εἶναι.

[3] Xᴇɴ. An. II 6, 16-19: Πρόξενος δὲ ὁ Βοιώτιος εὐθὺς μὲν μειράκιον ὢν ἐπεθύμει γενέσθαι ἀνὴρ τὰ μεγάλα πράττειν ἱκανός· […] τοσούτων δ’ ἐπιθυμῶν σφόδρα ἔνδηλον αὖ καὶ τοῦτο εἶχεν, ὅτι τούτων οὐδὲν ἂν θέλοι κτᾶσθαι μετὰ ἀδικίας, ἀλλὰ σὺν τῷ δικαίῳ καὶ καλῷ ᾤετο δεῖν τούτων τυγχάνειν, ἄνευ δὲ τούτων μή. ἄρχειν δὲ καλῶν μὲν καὶ ἀγαθῶν δυνατὸς ἦν· οὐ μέντοι οὔτ’ αἰδῶ τοῖς στρατιώταις ἑαυτοῦ οὔτε φόβον ἱκανὸς ἐμποιῆσαι.

P. Virgilio Marone

di G.B. CONTE, E. PIANEZZOLA, Lezioni di letteratura latina. Corso integrato. 2. L’età augustea, Milano 2010, 16-33.

L’autore classico per eccellenza

Virgilio ha lasciato alla cultura europea un’eredità incommensurabile. Dalle Bucoliche, in cui prende forma il mondo idillico della pastorale, alla poesia di impegno civile delle Georgiche, al grande poema epico, l’Eneide, Virgilio ha rivoluzionato i generi poetici che ha frequentato fissandoli nelle loro forme classiche. Poesia di grande raffinatezza e perfezione formale, le Georgiche si fanno anche rispecchiamento della crisi contemporanea, offrendo una visione complessa, problematizzata del mondo e della storia; l’Eneide, il capolavoro dell’epica classica, non rinuncia a mostrare accanto alla gloria del vincitore le ragioni e i sentimenti dei vinti. Virgilio, il grande classico di Roma, si rivela così un autore di inaspettata, straordinaria modernità.

Virgilio tra le Muse Clioe e Melpomene. Mosaico, III sec. d.C. Tunis, Museo del Bardo.

Una vita per la poesia

La vita di Virgilio che si conosce è straordinariamente povera di eventi esterni e tutta raccolta su un tenace lavoro poetico. Publio Virgilio Marone nacque presso Mantova (il sito preciso è controverso) il 15 ottobre del 70 a.C. da piccoli proprietari terrieri. I luoghi della sua educazione devono essere stati Roma e Napoli, dove probabilmente frequentò la scuola del filosofo epicureo Sirone. La cronologia del periodo giovanile è discussa. Un’informazione di particolare interesse si ricava da una poesiola attribuita a Virgilio, la quinta della raccolta Catalepton (compresa nella cosiddetta Appendix Vergiliana); vi si allude a una scuola che il giovane poeta avrebbe frequentato, a Napoli, presso il maestro Sirone. Il valore della testimonianza è discusso, perché la poesia potrebbe anche essere, da un punto di vista qualitativo, opera di un Virgilio giovane, ma il contenuto autobiografico potrebbe altrettanto bene derivare dall’opera di un falsario, ansioso di riempire un vuoto nella carriera del giovane poeta. D’altra parte, il primo testo che Virgilio ha sicuramente composto, le Bucoliche, denuncia chiaramente frequentazioni epicuree.

La datazione delle Bucoliche è, nelle sue linee generali, accertata, ma si collega a un episodio non del tutto chiaro: Virgilio allude più volte nell’opera ai gravi avvenimenti del 41 a.C., quando nelle campagne del Mantovano ci furono confische di terreni, destinate a ricompensare i veterani della battaglia di Filippi. Il periodo fu segnato da gravi disordini e il poeta riecheggia il dramma dei contadini espropriati. Una notizia, formatasi già in età classica e largamente sviluppata dai commentatori antichi di Virgilio, vuole che il poeta stesso avesse perso nelle confische il suo podere di famiglia e l’avesse poi riacquistato. Per intervento di chi?

Le notizie antiche non sono chiare in proposito; si è pensato a Ottaviano in persona o ad alcuni personaggi citati direttamente nelle Bucoliche: Asinio Pollione, Cornelio Gallo, Alfeno Varo, tutti, in qualche modo, coinvolti nell’amministrazione provinciale traspadana (i primi due erano, tra l’altro, ben noti uomini di cultura. Sul nucleo originario della notizia si formò poi un romanzo biografico, che coinvolgeva l’interpretazione allegorica di numerosi passi dell’opera; e oggi è molto difficile intravedere un fondo di verità.

È certo invece che le Bucoliche non recano alcuna traccia di quello che sarebbe stato il grande amico e protettore di Virgilio, Mecenate, mentre vi ha notevole rilievo la figura protettiva di Pollione, che poi sarebbe scomparso del tutto dall’opera virgiliana. Subito dopo la pubblicazione delle Bucoliche, il poeta entrò nella cerchia degli intimi di Mecenate e quindi anche di Ottaviano; poco dopo, anche Orazio vi si inserì. Nei lunghi anni di incertezza e di lotta politica che vanno fino alla battaglia di Azio (31 a.C.), Virgilio lavorò al poema georgico, in piena sintonia con l’ambiente di Mecenate. Non sembra però che amasse Roma; la chiusa delle Georgiche infatti parla di Napoli come prescelto luogo di ritiro e di impegno letterario.

Nel 29 Ottaviano che tornava vincitore dall’Oriente si fermò ad Atella, in Campania, e lì si fece leggere da Virgilio le Georgiche appena terminate (esistono però indizi, piuttosto controversi, che spostano poco più avanti la vera e propria pubblicazione del poema). Da qui in avanti, il poeta fu tutto assorbito dalla composizione dell’Eneide: sembra che Ottaviano seguisse con grande partecipazione lo sviluppo del lavoro, come è noto da un frammento di lettera. Virgilio visse abbastanza da leggere al princeps alcune parti del poema, ma non abbastanza da poter dire chiusa l’opera. L’Eneide fu pubblicata per volere di Augusto e per cura di Vario Rufo: il poeta era morto il 21 settembre 19 a.C. a Brindisi, di ritorno da un viaggio in Grecia. Virgilio fu sepolto a Napoli. La fortuna dell’opera, che già negli anni precedenti al 19 era attesa e preannunciata negli ambienti letterari, fu immediata e consacrante.

Oltre alle testimonianze ricavabili dai testi autentici, si possiede una serie di Vitae, tardoantiche e medievali, in cui è presente un nucleo risalente all’attività biografica di Svetonio, che è naturalmente degno della massima considerazione: la più famosa di queste biografia si deve a Elio Donato, il grande grammatico del IV secolo. Tutte le opere autentiche sono ampiamente commentate sin dal I secolo: fra i testi conservati, di particolare importanza il commentario di Servio (IV-V secolo), che contiene anche informazioni storiche, di valore oscillante.

Città del Vaticano, BAV. Codex Vaticanus lat. 3867 (o Vergilius Romanus) del V sec., f. 1r. L‘Ecloga I 1, vv. 1-5, con la miniatura che ritrae Titiro e Melibeo.

Le Bucoliche

Bucoliche (Bucolica, sottinteso carmina, è parola di origine greca; al singolare si usa il termine egloga, «poemetto scelto») significa «canti dei bovari» e il titolo racchiude il tratto fondamentale di questo genere letterario, che rievoca uno sfondo rustico in cui i pastori stessi sono messi in scena come attori e creatori di poesia.

Il piano dell’opera è il seguente. Egloga I: è un dialogo fra due pastori, Titiro e Melibeo; quest’ultimo è costretto a partire, ad abbandonare i suoi campi che le confische gli hanno sottratto; l’altro, invece, può restare, grazie anche all’aiuto di un giovane di natura divina. Egloga II: costituisce il lamento d’amore del pastore Coridone, che si strugge per il giovinetto Alessi. Egloga III: contiene la tenzone poetica tra due pastori, svolta in canti alternati detti «amebei», “a botta e risposta”. Egloga IV: è il canto profetico per la nascita di un fanciullo che vedrà l’avvento di una nuova età dell’oro. Egloga V: è il lamento funebre per la morte di Dafni, eroe pastorale che viene assunto tra gli dèi, dopo che si è lasciato morire per amore. Egloga VI: il vecchio Sileno, catturato da due giovani, canta l’origine del mondo e una serie di miti. Il componimento è preceduto da una dichiarazione di poetica che serve a introdurre la seconda metà del libro. Egloga VII: Melibeo racconta la gara di canto tra due pastori arcadi, Tirsi e Coridone. Egloga VIII: dedicata ad Asinio Pollione, riguarda un’altra competizione canora. Egloga IX: è simile alla prima, con richiami alla realtà della campagna mantovana e alle espropriazioni seguite alle guerre civili. Egloga X: l’autore cerca di confortare le pene d’amore dell’amico Cornelio Gallo, poeta elegiaco.

Nelle Bucoliche Virgilio si ispira agli Idilli del poeta greco Teocrito di Siracusa (III secolo a.C.), siracusano ma vissuto a lungo alla corte di Alessandria d’Egitto, presso i Tolemei. Prima di Virgilio, Teocrito non era stato frequentato dai poeti latini, neppure dai fortemente ellenizzanti poetae novi dell’età di Catullo, che dovevano considerarlo troppo semplice, delicato e insieme artificioso. Virgilio era ben conscio della novità del proprio operato, garantita anche semplicemente dal fatto, senza precedenti a Roma, di aver dedicato a questo genere un libro intero: il manifesto poetico che, posto all’inizio dell’Egloga VI, non a caso è al centro del libro, rivendica l’originalità delle Bucoliche, in contrapposizione alle grandi imprese poetiche dell’epopea, ripetendo quindi un atteggiamento tipicamente callimacheo: Prima Syracosio dignata est ludere uersu / nostra neque erubuit siluas habitare Thalea («La mia Musa fu la prima a non disdegnare il verso siracusano e accettò di abitare nei boschi», Ecl. VI 1-2).

L’incontro di Virgilio con il genere praticato da Teocrito fu straordinariamente felice: il giovane poeta, dotato di grande sensibilità, rileggeva attraverso l’autore siracusano il mondo rurale in cui era cresciuto. Virgilio non si limitò a studiare Teocrito, i suoi imitatori greci del II-I secolo e persino i suoi commentatori: si trasferì, per così dire, all’interno del genere bucolico, imparandone i codici come si farebbe con una lingua straniera. Il risultato non si può ridurre a un semplice processo imitativo; non esiste, in pratica, una singola egloga virgiliana che stia in rapporto “uno a uno” con un singolo idillio teocriteo. La presenza del poeta greco è stata risolta in una trama di rapporti talmente complessa che la nuova opera, realmente, sta alla pari con il modello. In questo senso, le Bucoliche – ancora vicine al gusto dei poetae novi per dottrina, stilizzazione, culto della poesia – sono davvero il primo testo della letteratura augustea: già ne interpretano l’esigenza di fondo, cioè “rifare” i testi greci trattandoli come classici.

Firenze, Biblioteca Riccardiana. Ms. Ricc. 492 (XV sec.), f. 1r. La miniatura ritrae Titiro, Melibeo e altri pastori.

In omaggio al principio alessandrino della «varietà» (ποικιλία), la raccolta di Teocrito si allargava a un repertorio relativamente ampio di temi, ambienti e situazioni. Virgilio sfruttò poco queste aperture: le Bucoliche sono molto più monocordi, molto più concentrate sullo stilizzato mondo pastorale. Con esse, anzi, prende un senso più specifico la stessa parola «idillio», che solo dopo la riduzione tematica operata da Virgilio denota uno scenario ben preciso e tutta un’atmosfera sentimentale malinconico-contemplativa. Appunto, Virgilio trasforma Teocrito accentuando gli elementi di stilizzazione e idealizzazione: i toni dei paesaggi sono meno intensi e gli stessi pastori sono per lo più figure delicate, quasi tenere. Se non è Virgilio l’inventore, è con le Bucoliche che prende diffusione il mito dell’Arcadia, la terra beata dei pastori.

Virgilio riduce sensibilmente i confini del genere idillico, i temi che possono essere affrontati da questa poesia “tenue”. Per esempio, come abbiamo visto, rinunciando alle ambientazioni cittadine teocritee. Ha scritto il grande umanista Giulio Cesare Scaligero (1484-1558) che «il genere bucolico richiama a sé e riformula ogni elemento della realtà», volendo dire che tutto quanto del reale entra nel mondo bucolico viene travestito nel linguaggio e nell’immaginazione dei pastori. Appare come se fosse visto da loro, “ingenui” primitivi della campagna. La città, per esempio, e gli eventi della storia appaiono solo sull’orizzonte, ma sono fatti grandissimi, spaventosi, incomprensibili (come in Ecl. I 19-25, in cui il pastore Titiro rievoca Roma come uno spazio sterminato). E, anche, c’è un’intensa atmosfera malinconica, triste, nel canto di questi pastori: alcuni di loro devono andarsene, perché sono stati cacciati da altri, prepotenti nuovi venuti, soldati (è il caso di Melibeo, in Ecl. I). Sta qui, nel libero riuso di spunti autobiografici, un altro sostanzioso contributo di Virgilio alla tradizione bucolica.

Il dramma dei pastori esuli nelle egloghe I e IX contiene certamente un nucleo di esperienza personale: la tradizione antica voleva che quegli episodi fossero un riflesso delle espropriazioni avvenute in Italia settentrionale negli anni delle guerre civili, nelle quali era rimasto coinvolto anche Virgilio (in particolare negli anni 42-41 a.C.). Ma, al di là delle sfumature autobiografiche, importa cogliere l’originalità di ispirazione con cui Virgilio “rilegge” attraverso il linguaggio bucolico l’epoca delle guerre civili: questo avviene appunto soprattutto nelle Ecl. I e IX, ma anche nella celebre Ecl. IV. Come annuncia l’esordio (paulo maiora canamus, «cantiamo temi più grandi») il poeta si solleva oltre la sfera pastorale (ancora avvertibile nello stile e nella scelta di alcune immagini) per cantare un grande evento.

Per una beffarda congiuntura storica questo componimento, in sé estremamente chiaro, ha dato origine a un enigma. Chi è il puer che con il suo avvento riporta l’età dell’oro in un mondo in crisi? L’identificazione tardoantica del puer con Cristo è solo la più coraggiosa delle tante congetture avanzate. L’egloga si inserisce nelle aspettative di rigenerazione tipiche dell’età di crisi fra Filippi e Azio e ha un chiaro parallelo nell’epodo 16 di Orazio. Possiamo distinguere bene i filoni culturali che nutrono questa poesia visionaria: le poesie in onore di nozze e nascite avevano una loro tradizione retorica; inoltre, Virgilio ha attinto anche a fonti non poetiche, dove si mescolano influssi filosofici e presenza di dottrine messianiche, aspettative di un salvatore. Secondo la maggioranza degli interpreti, però, la figura di questo giovane salvatore del mondo deve pur avere un referente prossimo e concreto.

L’egloga è datata chiaramente al consolato di Asinio Pollione, nel 40 a.C. L’ipotesi migliore (perché fra l’altro spiega l’oscurità del riferimento, chiaro per i lettori del momento e misterioso già qualche anno dopo) è che il bambino dell’egloga fosse atteso in quell’anno ma non sia mai nato. In quell’anno molte speranze seguivano un patto di potere – che doveva rivelarsi effimero – fra Ottaviano e Antonio; quest’ultimo, di gran lunga l’uomo più potente del momento, prendeva in moglie la sorella di Ottaviano. Il matrimonio durò poco e non vi furono figli maschi. Ma l’egloga, proprio per il suo linguaggio sfumato e oracolare, non perse di valore ed ebbe grande fortuna come documento di un’aspettativa e di un clima morale. Senza saperlo, Virgilio apriva così la strada all’interpretazione cristiana della sua poesia, così importante nel Medioevo.

Scena bucolica con villa rurale. Affresco, III sec. d.C. ca. da Augusta Treverorum (Trier).

Le Georgiche

Il titolo Georgica (dal greco, «canti sulla vita campestre») rimanda alla tradizione della poesia didascalica ellenistica: sappiamo, per esempio, che un’opera dallo stesso titolo era stata composta dal greco Nicandro di Colofone (II secolo a.C.). Le Georgiche di Virgilio  per l’appunto un poema didascalico sulla vita agreste in quattro libri, ognuno dedicato a un particolare aspetto del lavoro agricolo: la coltivazione dei campi (I), l’arboricoltura (II), l’allevamento del bestiame (III), l’apicoltura (IV).

L’ordine in cui queste operazioni sono collocate nel testo descrive una curva, per cui l’apporto della fatica umana diviene sempre meno accentuato, e la natura (vista, comunque, in funzione dell’uomo) è sempre più protagonista. Allo sforzo incessante dell’aratore, nel libro I, risponde, nel libro IV, la terribile operosità delle api, animali che, per le loro caratteristiche, si fanno quasi sostituti dell’impegno umano. La struttura del poema sembra orientata dal grande al piccolo, dalle leggi cosmiche del lavoro agricolo sino al microcosmo degli alveari: ma proprio il piccolo mondo delle api è quello che più riavvicina la natura alla cultura dell’uomo.

L’opera è dunque impostata su una serie di libri dotati di chiara autonomia tematica e collegati da un piano complessivo, ciascuno introdotto da un proemio e dotato di sezioni digressive. Ogni libro delle Georgiche presenta un excursus conclusivo, di estensione piuttosto regolare: le guerre civili (I 463-514); la lode della vita rurale (II 458-540); la peste degli animali nel Noricum (III 478-566); la storia di Aristeo e delle sue api (IV 315-558). Hanno chiaro valore di cerniera i proemi: due volte lunghi ed esorbitanti rispetto al tema georgico dei singoli libri (I, III); due volte brevi e strettamente introduttivi (II, IV). Queste somiglianze formali hanno anche una funzione più profonda: il I e il III libro risultano così accoppiati e lo sono anche nelle grandi digressioni finali: guerre civili e pestilenza animale (le cui sofferenze sono esposte con profonda partecipazione) si richiamano quasi a specchio, cosicché gli orrori della storia corrispondano ai disastri della natura. Rispetto a questi finali “oscuri”, rasserenante è l’effetto delle altre digressioni: l’elogio della vita campestre si oppone alla minaccia della guerra e la rinascita delle api replica allo sterminio della pestilenza. Queste grandi polarità fra temi di morte e temi di vita danno un senso all’architettura formale, la tramutano in un chiaroscuro di pensieri che suscita riflessione nel lettore.

Scena di combattimento. Bassorilievo, marmo, II-I sec. a.C. dall’Abruzzo.

Nella cura rigorosa della struttura formale è evidente la lezione di Lucrezio (anche l’architettura del poema filosofico di quest’ultimo è scandita dal succedersi di proemi e di finali), ma con due importanti differenze: da un lato, Virgilio tende a indebolire le costrizioni logiche del pensiero, i forti nessi argomentativi, i collegamenti fra un tema e l’altro; al contrario, l’architettura formale del poema si fa più regolata e simmetrica. Nasce così una nuova struttura poetica; il discorso fluisce naturale e talora capriccioso, nascondendo i passaggi logici, muovendo per associazioni di idee o contrapposizioni; nello stesso tempo, il suo dinamismo finisce per trovare equilibrio in una studiatissima architettura d’insieme, nelle ricercate simmetrie tra libro e libro.

Le Georgiche, oggetto di culto nelle epoche di classicismo, sono anche un’opera di contrasti e di incertezze. Lo splendido equilibrio dello stile e la simmetria della struttura non nascondono l’irrompere di inquietudini e conflitti. La fatica dell’uomo è inviata dalla provvidenza divina per una sorta di necessità cosmica (I 118 ss.); ma l’ideale del contadino si richiama al mito dell’età dell’oro, quando il lavoro non era necessario perché la Natura rispondeva da sola ai bisogni. La vita semplice e laboriosa del contadino italico ha portato alla grandezza di Roma; ma Roma è anche la città, vista come luogo di degenerazioni e di conflitti, polo opposto all’ideale georgico. Il paziente eroe contadino Aristeo, nel vinale del IV libro, seguendo i consigli divini perviene a rigenerare il suo sciame; ma da un suo gesto poco avveduto, intanto, è nata l’irrimediabile infelicità del disobbediente poeta Orfeo. Per colpa di Aristeo, quest’ultimo, il mitico cantore, ha perso la sposa Euridice; vinti dalla magia del canto gli dèi inferi concedono a Orfeo di ricondurla sulla terra, ma il poeta innamorato infrange il patto che le divinità gli hanno imposto – non volgere lo sguardo indietro, verso l’amata, prima di essere uscito dall’Ade – e perde definitivamente Euridice.

La figura di Orfeo fonde insieme le grandi possibilità dell’uomo, che col suo canto arriva persino a dominare la natura e il suo scacco, l’impossibilità di vincere la legge naturale della morte. L’altro eroe civilizzatore, Aristeo, indica una diversa strada: la paziente lotta contro la natura (già nella tradizione mitica Aristeo “inventa” la caccia, il caglio del latte, la raccolta del miele, ecc.) è sostenuta da una tenace obbedienza ai precetti divini e conduce fino alla rigenerazione delle api. Così la digressione narrativa illumina – secondo i modi allusivi e cangianti del mito – la sostanza del messaggio didascalico e, a sua volta, ne viene illuminata. Senza offrire una soluzione precettistica, Virgilio lascia che il suo racconto sia attraversato dal contrasto fra differenti modelli di vita.

Orfeo musico. Mosaico, II sec. d.C. Vienne, Musée de St. Romain-en-Gal.

A giudicare dal titolo, le Georgiche si presentavano come uno dei molti poemi didascalici della tradizione ellenistica: le opere di Arato di Soli (autore di Fenomeni, un poema sulle costellazioni e sui segni metereologici di grande successo a Roma) o di Nicandro di Colofone (con i suoi poemi su Il veleno dei serpenti e su Gli antidoti oltre alle perdute Georgiche) nascevano da una scelta paradossale, dal gesto di un letterato brillante che affrontava una materia poco appetibile, perché umile o tecnica, nell’intento di renderla interessante anche all’esigente pubblico “colto” del mondo ellenistico. La sfida di questi poeti era trasformare scienza e tecnica in poesia: un’occasione di sfoggiare il loro virtuosismo di uomini dotti.

Confezionati con queste premesse, i poemi ellenistici erano sbilanciati: curatissimi sul versante formale, ma poco interessati a insegnare davvero. La passione del descrivere minuzioso si era ormai sostituita allo sforzo di argomentare e persuadere che in origine caratterizzava il genere didascalico: l’insegnamento era stato un interesse primario in Esiodo (VII secolo a.C.), riconosciuto dagli stessi poeti alessandrini come il fondatore del genere didascalico, e si era arricchito di toni profetici, di frequenti esortazioni e appelli al destinatario nei poemi filosofici di Empedocle e di Parmenide, che miravano alla “conversione” dei proseliti. Ma nell’età ellenistica la poesia di questo tipo non si rivolgeva più a un pubblico bisognoso di ammaestramenti: chi avesse avuto interesse specifico per la materia (la caccia, il veleno, le fasi lunari, ecc.) poteva rivolgersi a uno dei molti trattati in prosa (che era ormai il veicolo ufficiale dell’informazione pratico-manualistica specializzata).

I poeti ellenistici non pretendevano, insomma, di insegnare al loro pubblico, più o meno ideale, mettendo al servizio di grandi contenuti la propria arte: la stessa figura del destinatario, nei loro carmi, era più che altro una sopravvivenza di genere. Per esempio, Arato, cantore dei fenomeni celesti, aveva informazioni poco approfondite sull’astronomia; ma adoperava con rara sottigliezza le convenzioni della lingua poetica. Il suo stile era intriso di manierati richiami omerici. L’unità dell’opera era garantita dall’uniforme controllo dello stile e dalla specializzazione “monografica” dell’argomento, più che dalla sincerità di un’impostazione didattica. Il rigore formale dell’opera costituì per Virgilio una lezione da meditare. L’alternanza di cataloghi, descrizioni, digressioni narrative nelle Georgiche è di una ben studiata varietà: eppure, il testo virgiliano sarebbe risultato ben altro che la “messa in poesia epica” di trattazioni tecniche.

Virgilio in cattedra, rappresentato con la berretta dottorale e le braccia poggiate su un leggio che reca incisa l’iscrizione «Virgilius Mantuanus Poetarum Clarrisimus». Altorilievo, marmo bianco, 1227. Mantova, P.zza Broletto, edicola della facciata del P.zzo del Podestà. Sulla base, una lastra di marmo reca incisa l’iscrizione: «Millenis lapsis annis D(omi)niq(ue) ducentis / bisq(ue) decem iunctis septemq(ue) sequentibus illos / uir constans a(n)i(m)o fortis sapiensq(ue) benignus / Laudarengus honestis moribus undiq(ue) plenus / hanc fieri, lector, fecit qua(m) conspicis ede(m). / Tunc aderant secu(m) ciuili iure periti / Brixia quem genuit Bonacursius alter eorum, / Iacobus alter erat, Bononia quem tulit alta».

La tradizione didascalica si era spezzata e nuovamente rivoluzionata, in ambito latino, sotto il forte impulso di Lucrezio, patrimonio del quale erano ricerca formale e gusto letterario. Nella sua stessa epoca, la tradizione didascalica “aratea” aveva trovato interpreti nel giovane Cicerone e più tardi nel neoterico Varrone Atacino (che approntarono traduzioni latine dell’opera tanto ammirata). Ma Lucrezio se ne era distaccato decisamente, ritrovando per altra via, spinto dal suo personale indirizzo di pensiero, il filone della grande poesia didascalica: la poesia di Esiodo, di Parmenide, di Empedocle, veicolo di espressione per un messaggio individuale rivolto a una larga comunità, orientato a ben precisi scopi di trasformazione della vita, di liberazione, di rifondazione della saggezza: messaggi di salvazione attraverso la conoscenza.

Investita da questo slancio missionario, la poesia lucreziana superava le esigenze del gioco letterario: descrizioni, digressioni e similitudini si volevano strettamente funzionali alla struttura dell’opera e alla sua ideologia; la bellezza della forma era miele, accessorio alla severità della medicina filosofica. L’impegno del poeta verso i contenuti del proprio messaggio di salvezza si faceva responsabilità formale: era l’istanza a controllare tutta la costruzione del discorso poetico.

Più alessandrino (e neoterico) di Lucrezio, Virgilio si sentiva comunque più vicino a lui che agli alessandrini stessi. Certamente, non gli era estraneo il gusto delle cose tenui, lo sforzo per trasformare in poesia dettagli fisici e realtà minute, in apparenza refrattarie alla dizione poetica: forse è questo l’aspetto in cui Lucrezio e gli alessandrini si lasciavano meglio conciliare. Le Georgiche, non a caso, dovettero parte del loro fascino a immagini come queste: le incrostazioni dell’olio in una lucerna (I 391 ss.), la consistenza della terra sbriciolata fra le dita del contadino (II 248), il comportamento delle api ammalate (IV 254-259):

continuo est aegris alius color; horrida uultum

deformat macies; tum corpora luce carentum

exportant tectis et tristia funera ducunt;

aut illae pedibus conexae ad limina pendent

aut intus clausis cunctantur in aedibus omnes

ignauaeque fame et contracto frigore pigrae.

Immediatamente le malate assumono un diverso colore; un’orribile magrezza le sfigura; allora, portano fuori i corpi delle trapassate e menano il triste corteo; o restano appese davanti alle soglie le zampe intrecciate, oppure si trattengono dentro, nella casa sbarrata, tutte quante, rese inattive dalla fame e pigre e contratte per i brividi.

(trad. di A. Barchiesi)

London, British Library. Stowe MS 17 (primo quarto del XIV sec.), The Maastricht Hours, f. 148r. Un uomo cerca di catturare le api con un sacco.

È il contributo di Virgilio per allargare gli orizzonti della letteratura aguzzando la percezione e rielaborando in poesia realtà in apparenza trascurabili. In tenui labor («è esile il tema della mia fatica», Georg. IV 6) è un programma poetico che deve molto alla ricerca formale alessandrina e alla poesia di Callimaco (labor allude infatti al concetto della poesia come travaglio formale; tenue, come il greco λεπτόν, indica un genere poetico «sottile» che rifugge dai temi elevati e ricerca la massima perfezione della forma). Molti brani del poema rivelano addirittura emulazione diretta di poeti come Arato, Eratostene, Nicandro, Varrone Atacino. Fonti tecniche in prosa (Varrone Reatino, ma non solo) sono ampiamente saccheggiate là dove il discorso si fa pratico e la trattazione sistematica.

Tuttavia, l’impulso di fondo delle Georgiche è partito da un “dialogo” con Lucrezio (II 490-502):

felix qui potuit rerum cognoscere causas

atque metus omnis et inexorabile fatum

subiecit pedibus strepitumque Acherontis auari:

fortunatus et ille deos qui nouit agrestis

Panaque Siluanumque senem Nymphasque sorores.

illum non populi fasces, non purpura regum

flexit et infidos agitans discordia fratres,

aut coniurato descendens Dacus ab Histro,

non res Romanae perituraque regna; neque ille

aut doluit miserans inopem aut inuidit habenti.

quos rami fructus, quos ipsa uolentia rura

sponte tulere sua, carpsit, nec ferrea iura

insanumque forum aut populi tabularia uidit.

Felice chi ha potuto investigare le cause delle cose e mettere sotto i piedi le paure tutte, il fato inesorabile, il risuonare dell’avido Acheronte. Fortunato anche colui che conosce gli dèi agricoli, Pan e il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle. Quell’uomo non lo possono piegare né i fasci popolari né la porpora dei re, la discordia che inquieta i fratelli sleali o i Daci che calano dal Danubio, non le vicende di Roma e i regni condannati alla distruzione; e non soffre mai pietà per il povero o invidia per il ricco. I frutti portati dai rami, prodotti volentieri e spontaneamente dalle sue campagne, se li raccoglie: nulla sa delle leggi di ferro, dei deliri del foro, dei pubblici archivi.

Scena di vita quotidiana nel foro. Affresco, ante 79 d.C. dalla Casa di Giulia Felice (Pompei). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Un nuovo messaggio di salvazione e di saggezza: non coincide con la dottrina di Lucrezio né le si oppone direttamente, ma si misura con essa, andando a occupare uno spazio più ritirato e modesto.

Vi sono chiare analogie con l’ideale proposto da Lucrezio: la saggezza del contadino, che media la fatica del lavoro e la spontanea generosità della terra, conduce a una forma di autosufficienza, materiale e spirituale. Questa autarchia risponde all’incombere della crisi sociale e culturale della res publica romana: così, il saggio lucreziano si liberava insieme dalle paure superstiziose e dalla pressione della storia. Vi sono anche nette differenza. Lo spazio georgico di Virgilio accoglie più largamente la generosità tradizionale; anzi, fa corpo con essa; e la ricerca intellettuale dei meccanismi cosmici, tesa a liberare dall’angoscia di vivere, cede il passo a un sapere più debole, ancorato al ritmo della vita quotidiana. Si ha l’impressione che Lucrezio guardi alle cause naturali come retroscena della cultura umana; Virgilio invece sembra appigliarsi pazientemente a tutto ciò che incivilisce e umanizza la natura, e da qui nasce in gran parte la poesia delle Georgiche.

L’appartato mondo agricolo del poema ha una sua cintura protettiva. Il giovane Ottaviano si profila come l’unico che può salvare il mondo civilizzato dalla decadenza e dalla guerra civile (I 500 ss.): si è nell’età di crisi prima di Azio, nell’incertezza che nasce dalla morte di Cesare e da Filippi. Altrove, Ottaviano appare già come trionfatore e portatore di pace: il suo trionfo nel 29 (III 22 ss.); la figura divina che vigila sul mondo e protegge la vita dei campi (I 40 ss.); Cesare Augusto che respinge i popoli orientali (II 170 ss.; IV 560 ss., il sigillo dell’opera):

[…] Caesar dum magnus ad altum

fulminat Euphraten bello uictorque uolentis

per populos dat iura uiamque adfectas Olympo.

[…] mentre il grande Cesare all’Eufrate profondo fulmina in guerra e vincitore governa sui popoli consenzienti, e si apre la strada all’Olimpo.

Il princeps garantisce le condizioni di sicurezza e di prosperità entro cui il mondo dei contadini possa ritrovare la sua continuità di vita. Per questo tipo di cornice ideologica, le Georgiche si possono considerare il primo vero documento della letteratura latina dell’età augustea. Il primo proemio ne è un chiaro esempio: vi compare – con netta frattura verso la tradizione politica romana – la figura del princeps come monarca divinizzato, sviluppo esplicito di una tradizione ellenistica che tanto aveva faticato per affermarsi a Roma. Il principe Augusto, e accanto a lui il suo consigliere Mecenate, sono accolti nell’opera non solo come illustri dedicatari (il Memmio di Lucrezio), ma anche come veri e propri “ispiratori”. Il ruolo del destinatario della comunicazione didattica è assegnato invece alla figura collettiva dell’agricola. Ma dietro a questo destinatario, assorbito nel testo come orientamento didascalico, si profila invece il destinatario “reale” dell’opera: un pubblico che conosce la vita delle città e le sue crisi. Rivolto formalmente alla vita campestre, il poema finisce per affrontare di scorcio anche i problemi della vita urbana e quelli del vivere.

Ottaviano Augusto. Statua equestre (frammento) con paludamentum e parazonium, bronzo, I sec. a.C. dalle acque egee fra Eubea e Agios Efstratios. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

È abbastanza difficile credere che le Georgiche siano direttamente ispirate da un “programma augusteo” di risanamento del mondo rurale. Se mai un tale proposito fu concepito in quegli anni, non ha lasciato impronta di sé nella storia economica; per di più, l’immagine dell’economia rurale che traspare dal poema è un’idealizzata costruzione regressiva, inadeguata alla realtà del tempo. L’eroe del poema, se così si può dire, è il piccolo proprietario terriero, il coltivatore diretto; Virgilio dà al massimo pallidi accenni per le grandi trasformazioni in corso: l’estensione del latifondo, lo spopolamento delle campagne, le assegnazione di terre ai veterani, il trasferimento di certe produzioni dall’Italia alle province. Più notevole ancora è la mancanza di qualsiasi accenno al lavoro servile, vero cardine dell’economia contadina antica. L’idealizzazione del colonus che si incarna, per esempio, nella figura del senex Corycius (un vecchio giardiniere che con sapienza e tenacia ha fatto del proprio orticello un paradiso di produttività e bellezza, realizzando un ideale di perfetta autosufficienza) ha, evidentemente, un puro significato morale.

Più facile è da cogliere, a questo livello, precise convergenze tra Virgilio e la propaganda ideologica augustea. Per esempio, l’esaltazione delle tradizioni dell’Italia contadina e guerriera, sentita come mondo unitario, ha come fondo il clima della guerra contro Antonio; la factio di Ottaviano la presentava come uno scontro fra Occidente e Oriente, sostenuto dalla spontanea concordia dell’Italia che riconosceva in Ottaviano il proprio capo carismatico. Queste coordinate ideologiche producono un’esaltazione specificamente “georgica” della Penisola, di cui vengono incensate, oltre alle qualità morali dei suoi abitanti, anche la fecondità, la salubrità climatica, la perfezione ambientale per la vita umana: si tratta della formulazione più memorabile della topica della Laus Italiae. Tuttavia, non va trascurata l’autonomia con cui Virgilio rielabora questo patrimonio di idee. Il contributo personale di Virgilio al “mito nazionale” dell’unità italica dev’essere stato molto sensibile. La cosiddetta ideologia augustea non è solo un apparato preformato, che il poeta si limita a rispecchiare, ma è anche, in certa misura, il risultato di singoli apporti intellettuali.

Caserma con soldati e processione. Mosaico, I sec. a.C. ca. dal «Mosaico con scena nilotica». Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.

L’Eneide

Nella cultura augustea era forte l’aspettativa di un nuovo epos e probabilmente ciò che i contemporanei si attendevano da Virgilio era una nuova Cesareide, dedicata alle imprese di Augusto. Del resto, il poeta stesso, nel «proemio al mezzo» delle Georgiche (il proemio, cioè, collocato alla metà esatta dell’opera, in questo caso all’inizio del III libro), si dice intenzionato «a cantare le battaglie infiammate di Cesare e a trasmetterne il nome, con l’aiuto della fama, per tanti anni quanti ne dista da Titonoo, sua più lontana origine, Cesare» (mox tamen ardentis accingar dicere pugnas / Caesaris et nomen fama tot ferre per annos, / Tithoni prima quot abest ab origine Caesar, Georg. III 46-48). Comporre un poema epico di argomento storico significava porsi nel solco degli Annales di Ennio, richiamarsi a una tradizione che, per quanto avversata dai poetae novi, non si era mai estinta del tutto. Invece, il nuovo poema epico di Virgilio, l’Eneide, offrì al pubblico romano qualcosa di completamente inatteso.

In realtà, la nuova epica virgiliana non si proponeva di continuare Ennio, ma di “sostituirlo”, ed era perciò inevitabile un confronto diretto con Omero. Secondo i grammatici antichi, l’intenzione dell’Eneide sarebbe stata duplice: imitare Omero e lodare il principe ab origine. Un primo sguardo all’opera mostra che si tratta di una semplificazione ragionevole.

I dodici libri virgiliani sono anzitutto concepiti come una risposta ai quarantotto libri dei due poemi omerici. I primi sei dell’Eneide raccontano il travagliato viaggio di Enea da Cartagine alle sponde del Lazio, con una retrospettiva sulle vicende che avevano portato l’eroe da Troia all’Africa. Con l’inizio del VII libro i Teucri sono ormai giunti alla foce del Tevere, luogo assegnato dal Fato, e comincia la narrazione di una guerra (VII 42: dicam acies) che si concluderà solo con la morte di Turno all’ultimo verso del libro XII. Perciò, si usa parlare di una metà “odissiaca” dell’Eneide (libri I-VI) e di una metà “iliadica” (libri VII-XII). Si vuole allude con questo a una grande partizione strutturale, senza dubbio voluta dall’autore: non per questo mancheranno singoli influssi dell’Odissea sulla parte conclusiva del poema, o dell’Iliade in quella iniziale, ma, se si guarda alle grandi linee del progetto virgiliano, la scelta di fondo è chiara.

L’Iliade narra le vicende che portano alla distruzione di una città; l’Odissea racconta, facendo seguito a questa guerra, il ritorno a casa di uno dei distruttori. Queste storie epiche, queste fabulae, si ripresentano in Virgilio in sequenza rovesciata: prima i viaggi, poi la guerra; ma questo comporta anche un’inversione dei contenuti. Il viaggio di Enea non è un ritorno a casa come quello di Odisseo, bensì un viaggio verso l’ignoto. La guerra che Enea conduce non serve a distruggere una città, ma a costruirne una nuova. Questa complessa trasformazione dei modelli omerici non ha precedenti nella poesia antica. Già Apollonio Rodio, in certa misura, aveva “contaminato” sequenze narrative tratte da ambedue i poemi omerici, e sembra di capire che il Bellum Poenicum di Nevio si ispirasse all’Odissea per il viaggio di Enea e all’Iliade per le narrazioni belliche: ma si tratta solo di spunti lontani.

Si potrebbe distinguere, per comodità, diversi livelli nel rapporto di trasformazione. L’Eneide è anzitutto, come si è visto, una particolare contaminazione dei due poemi omerici. In secondo luogo, vi è anche una continuazione di Omero. Infatti, le imprese di Enea fanno seguito all’Iliade (il II libro virgiliano racconta l’ultima notte di Troia, che nell’Iliade era soltanto profeticamente intravista) e si riallacciano all’Odissea (nel III libro Enea segue in parte la traccia delle avventure di Odisseo, affrontando pericoli che l’eroe greco ha già attraversato). In questo senso, Virgilio riprende l’esperienza dell’epos ciclico: la catena di narrazioni epiche che “integravano” la poesia di Omero in una sorta di continuum.

C. Giulio Cesare. Africa, Denario 47-46 a.C. Ar. 3, 84 g. Recto: Caesar. Enea stante, verso sinistra, recante il palladium e il padre Anchise sulle spalle.

In terzo luogo, l’Eneide racchiude in sé una sorta di ripetizione dell’epica arcaica. Per esempio, la guerra nel Lazio è spesso vista come una ripetizione della guerra troiana, ma non si tratta certamente di un rispecchiamento passivo: all’inizio, infatti, i Troiani si trovano assediati, e vicini alla sconfitta, come se fossero condannati al loro destino. Alla fine, però, sono vincitori ed Enea uccide il capo avversario, Turno, come Achille elimina Ettore: nella nuova Iliade i Troiani sono i vincitori. Ma si vede bene che la ripetizione è anche un superamento del modello: la guerra, pur attraverso lutti e sofferenze, porterà non alla distruzione, bensì alla fondazione di una nuova unità. Alla fine, Enea riassume in sé l’immagine di Achille vincitore e, soprattutto, quella di Odisseo, che dopo tante prove conquista la patria restaurando la pace.

Questo, dunque, riporta all’altra intenzione di Virgilio: lodare Augusto ab origine. Il poema si distacca dal presente augusteo per una distanza quasi siderale: gli antichi ponevano un intervallo di circa quattro secoli fra la distruzione di Troia e la fondazione dell’Urbe. Gli eventi dell’Eneide sono intesi come “storici”, ma non si tratta, tecnicamente parlando, neppure di storia romana: i lettori contemporanei di Virgilio si trovano immersi in un mondo “omerico”, a una distanza leggendaria di più di un millennio dal presente tanto familiare.

Questo spostamento consentiva a Virgilio di guardare il tempo di Augusto da lontano: un po’ come nelle Georgiche lo spostamento verso il mondo senza storia della campagna permetteva al poeta una prospettiva più ampia e distaccata; inoltre, l’Eneide è attraversata da scorci profetici che conferiscono alla storia un orientamento “augusteo”, ma non per questo cessa di essere omerica. Sono tali le tecniche narrative che permettono all’autore di guardare da lontano la Roma contemporanea. Nell’Iliade Zeus profetizzava il destino degli eroi e la distruzione di Troia; nell’Eneide (I 257-296) Giove traguarda non solo il destino del protagonista ma anche la futura grandezza di Augusto che riporterà finalmente l’età dell’oro; nell’Odissea l’eroe scendeva nell’Ade e otteneva così un’anticipazione del proprio destino; nell’Eneide il protagonista apprende dal regno infernale non solo il suo personale futuro, ma anche i grandi momenti della storia di Roma (VI 756-886). Nell’Iliade, poema della forza guerriera, la descrizione dello scudo di Achille introduce una sorta di visione cosmica (scene naturali, immagini di città); nell’Eneide la descrizione dello scudo di Enea (VIII 626-728) è finalizzata all’immagine della città di Roma, colta nei momenti critici del suo sviluppo storico. Si sperimenta così un difficile equilibrio fra la tradizione dell’epos eroico e il bisogno di un’epica storico-celebrativa.

Enea fugge da Troia. Rilievo, marmo locale, I sec. d.C., dal Sebasteion di Afrodisia.

Il momento di sintesi fra dimensione omerica e dimensione augustea, dunque, fu offerto a Virgilio da una vecchia leggenda: l’Italia antica conosceva una serie di «leggende di fondazione» collegate alla guerra di Troia, in cui eroi di parte greca e di parte troiana, sbandati o esuli, sarebbero stati i fondatori (o i colonizzatori) di località italiche. Fra queste storie, in un lungo processo esteso fra il IV e il II secolo a.C., acquistò particolare prestigio la leggenda di Enea. Questi era in Omero un importante, ma non centrale, eroe teucro: la sua casata sembra destinata a regnare su Ilio dopo l’estinzione dei Priamidi (Il. XX 307 ss.). In seguito, invece, divenne popolare, anche nell’arte figurativa, la fuga di Enea da Troia in fiamme, con il padre Anchise sulle spalle. Si stabilì ben presto un collegamento con il Lazio antico: da un lato, lavorava in questo senso una tradizione letteraria greca, dall’altro (come hanno rivelato recenti scoperte archeologiche) il culto di Enea come eroe ecista è attestato a Lavinium, a sud di Roma, sin dal IV secolo.

Non sembra che Enea sia mai stato considerato il fondatore di Roma, né che avesse un particolare culto in età arcaica. Tra il II e il I secolo a.C., però, la sua figura acquistò crescente fortuna fra i Romani. Le motivazioni sono politiche e non facili da districare: anzitutto, il mito dell’origine troiana dei Romani ne traeva sostegno, dato che il più nobile eroe scampato alla catastrofe sarebbe stato connesso, per via genealogica, a Romolo, il fondatore dell’Urbe. Questo permetteva alla cultura quiritaria di rivendicare una sorta di autonoma parità con quella ellenica, proprio nel periodo in cui la città acquistava l’egemonia sul Mediterraneo. I Troiani erano consacrati dal mito omerico come grandi antagonisti dei Greci; da Roma sarebbe nata la loro rivincita (anche la terza grande potenza mediterranea, Cartagine, venne opportunamente ricollegata alla leggenda eneadica tramite la regina Didone): così Roma legittimava il proprio potere attraverso uno sfondo storico-leggendario profondissimo.

Un secondo fattore di popolarità di Enea dipende da una circostanza politica interna. Attraverso la figura del figlio Iulo Ascanio, una nobile casata romana, la gens Iulia, rivendicava per sé nobilissime origini: un esponente di questo clan, Gaio Giulio Cesare, e più tardi il suo figlio adottivo, Gaio Ottaviano, si trovarono successivamente a governare l’Impero mondiale di Roma. Ed è qui che venne a saldarsi il cerchio tra Virgilio, Augusto e l’epica eroica.

Ottaviano Augusto in nudità eroica. Statua, marmo, I sec. d.C. ca. Arlés, Musée Departemental Arles Antique.

Da ciò che è noto sulle fonti storico-antiquarie usate da Virgilio, risulta chiaro che il poeta avesse profondamente ristrutturato i dati tradizionali sull’arrivo di Enea nel Lazio; le variabili notizie su un conflitto con gli abitanti autoctoni o con parte di essi, seguita poi da un foedus, sono state rifuse in un’unica sequenza di guerra, chiusa da una storica riconciliazione. Il conflitto è stato rappresentato dal poeta come scontro fra Troiani e Latini: questi ultimi coalizzati con diverse tribù limitrofe (che vantavano significativamente ascendenze grecaniche); i primi, invece, con gli Etruschi e con una piccola popolazione greca stanziata sul suolo della futura Roma.

Nello sforzo di creare una vera epica nazionale romana, Virgilio muove nello spazio delle origini tutte le grandi forze da cui sarebbe nata l’Italia del suo tempo. Nessun popolo è radicalmente escluso da un contributo positivo alla genesi dell’Urbe: gli stessi Latini, dopo molti sacrifici, si sarebbero riconciliati, formando il nerbo di un nuovo popolo; la grande potenza etrusca, estesa dalla Mantova di Virgilio sino al Tevere, si vede riconoscere un ruolo costruttivo; persino i Greci, tradizionali avversari dei Teucri, forniscono un decisivo alleato, l’arcade Pallante, e soprattutto si presentano come la più nobile “preistoria” di Roma.

L’Eneide è perciò un’opera di denso significato storico e politico, ma non è un poema storico: il taglio dei contenuti è dettato da una selezione “drammaturgica” del materiale, che ricorda più Omero che Ennio. Nonostante le aspettative create dal titolo, l’opera non traccia nemmeno un quadro completo della biografia del suo protagonista: lo si lascia ancor prima che possa aver assaporato il suo trionfo e non è neppure dato sapere se fosse vissuto ancora a lungo; ciononostante il suo destino di eroe divinizzato si intravede solo di scorcio.

Lo scudo di Enea (Verg. Aen. VIII). Illustrazione di I. Andrew.

L’Eneide è la storia di una missione voluta dal Fato, che renderà possibile la fondazione di Roma e la sua salvazione per mano di Augusto. Il poeta si fa garante e portavoce di questo progetto e focalizza il suo racconto su Enea, il portatore di questa missione fatale. In questo senso, Virgilio si assume in pieno l’eredità dell’epos storico romano: il suo poema è un’epica “nazionale”, in cui una collettività deve rispecchiarsi e sentirsi unita. Eppure, l’Eneide non si esaurisce in questi intenti.

Sotto la linea “oggettiva” voluta dal Fato si muovono personaggi in contrasto fra loro; la narrazione si adatta a contemplarne le ragioni in conflitto. I loro sentimenti (non solo di quelli “positivi”, come Enea) sono costantemente in primo piano. Si consideri, per esempio, il caso di Didone. La cultura romana nell’età delle conquiste rappresentava le guerre puniche come uno scontro fra diversi: l’identità romana si fondava sulla grande opposizione a Cartagine, un nemico infido, crudele, amante del lusso, dedito a riti perversi. Per Virgilio, invece, la guerra con Cartagine non sarebbe nata da una differenza: riportata al tempo delle origini, la guerra sarebbe sorta da un eccessivo e tragico amore fra simili. Didone è vinta dal desiderio (come lo sarà Cartagine), ma il testo accoglie in sé le sue ragioni e le tramanda. Simile è anche il caso di Turno: la guerra che Enea conduce nel Lazio non è vista come un sacrificio necessario; i popoli divisi dai contrasti sono fin dall’inizio sostanzialmente simili e vicini fra loro (per sottolineare questo punto, l’autore arriva a sostenere che i Troiani, attraverso il progenitore Dardano, avrebbero lontane origini italiche!). Il conflitto è un tragico errore voluto da potenze demoniache, in sostanza (ed è questo un tema martellante nell’Eneide prima ancora della poesia neroniana e flavia) una guerra fratricida. L’uccisione di Turno, preparata dalla caduta di Pallante, appare necessaria, ma il poeta non fa nulla per rendere facile questa scelta. Turno è disarmato, ferito e chiede pietà. Enea ha imparato da suo padre (libro VI) a battere i superbi e a risparmiare chi si assoggetta: Turno è un guerriero superbo, ma ora è anche subiectus. La scelta è difficile: Enea uccide solo perché, in quell’istante cruciale, la vista del balteo di Pallante lo travolge in uno slancio d’ira funesta. Così, nell’ultima scena del racconto, il pio Enea assomiglia al terribile Achille che compie vendetta su Ettore, laddove l’Iliade terminava invece, come tutti sanno, con un Pelide pietoso, che si ritrova uguale al nemico Priamo.

È chiaro che Virgilio chiede molto ai suoi lettori: essi devono insieme apprezzare la necessità fatale della vittoria e ricordare le ragioni degli sconfitti; guardare il mondo da una prospettiva superiore (Giove, il Fato, il narratore onnisciente) e partecipare alle sofferenze degli individui; accettare insieme l’oggettività epica, che contempla dall’alto il grande ciclo provvidenziale della storia, e la soggettività tragica, che è conflitto di ragioni individuali e di verità relative (in questo Virgilio mostra di avere intimamente assimilato la lezione dei grandi tragici greci: il suo poema trae da questo influsso un grado di “apertura” problematica molto forte, che lo rende diverso da un tipico epos nazionale). Lo sviluppo della soggettività (che si può contrapporre, schematizzando molto, all’oggettività omerica) che interessa la struttura profonda, ideologica del poema virgiliano, caratterizza anche la superficie del testo, lo stile epico e la tecnica del narrare.

Francesco Solimena, Enea alla corte di Didone. Olio su tela, 1739-41 c. Napoli, Museo di Capodimonte.

La più nuova e grande qualità dello stile epico di Virgilio sta nel conciliare (com’era uso dire lo studioso tedesco Friedrich Klingner) il massimo di libertà con il massimo di ordine. Il poeta ha lavorato sul verso epico, l’esametro, portandolo insieme al massimo grado di regolarità e di flessibilità.

La ricerca neoterica aveva imposto dure restrizioni nell’uso delle cesure, nell’alternanza di dattili e di spondei, nel rapporto fra sintassi e metro. Il carme 64 di Catullo rappresenta, in questo senso, un caso eclatante: reazione estrema all’“anarchia” ritmico-verbale della poesia arcaica, reazione naturalmente innescata dalla disciplina formale degli alessandrini. Tale disciplina comportava anche degli effetti di monotonia, che diventano tanto più sensibili quanto più lungo è il testo narrativo: la collocazione delle parole è non solo artificiale ma soprattutto irrigidita (tipici gli esametri formati da due coppie attributo + sostantivo in posizione simmetrica); l’unità ritmica del verso rifiuta al suo interno nette pause di senso, con un effetto complessivo di rigidità.

Virgilio plasma il suo esametro come strumento di una narrazione lunga e continua, articolata e variata. La struttura ritmica del verso si basa su un ristretto numero di cesure principali, in configurazioni privilegiate. Si ha così quella regolarità di fondo che è indispensabile allo stile epico. Nello stesso tempo, la combinazione di cesure principali e di cesure accessorie permette una notevole varietà di sequenze. E la frase si libera da qualsiasi schiavitù nei confronti del metro.

Il periodare può essere ampio o breve, scavalcare o rispettare la coincidenza con le unità metriche. L’esametro si adatta così a una varietà di situazioni espressive: ampie e pacate descrizioni, battute concitate e patetiche. Il ritmo della narrazione è scandito dalla diversa proporzione di dattili e spondei. Dell’allitterazione, procedimento formale tipico della poesia latina arcaica, Virgilio fa uso regolato e motivato: essa sottolinea momenti patetici, collega fra loro parole-chiave, produce effetti di fonosimbolismo, richiama fra loro diversi momenti della narrazione.

Le tradizioni del genere epico richiedevano un linguaggio elevato, staccato dalla lingua d’uso. È naturale quindi che l’Eneide sia l’opera virgiliana più ricca di arcaismi e di poetismi (due categorie spesso, ma non sempre, coincidenti fra loro: poetismi non arcaici sono, per esempio, i calchi dal greco e i neologismi). Alcuni degli arcaismi sono omaggi alla maniera di Ennio, o alla forte espressività della tragedia arcaica, altri fanno parte del linguaggio letterario istituzionalizzato. Nel complesso, però, non è questo il più significativo tratto dello stile virgiliano.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Codex Vaticanus lat. 3225 (o Vergilius Vaticanus, V sec.), f. 58r. Le navi di Enea doppiano l’isola di Circe.

Un contemporaneo (citato dalla vita donatiana di Virgilio, par. 44) disse che il poeta aveva inventato una nuova κακοζηλία, un nuovo «manierismo»: «un manierismo sfuggente, né gonfio, né sottile, ma fatto di parole normali». Parole normali: una forte percentuale del lessico virgiliano consta di termini non marcatamente poetici, ma impiegati nella prosa e nella lingua d’uso quotidiana (cioè il latino parlato a Roma dalle classi colte). La novità sta nei collegamenti inediti fra le parole. Recentem caede locum, «un luogo fresco di strage»; tela exit, «esce dai (= schiva) i dardi»; frontem rugis arat, «ara la fronte di rughe»; caeso sanguine, «sangue di un ucciso»; flumen, «fiume (di lacrime, che scorrono)»; uentis dare uela, «dare le vele al vento»; lux aena, «luce di bronzo». Alcuni di questi nessi sono familiari, anche per il forte influsso di Virgilio sulla tradizione letteraria occidentale, ma dovevano colpire il lettore romano del tempo, come la rivelazione di nuove possibilità del linguaggio. Altri nessi sono più difficile da tradurre, perché forzano il senso e la sintassi: rumpit uocem (non «spezza la voce», ma «il silenzio»); eripe fugam («strappa la fuga» sul normale se eripere, «sottrarsi»). Questo tipo di elaborazione del linguaggio quotidiano non ha precedenti nella poesia latina: il pensiero corre piuttosto a Sofocle o a Euripide. La sperimentazione sintattica lavora su un lessico che sa mantenersi semplice e diretto; esso risulta, però, quasi rinnovato nei suoi effetti; le parole subiscono un processo di “straniamento” che dà rilievo e nuova percettività al loro senso contestuale.

Il nuovo stile epico sa anche piegarsi a una serie di requisiti tradizionali. La narrazione – sin da Omero – dev’essere graduale, senza vuoti intermedi, per così dire “piena”. Azioni ricorrenti e ripetute si prestano a ripetizioni verbali: epiteti stabili, “naturali”, accompagnano oggetti e personaggi quasi a fissarne il posto nel mondo. Il numero dei guerrieri e delle navi, il nome degli eroi, l’origine delle cose sono tutti elementi da catalogare con precisione. Virgilio accetta questa tradizione: l’Eneide – a differenza degli altri suoi testi – dà largo spazio a procedimenti «formulari».

La tendenza di Virgilio è conservare questi moduli e insieme caricarli di nuova sensibilità. Gli epiteti, per esempio, tendono a coinvolgere il lettore nella situazione e spesso anche nella psicologia dei personaggi che sono sulla scena. La narrazione suggerisce più di quello che dice esplicitamente. Così in Aen. I 469-471 Enea sta guardando le pitture che gli ricordano la tragica guerra di Troia e fra le scene ecco comparire il greco Diomede che compie un massacro notturno:

…niueis tentoria uelis

agnoscit lacrimans, primo quae prodita somno

Tydides multa uastabat caede cruentus.

Enea riconosce, piangendo, i nivei veli delle tende, tradite dal primo sonno, e il Tidide che molte ne devastava, insanguinato di strage.

 

Il lettore percepisce il bianco intenso delle tende solo per vederle macchiate di sangue: ma il rosso della carneficina non è detto apertamente dal testo, sta tutto nell’epiteto cruentus. E la percezione di questi dettagli accentua la partecipazione allo stato d’animo dell’eroe: tanto più intensamente quanto più il lettore deve collaborare, esplicitare gli accenni, integrare gli spazi vuoti.

Caratteristica fondamentale dello stile epico virgiliano è, dunque, l’aumento di soggettività: maggiore iniziativa viene data al lettore (che deve rispondere agli stimoli), ai personaggi (il cui punto di vista colora a tratti l’azione narrata), al narratore (che è presente a più livelli nel racconto). Questo aumento di soggettività rischierebbe di disgregare la struttura epica della narrazione se non venisse in più modi controllato. La funzione oggettivante è garantita dall’intervento dell’autore, che lascia emergere nel testo i singoli punti di vista soggettivi, ma si incarica sempre di ricomporli in un progetto unitario. Riconoscere e studiare la complessità dello stile significa, quindi, toccare la complessità stessa del discorso ideologico che prende forma nell’Eneide.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Codex Vaticanus lat. 3867 (o Vergilius Romanus, V sec.), f. 14r. Ritratto di Virgilio.

Per una bibliografia aggiornata sull’autore, si vd. il sito della Vergilian Society.

Il 𝐷𝑒 𝑎𝑔𝑟𝑖 𝑐𝑢𝑙𝑡𝑢𝑟𝑎 di Catone, il manuale del perfetto proprietario terriero

di G.B. Cᴏɴᴛᴇ, E. Pɪᴀɴᴇᴢᴢᴏʟᴀ, 𝐿𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑙𝑎𝑡𝑖𝑛𝑎. 1. 𝐿’𝑒𝑡𝑎̀ 𝑎𝑟𝑐𝑎𝑖𝑐𝑎 𝑒 𝑟𝑒𝑝𝑢𝑏𝑏𝑙𝑖𝑐𝑎𝑛𝑎, Milano 2010, 141; 35-39 (in Materiali per il docente).

A Catone risale anche il testo di prosa latina più antico che ci sia giunto per intero, il trattato De agri cultura. L’opera, formata da una prefazione e da centosettanta brevi capitoli, consiste, in gran parte, in una serie di precetti esposti in forma asciutta e schematica, anche se talora di grande efficacia, che non lascia spazio agli ornamenti letterari né alle riflessioni filosofiche sulla vita e il destino degli agricoltori, diffuse in tanta parte della successiva trattatistica agricola latina.

Nel De agri cultura Catone vuole dare una precettistica generale da applicarsi al comportamento del proprietario terriero. Questi, rappresentato secondo la tradizione nelle vesti del pater familias, deve dedicarsi all’agricoltura come all’attività più sicura e onesta, la più adatta, inoltre, a formare i buoni cittadini e i buoni soldati.

Vita rurale. Mosaico, III sec. d.C. Oudna, Villa dei Laberii. Tunis, Musée du Bardo.

Ma il tipo di proprietà che Catone descrive non è più il piccolo appezzamento di terra, la piccola tenuta a conduzione familiare che era la più diffusa forma di insediamento sul suolo in età antico-repubblicana, né ci troviamo di fronte a una bonaria civiltà agricola patriarcale. Da alcuni passi traspare la brutalità dello sfruttamento servile: Catone raccomanda di vendere come un ferrovecchio il servo anziano o malato, e perciò inabile al lavoro. L’attività agricola è ormai un’impresa su vasta scala: il proprietario dovrà avere grandi magazzini – raccomanda l’autore – in cui tenere depositata la merce in attesa del rialzo dei prezzi, dovrà acquistare il meno possibile e vendere il più possibile.

Si colgono qui, nelle loro elementari radici, i tratti salienti dell’etica catoniana, che sono più gli stessi che la riflessione tardo repubblicana indicherà come costitutivi del mos maiorum: virtù come parsimonia, duritia, industria, il disprezzo per le ricchezze e la resistenza alla seduzione dei piaceri mostrano come il rigore catoniano non sia la saggezza pratica del contadino incorrotto e ingenuo, ma rappresenti il risvolto ideologico di un’esistenza genuinamente pragmatica; insomma, trarre dall’agricoltura vantaggi economici, anzi accrescere la produttività del lavoro servile a essa applicato. Lo stile dell’opera è scarno, ma colorito da espressioni di saggezza popolare e campagnola che volentieri si esprimono in formulazioni proverbiali.

Vita campestre. Mosaico, IV sec. d.C. da Ostia. Detroit, Institute of Arts.

Catone, dunque, è passato alla storia come il paladino del mos maiorum e l’inflessibile difensore della tradizione, contro tutte le spinte al rinnovamento e all’ammorbidimento dei costumi presenti nella società romana a lui contemporanea (e incarnate principalmente da quegli intellettuali che facevano capo alla cerchia degli Scipiones). Se una visione eccessivamente rigida del suo conservatorismo rischia di travisare la corretta interpretazione del pensiero di Catone (nel quale una certa apertura, per esempio verso la cultura greca, fu indubbiamente presente), è comunque pur vero che la sua figura e la sua opera restano l’espressione massima della difesa dei valori morali tradizionali. Questo vale anche per il De agri cultura, nel quale, al di là dell’intento precettistico, emerge una visione ideologica dell’agricoltura (tradizionale e sana attività dell’uomo romano) come l’unica forma di guadagno degna e onesta, attraverso la quale l’aristocrazia romana può mantenersi fedele a quegli ideali etico-politici che costituiscono il fondamento stesso del suo potere. La praefatio rappresenta il manifesto ideologico del vir bonus colendi peritus, cioè del proprietario agricoltore, che per Catone è il cittadino esemplare e il principio di stabilità della res publica. L’utilità e la sicurezza economiche della produzione agricola diretta, contrapposta alle attività affaristiche, si fondono con l’utilità e la stabilità sociali della piccola e media proprietà rurale, fondamento dello Stato e garanzia di conservazione dei valori trasmetti dal mos maiorum.

 

[1] Est interdum praestare mercaturis rem quaerere, nisi tam periculosum sit, et item fenerari, si tam honestum sit. Maiores nostri sic habuerunt et ita in legibus posiuerunt, furem dupli condemnari, feneratorem quadrupli: quanto peiorem ciuem existimauerint feneratorem quam furem, hinc licet existimare. [2] Et uirum bonum cum laudabant, ita laudabant bonum agricolam bonumque colonum. Amplissime laudari existimabantur qui ita laudabantur. [3] Mercatorem autem strenuum studiosumque rei quaerendae existimo, uerum ut supra dixi, periculosum et calamitosum. At ex agricolis et uiri fortissimi et milites strenuissimi gignuntur, maximeque pius quaestus stabilissimusque consequitur minimeque inuidiosus, minimeque male cogitantes sunt qui in eo studio occupati sunt.

[1] Talora può essere preferibile cercare fortuna nei commerci, se non fosse tanto pericoloso, e anche prestare a usura, se la cosa fosse altrettanto onorevole. I nostri antenati così ritennero e così stabilirono le leggi, che il ladro fosse condannato al doppio, l’usuraio al quadruplo; da qui si può capire quanto peggiore cittadino considerassero l’usuraio rispetto al ladro. [2] E per lodare un uomo degno, lo lodavano così: buon agricoltore, buon colono; chi così veniva lodato, si pensava che avesse ricevuto la massima lode. [3] Il mercante, poi, io lo stimo un uomo attivo e teso alla ricerca del guadagno, anche se, come ho detto prima, è esposto al pericolo e alle disgrazie; [4] ma dagli agricoltori derivano gli uomini più forti e i soldati più valorosi, e nell’agricoltura si consegue un guadagno del tutto onesto, saldissimo e per niente esposto all’invidia, e coloro che sono occupati in questa attività sono il meno soggetti a pensar male.

 

Scena di mercato e di dissodamento del terreno. Rilievo, calcare, III sec. Arlon, Musée Luxembourgeois.

 

L’autore contrappone qui l’agricoltura a due altre possibili forme di guadagno, il commercio e l’usura; se nei confronti dell’usura la condanna, di carattere morale, è totale (egli, rifacendosi probabilmente alla legislazione delle XII Tavole ricorda come per l’usuraio fosse prevista una pena doppia rispetto a quella del ladro), Catone mostra invece una certa apertura nei confronti della mercatura (da intendere prevalentemente come commercio marittimo), un’attività che, con l’ampliarsi delle conquiste romane, stava prendendo sempre più piede e alla quale, probabilmente, lo stesso Catone si dedicò; egli definisce infatti il mercator strenuus studiosusque rei quaerendae, e la sua unica riserva sta nella pericolosità di tale forma di commercio, esposto continuamente ai rischi della sorte. Ma anche l’attività mercantile deve comunque, nell’ottica catoniana, cedere il passo all’agricoltura, il cui elogio è condotto dall’autore sia su basi economiche (essa è quaestus stabilissimus, la forma di guadagno più stabile e sicura), ma anche, e soprattutto, morali: la coltivazione dei campi è l’attività più onesta (nell’epiteto pius si coglie addirittura una sfumatura sacrale!) e meno esposta all’invidia, la base della potenza romana (in quanto è proprio dal ceto agricolo che provengono quei viri fortissimi e milites strenuissimi che hanno fondato il dominio dell’Urbe). Rifacendosi al giudizio dei maiores, Catone celebra l’agricoltura come l’unica attività in grado di formare a 360° il buon cittadino romano; nell’identificazione tout-court del vir bonus con il bonus agricola e bonus colonus (che richiama ovviamente la celebre massima vir bonus colendi peritus) sta il fulcro dell’ideologia catoniana.

La prefatio dell’opera, inoltre, è caratterizzata da una struttura retorica piuttosto elaborata. Certamente l’autore fa ricorso ai mezzi stilistici relativamente semplici della prosa arcaica, che ancora non ha raggiunto il livello di “maturità” dell’età cesariana e augustea. Fra i tratti stilistici arcaici, poi superati nel corso dello sviluppo della prosa latina, è qui particolarmente evidente la tendenza alla ripetizione, come risulta dai seguenti esempi: fenerari… feneratorem… feneratorem; existimarente… existimare… existimabatur… existimo; bonum… bonum… bonum; laudabant… laudabant… laudari… laudabatur; minime… minime.

La cura stilistica del passo si rivela nell’attenta costruzione in cola paralleli di alcune frasi (per esempio, nel periodo di apertura: mercaturis rem quaerere, nisi tam periculosum sit, et item fenerari, si tam honestum sit; oppure, al par. 4, la sequenza ternaria maximeque pius… stabilissimusque… minimeque invidiosus, con il superlativo al centro fra due aggettivi modificati dagli avverbi in antitesi, maxime e minime) e nella presenza di iterazioni sinonimiche (bonum agricolam bonumque colonum; strenuum studiosumque; periculosum et calamitosum; et viri fortissimi et milites strenuissimi, con omoteleuto). Molto efficace è anche il ricorso a effetti di suono e in particolare all’omoteleuto (cioè la coincidenza nei suoni finali di due parole o cola contigui), che costituisce la vera e propria marca stilistica del passo (sic habuerunt et ita… posiverunt; peiorem civem… feneratorem… furem; quom laudabant, ita laudabant; existimabatur qui ita laudabatur; male cogitantes sunt qui… occupati sunt).

Scena di vendita e trasporto delle merci. Rilievo, calcare, III sec. Arlon, Musée Luxembourgeois.

Dopo aver dispensato consigli sull’acquisto del podere, ecco l’insediamento del nuovo padrone: i compiti  (officia) del pater familias, minutamente illustrati, lasciano trasparire, al di là della concretezza pratica, la loro portata ideologica (Agr. 2):

 

[1] Pater familias, ubi ad uillam uenit, ubi larem familiarem salutauit, fundum eodem die, si potest, circumeat; si non eodem die, at postridie. Ubi cognouit quo modo fundus cultus siet, opera quaeque facta infectaque sie‹n›t, postridie eius diei uilicum uocet, roget quid operis siet factum, quid restet, satisne temperi opera sient confecta, possitne quae reliqua sient conficere, et quid factum uini, frumenti aliarumque rerum omnium. [2] Ubi ea cognouit, rationem inire oportet operarum, dierum. Si ei opus non apparet, dicit uilicus sedulo se fecisse, seruos non ualuisse, tempestates malas fuisse, seruos aufugisse, opus publicum effecisse. Ubi eas aliasque causas multas dixit, ad rationem operum operarumque reuoca. [3] Cum tempestates pluuiae fuerint, quae opera per imbrem fieri potuerint: dolia lauari, picari, uillam purgari, frumentum transferri, stercus foras efferri, stercilinum fieri, semen purgari, funes sarciri, nouos fieri, centones, cuculiones familiam oportuisse sibi sarcire; [4] per ferias potuisse fossas ueteres tergeri, uiam publicam muniri, uepres recidi, hortum fodiri, pratum purgari, uirgas uinciri, spinas runcari, expinsi far, munditias fieri; cum serui ‹a›egrotarint, cibaria tanta dari non oportuisse. [5] Ubi cognita aequo animo sient qua[u]e reliqua opera sient, curari uti perficiantur. Rationes putare argentariam, frumentariam, pabuli causa quae parata sunt; rationem uinariam, oleariam, quid uenierit, quid exactum siet, quid reliquum siet, quid siet quod ueneat; quae satis accipiunda sient, satis accipiantur; [6] reliqua quae sient, uti compareant. Si quid desit in annum, uti paretur; quae supersint, uti ueneant; quae opus sient locato, locentur; quae opera fieri uelit et quae locari uelit, uti imperet et ea scripta relinquat. Pecus consideret. [7] Auctionem uti faciat: uendat oleum, si pretium habeat; uinum, frumentum quod supersit, uendat; boues uetulos, armenta delicula, oues deliculas, lanam, pelles, plostrum uetus, ferramenta uetera, seruum senem, seruum morbosum, et si quid aliud supersit, uendat. Patrem familias uendacem, non emacem esse oportet.

 

[1] Quando il padrone di casa si reca alla fattoria, dopo aver reso omaggio al lare familiare, faccia il giro del fondo il giorno stesso, se è possibile, altrimenti il giorno successivo. Dopo aver verificato in che modo il terreno sia stato coltivato e quali lavori siano stati compiuti e quali siano stati omessi, il giorno successivo convochi il fattore e chieda quanto lavoro sia stato fatto, quanto ne rimanga, se i lavori siano stati effettuati in tempo, se possano essere portati a termine quelli che restano, e quale quantità si sia raccolta di vino, di grano e di tutti gli altri prodotti. [2] Una volta appurato tutto ciò, deve fare il conto degli operai e delle giornate lavorative. Se il conto del lavoro non gli torna e il fattore sostiene di aver lavorato onestamente per la sua parte, ma che alcuni servi hanno avuto problemi di salute, che il tempo è stato inclemente, che alcuni servi sono scappati, che egli ha dovuto lavorare per conto dello Stato, quando dunque il fattore avrà addotto questi e molti altri motivi a giustificazione, riportarlo al conto dei lavori e degli operai. [3] Nel caso di tempo piovoso, nei momenti di pioggia avrebbe potuto compiersi i seguenti lavori: lavare le botti, spalmarle con la pece, far la pulizia della fattoria, cambiare di posto il grano, portar fuori il letame e ammucchiarlo, mondare le sementi, riparare le corde e farne di nuove; inoltre, sarebbe stato necessario che i servi si aggiustassero le coperte e i mantelli a cappuccio. [4] Nei giorni festivi si sarebbe potuto ripulire le vecchie fosse, provvedere alla manutenzione della strada pubblica, tagliare gli sterpi, zappare l’orto, ripulire il prato, legare le ramaglie, roncare le spine, pestare il farro, far le pulizie generali; in caso di malattia dei servi, non si sarebbe dovuto dar loro porzioni tanto abbondanti. [5] Quando si sarà esaminato con animo sereno quali lavori restino da fare, bisogna farli effettuare; fare il conto del denaro liquido, del grano, di ciò che è stato preparato per il foraggio; fare il conto del vino e dell’olio, che cosa si sia venduto, che cosa si sia riscosso e che cosa ci sia ancora da riscuotere, che cosa ci sia da vendere; se ci sono garanzie affidabili da accettare, le si accettino; si mettano in evidenza le rimanenze. [6] Se manca alcunché per completare l’annata, lo si compri; ciò che avanza, lo si venda; i lavori che è bene dare a cottimo, vengano dati a cottimo; il padrone dia ordine – e lo ponga per iscritto –, quali lavori voglia che si effettuino direttamente e quali voglia che si diano a cottimo. Esamini il bestiame. [7] Faccia una vendita all’asta: venda l’olio, se ha buon prezzo sul mercato; venda il vino e il grano che abbia in eccedenza; venda i buoi vecchi, i capi di bestiame malandati, le pecore malandate, la lana, le pelli, i carri vecchi, gli attrezzi ormai logori, i servi anziani e quelli ammalati, tutto ciò che c’è di superfluo. Il padrone di casa deve essere sempre pronto a vendere, non comprare.

 

Villa romana. Mosaico, IV sec. d.C. Villa di Julius. Tunis, Musée du Bardo.

Nel definire i compiti del proprietario, Catone traccia il profilo ideale del pater familias secondo i canoni etici della tradizione arcaica: sue prerogative sono la pietas, la devozione religiosa che lo spinge appena giunto alla fattoria a rendere omaggio al lare familiare; l’industria, la sollecita operosità manifestata nel recarsi personalmente (possibilmente il giorno stesso del suo arrivo) a controllare lo stato delle coltivazioni e dei lavori nella proprietà. Con cognizione di causa, il pater familias, amministratore oculato dei propri beni, potrà quindi procedere a esaminare nei dettagli il resoconto presentatogli dal fattore. Ogni giornata lavorativa deve corrispondere a un utile in termini di rendimento e di produttività. Quando le condizioni atmosferiche non consentono il lavoro nei campi, la manodopera deve comunque essere impiegata in attività alternative; così come tutta una serie di lavori di manutenzione può essere destinata ai giorni festivi. Il padrone darà a cottimo i lavori che non è possibile o vantaggioso svolgere direttamente; comprerà lo stretto necessario, venderà al miglior offerente i prodotti in eccedenza, nonché l’attrezzatura, il bestiame e i servi (che hanno statuto giuridico di res) malandati.

Pietas, industria e parsimonia appartengono al modello etico della società agraria arcaica, ma qui il pater familias non è più il padrone del piccolo podere che lavora con le proprie mani (come il dittatore Cincinnato, che abbandonò l’aratro per servire la res publica e all’aratro tornò dopo la guerra), ma un latifondista, un imprenditore a capo di un’efficiente azienda agricola. Il mos maiorum che Catone strenuamente difende mostra già evidenti segni di anacronismo rispetto alla realtà della società romana del suo tempo.

Dominus e servus. Bassorilievo, marmo, IV sec. d.C., dal sarcofago di Valerio Petroniano. Milano, Museo Archeologico.

Nell’elencare i doveri della fattoressa, moglie del contadino, Catone tratteggia l’ideale della matrona pudica e pia, riservata e parsimoniosa, completamente dedita al lavoro e alla cura della casa. Agr. 143 è un documento interessante sulla condizione femminile nell’antica Roma, che ci presenta l’immagine della donna arcaica e tradizionale, radicata nel mos maiorum e nella mentalità contadina della civiltà romana.

 

[1] Vilicae quae sunt officia curato faciat; si eam tibi dederit dominus uxorem, esto contentus; ea te metuat facito; ne nimium luxuriosa siet; vicinas aliasque mulieres quam minimum utatur neve domum neve ad sese recipiat; ad coenam ne quo eat neve ambulatrix siet; rem divinam ni faciat neve mandet qui pro ea faciat iniussu domini aut dominae: scito dominum pro tota familia rem divinam facere. [2] Munda siet: villam conversam mundeque habeat; focum purum circumversum cotidie, priusquam cubitum eat, habeat. Kal., Idibus, Nonis, festus dies cum erit, coronam in focum indat, per eosdemque dies lari familiari pro copia supplicet. Cibum tibi et familiae curet uti coctum habeat. Gallinas multas et ova uti habeat. Pira arida, sorba, ficos, uvas passas, sorba in sapa et piras et uvas in doliis et mala struthea, uvas in vinaciis et in urceis in terra obrutas et nuces Praenestinas recentes in urceo in terra obrutas habeat. Mala Scantiana in doliis et alia quae condi solent et silvatica, haec omnia quotannis diligenter uti condita habeat. Farinam bonam et far suptile sciat facere.

 

[1] Cura che la fattoressa attenda ai suoi doveri; se il padrone te l’ha data in moglie, sii contento di lei; fa’ sì che ella ti rispetti. Non sia troppo amante del lusso. Frequenti il meno possibile le vicine o altre donne e non le riceva in casa né presso di è; non vada a pranzo fuori da nessuna parte, non sia bighellona. Non faccia sacrifici agli dèi e non incarichi nessuno di farne in sua vece senz’ordine del padrone o della padrona; ricordi che i sacrifici, li fa il padrone a nome di tutti i suoi. [2] Sia pulita; tenga la fattoria ben spazzata e linda; tenga il focolare ben pulito spazzandolo tutto all’intorno ogni giorno prima di andare a dormire. Alle Calende, alle Idi, alle None, inoltre, nei giorni di festa collochi una corona sul focolare e negli stessi giorni faccia un’offerta al lare familiare, in proporzione alle disponibilità. Abbia cura di tener sempre pronto il cibo per te e per tutti i servi della casa. [3] Abbia molte galline e abbondanza di uova; abbia in dispensa pere secche, sorbe, fichi, uva passa, sorbe sotto sapa, pere, grappoli d’uva in giara, piccole cotogne, grappoli d’uva conservati in vinaccia e in orci, interrati, e noci prenestine fresche conservate in vaso, interrate; abbia, infine, diligentemente in provvista ogni anno mele scanziane in dogli e altre specie di mele adatte alla conservazione e anche specie selvatiche. Sappia preparare farina buona e semola fine.

Dea Madre con i frutti nella piega della veste. Statua, II sec. da Alesia. Alise-Sainte-Reine, Musée Alesia.

La virtù fondamentale della donna sposata era la pudicitia, a Roma divinizzata e resa oggetto del culto matronale: all’altare della dea Pudicitia in origine potevano accostarsi esclusivamente le univirae, «le matrone di specchiata castità e unite al primo e unico marito» (nulla nisi spectatae pudicitiae matrona et quae uni uiro nupta fuisset ius sacrificandi habebat, Liv. X 23, 9); un ideale di fedeltà sentita come vincolo oltre la morte. La matrona doveva essere pia (rispettosa dei propri doveri verso la famiglia e verso i suoi culti religiosi), domiseda (restava, cioè, a guardia della casa, affidata alle sue cure di economa parsimoniosa, senza andare in giro per feste e banchetti), lanifica (dedita alle opere del telaio: confezionava personalmente le vesti per sé e per gli altri membri della famiglia), votata a uno stile di vita semplice e sobrio, secondo quell’ideale di frugalitas che caratterizzava la società agraria arcaica in opposizione al lusso del modello urbano, già ampiamente diffuso ai tempi di Catone.

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Bibliografia

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