ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Il capitolo 31 della Vita Neronis si concentra sulla trattazione di uno dei vizi del principe, l’inclinazione al lusso sfrenato e allo sperpero facile di denari, e in particolare allo sfoggio di magnificenza nelle costruzioni. La prima parte del brano è dedicata alla descrizione della sontuosa dimora che Nerone si fece costruire tra Esquilino e Palatino, la Domus transitoria, che avrebbe dovuto garantire un “transito” e collegare i nuclei delle proprietà imperiali sui rispettivi colli. La casa “di passaggio” andò distrutta, insieme a mezza Roma, nel terribile incendio del luglio 64. Il disastro diede modo a Nerone di mettere in cantiere progetti urbanistici ancora più ambiziosi, certamente di pubblica utilità; ma naturalmente il principe sfruttò l’occasione per potare a compimento la costruzione del proprio palazzo, passato alla storia come Domus Aurea. La direzione dei lavori fu affidata agli architetti Severo e Celere (Tac. Ann. XV 42); è noto anche il principale decoratore, il pittore Fabullo, o Famulo: Plinio il Vecchio lo descrive come una persona di grande dignità, che dipingeva in toga perfino sulle impalcature, per rendere omaggio all’arte (Plin. NH. XXXV 120).
Lucina presenta il piccolo Adone alla dea Venere. Affresco, I sec. d.C. dalla Domus aurea di Nerone. Oxford, Ashmolean Museum.
La nuova versione della residenza imperiale è descritta da Svetonio come una città nella città, tanto sontuosa e sfarzosa da ospitare al suo interno campi e parchi, con grande varietà di flora e di fauna, e un lago tanto grande da sembrare un mare. Al suo interno Nerone fece erigere un colosso a propria immagine e somiglianza, affidandone la realizzazione allo scultore Zenodoro (cfr. Plin. NH. XXXIV 45-47): alta circa 36 metri (secondo Svetonio), 35 (secondo Plinio), la statua era nota semplicemente come “Colosso”; dopo la morte dell’imperatore (giugno 68), fu trasformata in effige del dio Sole (DCass. LXV 15, 1) e, in seguito, trasferita di fronte all’anfiteatro Flavio, facendo sì che quest’ultimo, con il tempo, prendesse il nome popolare di “Colosseo”.
Certamente, la Domus aurea non rappresentò l’unico eccesso architettonico di Nerone. Il principe, infatti, volle che fosse costruita anche un’immensa piscina coperta in cui convogliare le acque termali della città campana di Baia; alla piscina era possibile recarsi in nave direttamente dal porto di Ostia attraverso un canale scavato appositamente, abbastanza largo da consentire il transito simultaneo di due grandi imbarcazioni che procedevano in direzione opposta.
Lawrence Alma-Tadema, Scultori nell’antica Roma. Olio su rame, 1877. Kiev, Museo Chanenko.
[31.1] Non in alia re tamen damnosior quam in aedificando domum a Palatio Esquilias usque fecit, quam primo transitoriam, mox incendio absumptam restitutamque auream nominauit. de cuius spatio atque cultu suffecerit haec ret‹t›ulisse. uestibulum eius fuit, in quo colossus CXX pedum staret ipsius effigie; tanta laxitas, ut porticus triplices miliarias haberet; item stagnum maris instar, circumsaeptum aedificiis ad urbium speciem; rura insuper aruis atque uinetis et pascuis siluisque uaria, cum multitudine omnis generis pecudum ac ferarum. [2] in ceteris partibus cuncta auro lita, distincta gemmis unionumque conchis erant; cenationes laqueatae tabulis eburneis uersatilibus, ut flores, fistulatis, ut unguenta desuper spargerentur; praecipua cenationum rotunda, quae perpetuo diebus ac noctibus uice mundi circumageretur; balineae marinis et albulis fluentes aquis. eius modi domum cum absolutam dedicaret, hactenus comprobauit, ut se diceret quasi hominem tandem habitare coepisse.
[3] Praeterea incohabat piscinam a Miseno ad Auernum lacum contectam porticibusque conclusam, quo quidquid totis Bais calidarum aquarum esset conuerteretur; fossam ab Auerno Ostiam usque, ut nauibus nec tamen mari iretur, longitudinis per centum sexaginta milia, latitudinis, qua contrariae quinqueremes commearent. quorum operum perficiendorum gratia quod ubique esset custodiae in Italiam deportari, etiam scelere conuictos non nisi ad opus damnari praeceperat.
[4] Ad hunc impendiorum furorem, super fiduciam imperii, etiam spe quadam repentina immensarum et reconditarum opum impulsus est ex indicio equitis R. pro comperto pollicentis thesauros antiquissimae gazae, quos Dido regina fugiens Tyro secum extulisset, esse in Africa uastissimis specubus abditos ac posse erui paruula molientium opera.
[31.1] Tuttavia gli sperperi maggiori li fece nelle opere di costruzione. Si fece costruire una dimora che si estendeva dal Palatino all’Esquilino, che dapprima chiamò transitoria e poi, quando la fece riedificare perché era andata distrutta da un incendio, aurea. Della sua grandezza e magnificenza basterà dire questo: c’è un atrio in cui era stata eretta una statua colossale di Nerone alta centoventi piedi. Tale era l’ampiezza, che all’interno aveva porticati a tre ordini di colonne, lunghi un miglio; c’era anche un lago artificiale che sembrava un mare, circondato da edifici che formavano come delle città. Inoltre, all’interno, c’erano campi, vigne, pascoli, boschi con svariati animali, selvatici e domestici, d’ogni specie. [2] Negli altri ambienti, ogni cosa era rivestita d’oro, di gemme preziose e madreperla. Il soffitto delle sale da pranzo era a lastre d’avorio mobili e forate, cosicché vi si potessero far piovere dall’alto fiori ed essenze. Il salone principale era circolare e ruotava su sé stesso tutto il giorno e la notte, senza mai fermarsi, come la Terra. Nelle sale da pranzo scorrevano acque marine e albule. Quando Nerone inaugurò questa casa, finiti i lavori, espresse il suo compiacimento, dicendo che «finalmente, poteva cominciare ad abitare in modo degno di un uomo». [3] Intraprese anche la costruzione di una piscina coperta, cinta da porticati, da Miseno al lago d’Averno, dove far convogliare le acque termali di Baia, e un canale, dall’Averno a Ostia, per potervisi recare in nave, senza affrontare il mare aperto: sarebbe stato lungo centosessanta miglia e largo tanto da consentire il passaggio simultaneo di due quinqueremi che viaggiassero in direzione opposta. Per realizzare tali opere aveva ordinato di deportare in Italia tutti i detenuti da qualsiasi luogo si trovassero e di comminare a tutti i condannati, per qualsiasi crimine, i lavori forzati.
[4] A tale frenesia di spese fu spinto, oltre che dalla fiducia nel proprio potere, anche da una certa speranza, sorta all’improvviso, di poter scoprire immensi giacimenti sommersi, dietro rivelazione di un cavaliere romano, il quale sosteneva con certezza che le ricchezze dell’antichissimo tesoro che Didone, fuggendo da Tiro, aveva condotto con sé, erano nascoste in Africa, in enormi caverne e si potevano estrarre con pochissima fatica.
Grottesca (particolare). Affresco, c. 65-68 dalla Sala delle Maschere, Domus aurea. Roma, Parco Archeologico del Colosseo.
L’espropriazione di una parte tanto rilevante del centro urbano suscitò meraviglia e malumori da parte del popolo, che pure amava l’imperatore. Le proteste si limitarono tuttavia a bisbigli e sarcasmo. Un celebre epigramma che, a detta di Svetonio (Nero 39), circolava in quel periodo – una sorta di “pasquinata” – era il seguente: Roma domus fiet: Veios migrate, Quirites / si non et Veios occupat ista domus («Roma diventa una casa: emigrate a Veio, o Quiriti! / Sempre che questa dimora non giunga fino a Veio!»). Dopo la fine di Nerone, Vespasiano si affrettò a restituire al pubblico un patrimonio architettonico e paesaggistico di simile valore, che comunque fu in gran parte smantellato. Il lago artificiale fu ricoperto e la valletta nella quale era stato realizzato servì per la costruzione dell’anfiteatro Flavio, nei pressi del quale fu collocata la statua colossale di Nerone. Anche le terme di Traiano e il tempio di Venere (cfr. SHAHadr. 19, 12-13) sorsero sul colle Oppio, un tempo occupato dalla Domus aurea. Nel giro di quarant’anni il sito in cui sorgeva la “Casa d’Oro” fu colmato di nuovi edifici. Questo fatto rappresentò, paradossalmente, una fortuna: inglobati nelle fondamenta delle costruzioni successive, i resti dell’enorme residenza conservarono, protetti dall’umidità, i pregevoli affreschi e le decorazioni parietali (le cosiddette “grottesche”)
La Domus aurea venne alla luce incidentalmente, quando, alla fine del XV secolo, un giovane romano cadde in una fessura sul versante del colle Oppio, ritrovandosi in una delle stanze dipinte del palazzo. Le “grottesche”, costituite da ghirlande di elementi vegetali, animali e creature fantastiche, suscitarono l’interesse degli artisti del Rinascimento come Pinturicchio, Michelangelo e Raffaello, che si fecero calare nei cunicoli per poter studiare da vicino queste immagini e copiarle sui loro taccuini. Questo genere di decorazioni ebbe un impatto di straordinaria importanza sullo sviluppo dell’arte rinascimentale e successiva: dalla fine del Quattrocento alla fine del Settecento i motivi “a grottesca” furono utilizzati praticamente ovunque, diventando una specie di ossessione. Si ricordi, tanto per fare un esempio, gli stucchi delle Logge Vaticane e quelle di Villa Madama, a opera di Giovanni da Udine (1487-1564).
Achille a Sciro. Affresco, c. 65-68, dalla Domus aurea. Roma, Parco Archeologico del Colosseo.
Riferimenti bibliografici:
F.C. Albertson, Zenodorus’s “Colossus of Nero”, MAAR 46 (2001), 95-118.
M. Brunetti, Tendaggi dipinti. Le volte a padiglione della Domus Aurea e riusi nell’arte di Raffaello, AccRaff 20 (2021), 19-60.
A. Cassatella, Roma. Romus Aurea sul Palatino, JAT 8 (1998), 273-284.
A. Chastel, La Grotesque, Paris 1988.
E. Gallocchio, Tra Domus transitoria e Domus aurea. Brevi note su un notissimo opus sectile dal Palatino, in M. Bueno, C. Cecalupo, M.E. Erba, D. Massara, F. Rinaldi (eds.), Atti del XXIV Colloquio dell’A.I.S.C.M. (Este, 14-17 marzo 2018), Roma 2019, 319-330.
F. Gurgone, M. Ansaloni, Golden House of an Emperor, Archaeology 68 (2015), 37-43.
R. Hannah, G. Magli, A. Palmieri, Nero’s “Solar” Kingship and the Architecture of the Domus Aurea, Numen 63 (2016), 511-524.
D. Hemsoll, Reconstructing the Octagonal Dining Room of Nero’s Golden House, AH 32 (1989), 1-17.
J.G.F. Hind, The Middle Years of Nero’s Reign, Historia 20 (1971), 488-505.
M. Merola, L. Colantoni, Rome’s Domus Aurea, ArchDigg 2015, 10-15.
P.G.P. Meyboom, E.M. Moormann, Decoration and ideology in Nero’s Domus Aurea in Rome, APL 43-44 (2012), 131-143.
E.M. Moorman,«Vivere come un uomo». L’uso dello spazio nella Domus aurea, in M. Cima, E. La Rocca (eds.), Horti Romani. Atti del Convegno Internazionale (Roma, 4-6 maggio 1995), Roma 1998, 345-361.
Id., Nerone, Roma e la Domus Aurea, Roma 2020.
M.P.O. Morford, The Age of Nero, CO 62 (1984), 1-5.
Y. Perrin, La Domus Aurea sur l’Esquilin : l’apport des estampilles sur briques à la chronologie des vestiges, in C. Deroux (éd.), Corolla Epigraphica. Hommages au professeur Yves Burnand, Bruxelles 2011, 602-611.
Id., De la Domus Transitoria à la Domus Aurea : la fabrique néronienne de l’Oppius. Peintures et chronologie, JRA 27 (2014), 556-570.
H. Solin, R. Volpe, I graffiti della Domus aurea, Tituli 2 (1980), 81-93.
P.G. Warden, The Domus Aurea Reconsidered, JSAH 40 (1981), 271-278.
da A. BALESTRA et al. (eds.), In partes tres. 3. L’età imperiale, Bologna 2016, pp. 220-222.
All’inizio del III libro del De architectura, che apre la sezione dedicata all’architettura templare (la più nobile fra le forme di quest’arte) Vitruvio premette una riflessione sulla simmetria, osservando che gli antichi hanno fatto bene a impostare la progettazione dei templi su sistemi modulari, in quanto l’ordine cosmico risponde a criteri di simmetria che possono essere espressi con proporzioni numeriche. Il corpo umano, per esempio, ha proporzioni tanto perfette che può essere inscritto in un cerchio e in un quadrato.
[1, 1] Aedium compositio constat ex symmetria, cuius rationem diligentissime architecti tenere debent. ea autem paritur a proportione, quae graece ἀναλογία dicitur. Proportio est ratae partis membrorum in omni opere totiusque commodulatio, ex qua ratio efficitur symmetriarum. namque non potest aedis ulla sine symmetria atque proportione rationem habere compositionis, nisi uti hominis bene figurati membrorum habuerit exactam rationem. [2] corpus enim hominis ita natura composuit, uti os capitis a mento ad frontem summam et radices imas capilli esset decimae partis, item manus pansa ab articulo ad extremum medium digitum tantundem, caput a mento ad summum uerticem octauae, cum ceruicibus imis ab summo pectore ad imas radices capillorum sextae, ‹a medio pectore› ad summum uerticem quartae. ipsius autem oris altitudinis tertia est pars ab imo mento ad imas nares, nasum ab imis naribus ad finem mediûm superciliorum tantundem, ab ea fine ad imas radices capilli frons efficitur item tertiae partis. pes uero altitudinis corporis sextae, cubitum quartae, pectus item quartae. reliqua quoque membra suas habent commensus proportiones, quibus etiam antiqui pictores et statuarii nobiles usi magnas et infinitas laudes sunt adsecuti. [3] similiter uero sacrarum aedium membra ad uniuersam totius magnitudinis summam ex partibus singulis conuenientissimum debent habere commensus responsum. item corporis centrum medium naturaliter est umbilicus. namque si homo conlocatus fuerit supinus manibus et pedibus pansis circinique conlocatum centrum in umbilico eius, circumagendo rotundationem utrarumque manuum et pedum digiti linea tangentur. non minus quemadmodum schema rotundationis in corpore efficitur, item quadrata designatio in eo inuenietur. nam si a pedibus imis ad summum caput mensum erit eaque mensura relata fuerit ad manus pansas, inuenietur eadem latitudo uti altitudo, quemadmodum areae, quae ad normam sunt quadratae. [4] ergo si ita natura composuit corpus hominis, uti proportionibus membra ad summam figurationem eius respondeant, cum causa constituisse uidentur antiqui, ut etiam in operum perfectionibus singulorum membrorum ad uniuersam figurae speciem habeant commensus exactionem. igitur cum in omnibus operibus ordines traderent, maxime in aedibus deorum, ‹quod eorum› operum et laudes et culpae aeternae solent permanere.
Costruzione di un edificio sepolcrale, gru e apoteosi della defunta. Rilievo, marmo, inizio II sec. a.C. dalla Tomba degli Haterii su via Labicana (Roma). Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano.
[1, 1] La composizione dei templi risulta dalla “simmetria”, e gli architetti devono osservare in modo estremamente scrupoloso i suoi principi. Ed essa nasce dalla proporzione, che in greco è detta analoghìa[1]. La proporzione è la commensurabilità sulla base di un’unità determinata delle membrature di ogni impianto e in tutta quanta tale opera, con cui viene tradotto in atto il criterio delle relazioni modulari. E infatti non può alcun tempio avere della composizione senza “simmetria” e proporzione, se non l’ha avuto aderente al principio razionale precisamente definito proprio dalle membra di un uomo dalla bella forma[2] [2] Poiché il corpo dell’uomo è così composto per natura, che nella testa il volto dal mento alla sommità della fronte e all’attaccatura inferiore dei capelli costituisce la decima parte[3], così pure il palmo della mano dal polso all’estremità del dito medio altrettanto, la testa dal mento alla sommità del cranio l’ottava, dalla sommità del petto con la parte più bassa del collo alle radici inferiori dei capelli la sesta, dal petto alla sommità del capo la quarta. E dalla stessa altezza del volto la parte dal limite inferiore del mento a quello delle narici è la terza, il naso dal limite inferiore delle narici al tratto intermedio della linea delle sopracciglia altrettanto. Da tale linea all’inizio inferiore della chioma la fronte è resa pure la terza parte. E il piede è la sesta parte dell’altezza del corpo, il cubito[4] la quarta, il petto pure la quarta. Anche le altre membra hanno le loro proporzioni reciprocamente commensurabili, valorizzando le quali pure rinomati antichi pittori e statuari conseguirono lodi grandi e illimitate. [3] E allo stesso modo le membrature dei sacri templi devono essere assai convenientemente rispondenti per commensurabilità alla somma totale di tutta quanta la grandezza risultante dalle singole parti. Parimenti il centro in mezzo al corpo per natura è l’ombelico. E, infatti, se un uomo fosse collocato supino con le mani e i piedi distesi e il centro del compasso fosse puntato nel suo ombelico[5], descrivendo una circonferenza, le dita di entrambe le mani e dei piedi sarebbero toccate dalla linea. Analogamente come la forma della circonferenza viene istituita nel corpo, così si rinviene in esso il disegno di un quadrato. Infatti, se si misura dalle piante dei piedi alla sommità del capo e tale misura è riferita alle mani distese, si trova che pure la larghezza è come l’altezza, come le aree che sono quadrate regolari[6]. [4] Pertanto, se così la natura compose il corpo umano, che nelle proporzioni le membra rispondono alla figura generale, sembra che gli antichi con ragione abbiano disposto che anche nella realizzazione di impianti questi presentino la perfezione della “simmetria” delle singole membrature rispetto alla configurazione complessiva della figura. Pertanto, come trasmisero le regole di tutte le opere, lo fecero anche e soprattutto nell’ambito dei templi degli dèi, costruzioni delle quali sia le lodi sia le colpe sogliono permanere in eterno.
Leonardo da Vinci, Uomo vitruviano. Penna e inchiostro su carta, 1490 c. Venezia, Gallerie dell’Accademia.
Da questo passo emerge con chiarezza la convinzione, presente in tutta la cultura greca, che la bellezza sia strettamente connessa con una serie di esatte proporzioni numeriche. In particolare l’affermazione di III 1, 3, in base alla quale ogni singola parte deve avere una relazione di proporzione con l’insieme e che il centro dell’edificio (l’umbilicus) rappresenti il punto di convergenza di ciascun elemento dell’insieme, ad alcuni interpreti ha fatto pensare che qui Vitruvio abbia voluto richiamare la tendenza dell’architettura greca, in particolare di età periclea, a far gravitare lo spazio architettonico attorno a centri nevralgici nodali, grazie all’uso di moduli prestabiliti (si pensi, per esempio, al Partenone secondo il progetto di Ictino, che in molte parti rivela l’impiego del modulo del rettangolo aureo). Tale punto focale dello spazio architettonico può essere messo in relazione con il concetto di καιρός, «giusta misura», che nella cultura greca ha anche il significato pregnante di «momento giusto», ossia tempo adatto per intraprendere un’azione positiva e feconda. Il καιρός personificato, l’Occasione, era ritenuto una vera e propria divinità e, non a caso, il grande scultore Lisippo dedicò a questo dio una statua rimasta celebre per l’esattezza delle sue proporzioni.
Rappresentazione dello schema delle proporzioni (sezione aurea = 1.1,618) sul Doriforo di Policleto (Di Dio, Macaluso, Rizzolatti, 2007).
La possibilità di inserire la figura umana nel quadrato, oltre che nel cerchio, è una teoria di ascendenza pitagorica ripresa anche nell’ambito della scuola peripatetica: si tratta di una teoria particolarmente interessante perché permette all’architetto di fondare le proprie proporzioni su numeri razionali, dato che invece le misure inerenti alla circonferenza portano a numeri irrazionali. In ciò, dunque, si avverte l’eco del dibattito circa la possibilità di teorizzare una “quadratura” del cerchio, ossia di costruire un quadrato che abbia la medesima area di un cerchio dato. In un certo senso, inscrivere la figura umana nel cerchio significa sottolinearne l’irrazionalità, o meglio l’irriducibilità a proporzioni rigorosamente razionali, mentre inscriverla in un quadrato vale l’opposto.
Rappresentazione della sezione aurea applicata al Partenone.
Vitruvio adombra per l’architetto una funzione alta e importante, in quanto egli è chiamato in un certo senso a creare nel tempio un edificio che riproduca le proporzioni che regolano l’armonia dell’universo, e di cui l’uomo è espressione suprema. L’architettura come arte in sé ne risulta assai nobilitata, poiché ha una funzione di mimesi rispetto alla natura, riproducendone le perfette proporzioni. In questo senso come arte si pone sullo stesso piano della scultura e della pittura, che per vocazione sono mimesi della natura. Vitruvio, infatti, sottolinea che gli antichi maestri, che hanno rispettato le esatte proporzioni nella raffigurazione del corpo umano, hanno ottenuto la massima lode: Reliquia quoque membra suas habent commensus proportiones, quibus etiam antiqui pictores et statuarii nobiles usi magnas et infinitas laudes sunt adsecuti (III 1, 2).
Ictino, Callicrate e Fidia, Partenone. Tempio octastilo, periptero di ordine dorico, 447-438 a.C. Fronte occidentale e lato settentrionale. Atene, Acropoli.
Oltre a ciò, l’architettura, pur rimanendo una ars, in quanto arte mimetica, può essere accostata alla poesia, che era in genere ritenuta come l’espressione più nobile delle facoltà dell’ingegno dell’uomo (tanto che a essa è lecito che si dedichino anche gli uomini liberi). L’architetto, quindi, è dedito a un’attività nobile, come Vitruvio specifica con cura nella prefazione all’intera opera, e non necessita solo di conoscenze tecniche, ma ha bisogno di un sapere completo, che si fondi anche sulla filosofia, sulla storia e sulla letteratura, in maniera simile al perfetto oratore delineato da Cicerone.
***
Note al testo latino:
[1] Il termine è usato da Platone e dai matematici greci per indicare un sistema numerico nel quale siano ravvisabili relazioni ricorrenti. I retori, successivamente, impiegarono la stessa parola per esprimere la tendenza di un sistema linguistico a sottostare a leggi costanti.
[2] La concezione in base alla quale la simmetria sia fondamento dell’armonia e della bellezza ha probabilmente avuto origine nella scuola pitagorica; fu tuttavia affermato con chiarezza da Policleto, alla metà del V secolo a.C., non solo mediante le sue opere, ma anche attraverso il suo trattato sul Canone.
[3] Le misure riferite da Vitruvio risalgono innanzitutto a Policleto, di cui il Doriforo esprime le concezioni artistiche, ma ci sono influenze anche di trattatisti e artisti successivi.
[4] Letteralmente significa “gomito”, quindi indica l’intero avambraccio: è un’unità di misura greca del valore di 45 cm circa.
[5] La concezione in base alla quale l’ombelico sia il centro del corpo è assai diffusa nella cultura greca fin dalle sue origini, così come l’abitudine di avvalersi dello stesso termine per indicare il centro di qualsiasi entità spaziale: nel tempio di Apollo a Delfi, per esempio, era conservata una pietra ritenuta l’ombelico (cioè il centro) del mondo.
[6] La convinzione che il cerchio e il quadrato siano figure perfette è di origine pitagorica.
Roma si trovò a confrontarsi con i tanti popoli sparsi nei più lontani territori dell’oikoumene, il mondo abitato che gli antichi conoscevano, a partire dalla seconda metà del III secolo a.C. In seguito alla lotta contro la potenza cartaginese, infatti, la sua supremazia politica e militare cominciò a estendersi anche al di fuori dei confini naturali della penisola italiana, per continuare ad ampliarsi ancora fino al III secolo d.C., quando Settimio Severo e il figlio Caracalla furono gli ultimi imperatori a potersi fregiare del titolo di propagatores imperii[1]. I rapporti intrattenuti con le popolazioni straniere potevano essere, di volta in volta, all’insegna dell’alleanza, dell’integrazione o della sottomissione, ma le fonti che possediamo, comprese quelle greche, sono sempre concordi nel tramandare come, nei confronti delle relazioni internazionali, la posizione romana fosse costantemente improntata a una convinzione di superiorità morale e di irresistibile capacità civilizzatrice[2]. Roma, con le proprie norme e il proprio modus vivendi, finiva per sovrapporsi inevitabilmente agli altri popoli che entravano a far parte del suo immenso impero, i quali potevano in genere conservare le tradizioni e i culti aviti, ma erano comunque costretti ad adeguarsi ufficialmente alla cultura romana, soprattutto in tutti gli aspetti pubblici e sociali in cui si esprimeva il vivere civile.
Il Galata morente. Opera attribuita allo scultore ellenistico Epigono. Copia romana in marmo risalente al 230-220 a.C. ca. Conservata a Roma, Musei Capitolini.
Di questo enorme processo di assimilazione l’arte figurativa ci conserva preziose testimonianze, fondamentali per capire a fondo l’atteggiamento della civiltà romana verso i popoli con cui entrava in contatto e ai quali imponeva la propria supremazia. Poiché si tratta di un problema assai complesso, in questa sede dobbiamo limitarci a considerare un numero ristretto di esempi, senza oltrepassare il periodo delle ultime conquiste severiane, soprattutto con lo scopo di enucleare i temi fondamentali attorno ai quali ruotava l’interesse della committenza[3]. Del resto, come si avrà modo di vedere, si possono facilmente isolare alcune costanti che si ritrovano praticamente in tutti i periodi in cui si esercitò l’imperialismo romano: su queste soprattutto cercherò di attirare l’attenzione.
Possiamo prendere le mosse da due testimonianze risalenti agli anni centrali del I secolo a.C., rappresentate da due sculture conservate a Roma, famose quanto significative, i cosiddetti “Galata morente” del Museo Capitolino[4] e il “Galata suicida” della collezione Ludovisi[5], oggi nella nuova sede del Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps. Si tratta di copie marmoree di statue che in origine appartenevano a un unico monumento ellenistico, il donario in bronzo dedicato dal sovrano Attalo I sull’acropoli di Pergamo, precisamente nel santuario di Athena Nikephoros, al fine di celebrare le sue vittorie sui Galati, i Celti che, dopo avere depredato l’Asia Minore, si erano ritirati al suo interno. Secondo l’interpretazione tradizionale[6] questo ex voto, dalla datazione discussa ma comunque collocabile nel terzo quarto del III secolo a.C. o immediatamente dopo, si componeva di un podio circolare, sormontato da sculture. Al centro, fulcro di tutto l’insieme, si trovava l’originale del gruppo Ludovisi, formato da un Galata rappresentato nell’atto di togliersi la vita subito dopo avere ucciso la moglie, che giace morente ai suoi piedi; tutt’intorno vi erano invece le statue di altri quattro guerrieri galati, esanimi o agonizzanti, fra i quali l’originale della statua capitolina, raffigurante un barbaro ferito a morte, che sta per accasciarsi al suolo in mezzo alle sue armi[7]. Tali sculture costituiscono momenti importanti nello sviluppo dell’ellenismo pergameno, con la loro attenzione per momenti di elevata drammaticità, che commuovono fortemente lo spettatore. Le copie romane provengono dagli Horti Sallustiani, che prima di appartenere allo storico erano stati di proprietà di Giulio Cesare[8], il quale aveva probabilmente voluto decorare i suoi giardini urbani con queste opere perché bene si prestavano, per il loro contenuto, a ricordare le sue imprese galliche. Non è chiaro se negli Horti fosse stato ricostruito il donario di Attalo nella sua interezza, oppure se i suoi singoli componenti scultorei fossero stati disseminati in punti diversi del parco. In ogni caso possiamo vedere come, in età tardorepubblicana, una serie di raffigurazioni di stranieri vinti, desunta da un monumento pubblico in origine destinato a immortalare le imprese di un dinasta ellenistico, potesse servire anche per decorare possedimenti privati.
Il Galata suicida (o Galata ‘Ludovisi’). Attribuito a Epigono. Statua, copia in marmo, 230-220 a.C. ca. Roma, Museo Archeologico Nazionale di P.zzo Altemps.
Queste statue, in quanto copie di originali dell’Asia Minore, non possono essere considerate propriamente opere di arte romana, ma sono comunque indicative sia del gusto estetico del periodo sia dell’importanza delle esperienze ellenistiche, le quali, in questo come in molti altri casi, hanno determinato l’ingresso in Roma di iconografie in origine elaborate in un contesto differente. Non si tratta però, su suolo italico, della prima attestazione di personaggi di razza celtica nell’arte di età romana: è infatti databile ad un’epoca alquanto anteriore, vale a dire nella prima metà del II secolo a.C., un fregio in terracotta ritrovato a Civitalba, nelle Marche, e conservato in frammenti[9]. Sicuramente apparteneva ad un piccolo tempio, eretto in ricordo della battaglia di Sentino che, non lontano da lì, aveva visto i Romani sconfiggere una coalizione di Sanniti, Umbri, Etruschi e Galli Senoni, al termine della terza guerra sannitica (295 a.C.). Le scene rappresentate sono di difficile lettura, anche per la non sicura ricomposizione che si può ottenere dai frammenti superstiti, ma sembrano comunque relative al saccheggio del santuario di Delfi, dovuto a una scorreria di Galati nota alle testimonianze letterarie[10]. Lo scopo di questa scelta iconografica era naturalmente quello di fornire un prestigioso parallelo storico alle vicende belliche che avevano segnato la zona un secolo prima.
Nei monumenti pubblici del periodo augusteo, i rapporti instaurati da Roma con le popolazioni sottomesse si precisano meglio nella loro complessità, poiché vi si possono evidenziare diversi aspetti, che riflettono i differenti messaggi di volta in volta affidati alle rappresentazioni artistiche. Innanzi tutto si può prendere in esame un monumento particolarmente grandioso, in buona parte conservato, il Trophée des Alpes, elevato fra il 7 e il 6 a.C. a La Turbie, tra l’odierno Principato di Monaco e Nizza. Si tratta di un gigantesco tumulo, circondato, al di sopra di un parallelepipedo di base, da un alto colonnato che racchiudeva una serie di nicchie con i ritratti marmorei dei generali di Augusto, e coronato da una grande statua dello stesso principe, sulla sommità di un tetto conico a gradoni[11]. Alla base della struttura era murata un’epigrafe[12], che ricordava i quarantaquattro popoli alpini sottomessi da Augusto nelle guerre combattute in questa zona, negli anni 25-14 a.C. L’immagine che si offriva agli occhi non solo degli abitanti del territorio, ma anche dei viaggiatori che percorrevano la strada fra l’Italia e la penisola iberica, la via Iulia Augusta presso la quale il monumento era stato costruito, era certo delle più impressionanti: il colossale ritratto di Augusto, idealmente sostenuto da tutti i suoi ufficiali, sembrava schiacciare sotto di sé persino il ricordo delle popolazioni battute, i cui nomi erano riportati con esattezza nella lunga iscrizione dedicatoria. Manca totalmente qualsiasi rappresentazione dei nemici sconfitti, ma una soluzione così potente come quella qui concepita è sufficiente a imporre da sola tutta la terribile invincibilità del princeps. Forse la presenza di figure di nemici avrebbe potuto introdurre un elemento dialettico, capace di attenuare la dirompente valenza dimostrativa del grande trofeo[13].
Il Tropaeum Alpium (fr. Trophée des Alpes), a La Turbie (Alpes-Maritimes, Francia).
A Susa, non lontanissimo dal Trophée des Alpes, troviamo un monumento ufficiale quasi contemporaneo ma molto diverso, che riflette un atteggiamento differente nei confronti di un popolo vinto, l’Arco di Cozio. Si tratta di un arco onorario, elevato da questo personaggio, che aveva regnato sul locale popolo dei Segusii e ora finiva per riconoscere la supremazia di Roma, accettando di continuare a governare la regione non più come re, ma come praefectus civitatum[14], cioè diventando un magistrato di rango equestre. L’arco è decorato da un fregio, importante per la storia del rilievo a soggetto storico in ambito provinciale, che raffigura cerimonie pubbliche celebrate dallo stesso Cozio, vestito con la toga del cittadino, in compagnia di un generale romano[15].
Le due testimonianze appena considerate ci mostrano perciò le due facce della politica augustea verso i popoli sottomessi: da un lato la supremazia inappellabile, affermata nel Trophée des Alpes col suo formidabile valore di monito, dall’altro l’assimilazione dei vinti a Roma, come si vede sull’arco dell’ex re Cozio, che si piega a diventare un cavaliere e a governare in nome della potenza vincitrice. Le rappresentazioni di nemici sottomessi divengono peraltro uno dei topoi dell’arte ufficiale del periodo, come è attestato da un grande numero di esempi di ogni genere, dalle monete che raffigurano Parti inginocchiati, nell’atto di restituire le insegne perdute da Crasso nella battaglia di Carre[16], ai barbari immortalati nella pietra che decoravano la porticus Cai et Luci, un portico che sorgeva di fronte alla Basilica Emilia nel Foro di Roma[17]. Figure come queste ultime continueranno ad essere impiegate di frequente nei monumenti pubblici, fino all’Arco di Costantino.
In quel medesimo periodo, però, il rapporto con le genti non romane si esplicava anche attraverso un canale molto diverso, che privilegiava i legami ormai saldi degli stranieri col potere centrale, in un’oikoumene unificata dalla Pax Augusta. Di questo differente atteggiamento abbiamo numerose attestazioni, prima di tutto nel campo della letteratura, con le numerose lodi che la poesia augustea tesse della pace universale e della florida prosperità che ad essa consegue, grazie alla supremazia di Roma nel mondo[18], ma anche nuovamente nella documentazione artistica, la cui conoscenza per questo specifico aspetto, peraltro, è per noi più lacunosa e soprattutto più dipendente dalle informazioni che possono essere rintracciate nelle fonti. Sappiamo che Augusto aveva aggiunto un portico al grande complesso realizzato da Pompeo nel Campo Marzio, complesso che comprendeva un teatro, il primo edificio per spettacoli costruito in muratura a Roma (55 a.C.), e ampie aree scoperte, occupate da giardini cinti da portici e decorati da un ricco apparato scultoreo[19]. Si discute sull’interpretazione da dare a questo porticato di età augustea, noto come Porticus ad nationes, al cui interno o nelle cui immediate vicinanze erano collocate quattordici rappresentazioni di etnie straniere, che avrebbero tormentato Nerone in uno dei suoi incubi notturni: secondo il racconto di Svetonio, l’imperatore avrebbe sognato, negli ultimi anni del suo principato, di trovarsi il cammino sbarrato da questi personaggi femminili che lo circondavano, quasi rappresentassero la sua cattiva coscienza verso i territori governati[20].
C. Giulio Cesare Ottaviano Augusto. Denarius, Roma 18 a.C. AR 3, 96 gr. Emissione da parte del triumviro monetale M. Durmio. Verso: Caesar Augustus, sign(is) rece(ptis). Un guerriero partico in ginocchio rivolto a destra, nell’atto di restituire uno stendardo con vessillo iscritto.
Una serie di personificazioni doveva essere probabilmente inserita anche nell’apparato decorativo di un altro importante impianto pubblico, il nuovo Foro costruito dallo stesso Augusto accanto a quello realizzato dal padre adottivo Cesare. Le testimonianze archeologiche sono incerte in proposito, ma il ritrovamento di una base iscritta lascia pensare che anche qui le diverse popolazioni dell’impero, se non le province intese come unità amministrative, concorressero a celebrare il buon governo del principe, che aveva riportato la pace nel mondo devastato dalle guerre civili[21].
L’esaltazione dell’impero, inteso come insieme di popoli che in armonia riconoscevano l’autorità romana, è attestata non solo, come è ovvio, nella capitale, ma anche in territori molto lontani, come ad Afrodisia, nella regione microasiatica della Caria. In questa città è stato riportato alla luce un grande complesso pubblico di età giulio-claudia, noto come Sebasteion, costituito da un tempio, dedicato a Venere, al Divo Augusto e alla sua discendenza, e da una grande area scoperta circondata, su ben tre ordini, da portici ornati da bassorilievi nei parapetti degli intercolumni. Non è possibile, qui, presentare una descrizione dettagliata dell’apparato scultoreo che decorava l’impianto, ma vorrei ricordare almeno che, al piano intermedio di uno dei lati lunghi, si sviluppava una serie di personificazioni femminili di ethne, analoghe a quelle già menzionate e giunte a noi solo in parte, identificate per mezzo delle iscrizioni poste sui plinti che le sostenevano. Sul lato opposto vi erano, fra l’altro, rilievi meglio conservati che rappresentavano scene di sottomissione in chiave allegorica, come Augusto dominatore della terra e del mare, Claudio che abbatte la personificazione della Britannia e Nerone che sconfigge l’Armenia[22].
Questa trasfigurazione “mitologica” delle imprese di conquista degli imperatori giulio-claudi non deve sorprendere, dato che la propaganda ufficiale riprese in diverse occasioni miti greci, piegandoli ai propri fini. Basti pensare alla decorazione della corazza di un torso loricato di un principe sconosciuto, ma comunque giulio-claudio, ritrovata ancora a Susa, la città già nominata per l’arco di Cozio. Secondo uno schema molto utilizzato per le statue degli imperatori in abito militare, che trova il suo antecedente nella celeberrima statua di Augusto di Prima Porta[23], sono effigiati in posizione simmetrica due Arimaspi, intenti ad abbeverare due grifi[24]. Il popolo arimaspico è più volte citato nelle fonti, che lo rappresentano solitamente in lotta con questi animali favolosi, allo scopo di depredarli dell’oro che custodiscono[25]. I due barbari non sono particolarmente caratterizzati e non sembrano neppure monoftalmi, a differenza di come vengono descritti nelle testimonianze letterarie; l’abbigliamento, con berretto frigio e anaxyrides (pantaloni lunghi), li qualifica solo genericamente come “orientali”. Non è comunque difficile comprendere la ragione di questa scelta iconografica, che trasporta la politica sul piano del mito: il governo di Augusto e dei suoi immediati successori era riuscito persino a pacificare Arimaspi e grifi, tanto che i primi potevano essere ora rappresentati nell’atto di accudire i secondi.
L’imperatore Claudio, raffigurato in nudità eroica, abbatte la personificazione della Britannia. Bassorilievo, marmo, I sec. d.C. dal Sebasteion di Aphrodisias. Aphrodisias, Archaeological Museum.
Nerone, raffigurato come eroe vittorioso, sconfigge la personificazione dell’Armenia. Rilievo, marmo, I sec. d.C. dal Sebasteion di Aphrodisias. Aphrodisias Archaeological Museum.
I barbari non ancora assoggettati all’impero continueranno però ad avere un ruolo tutt’altro che marginale nell’arte ufficiale. Nel corso del II secolo d.C. si assiste, infatti, a un ritorno delle immagini belliche sui monumenti pubblici, con scene di battaglie ed episodi cruenti, che erano state abbandonate in età altoimperiale, quando la committenza aveva preferito tralasciare tali schemi iconografici, sempre di matrice ellenistica, in favore di immagini più serene[26] e di modelli appartenenti ad altri momenti della produzione artistica greca, per ragioni che qui non possiamo approfondire.
La Colonna Traiana a Roma rappresenta, lungo le ventitré spire del lungo fregio figurato che l’avvolge, le due guerre che portarono Roma alla conquista della Dacia[27]. La sequenza di immagini concede ampio spazio al nemico: i barbari daci sono rappresentati non solo nell’atto di combattere con i soldati romani nei tanti episodi di battaglia, ma anche in scene di diverso genere e di notevole effetto, come un suicidio di massa all’interno di un villaggio fortificato cinto d’assedio[28]. A proposito di scene come questa si è parlato, in passato, dell’espressione di un rispetto e di una partecipazione umana al dramma del popolo sconfitto che non troverebbero confronti in tutto il panorama dell’arte greco-romana[29]. Oggi però si tende a non sopravvalutare gli indizi che pure sembrano incoraggiare una lettura di questo tipo, forse un po’ troppo modernizzante nel suo applicare a un monumento ufficiale di età romana una sensibilità e un’attenzione per i risvolti sociali delle vicende belliche che il mondo antico non ha certamente mai avuto[30].
Suicidio col veleno dei capi daci (CXX, Cichorius). Rilievo, marmo, 113 d.C. dalla Colonna Traiana.
Quello che nelle scene istoriate del monumento poteva sembrare ancora un riflesso della paideia greca, ormai assente, invece, nella posteriore Colonna Aureliana, dove i nemici germanici sconfitti saranno presentati solo come vinti schiacciati e umiliati[31], è forse da interpretare meglio come un preciso intento di porre l’avversario sullo stesso piano umano del vincitore, in modo da accrescere la virtus di quest’ultimo. La storiografia fornisce esempi di un simile atteggiamento: nel resoconto di Plutarco, Lucio Emilio Paolo, dopo la vittoria di Pidna nella terza guerra macedonica (168 a.C.), si mostra infastidito dalla scarsa dignità di cui il re Perseo dà prova quando viene condotto al suo cospetto, tanto che finisce per pregarlo di non svilire in quel modo il suo successo personale, perché un tale comportamento poteva far credere che fosse stato battuto un nemico codardo e spaventato[32]. Un monumento di Delfi, in un primo tempo iniziato da Perseo in previsione di una sua vittoria, ma di cui si era appropriato Emilio Paolo dopo Pidna[33], rivela chiaramente come la volontà di raffigurare i nemici sullo stesso piano, alla pari col vincitore da celebrare, trovava anch’essa i suoi precedenti nell’arte greca. Si tratta d’altronde di un’opera che deve a tutti gli effetti essere considerata greca, dato che fu sicuramente eseguita da artisti locali. Il trofeo, sormontato dalla statua equestre del generale romano, aveva la forma di un pilastro, che alla sommità era decorato da un fregio raffigurante episodi della battaglia, dove i Macedoni appaiono rappresentati in maniera praticamente identica ai Romani, da cui si differenziano solo per taluni particolari dell’armamento, ma non per gli atteggiamenti[34].
Scena di battaglia fra Romani e Macedoni. Rilievo, marmo, 167 a.C. dal Monumento di L. Emilio Paolo Macedonico a Delfi. Delfi, Museo Archeologico Nazionale.
Questa diversa interpretazione dei rilievi della Colonna Traiana chiarisce come l’apporto della tradizione formale greca, soprattutto nei suoi sviluppi di età ellenistica, emerga ancora in tutta la sua importanza, anche in uno dei monumenti dell’arte romana che sono sempre apparsi più “originali”. Ciò implica, inoltre, che la visione che i Romani si erano formati delle popolazioni straniere era largamente debitrice delle concezioni maturate dai Greci, i quali erano convinti della propria superiorità morale, soprattutto in rapporto alle genti d’Oriente[35]. La stessa Weltanschauung dimostrata dalla politica romana, in età imperiale ma anche in precedenza, si rivela influenzata dalle opere di alcuni geografi greci, come Posidonio e Strabone, che avevano lavorato per l’aristocrazia di Roma[36]. Anche la descrizione del mondo che Augusto traccia nelle sue Res gestae è, d’altronde, chiaramente permeata di spirito greco[37]. I rilievi della Colonna mostrano dunque un nemico forte e fiero, a maggior gloria dei suoi conquistatori, ma nello stesso tempo lasciano trasparire le profonde differenze di ordine culturale che dividevano i due popoli: i Daci sono presentati talora nell’atto di compiere azioni che alla sensibilità romana non potevano non apparire impiae, come le decapitazioni dei prigionieri[38], per non parlare di una scena raccapricciante, nella quale un gruppo di donne daciche tortura con torce alcuni Romani catturati[39]. Il fregio figurato non nasconde del resto scene dove anche l’esercito romano si abbassa a commettere atti di analoga crudeltà[40], ma si ha l’impressione, almeno sulla base della maniera in cui gli episodi si susseguono, che tali atrocità siano da interpretare come volute risposte ai misfatti dei Daci[41].
L’atteggiamento di Roma nei confronti del nemico straniero, così come si può riconoscere sui suoi monumenti figurativi, non lascia dunque mai spazio a dubbi. Si riconferma sempre, e non potrebbe essere altrimenti in opere ufficiali dello Stato romano, la supremazia del vincitore sugli avversari, i quali potranno, in alcuni casi, essere riconosciuti valorosi in battaglia, però non saranno mai ritenuti capaci di abbattere la potenza inarrestabile della città tiberina, dato che non appaiono in grado di eguagliarne né l’invincibile virtus né la superiore forza spirituale. Le numerose scene in cui i soldati romani non si mostrano impegnati nei combattimenti, ma nell’allestimento di accampamenti, nella costruzione di ponti o nella conduzione di lavori agricoli[42], si spiegano plausibilmente, infatti, con la precisa volontà di mettere nella dovuta evidenza la loro somma sapienza logistica, contrapposta all’istintualità, all’irriflessione anche, dalle quali i Daci, incapaci di “costruire” per la pace, sembrano spesso trascinati[43].
Guerrieri daci. Bassorilievo su metopa, marmo, 109 d.C. dal Tropaeum Traiani di Adamclisi (Romania).
È poi da notare l’attenzione per il particolare dimostrata in questi rilievi, dove i nemici, e i loro alleati, sono di volta in volta presentati con gli attributi che ne caratterizzano inequivocabilmente l’ethnos, a differenza del fregio del pilastro delfico di Emilio Paolo prima ricordato. I Daci, infatti, combattono con la sica, una spada ricurva dal lungo manico[44], indossano un tipico berretto conico e portano i capelli acconciati con una crocchia sulla tempia destra. Questi dettagli si spiegano sicuramente con il desiderio di non lasciare alcun dubbio circa la natura etnica dei nemici[45]. Altrove, però sempre nell’ambito dell’arte ufficiale, gli avversari sono rappresentati in modo molto meno preciso, secondo un modello sommario di “orientale”. Così, ad esempio, nei rilievi che illustrano le campagne mesopotamiche dei Severi sull’Arco di Settimio Severo nel Foro Romano, peraltro di lettura più difficile rispetto alle chiare rappresentazioni della Colonna Traiana, a causa del cattivo stato di conservazione ma anche, indubbiamente, del maggiore affollamento delle scene figurate, che seguono generici schemi di battaglia ancora di derivazione ellenistica[46].
Non erano d’altronde caratterizzate in maniera molto puntuale, dal punto di vista etnico, nemmeno le personificazioni di province che l’arte pubblica aveva continuato a impiegare durante il II secolo d.C., come dimostra un’importante serie di personaggi femminili che appartenevano alla decorazione architettonica dell’Hadrianeum, il tempio che Antonino Pio aveva dedicato, a Roma, al predecessore Adriano divinizzato. In passato si riteneva solitamente che queste figure decorassero i plinti delle colonne interne della cella, inframmezzate a rilievi con trofei di armi negli intercolumni, ma ora sembra abbastanza convincente una diversa interpretazione, secondo la quale esse erano poste in opera all’esterno dell’edificio templare, precisamente nei portici che lo racchiudevano[47]. I personaggi superstiti, come si diceva, non mostrano fra loro profonde diversità, tanto che l’identificazione dei territori simboleggiati è assai controversa, e solo per alcuni di essi può essere abbastanza sicura; in ogni caso, solo gli attributi possono fornire indicazioni, perché qualunque caratterizzazione di tipo strettamente etnico è assente[48]. Del resto non si può nemmeno essere sicuri che siano rappresentate proprio le province, intese come unità amministrative, di cui si componeva l’impero all’epoca di Adriano. Forse si tratta piuttosto delle personificazioni dei diversi ethne che erano compresi nella compagine statuale romana, come le nationes del complesso pompeiano prima ricordato, senza che si debba pensare a uno stretto legame con la divisione provinciale[49]. Qualunque fosse la reale collocazione di queste sculture all’interno del santuario consacrato al Divo Adriano, il valore in esse contenuto è indubbio: il buon governo del principe defunto, alla cui politica Antonino Pio si voleva direttamente richiamare, come dimostrano alcuni atti iniziali del suo regno[50], è causa e nello stesso tempo risultato della floridezza di tutti i territori dell’impero. È interessante rammentare che anche in età moderna la propaganda dinastica non tralascerà rappresentazioni di questo genere, allo scopo di sottolineare la prosperità, reale o presunta, del paese governato. Così, a puro titolo di esempio, nel soffitto della Sala del Trono al primo piano del Palazzo Reale di Napoli, si possono vedere quattordici figure femminili in stucco dorato, che simboleggiano le province in cui si divideva il Regno delle Due Sicilie e che non possono fare a meno di ricordare, pur nella diversa iconografia, le personificazioni antoniniane[51].
Trofeo con armi barbariche (scudi, lance e un’ascia), posto fra le personificazioni di due province romane. Rilievo su plinto, marmo, II sec. d.C. dall’Hadrianeum. Roma, P.zzo dei Conservatori.
Tornando alle immagini di stranieri, si potrebbero aggiungere altri esempi, come il frequente schema dei prigionieri incatenati, di cui un rilievo di Magonza offre una testimonianza particolarmente impressionante[52]. Ma, nel complesso, non si apporterebbero molti elementi nuovi rispetto a quelli finora messi in luce. Il dato di certo più evidente, che emerge dall’esame di queste rappresentazioni nell’arte romana, è che esse appaiono di norma finalizzate, in un modo o nell’altro, a esaltare la potenza romana, quasi fosse una necessità voluta dal fato. Nemici sconfitti, personificazioni dei territori conquistati, barbari mitologici: queste diverse raffigurazioni concorrono tutte alla glorificazione del vincitore, perché solo per tale scopo, in ultima analisi, sono utilizzate. Perciò è molto difficile trovare illustrati la vita, i costumi, le abitudini dei popoli stranieri; non compaiono mai soggetti che attestino interessi etnografici, quali invece avevano manifestato molti scrittori greci in monografie, o in digressioni all’interno di opere più vaste, appositamente dedicate non solo alla storia, ma anche agli usi di altri popoli. Dove compaiono, nel panorama della produzione artistica di età romana, scorci di umanità delle popolazioni barbare, questi si possono comunque spiegare sempre nell’ottica della conquista, come le genti deportate che, insieme ai loro animali, si incamminano verso un incerto futuro nell’ultima scena della Colonna Traiana[53].
Tutto questo non si deve pensare che avvenga soltanto nel campo dell’arte ufficiale, la quale è per definizione dipendente da canoni contenutistici e rappresentativi che non possono lasciare dubbi negli osservatori. I medesimi temi, infatti, sono reperibili anche nella sfera individuale dei cittadini che abitavano l’orbe romano, quasi fossero stati “privatizzati”. Così, a impersonare semplici immagini di lutto, si incontrano frequentemente figure di barbari afflitti, secondo uno schema già presente in alcuni monumenti pubblici provinciali, agli angoli dei sarcofagi decorati a rilievo, sempre più diffusi nel corso del II secolo d.C.; di norma il motivo è in relazione con affollate scene di combattimento che si dipanano sulla fronte della cassa, come nel cosiddetto “sarcofago di Portonaccio”, risalente al 190 d.C. circa[54]. Su scala ancora più piccola, schemi iconografici similari si ritrovano, e ciò non può stupire, nella decorazione degli equipaggiamenti dei soldati, come ad esempio una piccola targa in bronzo in origine rivestita di argento, raffigurante un trofeo con armi, ai cui lati si ergono due prigionieri barbari, come nel sarcofago appena citato[55].
Scena di battaglia fra Romani e Germani. Bassorilievo, marmo, II sec. d.C., dal sarcofago di Portonaccio. Roma, Museo di P.zzo Massimo alle Terme
Dunque non solo nell’ambito pubblico, ma anche in quello privato possiamo riconoscere lo stesso trattamento per i popoli stranieri, relegati in margine all’humanitas e presenti nell’arte solamente se funzionali all’esaltazione della potenza imperialistica di Roma. Certi monumenti funerari diffusi nelle province (ma bene attestati anche nell’Italia settentrionale), ornati da rilievi con episodi dell’esistenza di tutti i giorni, come scene ambientate all’interno di botteghe o nelle campagne, che anticipano le immagini di mestieri diffuse nel Medio Evo, non devono trarre in inganno. La vita quotidiana qui rappresentata non mostra alcun particolare che la possa differenziare da quella che si doveva condurre nel resto dell’impero, Italia compresa. Anzi, queste raffigurazioni erano scelte, di norma, allo scopo di testimoniare per quali mezzi la cittadinanza romana era stata ottenuta dai proprietari delle tombe, i quali rinunciavano così alla propria identità etnica, di fronte a tutti quelli che osservavano i loro monumenti, per dichiararsi anch’essi parte dell’immenso organismo statuale che aveva inglobato il loro paese.
***
Note:
[1] L’Arco di Settimio Severo nel Foro di Roma, monumento che sarà citato anche in seguito, era stato dedicato dal Senato e dal popolo romano ob rem publicam restitutam imperiumque propagatum, come attesta l’epigrafe dedicatoria (CIL VI, 1033).
[2] È, ad esempio, significativo l’atteggiamento di Sesto Giulio Frontino, che fu curator aquarum, cioè supervisore degli acquedotti, nel 97 d.C., quando scrive che le grandiose opere idrauliche dei Romani erano ben più importanti delle piramidi egiziane e delle opere d’arte dei Greci, celebri ma inutili (De aquae ductu urbis Romae 16).
[5] Vd. W. Helbig (a cura di), Führer durch die öffentlichen Sammlungen klassischer Altertümer in Rom III, Tübingen 19694, pp. 255-256, n. 2337 (W. Fuchs); B. Palma – L. de Lachenal, I Marmi Ludovisi nel Museo Nazionale Romano, in A. Giuliano (a cura di), Museo Nazionale Romano. Le sculture I, 5, Roma 1983, pp. 146-152, n. 64 (B. Palma); E. Polito, cit., pp. 58-71.
[6] Così come fu formulata in A. Schober, Das Gallierdenkmal Attalos I. in Pergamon, MDAI(R) 51 (1936), pp. 104-124.
[7] In generale sul donario pergameno, e per altre ipotesi di ricostruzione, vd. F. Coarelli, Il “grande donario” di Attalo I, in I Galli e l’Italia (Catalogo della Mostra, Roma 1978), Roma 1978, pp. 231-255; R. Özgan, Bemerkungen zum Grossen Gallieranathem, in Archäologischer Anzeiger 1981, pp. 489-510; T. Hölscher, Die Geschlagenen und Ausgelieferten in der Kunst des Hellenismus, AntK 28 (1985), pp. 120-136, specificamente pp. 120-123; H.-J. Schalles, Untersuchungen zur Kulturpolitik der pergamenischen Herrscher im dritten Jahrhundert vor Christus, IstForsch 36 (1985), pp. 68-104; E. Polito, cit., pp. 23-43 (con ulteriore bibliografia).
[9] Dopo essere stati esposti al Museo Civico di Bologna, il fregio e il frontone che lo sormontava (raffigurante probabilmente la ierogamia di Dioniso e Arianna) sono stati trasferiti al Museo Nazionale delle Marche di Ancona, dove si trovano tuttora. Vd. M. Zuffa, I frontoni e il fregio di Civitalba nel Museo Civico di Bologna, in Studi in onore di Aristide Calderini e Roberto Paribeni, vol. III, Milano 1957, pp. 267-288; M. Verzár – F.-H. Pairault-Massa, Civitalba, in I Galli e l’Italia, cit., pp. 196-203; M. Landolfi, Il frontone e il fregio di Civitalba, in Marche 1990, pp. 9-13; Id., Le terrecotte architettoniche da Civitalba di Sassoferrato, Ostraka 3 (1994), pp. 73-91, specificamente pp. 81-83.
[11] Vd. J. Formigé, Le Trophée des Alpes (La Turbie), Paris 1949; G.-Ch. Picard, Les trophées romains. Contribution à l’histoire de la Religion et de l’Art triomphal de Rome, Paris 1957, pp. 291-301; S. De Maria, Segni, cerimonie e monumenti del potere, in S. Settis (a cura di), Civiltà dei Romani. Il potere e l’esercito, Milano 1991, pp. 123-143, specificamente pp. 137-138.
[13] Il precedente per questa realizzazione era stato un trofeo, probabilmente di forma analoga, innalzato da Pompeo sui Pirenei dopo la vittoria su Sertorio (72 a.C.). Non si conosce con precisione il luogo dove sorgesse e le uniche notizie a disposizione sono le scarne informazioni di Plinio (Nat. hist. III, 18; VII, 96; XXXVII, 15). Un altro notevolissimo monumento appartenente a questa tipologia, in gran parte sopravvissuto fino ad oggi col suo importante corredo scultoreo, è il trofeo eretto da Traiano ad Adamclissi, nell’attuale Romania, per ricordare una sua vittoria durante le guerre daciche, in un sito che aveva già visto una rovinosa sconfitta romana all’epoca di Domiziano. A differenza dei tumuli di Pompeo e di Augusto, non era sormontato da una statua, ma da un grande trofeo in pietra. Oltre alle opere già citate per La Turbie, vd. almeno F.B. Florescu, Monumentul de la Adamclissi. Tropaeum Traiani, Bucureşti 1961; J. Baradez, Le trophée d’Adamclissi témoin de deux politiques et de deux stratégies, Apulum 9 (1971), pp. 505-522; L. Bianchi, Adamclisi. Il programma storico e iconografico del trofeo di Traiano, ScAnt 2 (1988), pp. 427-473.
[14] L’iscrizione dedicatoria riporta la lezione praefectus ceivitatium (CIL V, 7231).
[15] Il monumento risale agli anni 9-8 a.C. ed è tuttora conservato in ottimo stato. Vd. B.M. Felletti Maj, Il fregio commemorativo dell’arco di Susa, AttiPontAcc 33(1960-1961), pp. 129-153; S. De Maria, Apparato figurativo nell’arco onorario di Susa. Revisione critica del problema, RdA 1 (1977), pp. 44-52; J. Prieur, Les arcs monumentaux dans les Alpes occidentales. Aoste, Suse, Aix-les-Bains, ANRW II.12.1, Berlin 1982, pp. 442-475, specificamente pp. 451-459; L. Mercando, Riflessioni sul linguaggio figurativo, in Ead. (a cura di), Archeologia in Piemonte, II. L’età romana, Torino 1998, pp. 291-358, specificamente pp. 302-309.
[17] Vd. R.F. Schneider, cit., pp. 115-125; Lexicon Topographicum Urbis Romae, a cura di E.M. Steinby, vol. I, Roma 1993, s.v. Basilica Paul(l)i, pp. 183-187 (H. Bauer), specificamente p. 185. I precedenti greci per la soluzione qui adottata sono forse da riconoscere nella controversa porticus Persarum di Sparta e nella “Facciata dei Prigionieri” di Corinto, sulle quali vd. R.F. Schneider, cit., rispettivamente pp. 109-114 e 128-130 (per la seconda occorre citare anche l’importante H. von Hesberg, Zur Datierung der Gefangenefassade in Korinth. Eine wiederverwendete Architektur augusteischer Zeit, in MDAI[A] 98 [1983], pp. 215-238).
[18] Cfr. C. Nicolet, L’inventario del mondo. Geografia e politica alle origini dell’impero romano, Roma-Bari 1989 (ediz. orig. L’inventaire du monde. Géographie et politique aux origines de l’Empire romain, 1988), pp. 41 ss.
[19] Vd. in proposito F. Coarelli, Il complesso pompeiano del Campo Marzio e la sua decorazione scultorea, AttiPontAcc 44 (1970-1971), pp. 99-122 (ora in Id., Revixit ars. Arte e ideologia a Roma. Dai modelli ellenistici alla tradizione repubblicana, Roma 1996, pp. 360-381).
[21] L’unica testimonianza letteraria in proposito è un passo di Velleio Patercolo (II, 39, 2), che parla solo di tituli, fra i quali è sicuramente da porre l’epigrafe rinvenuta. Vd. C. Nicolet, cit., pp. 59-65; P. Liverani, cit., p. 221.
[23] La corazza raffigura un generale romano che riceve le insegne di Crasso dalle mani del re dei Parti. Basti qui citare l’analisi di P. Zanker, cit., pp. 201-205.
[24] Il pezzo era stato reimpiegato, insieme ad un altro torso pure loricato, ma con la raffigurazione del Palladio troiano fra due danzatrici, in un tratto delle tarde mura urbiche, probabilmente non lontano dal luogo nel quale doveva trovarsi il foro cittadino. Per ragioni stilistiche, entrambe le sculture possono essere datate all’età tiberiana. Vd. L. Mercando, cit., pp. 315-316.
[25] Aesch., Prom. 803-806; Hdt. III, 116; IV, 13; Plin., Nat. hist. VII, 10; Pomp. Mela II, 1-2; Ael., De nat. animal. IV, 27. In generale sull’iconografia del mito vd. Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, Supplementum, Zürich-Düsseldorf 1997, pp. 529-534, s.v. Arimaspoi (X. Gorbounova).
[26] Lo stesso Augusto doveva peraltro ammettere che la pace universale era stata ottenuta per mezzo della guerra: cum per totum imperium populi Romani terra marique esset parta victoriis pax (Res gest. 13).
[27] La bibliografia è molto vasta. Mi limito a segnalare alcuni lavori particolarmente importanti: G. Becatti, La colonna coclide istoriata. Problemi storici, iconografici, stilistici, Roma 1960; W. Gauer, Untersuchungen zur Trajanssäule, I. Darstellungsprogramm und künstlerischen Entwurf, Berlin 1977; G. Becatti, La Colonna Traiana, espressione somma del rilievo storico romano, ANRW II.12.1, Berlin 1982, pp. 536-578; S. Settis – A. La Regina – G. Agosti . V. Farinella, La Colonna Traiana, Torino 1988 (di cui utilizzo la numerazione delle scene, a sua volta ripresa dalla grande opera di C. Cichorius, Die Reliefs der Trajanssäule, Berlin 1896-1900); F. Coarelli et al., La Colonna Traiana, Roma 1999.
[28] I Daci si procurano la morte per mezzo del veleno somministrato da uno di loro, che lo attinge da un recipiente (scena CXX; vd. S. Settis et al., cit., pp. 485-487, tavv. 227-229). Più avanti è mostrato anche il suicidio del re Decebalo, che si taglia la gola poco prima della sua cattura (scena CXLV; vd. S. Settis et al., cit., pp. 525-526, tavv. 267-268).
[29] Cfr. R. Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana nel centro del potere, Milano 1969 (con numerose ristampe), pp. 242-249; Id., La Colonna Traiana: documento d’arte e documento politico (o Della libertà dell’artista), in Dall’ellenismo al medioevo, Roma 19802, pp. 123-140, soprattutto pp. 136-137.
[30] Cfr. le osservazioni di E. La Rocca, cit., pp. 3 ss., 22 ss. La tendenza a mostrare il nemico abbattuto dall’inclemenza della sorte, in una maniera atta a suscitare compassione e rispetto, trova comunque significativi precedenti nella storiografia di età ellenistica, rappresentata soprattutto da autori come Duride di Samo e Filarco, con la loro predilezione per le vicende biografiche e la psicologia dei personaggi descritti. Per i riflessi di questo atteggiamento nell’arte figurativa, ibid., pp. 28-29, e T. Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, Torino 1993 (ediz. orig. Römische Bildsprache als semantisches System, Heidelberg 1987), pp. 25-34. Un sentimento analogo è del resto espresso da sculture come i due Galati di Roma, citati all’inizio.
[31] Vd. R. Bianchi Bandinelli, Roma…, cit., pp. 242, 310.
[34] Vd. H. Kähler, Der Fries vom Reiterdenkmal des Aemilius Paullus in Delphi, Berlin 1965; F. Coarelli, La cultura figurativa, in Storia di Roma, II. L’impero mediterraneo, 1. La repubblica imperiale, Torino 1990, pp. 631-670, specificamente pp. 653-654; T. Hölscher, cit., p. 25.
[35] Per un’interessante analisi delle fonti che rievocano le reiterate ostilità fra Greci e orientali, dalla spedizione contro Troia alle guerre persiane e oltre, vd. Gh. Ceauşescu, Un topos de la littérature antique: l’éternelle guerre entre l’Europe et l’Asie, Latomus 50 (1991), pp. 327-341.
[37] Aug., Res gest. 25-33. Vd. C. Nicolet, cit., pp. 27-40 e passim.
[38] Scena XXV. Vd. S. Settis et al., cit., p. 290, tav. 32.
[39] Scena XLV. Vd. S. Settis etal., cit., p. 326, tav. 68.
[40] Come dimostrano due teste mozzate e infisse su pali all’entrata di un accampamento romano (scena LVI; vd. S. Settis et al., cit., pp. 342-343, tavv. 84-85).
[41] Per la resa della violenza nelle rappresentazioni artistiche di età romana, vd. il recentissimo P. Zanker, I barbari, l’imperatore e l’arena. Immagini di violenza nell’arte romana, in Id., Un’arte per l’impero. Funzione e intenzione delle immagini nel mondo romano, Milano 2002, pp. 38-62 (ediz. orig. Die Barbaren, der Kaiser und die Arena. Bilder der Gewalt in der römischen Kunst, in R.P. Seiterle – H. Breuninger [a cura di], Kulturen der Gewalt. Ritualisierung und Symbolisierung von Gewalt in der Geschichte, Frankfurt am Main 1998, pp. 53-86). Cfr. anche Id., Le donne e i bambini barbari sui rilievi della Colonna Aureliana, ibid., pp. 63-78 (ediz. orig. Die Frauen und Kinder der Barbaren auf der Markussäule, in J. Scheid – V. Huet [a cura di], La Colonne Aurélienne. Autour de la Colonne Aurélienne. Geste et image sur la Colonne de Marc Aurèle à Rome, Turnhout 2000, pp. 163-174).
[42] Tali scene, coi relativi riferimenti, sono citate in E. La Rocca, cit., p. 31, nota 113.
[43] Benché siano molto più tardi, i famosi versi di Rutilio Namaziano esprimono felicemente la consapevolezza della superiore capacità organizzativa di Roma: Fecisti patriam diversis gentibus unam, | profuit iniustis te dominante capi; | dumque offers victis proprii consortia iuris, | urbem fecisti, quod prius orbis erat (De red. suo I, 63-66).
[44] Le armi sulla Colonna erano perlopiù realizzate in bronzo e inserite nelle mani dei combattenti. Queste appendici metalliche sono tutte perdute.
[45] L’esatta caratterizzazione delle genti vinte ha una lunga tradizione nel mondo antico, a partire dall’arte del vicino Oriente: vd. E. La Rocca, cit., pp. 8 ss.
[46] Vd. R. Brilliant, The Arch of Septimius Severus in the Roman Forum, in Memoirs of the American Academy in Rome 29, 1967; S. De Maria, Gli archi onorari di Roma e dell’Italia romana, Roma 1988, pp. 182-185, 305-307, n. 89; Lexicon Topographicum Urbis Romae, a cura di E.M. Steinby, vol. I, Roma 1993, pp. 103-105, s.v. Arcus: Septimius Severus (Forum) (R. Brilliant).
[47] Rimangono una ventina di figure, cui vanno aggiunte alcune altre, note per via indiretta. Vd. J.M.C. Toynbee, The Hadrianic School. A Chapter in the History of Greek Art, Cambridge 1934, pp. 152-159; M. Cipollone, Le province dell’Hadrianeum. Un tema dell’ideologia imperiale romana, AnnPerugia 16 (1978/1979), pp. 41-47; A.M. Pais, Il “podium” del tempio del Divo Adriano a Piazza di Pietra in Roma, Roma 1979; P. Liverani, cit., pp. 229-233; M. Sapelli, Provinciae fideles. Il fregio del tempio di Adriano in Campo Marzio, Milano 1999.
[48] Sono perciò gli attributi elefantini che permettono di riconoscere genericamente l’Africa in una scultura, proveniente con buone probabilità da questo tempio, che fu reimpiegata in un monumento cinquecentesco a Scipione l’Africano sul Campidoglio, presso il Palazzo Senatorio. Vd. P. Liverani, cit., p. 230, nota 44.
[49] Non va dimenticato l’antico uso di introdurre raffigurazioni delle gentes e delle città sconfitte nei cortei trionfali, secondo la testimonianza delle fonti, le quali possono fare riferimento a riproduzioni probabilmente pittoriche di luoghi reali come Livio (XXXVII, 59; XXXVIII, 43) e Plinio il Vecchio (Nat. hist. V, 36-37), oppure a statue o persone in carne e ossa come Virgilio (VIII, 722-728: è il trionfo di Augusto effigiato sullo scudo di Enea, ma non è escluso che possa esservi un riferimento alle sculture della porticus ad nationes). Cfr. P. Liverani, cit., p. 244 e nota 123.
[50] Si può ricordare, almeno, l’emissione di una serie monetale simile a quella delle province coniata da Adriano. Cfr. M. Cipollone, cit., p. 45, con bibliografia precedente.
[51] Vd. F. De Filippis, Il Palazzo Reale di Napoli, Napoli 1960, p. 67 e figura a p. 49.
[52] Esso, forse di età domizianea, decora una delle facce di un plinto, appartenente a una colonna del praetorium di un grande accampamento lì situato. Vd. E. Demougeot, cit., p. 129 e nota 20; W. Selzer, Römische Steindenkmäler. Mainz in römischer Zeit, Mainz am Rhein 1988, p. 241, n. 263.
[53] Scena CLIV. Vd. S. Settis et al., cit., pp. 543-546, tavv. 285-288.
[54] Vd. B. Andreae, Imitazione ed originalità nei sarcofagi romani, RendPontAcc 41 (1968-1969), pp. 145-166, specificamente pp. 156-158; A. Giuliano (a cura di), Museo Nazionale Romano. Le sculture I, 8, Roma 1985, pp. 177-188, n. IV, 4 (L. Musso), soprattutto pp. 177-179. Sull’utilizzo dei barbari nella sfera funeraria vd. P. Zanker, Immagini come vincolo: il simbolismo politico augusteo nella sfera privata, in Id., Un’arte per l’impero, cit., pp. 79-91, specificamente pp. 85-86 (ediz. orig. Bilderzwang. Augustan political symbolism in the private sphere, in Image and Mystery in the Roman World [Festschrift J. Toynbee], Gloucester 1988, pp. 1-13).
[55] Proviene da una tomba scoperta nel territorio di Cesena e datata fra la metà del II e gli inizi del III secolo d.C. Vd. M. Marini Calvani – R. Curina – E. Lippolis (a cura di), Aemilia. La cultura romana in Emilia Romagna dal III secolo a.C. all’età costantiniana (Catalogo della Mostra, Bologna 2000), Venezia 2000, p. 500, n. 179 (M.G. Maioli), con bibliografia.
di D. Mancorda, Prima lezione di archeologia, Roma-Bari 2012(6) pp. 3-40.
Documenti, oggetti, contesti: i fossili del comportamento umano
Quando nel parlare comune usiamo la parola «archeologico» ci figuriamo un oggetto, una situazione, un comportamento che attribuiamo a un passato lontano da noi nel tempo e nei sentimenti. Ma il passato ormai non coincide più con l’antico, anche se l’archeologia è nata innanzitutto come riconquista dell’antico, per poi diventare strumento di conoscenza in sé, castello di concetti e procedure che interrogano e portano a sintesi i più tradizionali e insieme i più nuovi sistemi di fonti.
Non esiste più un’età per l’archeologia e un’età per la storia. L’una e l’altra si occupano delle stesse epoche, delle stesse civiltà, curiose di tutto ciò che è stato in ogni epoca, anche ieri, anche oggi. La distinzione fra archeologia e storia riguarda fondamentalmente il tipo di documenti che sono oggetto di studio dell’archeologo e dello storico, e quindi i metodi che si applicano per ricavarne informazioni.
Un documento ci dà testimonianza volontaria o involontaria, diretta o indiretta, di una realtà, di un evento, di un’idea; può riguardare un semplice dettaglio o coinvolgere un’intera cultura, una mentalità, il gusto di un’epoca. Letteralmente in grado di insegnarci qualcosa, arricchisce il nostro sistema di sapere, mediante la parola, lo scritto, l’immagine, il gesto.
L’archeologo fa continuo uso di documenti, che si presentano alla sua attenzione in genere sotto forma di cose, cioè di manufatti (prodotti dal lavoro dell’uomo) e di ecofatti (risultato del rapporto che s’instaura tra natura e uomo). I manufatti acquistano talvolta le dimensioni di monumenti, ma il più delle volte si configurano come semplici reperti, cioè documenti ritrovati, […] che l’archeologia va a cercare nell’infinita estensione degli insediamenti umani. […]
Il reperto implica un’attività di reperimento: presuppone dunque un metodo di ricerca. Molti oggetti sono potenziali reperti, perché possono essere riscoperti, e molti reperti sono potenziali documenti, perché possono ampliare il nostro sistema di conoscenze. Ma per assurgere allo stato di documento il reperto esige un’attività di studio: richiede dunque un metodo di analisi. Ogni documento va a sua volta spiegato: richiede dunque un metodo di interpretazione, che dia senso al suo messaggio, esplicito o implicito. […]
Anche i monumenti e gli oggetti, anche i contesti sono come “libri”, elementi di comunicazione non verbale che hanno svolto un ruolo tutt’altro che secondario – e qualche volta esclusivo – nei contatti umani, tanto che gli archeologi da tempo ragionano come se esistesse un linguaggio dei reperti, peculiare ai diversi aspetti delle cose, che occorre innanzitutto riconoscerlo per trasferirlo in un linguaggio comprensibile. Il lavoro dell’archeologo è in questo senso assimilabile a quello di un traduttore, che deve conoscere le forme attraverso le quali le singole componenti della lingua su cui opera esprimono i loro significati. […]
Diciamo oggetti, ma meglio parleremo di contesti, cioè di quelle situazioni in cui uno o più oggetti o le tracce (materiali o immateriali) di una o più azioni si presentano in un sistema coerente nel quale le diverse componenti si collocano in un rapporto reciproco nello spazio e nel tempo sulla base di relazioni di carattere funzionale (e culturale). La comprensione di queste relazioni non è irrilevante o accessoria. […] Ogni componente di un contesto, dal più semplice al più complesso, ha un senso in sé e un senso acquisito, un valore aggiunto che è dettato dalle sue relazioni contestuali. Ogni componente può essere analizzata nelle caratteristiche che le sono proprie e al tempo stesso nelle relazioni che definiscono la sua funzione nel contesto cui appartiene.
L’archeologo opera, in genere, sulle stratificazioni, cioè su depositi tridimensionali che una quarta dimensione, il tempo, ordina secondo una sequenza stratigrafica che va ricostruita, distinguendo le componenti materiali e immateriali, che non per questo sono fisicamente e concettualmente meno significative. […] L’archeologia si occupa delle società passate e delle relazioni che queste hanno avuto tra di loro e con l’ambiente, a partire dai resti materiali, cioè dalle tracce che hanno lasciato di sé. Attraverso un processo di recupero, analisi ed interpretazione, queste tracce ci aiutano a ricostruire i modi di vita e la loro evoluzione nel tempo. […]
Scavi della missione archeologica tedesca a Olimpia, in Grecia (1875-1881).
I metodi: minimo comun denominatore
L’indagine sui resti materiali, sparsi nel territorio o custoditi negli archivi del sottosuolo, richiede un percorso scandito dalle tappe dell’individuazione, della raccolta, della descrizione de dell’organizzazione dei dati, che possono favorire il raggiungimento di un’interpretazione storicamente valida. Buona parte della storia dell’archeologia, dell’antiquaria rinascimentale a oggi, si è sviluppata attorno alle domande che orientano la ricerca e i metodi necessari per conseguire le risposte. Dalla madre di tutte le domande, cioè “Che cosa cerco?” a quella che ne rappresenta il principale corollario, ovvero “Come lo trovo?”; dalle procedure della raccolta, cioè “Come seleziono ciò che trovo? Come lo inserisco nel suo contesto? Come ne evito il degrado?” a quelle che ne guidano la descrizione e ne permettono un’organizzazione significativa: “Come distinguo ciò che trovo e come lo metto in condizione di essere confrontato?”.
Un ventaglio di metodi ci permette, attraverso procedure guidate da ragionamenti, di tradurre il linguaggio dei contesti a partire dai paesaggi che ci circondano per giungere fin dentro la costituzione molecolare della materia delle cose:
Il metodo della ricognizione topografica, cioè quell’insieme di procedure e di tecniche che, senza intaccare il terreno, registrano quantità e qualità delle tracce visibili in superficie e percepibili nel sottosuolo, ordinandole nel tempo e interpretandole sulla base dello studio culturale dei manufatti recuperati al suolo e delle analisi di carattere spaziale derivate in parte dalla geografia contemporanea;
Il metodo della stratigrafia, cioè la procedura di scavo che studia la stratificazione prodotta nel terreno dagli agenti umani e naturali, scomponendola nell’ordine inverso rispetto a quello in cui si era formata e recuperando il massimo di informazioni disposte in una sequenza che racconta una storia inizialmente calata nel tempo relativo e poi inserita nel tempo assoluto, sulla base dei dati culturali presenti nella sequenza e delle tecniche scientifiche di datazione;
Il metodo della tipologia, che analizza i manufatti nelle loro forme e funzioni, in base ai diversi attributi che li caratterizzano, disponendoli in serie cronologicamente significative, verificate costantemente nello scavo di nuove stratificazioni e nella redazione di seriazioni;
Il metodo dell’iconografia, che studia le forme figurate descrivendo le immagini e distinguendole a seconda delle caratteristiche proprie degli attributi di ciascuna di esse;
Il metodo stilistico, che analizza le forme dal punto di vista del modo, tecnico ed estetico, secondo il quale sono state realizzate;
I metodi delle scienze naturali, attraverso i quali si elaborano le classificazioni dei reperti botanici, zoologici e antropologici (ecofatti) o si analizzano le componenti geologiche dei manufatti come dei paesaggi;
I metodi archeometrici, che con indagini di natura prevalentemente fisica e chimica osservano la materia dal suo interno, attraverso misure e caratterizzazioni che individuano la presenza di resti nel sottosuolo, l’origine e l’età dei manufatti, le tecnologie mediante le quali la materia prima è stata trasformata e quelle necessarie per garantirne la conservazione.
Nel corso di una ricerca non ogni metodo porterà le risposte desiderate, né porterà risposte univoche; il percorso di indagine incontra frequentemente nel suo cammino un bivio di fronte al quale occorre cambiare metodo. In questo continuo passaggio – purché ogni metodo operi secondo la sua logica interna e le sue procedure e non si utilizzi un metodo per giustificare la carenza di un altro – è possibile avvicinarsi a una verità, che non sarà mai definitiva, ma che si misura nella sua capacità di aprire nuovi orizzonti e di dar vita a nuove domande, eliminando le risposte contraddittorie. Come le scienze della natura, a maggior ragione anche l’archeologia, che è una scienza dell’uomo, non pretende infatti di svelare la verità, ma «cerca disperatamente di argomentare con plausibilità crescente» (C. Bernardini).
Esempio di diagramma stratigrafico, o “Matrix di Herris”.
Il ragionamento interpretativo in archeologia progredisce spesso per esclusioni, mettendo in dubbio e alla fine scartando l’ipotesi appena fatta o l’ipotesi antica, che abbia assunto un’aura di verità. È questo scarto continuo, in seguito a verifica negativa, delle ipotesi via via formulate che restringe il campo di quelle possibili e ci avvicina a una realtà che sarà comunque sempre arduo raggiungere, sia perché oggettivamente celata nel linguaggio degli oggetti sia perché velata dall’inevitabile filtro culturale frapposto dall’opinione del ricercatore.
Il momento dell’osservazione costituisce una fase descrittiva della ricerca, che viene talora riassunta sotto il nome di archeografia, intesa come una tappa posta in sequenza con quella della archeometria, in cui i dati vengono misurati, e dell’archeologia, che raggiunge l’obiettivo della loro interpretazione. È evidente che si tratta solo di una sequenza logica, dal momento che dal punto di vista operativo l’indagine prevede un continuo ritorno critico ai suoi diversi stati di avanzamento.
È pur vero che la pratica della descrizione viene a volte sentita come il momento principale del lavoro dell’archeologo, quasi a identificarsi con esso, in una visione limitativa dell’archeologia che lascia ad altre competenze la ricerca della sintesi interpretativa. Di qui pagine e pagine analiticamente mirate a descrivere nelle loro minuzie i dettagli di manufatti che possono spesso esser meglio affidati alla chiarezza del disegno scientifico o di codificazioni condivise. Ma occorre tenere presente che nessuna descrizione scientifica può fare a meno di un protocollo prestabilito, che detti le regole secondo le quali si pratica la descrizione e si istituiscono i confronti che ne derivano: descrizioni e confronti resi possibili da una selezione degli elementi che l’archeologo ritiene di volta in volta significativi al fine dell’organizzazione del materiale che sta studiando. Sono scelte tutt’altro che scontate, poiché la realtà può essere legittimamente osservata sotto diversi punti di vista; delicate, perché i principi secondo cui si descrive la realtà sono stabiliti in base agli obiettivi che si intende raggiungere; e decisive, perché nessuna interpretazione potrà mai fondarsi su valutazioni impressionistiche e occasionali che non facciano riferimento a un corpo organizzato di categorie descrittive, tanto più necessario quanto più oggi l’archeologia usa e sviluppa le tecnologie informatiche. […]
«Kórē di Nikandre». Statua, marmo, 650 a.C. ca. dal santuario di Artemide Delia. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Archeologia e antiquaria: alla ricerca della totalità
Il termine “archeologia storica” viene oggi usato più correttamente che nel passato, per indicare lo studio archeologico di quelle civiltà che hanno lasciato di sé anche più o meno cospicue testimonianze scritte. In quella definizione rientra dunque anche l’antichità classica. Ma l’archeologia classica non nasce dalla storia, bensì dall’antiquaria e dalla storia dell’arte. È la più antica delle archeologie, e quella che più ha risentito dei cambiamenti e ha dovuto ripensare la propria definizione.
Gli storici antichi non ignoravano l’uso, sia pur episodico, delle testimonianze archeologiche: è notissimo il ragionamento di Tucidide (Storie, I 8, 1) che, analizzando le antiche tombe di Delo con criteri tipologici e comparativi, ricostruiva la più antica storia di quell’isola muovendosi a tutti gli effetti su un piano archeologico, in sintonia con l’impostazione generale della sua opera storica, attento a trarre spunti di conoscenza da tekmḗria e sēmeía, noi diremmo da indizi, tracce, segni.
Tucidide non usa comunque mai il termine archaiología, che incontriamo per la prima volta in un dialogo di Platone (Ippia maggiore, 285d), per indicare – non senza una sfumatura ironica – le genealogie degli eroi e della loro discendenza umana, le storie relative alle antiche fondazioni di città, insomma «ogni racconto che riguarda il passato remoto». L’archeologo era dunque un esperto di storia antica e di cose antichissime, tanto che il nome passò a indicare gli attori specializzati nelle parodie di Omero e dei suoi eroi.
La strada seguita da chi scriveva di storia nel mondo antico e medievale fu tuttavia assai diversa da quella intravista da Tucidide: era infatti del tutto naturale la convinzione che la storia si fondasse sui testi. I primi antiquari, che alle soglie del Rinascimento gettavano le fondamenta di una nuova scienza degli oggetti antichi, non erano mossi da temi storiografici precisi. Le loro osservazioni partivano sì dalla raccolta di manufatti e dalla descrizione di monumenti, ma si limitavano a forme di catalogazione poco sistematiche. Le testimonianze materiali, quando investivano una tematica storica, venivano comunque subordinate a quelle scritte. Nei monumenti si cercavano i modelli cui ispirare la nuova arte rinascimentale oppure, con qualche scorciatoia, si cercava l’illustrazione delle opere descritte dagli autori antichi, tentando di identificare nel territorio i siti e i monumenti di cui era rimasta memoria scritta nel naufragio della letteratura antica. Non appariva evidente che i resti materiali potessero schiudere nuovi orizzonti del sapere.
La ricerca storica – in particolare quella sulle origini dell’umanità – si trovava peraltro bloccata da una fede acritica nell’Antico Testamento. Era comunemente accettata l’idea che il primo uomo fosse stato creato da Dio nel giardino dell’Eden, da dove l’umanità si sarebbe poi sparsa nel mondo, dopo il Diluvio, e ancora dopo la distruzione divina della Torre di Babele. Questi avvenimenti venivano fatti risalire a poche migliaia di anni prima. […] Questa prospettiva del tempo storico così schiacciata non favoriva lo studio dei resti materiali di un passato che non si percepiva come remoto. La tradizione giudaico-cristiana, calata nel tempo biblico, si sentiva partecipe di una storia ancora in atto, che non coglieva le differenze culturali prodotte dal divenire storico. La fede nel mito bollava come blasfema, o addirittura eretica, ogni sia pur timida ipotesi sull’esistenza di un mondo preadamitico e l’oscurantismo religioso fungeva come un macigno che solo l’Ottocento sarebbe riuscito a scrollarsi faticosamente di dosso.
L’antiquaria prese comunque, col tempo, maggiore coscienza dell’originalità del suo approccio alle fonti materiali dell’antichità. I manufatti conquistavano una posizione via via più autonoma nei confronti dei testi, e addirittura un certo qual primato. […] Il termine “archeologia” fu introdotto da Jacques Spon, un antiquario di religione protestante costretto all’esilio dalla Francia del Re Sole. «È mia opinione – scriveva – che gli oggetti antichi non siano altro che libri, le cui pagine di pietra e di marmo sono state scritte con il ferro e lo scalpello». L’archeologo doveva andare in cerca di quel tipo di testo, diversi da quelli tramandati dai codici, per “leggerli” e “tradurli”. La grande antiquaria del XVII e del XVIII secolo comincerà così a porsi le prime domande su alcuni dei metodi dell’archeologia, quali la perlustrazione del terreno e la ricerca del confronto fra le forme delle cose e le immagini, creando così le premesse per il suo stesso superamento, da forme di conoscenza rivolta agli oggetti e agli edifici in sé a studio delle loro relazioni contestuali e delle loro trasformazioni nel tempo. L’antiquario – come suggerisce A. Carandini – «coglie l’intreccio fra arte e vita […] il suo atteggiamento verso l’antichità è un amore spontaneo, intuitivo, senza sistema. La totalità è un presupposto per lui e non un risultato da raggiungere con pena». Ciononostante, studia i monumenti attraverso rilievi e descrizioni, valuta le condizioni in cui sono giunti i resti materiali del passato, tenta collegamenti tra fonti scritte e fonti materiali: topografia, storia dell’arte, epigrafia si sviluppano come campi di ricerca attigui, dove si instaura un dialogo sempre meno subordinato tra monumenti e testi. In particolare la numismatica svolse un ruolo di scienza “pilota”, applicata a oggetti ricchi di informazioni sia testuali che figurate, le cui caratteristiche materiali si prestavano anche a classificazioni e ordinamenti. Si favorivano così i primi passi della tipologia, che trovava una sponda anche nei metodi delle scienze storiche, come quello paleografico, che già all’inizio del XVIII secolo cominciò a essere usato come strumento capace di ordinare nel tempo i cambiamenti della scrittura, intesi come riflesso dell’evoluzione culturale.
Leon Cogniet, Ritratto di Jean-François Champollion. Olio su tela, 1831.
Un triangolo virtuoso: tipologia, tecnologia, stratigrafia
Il passaggio storico dal Settecento all’Ottocento ha segnato il punto di svolta per la nascita dell’archeologia moderna, quando la crescita degli studi preistorici (stimolata dall’assenza della tradizione scritta e dallo sviluppo delle scienze naturali) pose, quasi paradossalmente, le basi per il riconoscimento delle finalità storiche dell’indagine archeologica. Dal miglior frutto dell’eredità antiquaria nacque allora quel triangolo virtuoso che ancor oggi sostiene l’impalcatura dell’archeologia. Un triangolo che attraverso l’analisi tipologica, tecnologica e stratigrafica supporta e guida l’interpretazione di oggetti e contesti, sulla base anche delle condizioni del loro seppellimento e del loro recupero attraverso lo scavo, che, da mero strumento di estrazione acritica di vestigia dal suolo, è divenuto il pilastro della costruzione della fonte archeologica. Già nel XVIII secolo il conte di Caylus aveva sviluppato un metodo di classificazione dei materiali antichi che consentiva di disporli in un ordine cronologico a partire dalle loro caratteristiche intrinseche e aveva teorizzato la “pratica del confronto” […]. È tuttavia negli anni della Restaurazione che si verifica la svolta. La prima cattedra di Archeologia, classica e preistorica, fu creata in Olanda all’Università di Leida nel 1818; la prima cattedra di Archeologia classica fu istituita a Berlino nel 1823. In quegli stessi anni Champollion apriva le porte all’orientalistica con la sua fantastica decifrazione della scrittura geroglifica egizia (1822-1824). Ma è nel mondo scandinavo che si sviluppa un approccio ai materiali che permette di uscire da quel «cumulo di dati incoerenti» (D.L. Clarke) che aveva sino ad allora tarpato le ali del lavoro antiquario per costruire uno schema interpretativo capace di instaurare confronti validi che fossero al tempo stesso di carattere sia tipologico che tecnologico. Classificando la collezione di antichità danesi del Museo di Copenaghen, Christian Jürgensen Thomsen divise i manufatti in diverse categorie e forme (asce, coltelli, fibule, collane, vasi…) raggruppandoli a seconda del materiale di cui erano fatti e valorizzando al massimo le associazioni di quegli oggetti che, per essere stati rinvenuti in una stessa tomba o ripostiglio, si poteva presumere che fossero coevi o almeno che fossero stati sepolti nello stesso momento. Quando nel 1819 le sale del museo furono aperte al pubblico prese corpo per la prima volta quel paradigma di successione delle culture (età della pietra, del bronzo e poi del ferro), che sarebbe divenuto canonico per la preistoria di tutto il continente.
Un modello delle tre età dello sviluppo delle più antiche culture umane – sia pur non ancora ridotto a sistema – era stato già intuito nel mondo antico, partecipe di una suggestiva tradizione che aveva trovato espressione nella filosofia e nella poesia (in particolare negli splendidi versi di Lucrezio, De rerum natura, V 1281-1296); ed era stato in seguito intravisto nell’opera di Michele Mercati (1541-1593), un naturalista che aveva saputo fondere l’osservazione della natura con un’ampia conoscenza delle fonti letterarie antiche e dei manufatti delle culture primitive scoperte nel nuovo mondo coloniale. Ma l’idea di Thomsen si sviluppava ora come uno strumento di conoscenza scientifica, applicato all’interno del primo museo di archeologia comparata, che vedeva la luce in un’Europa che aveva fin lì conosciuto solo gabinetti di curiosità antiquarie o collezioni d’arte.
L’ordine tipologico e tecnologico che Thomsen assegnava ai manufatti preistorici traeva giustificazione dalla descrizione non di singoli oggetti, ma di complessi unitari, verificati poi sperimentalmente nelle sequenze stratigrafiche, che Jens Jacob Worsaae avrebbe esteso non solo ai siti danesi, ma anche ad altri contesti europei. Quel confronto – non più solo descrittivo degli aspetti formali – avrebbe investito anche gli aspetti funzionali dei reperti allargando il campo della comparazione degli oggetti archeologici con quelli etnografici.
Poche righe di uno dei padri della paletnologia, Jacques Boucher de Perthes, definiscono meglio di altre perifrasi l’intuizione di fondo, che coinvolgeva i diversi approcci metodologici, alimentati da una visione contestuale che legava intimamente gli oggetti agli strati che li contenevano: «Non soltanto la forma e la materia che servono a stabilire se un oggetto è molto antico […] ma anche il luogo in cui si trova, la distanza dalla superficie; inoltre la natura del terreno e degli strati sovrapposti e dei frammenti che li compongono; e infine la certezza che quello è il suolo originario, la terra calpestata dall’operaio che lo ha fabbricato».
Una disciplina che restava umanistica nei suoi fini, ma che già si serviva delle scienze naturali, trovava dunque i suoi fondamenti scientifici operando con procedure di raccolta e di classificazione sperimentali e verificabili alla luce di un triangolo di rapporti reciproci fra diversi approcci metodologici, che cooperavano per organizzare i resti materiali del passato. Quell’approccio è tuttora vitale, anche se oggi, in una visione unitaria delle metodologie archeologiche, il paniere dell’archeologo si presenta più ricco, o forse solo più ordinato.
Johan Vilhelm Gertner, Ritratto di Christian Jürgensen Thomsen. Olio su tela 1849.
Storia dell’arte e cultura materiale
Mentre l’antiquaria faticava a superare i limiti di un’erudizione che poteva spesso risultare fine a se stessa, Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) percorreva una strada nuova indicando le prospettive che si aprivano innestando nello studio dei resti dell’arte classica il filtro dell’analisi stilistica calata in una prospettiva cronologica. Winckelmann apriva così le porte all’identificazione dell’archeologia classica con la storia dell’arte antica: un assioma che per lungo tempo avrebbe impedito alle generazioni successive di sviluppare le potenzialità storiche dell’approccio ai resti materiali del mondo classico, che restava ancora subordinato alla filologia, cioè alla conoscenza dei testi antichi. La nuova archeologia dell’arte ragionava peraltro su concetti sostanzialmente estranei alla cultura del mondo che aveva prodotto quelle stesse opere che poneva al centro del proprio interesse. È noto, infatti, che il mondo greco – anche se l’età classica e quella ellenistica avevano conosciuto l’opera di grandi personalità artistiche – non aveva elaborato un termine specifico per indicare il concetto di arte né tanto meno un termine che definisse l’artista (né pittura e scultura avevano trovato una rappresentante tra le nove Muse). Nelle società antiche l’arte non fu percepita come una sfera autonoma e, come non erano chiari i confini tra mondo religioso e mondo laico, così non lo erano quelli che distinguevano la funzione pratica dell’arte da quella estetica, che era a sua volta intrisa di eticità.
Anton R. Mengs, Ritratto di Johann Joachim Winckelmann. Olio su tela, 1755.
L’introduzione di un’ottica stilistica calata in una prospettiva cronologica (sia pur condizionata da un’impostazione rigidamente classicistica e da una concezione formalistica del “bello”) aiutava comunque l’antiquaria a collocare nel tempo le opere d’arte antiche. L’introduzione di strumenti critici che avevano finalità di ordine estetico preparava tuttavia quella divaricazione fra arte e storia e scienze che solo l’archeologia contemporanea si sarebbe posta l’obiettivo di ricomporre.
Nonostante la presenza di personalità di rilievo, come Ennio Quirino Visconti, in Italia l’archeologia si trovò impacciata a muoversi non tanto sul piano della lettura dell’opera d’arte, indicato da Winckelmann, quanto su quello dell’intervento sul terreno, che si sviluppava semmai in ambito preistorico e protostorico. Questo impaccio non permetteva di superare la divaricazione sempre più ampia tra approccio naturalistico e antiquario, con conseguente mortificazione dell’interpretazione storica. La concezione “ancillare” dell’archeologia segnò tutto il XIX secolo: un secolo cruciale durante il quale gli studi archeologici si costituirono definitivamente come disciplina autonoma, dotata di proprie istituzioni, sedi e strumenti di comunicazione, al centro di un sistema internazionale di ricerche sul campo, nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, che accompagnava l’espansione coloniale delle grandi nazioni europee.
Le difficoltà di affrontare i grandi temi storici con ottiche archeologiche furono acute anche in Italia, specie dopo la crisi della cultura positivistica, che aveva cercato di condividere strumenti più scientifici di analisi del dato archeologico. La conquista di una dimensione più propriamente storica della disciplina prese avvio negli anni centrali del Novecento, paradossalmente proprio sul versante della storia dell’arte, grazie in particolare all’opera di Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) […]. La sua opera – superata una fase iniziale di rigida impostazione idealistica, ostile a ogni confusione fra storia dell’arte e storia della cultura – non mirava certo a ridurre l’importanza del fenomeno artistico all’interno dell’archeologia classica, quanto piuttosto a ridefinire il ruolo, inserendolo in una visione più complessiva della società che lo aveva prodotto. Si trattava cioè di cogliere meglio i nessi che legano la produzione artistica con il contesto storico e in particolar modo con la sua articolazione sociale, recuperando all’archeologia l’obiettivo di una ricostruzione storica più compiuta effettuata sulla base tanto delle fonti scritte, quando esistenti, quanto «dei dati materiali che una civiltà produce, accumula e lascia dietro di sé». In questa frase, tratta da uno degli scritti di Bianchi Bandinelli, il richiamo alla centralità del dato materiale non va inteso come un abbandono delle peculiarità metodologiche dell’analisi storico-artistica, quanto come l’apertura a una visione più moderna della disciplina. Ancor oggi ciò non significa che lo stile non sia da ritenere uno degli indicatori fondamentali per l’interpretazione dell’opera d’arte, e spesso una delle tracce principali per la datazione di oggetti e strutture, ma c’è più consapevolezza circa il fatto che il metodo stilistico, essendo sorretto da un approccio fortemente soggettivo, ancorato alla sensibilità critica di chi lo adotta, sia un metodo anche piuttosto insidioso. E tanto più in quei settori dell’archeologia, come appunto l’archeologia classica, dove non sono a disposizione serie più o meno complete di prodotti di determinati generi o ambienti o addirittura di determinati artisti. Se la conoscenza attuale di una gran parte della produzione pittorica rinascimentale consente, attraverso l’analisi comparata degli originali, di ricostruire lo stile di ciascun artista e la sua evoluzione, e di ricondurre in tal modo a quello stesso artista opere non altrimenti attribuite, l’applicazione di questo metodo nell’arte antica è molto più ardua. Non possediamo “la” produzione di Polignoto o di Prassitele, ma quasi esclusivamente copie (di copie di copie…), echi più o meno pallidi di immagini riprodotte in materie e dimensioni assai diverse dai prototipi: le opere attribuibili (cioè di cui si riconosce il modello) non sono originali, gli originali disponibili (per lo più frammentari) il più delle volte non sono attribuibili, come dimostra la discussione che ha accompagnato i tentativi di attribuzione dei celeberrimi bronzi di Riace.
Il riconoscimento di uno stile è operazione complessa, tanto che gli storici dell’arte antica più avvertiti mettono in guardia dalla fragilità di un metodo cui possono mancare gli strumenti critici fondamentali. Il che non vuol dire che non esistano stili cronologicamente definiti, che – ad esempio nello sviluppo storico dell’arte greca – caratterizzano l’età arcaica, classica o ellenistica, come nel caso, ad esempio, della ceramografia attica di età tardo-arcaica e classica.
L’accento posto sulla storicizzazione dell’opera d’arte ha comunque creato – non da ora e non solo in campo archeologico – le condizioni per la maturazione di una storia dell’arte più comprensiva anche negli aspetti sociali e culturali e, dal punto di vista del metodo, anche di quelli archeologici.
Koûros con vitello, detto appunto Moschóphoros. Statua, marmo dell’Imetto, 570-560 a.C., dall’Acropoli di Atene. Museo dell’Acropoli di Atene.
Una storia sociale dell’arte è più attenta alle condizioni della produzione artistica, cioè alla posizione dell’artista nella comunità in cui opera, agli aspetti pubblici o privati della committenza, alle motivazioni che stanno dietro alla nascita di un’opera d’arte e al modo con cui il pubblico ne fruisce. I primi due aspetti sono storicamente determinati e quindi fondamentali per capire la genesi di un prodotto artistico, l’ultimo invece non è un suo carattere permanente, mutando nel tempo ruolo e forme d’uso dell’opera d’arte. […]
Una storia dell’arte più propriamente culturale è rivolta alla modalità di formazione e trasmissione dei modelli e dei repertori decorativi e iconografici, insomma di quel patrimonio di immagini e segni, attraverso il quale un’opera d’arte si caratterizza come distintiva di una cultura e denuncia affinità e differenze rispetto ad altre nel tempo e nello spazio. L’iconografia, che potremmo definire una sorta di tipologia delle immagini, occupa in quest’ambito un posto di rilievo, perché il messaggio delle scene figurate – immensamente più complesso di una semplice decorazione – ha volti, ha gesti, ha storie da raccontare. Anche se, paradossalmente, l’approccio iconografico è stato a volte accusato di “astoricità”, perché apparentemente meno attento al contesto produttivo, e comunque – agli occhi della critica di matrice idealistica – più interessato all’analisi del soggetto raffigurato, cioè del suo contenuto (le immagini illustrano idee e i dipinti vanno sono solo guardati, ma “letti”), che non a quella della forma (composizione, uso del colore, maniera di esecuzione…).
Una storia archeologica dell’arte opera integrando i metodi tradizionali dello storico dell’arte con l’insieme delle procedure proprie dell’archeologia. Non parliamo tanto delle ricadute dell’osservazione contestuale sulle nostre conoscenze storico-artistiche: esemplare, in questo caso, è la vicenda della “colmata persiana” sull’Acropoli di Atene, dove furono seppellite con i resti dell’incendio persiano del 480 a.C. anche le statue che adornavano il santuario (quell’osservazione ha creato un caposaldo cronologico fondamentale per l’interpretazione stilistica della statuaria di stile tardo-arcaico e severo). Pensiamo piuttosto all’applicazione dei metodi archeologici allo studio delle opere d’arte in sé.
Esiste infatti anche un approccio stratigrafico al manufatto artistico. È schiettamente stratigrafica l’osservazione che permette di riconoscere la sequenza delle giornate di stesura di un affresco o, su una qualsiasi opera di pittura, la presenza di “pentimenti” dell’artista. Questi ripensamenti possono essere dettati dalle più varie esigenze (interne o esterne alla volontà dell’artista) e sono quindi a volte basilari per l’interpretazione della forma finale dell’opera d’arte o delle sue vicissitudini. La sovrapposizione di più strati di colore può celare successivi avanzamenti nel processo creativo, che si manifestano per mezzo di quelle che l’archeologo chiamerebbe “unità stratigrafiche positive”. Qualcosa di analogo può accadere nelle opere di scultura, dove il ripensamento si manifesta piuttosto per “unità stratigrafiche negative” […]. Il manufatto artistico viene interrogato anche mediante diagnostiche archeometriche, possibilmente non distruttive, che attraverso le analisi dei pigmenti o delle malte costitutive degli intonaci possono dare risposte che nessun approccio stilistico o formale potrà mai sostituire. Ma archeologico, anzi propriamente archeografico, è anche il semplice metodo descrittivo che, prima di operare un esame critico dell’opera, ne definisce i caratteri materiali, a partire, ad esempio, dalle dimensioni. Perché, se la qualità è la premessa stessa affinché si possa parlare di un’opera d’arte (altro discorso sono i criteri di giudizio che la certificano), non si dà qualità senza quantità. Una stessa scena, che dal punto di vista compositivo può derivare da un comune modello, richiede tecniche e stili be diversi se riprodotta dall’artista nella vastità di una parete da affrescare o nel dettaglio di una miniatura. Ci si può domandare perché mai nei manuali di storia dell’arte risulti ancora bizzarra la sola idea di riprodurre le opere affiancate da una scala metrica (come si è soliti fare per i manufatti archeologici), quasi che la comunicazione dei dati dimensionali danneggi il godimento dell’opera. ma i manufatti artistici sono a tutti gli effetti prodotti del lavoro. La “quantità” dell’opera ne è un aspetto costituivo […]. L’archeologia ci aiuta dunque a vedere l’arte come prodotto del lavoro. Di conseguenza, anche il restauro appare come un’attività di conoscenza fondamentalmente archeologica. […]
Insomma, l’approccio archeologico alle opere d’arte non analizza solo tecniche produttive e qualità dei materiali, ma inserisce la cultura artistica, compresa quella figurativa, nell’alveo della cultura materiale, cioè dei saperi e dei «saper fare» relativi alle forme di approvvigionamento, scelta, manipolazione, trasformazione, uso, riuso e scarto della materia. Si tratta di conoscenze che sono tuttora tramandate dalla migliore tradizione antiquaria e che riguardano il più umile come il più eccelso dei prodotti del lavoro umano e scardinano le gabbie dei generi artistici e delle loro gerarchie.
La cultura materiale non può essere opposta alla cultura artistica o figurativa. Questa non si esaurisce nella storia delle forme, come quella non si identifica nello studio delle tecniche inventate dall’uomo, ma semmai concerne – secondo la bella definizione di André Leroi-Gourhan – «lo studio dell’uomo che pensa e agisce tecnicamente». L’infinita serie dei manufatti incorporano infatti la fatica dell’uomo, ma anche le sue conoscenze, i suoi comportamenti, i valori culturali condivisi da intere società o da gruppi sociali comunque significativi. Prestando attenzione ai fenomeni che si ripetono più che all’avvertimento irripetibile, all’analogia più che all’anomalia, allo «sfondo» più che alle emergenze, la storia della cultura materiale rintraccia donne e uomini e i loro rapporti sociali. L’archeologia studia infatti le cose, ma per capire gli aspetti materiali e spirituali del mondo che le produce.
È del tutto evidente che la qualità artistica data alla materia attraverso una forma e uno stile consente di esprimere messaggi che vanno ben al di là della dimensione materiale. Ma è per tale via, ricercando il sostrato comune che lo lega alla cultura materiale del suo tempo, che il fenomeno artistico può ritrovare legami più forti con il contesto d’origine, non negando il valore universale che può esprimersi nel suo messaggio, ma piuttosto riportandolo alla sua natura di fenomeno storico calato nel tempo e nello spazio. Collocando l’analisi della personalità artistica e l’unicità dell’opera d’arte nel quadro dell’evoluzione storica si riduce – come già auspicava alla metà del XX secolo Frederik Antal – «quel supremo interesse e quell’eccessivo rilievo che vengono loro attribuiti da una storia dell’arte informata al criterio dell’‘arte per l’arte’», e sottoposta a una «tirannia […] che isola l’arte dalle idee del tempo esaltandone i valori puramente formali», ma non si toglie nulla alla “qualità” e alla funzione trainante dell’attività creatrice.
La concezione “braudeliana” dei due tempi della storia ci fa intuire anche i due tempi dell’arte: da un lato l’evento che fa voltare pagina alla storia culturale, l’intervento delle grandi personalità artistiche che marca un prima e un dopo, in cui tutto è o comincia a essere diverso e, dall’altro, il ritmo lento delle trasformazioni prodotte da un intreccio di fenomeni che apprezziamo appieno solo in una prospettiva di lungo periodo. Se ciò vale per l’invenzione dell’agricoltura, della polvere da sparo o della stampa, vale anche le nuove conquiste nel campo dell’arte: per una nuova tecnica, un nuovo genere, un nuovo stile, che spesso è una nuova invenzione destinata – se di successo – a tramutarsi in convenzione e a dare il tono a un ambiente, a un’epoca, a una cultura.
L’archeologia classica, nata in buona misura dalla storia dell’arte, ha corso il rischio di ridurre lo studio delle società antiche a quello delle loro élites, e se ne è in seguito emancipata. […] Sono ormai maturi i tempi per una ricomposizione vantaggiosa della dicotomia troppo severa che ha separato archeologia e storia dell’arte o almeno per affrontare su basi paritarie un dialogo necessario all’una e all’altra e per ragioni diverse interrotto o mai avviato.
La storia dell’arte – anche quella più intrisa di archeologia – in quanto disciplina ha una sua storia, ha procedure e finalità, che non coincidono con quelle dell’archeologia, ma questa autonomia della storia dell’arte nello studio dei prodotti artistici delle società passate non implica un’autonomia dell’arte nei confronti delle società che li ha prodotti. È proprio questo il filo che è stato spezzato e che occorre riannodare. È importante che riemerga il concetto di contesto, che anche nella riflessione storico-artistica, come in quella archeologica, dovrebbe diventare una sorta di riflesso condizionato, che può aiutare a riequilibrare l’attenzione della ricerca e della tutela da ciò che è unico ed eccezionale a ciò che è appunto “contestuale”. […]
Archeologia e storia
Un’archeologia senza confini (de-periodizzata) non è un’archeologia fuori dalla storia (de-storicizzata). E infatti definiamo l’archeologia come una disciplina storica e umanistica poiché pone al centro del proprio interesse la conoscenza del passato dell’umanità. Differisce tuttavia, come si è visto, dalla storia intesa in senso tradizionale (una storia fatta sui testi) per il fatto che consegue i suoi risultati a partire dalle testimonianze materiali. Le fonti archeologiche sono “testi” prodotti dallo scalpello dello scultore, dalla cazzuola del muratore, dalla ruota del vasaio o dall’aratro del contadino. La differenza tra fonti materiali e fonti scritte è dunque chiara, anche se è evidente la loro complementarietà e a volte la loro intrinseca interdipendenza, come nel caso delle iscrizioni o delle monete, dove il testo scritto è intimamente associato al supporto materiale. Un testo epigrafico può conservarsi anche solo attraverso la tradizione manoscritta, ma la conoscenza del supporto può cambiarne radicalmente l’interpretazione. Spesso anche una memoria grafica del supporto perduto può essere decisiva […]. Il valore documentario delle immagini è in genere sottovalutato dalla storiografia tradizionale e anche dagli studi di carattere filologico-letterario, nei quali l’acribia applicata alla storia del testo e delle parole non si accompagna a un interesse per le loro rappresentazioni figurate: uno sguardo anche alle migliori edizioni commentate di Omero, Livio o Plinio, può dare l’impressione che le discipline storico-filologiche e quelle archeologiche abitino su due diversi pianeti. […] Nello studio del mondo antico archeologia classica e storia antica operano in una situazione di bilanciamento tra fonti scritte e fonti materiali, ma queste ultime – a differenza delle prime – sono in via di continuo accrescimento e illuminano aree del sapere dove la luce delle fonti tradizionali non era potuta arrivare. Il problema si sposta quindi su quale sia il rapporto tra questi due sistemi di fonti, ciascuno dei quali costituisce un sistema in sé organico: essi propongono infatti informazioni di tipo diverso, non sempre comparabili, e non possono essere utilizzati in modo indifferenziato, come in un bricolage archeo/storiografico, né possono ignorarsi reciprocamente (anche se ciò è stato più spesso la norma che l’eccezione).
Kore. Statua, marmo bianco insulare, 530 a.C. ca. Atene, Museo dell’Acropoli.
Nonostante l’ampiezza della documentazione disponibile, non è così evidente la possibilità di trasformare i dati offerti dai resti materiali in conoscenze storiche relative agli assetti sociali o istituzionali di una comunità, ai comportamenti o alle convinzioni dei suoi membri o, più semplicemente, a eventi che abbiano coinvolto singole personalità. Ci si domanda fino a che punto l’una disciplina possa contribuire all’altra senza istituire correlazioni frettolose e senza forzare i dati, evitando di cercare riscontri archeologici a ogni singola testimonianza letteraria e viceversa. I due tipi di fonti possono certamente stimolarsi e sorvegliarsi reciprocamente, ma è bene tenere presente che registrano serie di dati che possono collocarsi in prospettive temporali non omogenee. I resti materiali, in particolare, documentano situazioni puntuali che tuttavia illuminano spesso processi di lunga durata, che riflettono le strutture profonde delle società: si pensi all’evoluzione degli insediamenti messa in luce dalla lettura stratigrafica o alle forme di distribuzione dei manufatti. Le loro scansioni cronologiche sono effetto dei più diversi fenomeni culturali, in cui anche l’ambiente gioca la sua parte e la cui percezione talora sfugge ai loro stessi protagonisti, e non ricalcano necessariamente le scansioni indotte dagli eventi di natura politico-istituzionale e militare (le cui tracce possono essere tanto evidenti quanto evanescenti) e non conoscono, in genere, gli stessi confini.
Le cesure dell’archeologia non coincidono quindi con quelle della storia raccontata dalle fonti scritte. Queste ultime convergono talora sulla descrizione dettagliata di un evento (ad esempio, la seconda guerra punica o le idi di marzo), che le fonti archeologiche possono sperare di cogliere in qualche manifestazione parziale, o possono non cogliere affatto. Il caso gigantesco di Pompei, dove la monumentalità archeologica del sito trova riscontro letterario nel drammatico racconto di Plinio il Giovane, non si ripete nelle centinaia di siti urbani la cui “morte” fra tarda Antichità e Medioevo non può essere quasi mai “spiegata” con il frettoloso ricorso a scarne fonti che registrino generici episodi bellici o eventi sismici.
Tucidide (Storie, II 13-17) ci parla dello spopolamento dell’Attica all’inizio della guerra del Peloponneso, quando gli abitanti furono portati dentro le mura di Atene. L’abbandono delle campagne è un episodio epocale nella storia di una comunità, che tuttavia può aver lasciato sul terreno tracce non facilmente visibili con i metodi dell’archeologia. Insomma, la certezza del dato storico non implica la sua visibilità archeologica e, viceversa, la presunta “oggettività” del dato archeologico non implica la “certezza” della sua spiegazione, che è comunque affidata alla capacità da parte del ricercatore di individuare, classificare e interpretare gli indizi nel loro contesto e di confrontarli in un sistema di conoscenze più ampio. Ciò considerato, è quindi ozioso dibattere sul fatto se le fonti archeologiche contribuiscano o no alla scrittura della storia. Si tratta semmai di interrogarsi se esse servano, tutt’al più, da verifica di quello che ci dicono le fonti letterarie, nel senso quindi di una dipendenza ancillare dell’archeologia dal testo scritto, o se piuttosto le une e le altre non vadano interrogate sapendo quel che possono eventualmente dirci e quello che non possono dirci.
Già alla fine dell’Ottocento le imprese romantiche di Heinrich Schliemann a Troia e a Micene aprirono la strada a una riflessione nuova sul valore del patrimonio di miti e leggende attinto alla tradizione letteraria antica e dettero la misura delle potenzialità dell’archeologia per la conoscenza non solo delle civiltà preistoriche, ma anche delle radici della stessa classicità, le cui origini trovavano impensate conferme nella concretezza dei siti, dei monumenti, degli oggetti. Il rapporto tra storia e archeologia cominciava allora – indipendentemente dal metodo di scavo ancora primitivo – ad assumere una dimensione più moderna, il cui sviluppo fu parzialmente inficiato dalla crisi della grande stagione positivistica: la gerarchizzazione dei saperi presente nel pensiero di matrice idealistica avrebbe infatti assegnato un primato alle forme dell’espressione artistica a tutto svantaggio delle scienze, delle tecniche e delle metodologie. A differenza delle archeologie del Vicino Oriente, come l’egittologia e l’assiriologia, che dipendevano solo indirettamente dal patrimonio di studi classici, visto che la maggior parte delle loro fonti scritte doveva essere estratta dal suolo con pratica archeologica, fu proprio l’archeologia classica – nonostante i suoi successi – che si trovò più disarmata di fronte alla gran massa di nuovi dati che giungevano dai primi grandi scavi mediterranei.
Ciò non impedì che la natura peculiare delle testimonianze archeologiche venisse magistralmente valorizzata in un campo nel quale i dati della tradizione letteraria si rivelarono più deboli o addirittura assenti, cioè nello studio dei fenomeni economici e sociali dell’antichità. Dobbiamo a un grande storico della prima metà del Novecento, Michail Rostovzev, la dimostrazione di quanto fosse fruttuoso l’uso sistematico delle testimonianze archeologiche per la comprensione del mondo ellenistico e romano.
I migliori storici del secolo passato, e in primo luogo la scuola degli Annales, dimostreranno poi quanto fossero maturi i tempi per ampliare il concetto di “documento” ben al di là delle frontiere del testo scritto, allargando i territori dello storico a tutto lo spettro della società e del comportamento umano, aprendo così indirettamente la strada al riscatto delle fonti archeologiche. Non stupisce quindi che un involontario manifesto dell’archeologia del XX secolo sia stato paradossalmente scritto da uno storico dell’età moderna, Lucien Febvre:
La storia si fa senza dubbio con documenti scritti. Quando ce n’è. Ma si può fare, si deve fare senza documenti scritti, se non esistono […]. Con le forme del campo e delle erbacce. Con le eclissi di luna e gli attacchi dei cavalli da tiro […]. Non è forse vero che una parte, e quella più appassionante senza dubbio, del nostro lavoro di storici consiste nello sforzo costante di far parlare le cose mute, far dire loro quel che da sole non dicono sugli uomini e sulle società che le hanno prodotte, fino a costituire fra loro quella vasta trama di solidarietà e di ausili reciproci, capace di supplire all’assenza del documento scritto?
L’accento era dunque posto sulle lacune della documentazione scritta e sugli ambiti di ricerca che si spalancano all’archeologia quando essa voglia farsi scienza storica introducendo nuovi protagonisti e allargando l’indagine a territori meno esplorati. Eppure, tra archeologi e storici le liti in famiglia ogni tanto si riaccendono. Anche studiosi di altissimo livello hanno ripetutamente espresso scetticismo sulla qualità dei dati archeologici e sulla possibilità di trarre implicazioni macro-economiche e di lungo periodo dai dati quantitativi offerti dalle testimonianze materiali, ritenute non utilizzabili quali indicatori significativi dei fenomeni economici e dei relativi risvolti demografici e sociali. In sostanza, si è negata validità a quei “messaggi preterintenzionali” che alcune categorie di documenti archeologici possono inviare, se adeguatamente interpretati.
I progressi compiuti dall’archeologia degli insediamenti e gli studi sulla cultura materiale costituiscono in realtà la smentita migliore a una chiusura storiografica un po’ apodittica, che si è talvolta accompagnata, nello studio delle società antiche, alle forme più estreme del pensiero primitivista. Che l’archeologia non possa coprire alcuni aspetti centrali della ricerca storica è indubbiamente vero, ma è vero anche che per la storia della cultura materiale le fonti letterarie offrono in genere informazioni molto parziali, anche se apparentemente sistematiche: si pensi, a titolo d’esempio, agli scritti degli agronomi d’età romana (scriptores rei rusticae) che hanno trovato illustrazione compiuta e commento solo dalla prima indagine archeologica analitica di una grande azienda agricola schiavistica di età romana condotta su base stratigrafica nella villa di Settefinestre, in Etruria.
Se fenomeni connessi alla tecnologia, alle forme di sussistenza e di scambio sono più facilmente accessibili tramite l’archeologia, la scala delle difficoltà cresce a mano a mano che si vogliano attingere archeologicamente gli aspetti dell’organizzazione politica e sociale, della mentalità e dell’ideologia. Un sistema politico è qualcosa di molto elusivo in termini materiali. Tuttavia, a guardar bene, fenomeni essenzialmente politici connessi alla fondazione di un centro, […] possono essere indagati anche attraverso le testimonianze archeologiche, e talvolta solo a partire da esse. è proprio dagli indicatori archeologici delle società più primitive che è stato possibile elaborare modelli di organizzazione sociale e politica utilizzabili anche per la comprensione delle società di piena età storica. In parallelo con l’uso delle fonti scritte (quando disponibili) è possibile analizzare:
I rapporti gerarchici esistenti fra diversi siti, identificando i centri dominanti nei vari periodi e le aree sottoposte al loro controllo, anche mediante l’applicazione di modelli geografici e di archeologia spaziale che investono uno dei grandi temi della storia tradizionale, come il rapporto fra città e campagna;
I diversi modelli d’insediamento, classificando gli abitati in base alla loro estensione e investigando la stratificazione sociale di una comunità attraverso lo studio delle residenze, analizzando le architetture degli edifici, la tipologia degli spazi, la qualità dei materiali impiegati e della loro posa in opera;
L’articolazione degli status sociali, che si palesa nelle tipologia delle sepolture (dalla fossa comune al mausoleo) e dei loro corredi, specchio della complessità delle relazioni che s’instaurano tra gerarchia sociale e gerarchia sepolcrale […];
Le strutture produttive e la rete degli scambi attraverso lo studio degli impianti di produzione e di quanto materialmente sopravvive delle merci nei luoghi del consumo: la loro presenza (o assenza), la loro abbondanza (o scarsità), certificate dalle carte di distribuzione, sono un punto di riferimento per la ricostruzione delle forme di interazione non solo economica ma politica e militare, e per la comprensione dei fenomeni di acculturazione.
Tutto ciò può costituire la premessa per una storia della cultura e della mentalità delle società passate. E ciò vale anche nel campo della storia dell’arte, dove lo studio delle iconografie può restituire messaggi che nessuna fonte scritta è in grado di trasmettere. C’è semmai da rammaricarsi che lo sviluppo troppo precoce delle grandi imprese di scavo rispetto alla maturazione dei metodi d’indagine abbia comportato a questo riguardo tra XIX e XX secolo la dispersione di una quantità incalcolabile di informazioni archeologiche basilari, ad esempio nello sterro dei grandi santuari antichi, di cui sono andati in gran parte perduti i caratteri della loro organizzazione contestuale e del loro sviluppo nel tempo.
Ciò non toglie che anche le fonti materiali non sia per più versi parziali e spesso frutto di casualità. Questo limite può rappresentare tuttavia anche un elemento da cui trarre vantaggio, purché si valuti criticamente il grado di rappresentatività dei resti archeologici, e in particolare del campione esaminato, specie quando dai dati della cultura materiale si tenti di risalire agli aspetti sociali, economici e culturali della comunità che li ha prodotti […].
***
Bibliografia
AA.VV., Le basi documentarie della storia antica, Bologna 1984.
BARBANERA M., L’archeologia degli italiani, Roma 1998.
BARBANERA M., Ranuccio Bianchi Bandinelli. Biografia ed epistolario di un grande archeologo, Milano 2003.
BENDINELLI G., Dottrina dell’archeologia e della storia dell’arte, Milano 1938.
BIANCHI BANDINELLI R., Introduzione all’archeologia classica come storia dell’arte antica, Roma-Bari 1976.
BLOCH M., Apologia della storia, Torino 1969.
BRAUDEL F., Scritti sulla storia, Milano 2001.
BURKE P., Una rivoluzione storiografica, Roma-Bari 1992.
BURKE P., Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Roma 2002.
CARANDINI A., Archeologia e cultura materiale, Bari 1975.
CARANDINI A., Schiavi in Italia, Roma 1988.
CARANDINI A., Giornale di scavo, Torino 2000.
CHILDE V.G., A Short Introduction to Archaeology, London 1956.
CLARKE D.L., Archeologia analitica, Milano 1998.
HAUSER A., Storia sociale dell’arte, I-II, Torino 1955.
GUALANDI M.L., L’antichità classica, Roma 2001.
LEROI-GOURHAN A., Evoluzione e tecniche, I, Milano 1993.
MICHAELIS A., Un secolo di scoperte archeologiche, Bari 1912.
MOBERG C.A., Introduzione all’archeologia, Milano 1981.
MUSTILLI D., Storia degli studi archeologici (a cura di G. Bottino), Napoli 1943.
di M. PAPINI, Avere “occhi eruditi” a Roma. Arte greca – e sensi di colpa romani – nelle opere di Cicerone, in I giorni di Roma. L’età della conquista, Milano 2010, pp. 125-135).
70 a.C.: anno del clamoroso processo contro Gaio Verre, di famiglia non blasonata, il quale già nel compimento della sua legatio al seguito di C. Cornelio Dolabella nell’80 a.C. ad Atene aveva promosso lo scippo di gran quantità d’oro dal Partenone e in Asia aveva fatto man bassa di quadri e statue (Verrine, II 1, 45-50). Dopo la conclusione della propretura in Sicilia, conseguita nel 73 e prolungata fino al 71 a.C., varie città dell’isola, a causa delle sue plurime malversazioni, manifestarono contro di lui un furore tale da abbatterne le statue; il governatore venne così processato de pecuniis repetundis, per concussione, e Cicerone su richiesta dei Siciliani assunse il compito di accusatore. L’Actio prima iniziò il 5 agosto del 70 a.C., e, dopo un’interruzione dell’attività giudiziaria, la seconda fase fu rinviata alla metà di settembre; siccome Verre scelse la via dell’esilio volontario, all’eventuale rapida ripresa delle accuse seguì la sentenza che inflisse un’ammenda modesta all’imputato, il quale continuò a vivere tra le ricchezze a Marsiglia, dove però Antonio nel 43 a.C. lo fece proscrivere a causa del rifiuto di donargli i suoi bronzi corinzi (Plinio, Naturalis Historia, XXXIV 6). Al termine Cicerone redasse le Verrine, costituite dall’Actio prima e dalle cinque orazioni mai pronunciate dell’Actio secunda, ibrido tra una requisitoria e un’opera di finzione letteraria. Il quarto libro dell’Actio secunda, la De Signis, stigmatizza, in un folto dossier, le sottrazioni di opere d’arte perpetrate in Sicilia da Verre, descritto come un ignorante convinto di poter comprare tutto: un homo locuples, eruditus, sine ulla bona arte, sine humanitate, sine ingenio e sine litteris, con la pretesa di esprimere giudizi sottili e di essere il solo a intendere; peccato solo che il Graeculus di greco non sapesse neppure un parola (Verrine, II 4, 127). Così, schiavo di un’insana smania (morbus), egli derubò dei privati cittadini, Greci e Romani, e persino dei principi reali e non si fece scrupolo di carpire opere d’arte a città o a santuari circondati da profonda venerazione, senza distinguere tra privato e pubblico o profano e sacro (II 4, 2); in più, non sempre riuscì a esibire i libri contabili e a precisare le eventuali modalità d’acquisto, a differenza di generali vittoriosi come lo scrupoloso P. Servilio Vatia, console nel 79 e trionfatore nel 74 a.C., membro della giuria nel processo, il quale, sottomessa la regione dell’Isauria, annotò nei documenti pubblici numero, grandezza, aspetto e atteggiamento di tutte le statue fatte sfilare nel trionfo (II 1, 57). La scaltra argomentazione-narrazione di Cicerone, incline a mischiare il piano legale con le forti reazioni emotive dei derubati (II 4, 47; 106-115), si trasforma oggi anche in una preziosa fonte di informazioni sul frenetico mondo delle collezioni del I secolo a.C. e sulla coesistenza delle diverse valenze, non solo estetiche, veicolate da ogni opera d’arte; ad esempio, una statua di Apollo con su iscritto sulla coscia il nome di Mirone per gli Agrigentini costituiva allo stesso tempo un dono di un generale romano, un oggetto legato al culto della loro comunità, un ornamento urbano, una testimonianza di un evento vittorioso e una prova dell’alleanza con i Romani (II 4, 93). Ma Cicerone prende di mira soprattutto l’inosservanza della sanctitas e della religio da parte di Verre a causa del furto di antichi manufatti trasmessi dagli antenati, preoccupazione del resto ben avvertita in occasione del trasferimento di bottini di guerra, quando il Senato esortava il collegio dei pontefici a determinare la categoria di appartenenza di signa o altri ornamenta (sacra o profana: Livio, XXVI 34, 12; XXXVIII 44, 5). Un esempio: i due principi reali di Siria, i fratelli Antioco e Seleuco, di passaggio dalla Sicilia, non avevano ancora potuto dedicare in Campidoglio, come nelle loro intenzioni, un magnifico candelabro tempestato di gemme, perché il tempio di Giove Ottimo Massimo, dopo un incendio dell’83 a.C., non aveva ancora finito; e di quel manufatto, un dono votivo in potenza da loro consacrato già mente et cogitatione, Verre, spacciandosi per un ospite dai tratti signorili, riuscì ad appropriarsi, con il pretesto di volerlo esaminare (Verrine, II 4, 61-68).
Eros (o Thanatos). Statua, marmo pario, copia romana del II secolo d.C. da un originale di Prassitele. Roma, Musei Capitolini.
A Messina, città favorevole al governatore, risiedeva una delle sue vittime più illustri, il ricco Gaio Eio, individuo pieno di humanitas, pietas e religio, che al dibattito partecipò nella duplice veste di privato e capo-delegazione per la laudatio dell’accusato (II 4, 3-18). La sua casa, accessibile ai visitatori per tutto l’anno, costituiva un vanto per la città, tanto che i visitatori (compresi i magistrati romani) godevano del libero accesso alla raccolta fatta di splendide statue greche, ereditate dagli antenati, che egli poteva prestare: infatti, C. Claudio Pulcro durante la sua edilità curule nel 99 a.C. ottenne per pochi giorni un Cupido in marmo di Prassitele per adornare il Foro a Roma in onore degli dèi e del popolo (modo per aumentare la magnificentia degli spettacoli e per raccomandarsi le tappe future del cursus honorum), ma fu puntuale nel restituirlo. Nell’abitazione di Eio un sacrarium ospitava da una parte l’opera di Prassitele appena citata e dall’altra un Ercole in bronzo egregie factus attribuito a Mirone; due altarini davanti davano un tocco di sacralità a un impianto altrimenti più somigliante a un “museo” in miniatura; inoltre, di due Canefore, statue in bronzo, di modeste proporzioni ma eximia venustate, sostenenti sul capo un canestro con qualche oggetto sacro non meglio determinato, si sbandierava l’attribuzione a Policleto: tutti artisti di primissimo ordine – ma attenzione ai falsi! – , che consentono di istituire un parallelo con la Casa di Hermes a Delo, della seconda metà del II secolo a.C., ospitante in un vano una statua perduta di cui si conserva solo la base con la firma di Prassitele, ritenuta di fatto riferibile al IV secolo a.C. Verre dalla cappella tutti trafugò, salvo una statua lignea molto antica forse della dea Buona Fortuna, lì lasciata o perché meno stimata o per dare la parvenza di non voler eccedere nei sacrilegi: a ogni modo, è l’unica per la quale Cicerone non nomina l’artefice. Ebbene, obietta un interlocutore fittizio, Eio si lasciò sedurre da una somma elevata, ma Cicerone non ci sta e replica: le statue, come riscontrabile sui registri, furono sì vendute per seimilacinquecento sesterzi, cifra però tanto ridicola per simili capolavori da far fiutare una simulatio emptionis. Insomma, Eio non vendette le sue preziose statue volontariamente, confidava lo stesso Mamertino, indifferente al denaro e ai manufatti solo ornamentali (le Canefore): ma i simulacri degli dèi, quelli sì, egli li rivoleva assolutamente indietro.
E a che servivano le rapine? Per ornare non i monumenti pubblici, bensì le residenze di Verre, spettacolo sgradevole e non raro, purtroppo, in tempi in cui ormai «[…] l’intera Asia e l’Acaia e la Grecia e la Sicilia si sono raccolte negli spazi interni di un ristretto numero di ville» (Verrine, II 5, 127). Così due statue un tempo collocate davanti ai battenti del tempio di Hera a Samo erano finite nell’atrio, il luogo di presentazione delle virtù ancestrali, della sua domus (II 1, 61), altresì un tempo stracolma di sculture davanti alle colonne, tra gli intercolumni dei portici e in una silva (II 1, 50-51); alcune poi le aveva affidate in deposito ad amici e altre ancora offerte in dono (II 4, 36), tenue indizio da moderni commentatori considerato, assieme ad altri (produzione di vasi e tessuti preziosi realizzati in appositi laboratori), rivelatore di una presunta natura almeno in parte mercantile dell’attività di Verre quale art dealer, saltuariamente insultato da Cicerone con metafore del genere mercator cum imperio (II 4, 8; si vd. anche II 1, 60). Eppure, se così davvero fosse stato, l’Arpinate non avrebbe mancato di farne denuncia più esplicita, stante il suo punto di vista in genere polemico nei confronti della magna mercatura; più naturale, quindi, che Verre si fosse avvalso delle spoliazioni anche alla stregua di un’arma politica per procacciarsi una fitta rete di amici e familiarissimi in seno alla nobilitas: si sa, ad esempio, che nel 75 a.C. prestò statue e dipinti proprio al suo futuro difensore, Q. Ortensio Ortalo, per la celebrazione della sua edilità mediante l’abbellimento del Foro e del Comizio (II 1, 58); e quest’ultimo ricevette dal suo cliente una preziosa sfinge in bronzo (corinzio?), alla quale fu tanto legato da portarla sempre con sé in viaggio (Plinio, XXXIV 48; Quintiliano, Institutio oratoria, VI 3, 98; per Plutarco, Vita di Cicerone, 7, 8, la sfinge, d’avorio, la ottenne come compenso per il suo intervento durante la discussione in cui si fissò l’ammenda; si vd. anche Plutarco, Moralia, 205b).
Danzatrice. Statuetta, marmo, II-I secolo a.C., da Fianello Sabino. Roma, Museo Nazionale Romano.
Per ingigantire gli indecorosi abusi di Verre Cicerone usa – e “costruisce” – dei modelli positivi attinti a un passato idealizzato, visto l’irreversibile deterioramento nel presente dell’immagine della classe politica. Spicca M. Claudio Marcello (Verrine, II 4, 115-121), conquistatore di Siracusa nel 212 a.C., la più grande e più bella di tutte le città greche. Secondo la storiografia antica l’impresa, inscrivibile nella cornice delle dispute per il prestigio tra imperatores impegnati a sfidarsi a suon di bottini di guerra sempre più fantasmagorici, sancì una svolta con la quale l’ammirazione per le arti greche si impose grazie all’importazione in massa di signa e tabulae (donde iniziò la pessima abitudine di spogliare sacra e profana che finì per rivolgersi contro gli stessi dèi romani: Livio, XXV 40, 2-3). Plutarco (Vita di Marcello, 21) schizza un quadro affascinante di Roma come città rude e primitiva, piena di armi barbare e trofei, incapace di offrire uno spettacolo gioioso o tranquillo, un «sacro recinto del bellicosissimo Ares» per dirla con le parole di Pindaro (Pitiche, 2, 1); meno male che Marcello ingentilì l’Urbe con opere che procuravano piacere alla vista e sprigionavano bellezza (ēdonḗ) e fascino (cháris) greco; tuttavia, i più anziani, dalla mentalità conservatrice, preferivano la condotta moderata di Q. Fabio Massimo, vincitore su Taranto, che nel 209 a.C. si appagò di confiscare ricchezze e tesori e pronunciò le famose parole, da non prendere però alla lettera: «Lasciamo ai Tarantini questi dèi irritati». Sempre Plutarco fa rivivere la reazione del popolo, che, dimentico della propria indole guerriera, prese a trascorrere intere giornate immerso in discussioni su arti e artisti, dal che l’«eroe filelleno» Marcello si gloriò persino davanti ai Greci (!), fiero di avere insegnato ai Romani a onorare e ammirare le loro belle opere. Forse una storiella congegnata a distanza di tempo, ma che quei capi militari del II secolo a.C. ne subissero l’attrazione anche artistica è mostrato dal fatto che essi talvolta portarono con sé artifices dall’Asia Minore o dalla Grecia (come L. Cornelio Scipione Asiageno o M. Fulvio Nubiliore: Livio, XXXIX 22, 10; 22, 2). In modo significativo gran parte dei tesori siracusani fu destinata a ornare un santuario presso Porta Capena con due templi gemelli affiancati, votato dallo stesso Marcello nel 222 a.C. e visitato dagli stranieri proprio per l’excellentia dei suoi ornamenta, di cui però poco restava quasi due secoli dopo, ai giorni di Livio (XXV 40, 3): l’aedes Honoris et Virtutis, personificazioni di concetti cardinali, per cui le opere trafugate concorsero anche a glorificare la religione e il potere di Roma. La loro importazione non fu però indolore perché finì al centro della discussione intorno alla data di inizio della corruzione dei costumi romani, derivante dalla progressiva espansione dell’Impero secondo le ricostruzioni moralistiche di quegli eventi. Polibio (IX 10), su base però pragmatica, rimprovera ai Romani di aver tradito i principi di semplicità e compiuto un errore tattico nell’abbandonare le usanze dei vincitori per imitare i gusti dei vinti, attirandosi così sul lungo periodo il loro odio, e per cosa poi? Per prede belliche che non aggiungevano alcun lustro, anche se, continua lo storico, almeno la loro distribuzione nella specifica occasione risultò appropriata, perché gli oggetti strappati a private dimore a Roma finirono in proprietà privata, mentre gli ornamenti pubblici divennero possesso statale. Le opere siracusane vengono definite infesta signa in un discorso del 195 a.C. posto da Livio (XXXIV 4, 3-4) sulle labbra dell’arcigno difensore del mos maiorum del II secolo a.C., il celebre censore del 184 a.C., M. Porcio Catone, che sempre in quell’occasione mise in guardia dai troppi lodatori degli ornamenta di Corinto e Atene a spese delle antefisse fittili degli dèi romani, dopo aver espresso il timore che le attrattive della dissolutezza incontrate in Grecia e in Asia e i tesori regali conquistassero i Romani piuttosto che essere da loro conquistati (ma davvero si espresse con queste precise parole?). A depurare comunque l’immagine di Marcello dei tratti più scomodi provvede già Cicerone, secondo il quale egli si astenne da appropriazioni indebite a uso privato e trattò Siracusa con humanitas, senza spogliarla del tutto e senza compiere scelleratezze contro le divinità. Quale differenza da Verre, che dalla cella del locale Athenaion depredò una pugna equestris del re Agatocle (305-289 a.C.) dipinta su parecchie tabulae, non toccate da Marcello, religione impeditus, che tuttavia con la sua vittoria rese tutte le cose profana; di lì rubò anche una galleria di altri ventisette quadri con ritratti di re e tiranni della Sicilia, ammirati non solo per la maestria dei pittori, ma anche perché facevano conoscere l’aspetto e rinfrescavano il ricordo di quelle figure storiche; infine, dai battenti del tempio asportò degli stupendi soggetti cesellati in avorio e staccò finanche parecchie borchie d’oro, attratto dal peso; ecco messo a nudo il suo interesse per i valori non solo artistici ma anche venali dei manufatti. Risultato: a Siracusa una volta le guide additavano le principali opere in ciascun luogo; dopo Verre non potevano che mostrare cosa era stato portato via (Verrine, II 4, 132).
Sileno. Statuetta, marmo, II-I secolo a.C., da Fianello Sabino. Roma, Museo Nazionale Romano.
In contrasto con la sua libido Cicerone adduce poi la temperantia e l’intelligentia del distruttore di Cartagine del 146 a.C., P. Cornelio Scipione Emiliano, homo doctissimus e humanissimus, che invitò proprio gli ambasciatori delle città siciliane a identificare tra le opere d’arte confiscate quelle loro sottratte nel passato dagli stessi Cartaginesi, perché capì che siffatta bellezza fu concepita non per il lusso degli uomini, ma per l’ornamento di santuari e città (II 4, 98). E Verre invece? A Engio osò sottrarre da un santuario le offerte di quel benefattore e a Segesta rimosse dapprima una maestosa statua bronzea di Diana, lì meta di pellegrinaggio da parte dei forestieri, e in un secondo momento, per oscurare la vicenda, anche il suo alto piedistallo con l’iscrizione recante a grandi carattere sempre il nome del condottiero (II 4, 72-83).
Stesso anno decisivo per il crollo dei costumi (Plinio, XXXIII 150), ma altro conquistatore: il ferus L. Mummio, vincitore di Corinto, che dall’Acaia riportò un immane bottino e secondo un filone deformante della tradizione storiografica peccò d’ignoranza sprezzante verso l’arte. Stando a Cicerone, a Tespie in Beozia l’Eros di Prassitele, un’attrazione turistica e persino l’unico motivo per recarsi in quella città, egli non lo toccò perché consecratus (ma più avanti nel tempo ci pensarono altri Romani, tra cui prima Caligola e poi Nerone, ad arraffarlo). Di Mummio Plinio esalta altresì l’abstinentia per aver riempito Roma di statue senza tenerle per sé, tanto da lasciare senza dote la figlia (XXXIV 36); e inoltre egli fu il primo a conferire auctoritas ai quadri stranieri a Roma, il che fu degno di lode perché avvenuto nel contesto pubblico (XXXV 24), attraverso la collocazione di una tabula di Aristide, pittore tebano della seconda metà del IV secolo a.C., nel tempio di Cerere: ennesima riprova dell’intreccio arte-religione, tanto più che molti oggetti paiono di grande valore solo per il fatto di essere consacrati nei templi, dichiara sempre Plinio (praef. 19)!
In breve, un conto fu la publica magnificentia, irrinunciabile, un altro la privata luxuria, tanto insopportabile (a parole) quanto inarrestabile, sfere che la classe dirigente tentò disperatamente, ma invano, di bilanciare: la crisi del sistema fu solo ritardata, vista l’artificiosità della contrapposizione, in quanto dopotutto i vizi si diffondono al meglio proprio tramite la via pubblica (Plinio, XXXVI 5). La dissipazione e lo spreco innescati dall’aumento di ricchezza sociale inocularono nei precari equilibri interni della res publica un veleno mortale, cui già Catone provò a tener testa in diversi discorsi, noti in frammenti, che, nel condannare non l’arte greca in blocco ma i suoi usi più eversivi, trattano del lusso abitativo, del buon uso e delle legittime modalità di acquisizione delle prede belliche e della mania di esporre nelle abitazioni le statue di divinità quale suppellettile; e l’ultima apprensione non perse d’attualità negli ultimi decenni del I secolo a.C., allorché M. Vipsanio Agrippa tenne una stupenda orazione intorno alla necessità di rendere di proprietà pubblica tutti i signa e le tabulae senza «condannarli all’esilio» nelle ville (Plinio, XXXV 26).
Fortuna huiusce diei. Testa colossale, marmo, 101 a.C. dal Tempio ‘B’ di Largo Torre Argentina. Roma, Centrale Montemartini.
Per Cicerone (Verrine, II 4, 126) chi desiderava contemplare opere d’arte di alto livello poteva visitare monumenti pubblici come: il tempio di Felicitas, votato durante la campagna militare di Spagna del 151 a.C. e costruito dopo il 146 a.C. da L. Licinio Lucullo, il quale per l’inaugurazione si fece prestare le statue da L. Mummio senza ridarle però indietro, con il pretesto che ormai erano sacre e appartenevano agli dèi – e Mummio, soprassedendo, si guadagnò una reputazione migliore: Strabone, VIII 6, 23; Cassio Dione, XXII 76, 2; il tempio della Fortuna huiusce diei, votato nel 101 a.C. dopo la vittoria sui Cimbri da Q. Lutazio Catulo, presso il quale si trovavano un’Atena e due signa palliata nientemeno che di Fidia; la porticus di Q. Cecilio Metello Macedonico, iniziata nel 146 a.C. dopo il trionfo sulla Macedonia e ospitante la turma Alexandri, asportata dal santuario di Zeus a Dion. Ma Cicerone deve anche riconoscere come per vedere i capolavori occorresse darsi da fare per essere ammessi nelle ricche ville dei signori di Tusculum, seppur con seguente riflessione: la passione di signa e tabulae viene invero meglio soddisfatta dalle persone di ceto modesto rispetto a chi ne possiede un gran numero; difatti, nella capitale la sfera pubblica abbonda di opere di ogni sorta, mentre chi le tiene segregate in ambito privato anzitutto non può averne così tante sotto gli occhi e per di più le riesce a vedere di rado, solo recandosi nella propria residenza rurale; infine, i privati inevitabilmente provano qualche rimorso (quos tamen pungit aliquid) non appena si rammentano come se le sono procurate (Tuscolane, V 102).
In breve, arduo separare pubblico e privato. Poteva così capitare che una statua finisse coinvolta in un’oscillazione continua tra i due poli, come un Ercole tunicato presso i Rostri del Foro, di cui ben tre iscrizioni consentivano di ricostruire la storia (Plinio, XXXIV 93): la prima «dal bottino del generale Lucullo» ne segnalava lo status di preda di guerra del ricchissimo trionfatore del 63 a.C., L. Licinio Lucullo (le manubiae, in proprietà pubblica, potevano essere controllate, ma senza abusarne, dai generali); la seconda «il figlio minorenne di Lucullo (M. Licinio Lucullo) l’ha dedicata per decreto del Senato» si riferiva a una sua pubblica dedicatio tra 56 e 49 a.C.; la terza «Tito Settimio Sabino edile curule restituì al pubblico dominio la statua già proprietà privata» ne implicava un ritorno al pubblico – nel 30 a.C.? – dopo un interludio privato. Non solo statue però: quattro colonne in marmo luculleo, alte circa 11, 24 metri, utilizzate per un teatro provvisorio allestito da M. Emilio Scauro, furono reimpiegate nell’atrio tetrastilo della sua enorme dimora in Palatio (Plinio, XXXVI 6) per poi essere collocate da Augusto in regia theatri del teatro di Marcello (Asconio, In Scaurianam, 45).
Il cosiddetto Tempio ‘B’ dedicato da Q. Lutazio Catulo nel 101 a.C. alla Fortuna huiusce diei, in Largo Torre Argentina, Roma.
Torniamo a Verre, bramoso anche di manufatti di pregio, ancor più tipici della privata luxuria. Egli razziò drappi attalici (stoffe tessute con filigrana d’oro, un’invenzione asiatica), anelli d’oro e una grande tavola di cedro (mensa citrea); Plinio (XIII 92) tramanda però come lo stesso Cicerone pagò per un’analoga mensa cinquecentomila sesterzi, cifra tanto più sorprendente sullo sfondo della sua personale situazione economica non ottimale. L’appetito insaziabile del governatore fu poi solleticato dal vasellame prezioso e dalle argenterie cesellate o decorate da rilievi, talora funzionali a sacrifici: ormai da tempo era tramontata la verecundia, il pudore di comprare siffatti articoli nelle vendite pubbliche di beni regali, fine con precisione databile per Plinio (XXXIII 149) nel 132 a.C., quando Attalo III di Pergamo lasciò in eredità il regno (e tesori annessi) ai Romani, che cominciarono per loro sventura ad amare l’opulenza straniera; e ancora più lontani i giorni in cui si poteva essere estromessi dal Senato per il possesso di dieci libbre di vasellame d’argento, come accaduto nel 275 a.C. a P. Cornelio Rufino (Valerio Massimo, II 9, 4). A ogni modo, se essere esperti di argenterie equivaleva per Cicerone a trastullo (Verrine, II 4, 33), tuttavia, nota il grande erudito del I secolo a.C., M. Terenzio Varrone (De lingua Latina, VIII 16, 31), rientrava ormai anche nelle precipue qualità dell’humanitas la voglia di non avere solo servizi soltanto utili al cibo, ma anche roba bella e artistica: per un uomo assetato basta un bicchiere qualsiasi, per un uomo raffinato no, se non è bello. Il problema si poneva però quando si oltrepassava il limite del necessario.
Verre sguinzagliò ovunque due autentici cani da caccia, i fratelli Tlepolemo e Gerone, un modellatore in cera e un pittore da Cibira in Frigia, già conosciuti durante la permanenza in Asia, e arraffò, ad esempio, delle falere appartenute al tiranno di Siracusa Gerone II (270-216 a.C.), una pesante idria cesellata di Boethos, toreuta greco del III o II secolo a.C. (quale tra i diversi artisti conosciuti con tal nome?), dei bicchieri d’argento terminanti con una testina di cavallo e gli immancabili e ambitissimi vasi corinzi, dei quali era l’unico, osserva Cicerone, in grado di penetrare i segreti della composizione (Verrine, II 4, 98; a distanza di circa un secolo un altro “competente”, Trimalchione, andrà orgoglioso di conoscerne l’origine, ma in modo ridicolo: Petronio, Satyricon, 50): infatti, l’epiteto Corinthius applicato a vasi, statue e oggetti di altra sorta fu un marchio d’eccellenza in grado persino di infiammare il furor dei raffinati intenditori, tanto da essere di norma associato nei discorsi moralistici alla dismisura e al lusso (si legga però la puntualizzazione di Plinio (XXXIV 6) a proposito della lega corinzia, determinatasi per caso – si raccontava – in occasione dell’incendio di Corinto nel 146 a.C.).
Alessandro a cavallo. Statuetta, bronzo, II-I secolo a.C. da Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Verre bramò poi, senza neppure averle viste, delle tazze fabbricate da Mentore, il più famoso cesellatore greco della prima metà del IV secolo a.C., del quale si diceva avesse fatto solo quattro paia di vasi (Plinio, XXXIII 154), quantunque a Roma specie nel I secolo d.C. circolassero parecchie sue opere – dei falsi? – con quotazioni stratosferiche; già alla fine del II secolo a.C. dall’oratore L. Licinio Crasso furono acquistate per centomila sesterzi due sue coppe d’argento, di cui mai osò servirsi proprio per la verecundia (Plinio, XXXIII 147): prima l’acquisto e poi il non uso, bel modo per non sporcarsi la coscienza; e con i suoi tanti triclinia aerata (Plinio, XXXIV 14), letti con appliques in bronzo, che fece? Senz’altro non si fece scrupolo ad usarli.
In assenza di vasi vistosi Verre si accontentò di spiantare i rilievi incastonati nei turiboli o nei piatti e nelle coppe per banchetti, oggetti antiquo opere e summo artificio (Verrine, II 4, 46-49; 52): così stavolta volle mostrare interesse per il valore artistico degli oggetti, non per l’argento, commenta, con sarcasmo, Cicerone. Eppure, la raccolta di tanti fregi uno scopo l’ebbe (II 4, 54). Infatti, egli impiantò un grande laboratorio nell’ex palazzo reale di Siracusa, dove raccolse e rinchiuse per otto mesi parecchi cesellatori ed esperti nella fabbricazione di vasi preziosi; essi, senza fermarsi, crearono moltissimi vasi d’oro, ben superiori al bisogno personale, ai quali furono applicati i vecchi rilievi, con precisione e abilità tali da dare l’impressione che fossero stati persino concepiti per quella destinazione. A qual fine tali pasticci? Senz’altro non per dissimularne la provenienza, ma per possedere manufatti ancor più lussuosi rispetto allo stadio iniziale! Come se non bastasse, allo stesso governatore piacque trascorrere la maggior parte della giornata in officina, indossando vesti indegne di un magistrato romano, una tunica scura di lana grezza (da schiavo/operaio) e un mantello di tipo greco, il pallium; è lampante il suo atteggiarsi alla maniera di un sovrano ellenistico, come Alessandro Magno, habitué della bottega del grande pittore Apelle (Plinio, XXXV 85), o Antioco IV, avvezzo a discutere con toreuti e altri artigiani di questioni tecniche (Polibio, XXVI 1).
Nella presentazione di Cicerone Verre è in fin dei conti un collezionista squilibrato e un po’ spaccone, infervorato di sculture e manufatti di notevole antichità, di forte valore commemorativo e/o di grandi artisti, senza cura per la loro provenienza, arrogandosi qualità d’intenditore. E Cicerone? Va premesso che per lui sono i Greci a nutrire, al di là dello zelo religioso, un’incredibile passione per oggetti invece insignificanti agli occhi dei Romani, i cui antenati, anzi, con magnanimità, permisero di tenere presso di sé le opere d’arte agli alleati quali garanzia di una vita il più possibile prospera e ai tributari (vectigalii e stipendiarii) come oblectamenta e come solacia servitutis (fonti di piacere e sollievo nella condizione di subalternità: Verrine, II 4, 134): benché le cose non stessero esattamente così, in gioco erano questioni di identità nazionale.
Satiro ebbro. Statua, bronzo, II-I secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
L’Arpinate descrive le statue in modo succinto, con un ventaglio di aggettivi ripetitivi che ne esaltano le qualità (egregius, elegans, nobilis, optimus, perfectus, praeclarus, pulcherrimus, singularis, eximia venustate, summo artificio e così via): nessun stupore, è un’orazione, non un trattato d’arte. Tuttavia, egli sa stabilire dei confronti sulla base di species, forma e pulchritudo tra diverse opere (Verrine, II 4, 129-130), anche perché ne ha visto un gran numero, benché ciò non lo abbia aiutato a farne un intenditore raffinato, e riesce a distinguere tra loro pregi o difetti, capacità in fondo obbediente a una sorta di istinto inconscio: gli uomini, infatti, possono giudicare pitture e statue, ancorché per natura forniti di un numero limitato di strumenti per la loro comprensione (intelligentia: De oratore, III 90, 195). A più riprese egli si compiace nel negare una competenza in materia, in quanto profano, idiota (Verrine, II 4, 4), strategia in parte strettamente funzionale al processo, perché si rivolge a un pubblico ancora diffidente di un’eccessiva considerazione fine a se stessa dell’arte greca, e dissimulatio volta ad accrescere per contrasto il prestigio della propria gravitas. A proposito delle statue nel sacrarium di Eio si meraviglia di avere imparato i nomi degli artisti durante la raccolta delle prove e si industria a tradire qualche impaccio nelle attribuzioni, anche quando sicure! Così si chiede per le Canefore: l’artista che le ha fatte, chi era? Risposta: ecco, sì, buono il tuo suggerimento; dicevano che si trattava di Policleto. Certo, uno stratagemma volto a fingere una non praeparata oratio (Quintiliano, IX 2, 61); ma, al di là degli artifici oratori, Cicerone, pur al corrente delle valutazioni delle opere d’arte sul mercato, con la misura del loro valore proporzionale alla libido nutrita per esse, non rientrava affatto nella schiera dei fanatici studiosi, intellegentes o elegantes che del collezionismo facevano il loro unico scopo di vita. In breve: nel campo delle arti figurative egli non è né competente né ignorante, la sua è un’attitudine non da peritus ma da “dilettante”, conscio del piacere da esse suscitato, che però può pericolosamente trasformarsi in un intrattenimento privo di utilitas. Un parallelo si può istituire per certi versi con il rapporto ambivalente con la cultura greca, distintivo secondo Cicerone dei suoi maestri, gli oratori L. Licinio Crasso e Marco Antonio, ben coscienti delle insidie del bilinguismo, positivo solo se sfruttato al fine dell’affermazione della romanità e non per una sua mera assimilazione alla grecità: l’uno, esperto di greco, voleva comunque dare l’impressione di disprezzare i Greci a favore della saggezza dei concittadini, mentre l’altro addirittura ne negava la conoscenza, malgrado si fosse tanto appassionato a dotti dibattiti durante una permanenza ad Atene e a Rodi (De oratore, II 1, 3-4).
Come si comportò l’Arpinate nell’ornamento delle sue ville (ben sette ne possedette, oltre a quella di Arpino ereditata dal padre)? Esse solo in parte continuarono a essere dotate di parti funzionali alla produzione e rappresentarono soprattutto luoghi di un otium raffinato e propizio alla studio o rifugi in periodi di dolore o forzato allontanamento dall’impegno pubblico: uno spazio esistenziale alternativo ai negotia della burrascosa arena politica, impossibile però da lasciarsi del tutto alle spalle, tanto più se lì tendevano comunque a riversarsi masse di clienti (ad Atticum, II 14, 2; V 2, 2). Dimore e ville lussuose con l’indebolimento dell’autorità senatoria e con l’espansione della sfera dell’otium si ridussero sempre più a simboli di affermazione personale, tanto che i senatori, come poté rimarcare Catone Uticense durante un dibattito sulla pena da applicare ai complici di Catilina, le avevano sempre apprezzate, insieme ai signa e alle tabulae, persino più del bene della Repubblica (Sallustio, De Catilinae coniuratione, 52, 5). La profusione di spese sfociò così in una gara sfrenata, cui solo gli incendi per fortuna potevano porre un limite: ad esempio, se nel 78 a.C. non v’era abitazione più bella di quella di Marco Lepido, nel giro di soli trentacinque anni nella graduatoria delle case più sontuose essa era scesa persino sotto il centesimo posto, tanto si erano incrementate le spese regali, la quantità dei marmi e le opere dei pittori (Plinio, XXXVI 109-110). Nell’opera De officiis (I 39, 139-140), scritta proprio ai giorni del boom del lusso (44 a.C.), nel momento del profondo rinnovamento delle residenze del Palatino ben tangibile anche nella documentazione archeologica, Cicerone al riguardo dell’aedificatio privata giustifica il bisogno di una casa di rappresentanza all’altezza della dignitas e di un homo honoratus et princeps e dunque abbastanza ampia per accogliere ospiti e clienti, ma senza troppo sfarzo, nel rispetto della giusta misura, e fa appello al senso di responsabilità dei principes civitatis, chiamati a fornire un simile modello per gli altri, cavalieri o liberti, che tendono a imitarli (si vd. anche De legibus, III 13, 30-31), in ossequio a un modello di etica sociale poi assimilato dall’ideologia augustea. A ogni modo, alla luce delle condizioni di generale agiatezza e delle possibilità di “bella vita”, era in fondo inutile continuare a riproporre l’antica virtù della più rigida continenza, ormai anacronistica e introvabile persino nelle carte, se non in quelle ingiallite, e la realtà, seppur intrisa di vizio, consentiva comunque delle scelte positive e graduate, senza dover rendersi insensibili ai piaceri: questa la constatazione di Cicerone nella cornice di una nuova e disinvolta “proposta educativa” per la gioventù esposta nel 56 a.C. (Pro M. Caelio, 40).
Filosofo. Busto, bronzo, I secolo a.C. ca. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Ed egli come si regolò per par suo? L’abitazione urbana, acquisita alla fine del 62 a.C., gli costò la somma di tre milioni e mezzo di sesterzi, spesa esorbitante ma necessaria per dare visibilità allo status raggiunto – fu eletto console nel 63 a.C. – , mentre una domus davvero contrassegnata da mediocritas sul Quirinale e un po’ demodé la possedette piuttosto l’amico T. Pomponio Attico, che, malgrado il cospicuo patrimonio, si distinse più per il buon gusto e disprezzò falsi beni come pavimenti marmorei o soffitti a cassettoni (De legibus, II 1, 2): non a caso, egli, elegans, non magnificus, splendidus, non sumptuosus (Cornelio Nepote, Vita Attici, 13, 5), non fu un membro della nobilitas e si astenne dalla vita politica attiva, stomacato dalle sue degenerazioni.
La casa a due piani di Cicerone si trovava sulla pendice settentrionale del Palatino, verso le Carinae, in un’area vicinissima al Foro e naturalmente in bella vista (in conspectu prope totius urbis), esigenza, questa, avvertita dai domini a tal punto che M. Livio Druso nei primi anni del I secolo a.C. pretese una dimora parimenti in Palatio edificata in maniera tale che tutti potessero vedere quello che il proprietario svolgeva all’interno, contrariamente ai progetti iniziali dell’architetto (Velleio Patercolo, 2, 14). L’abitazione dell’Arpinate possedeva una palaestra (ad Atticum, II 4, 7), un’ambulatio, un laconicum (quest’ultimo ambiente adibito al bagno secco tipico della palestra: ad Atticum, IV 10, 2) e horti (ad Quintum fratrem, III 1, 14); le ultime tre componenti sono assicurate almeno a partire dalla restituzione sotto forma di villa urbana, seguita al saccheggio e alla demolizione di una sua parte a opera del vicino, l’avventuriero P. Clodio Pulcro, il quale, approfittando dell’esilio di Cicerone nel 58 a.C., volle allargarsi per abitare alla grande e superare laxitate et dignitate le domus di tutti gli altri (Pro domo sua, 116); e lo stesso Pulcro comprò poi nel 52 a.C. anche la già citata casa sul Palatino di M. Emilio Scauro per la cifra record di quattordici milioni e ottocentomila sesterzi (Plinio, XXXVI 103).
Dall’epistolario tra il 68 e il 65 a.C. con Attico, di stanza ad Atene, si apprendono parecchi dettagli sull’acquisizione di opere d’arte per la villa prediletta, comperata da Cicerone nel 68 a.C. e già appartenuta a Silla, a L. Lutazio Catulo, console del 78 a.C., e a L. Vettio, in quella Tusculum piena di palazzi “regali” (Strabone, V 3, 12) dove egli ama ambientare i propri dialoghi, ma dove c’era da competere con parecchi principes civitatis, amanti particolarmente della pittura. Per eccitare la plebe, nel 67 a.C. il tribuno A. Gabinio in contionibus si servì a mo’ di aiuto visuale di una pittura a illustrazione dei fasti della villa di L. Licinio Lucullo (Pro P. Sexto, 93; peccato però che quella in costruzione dello stesso Gabinio risultasse talmente grande da farla apparire come un tugurium); Lucullo fu comunque uno dei maggiori collezionisti di quadri tanto da avere acquistato ad Atene per due talenti la copia di un’opera, La venditrice di ghirlande, del pittore greco del IV secolo a.C., Pausia di Sicione (Plinio, XXXV 125). Il già citato oratore Ortensio nella propria villa di Tusculum intorno a una tabula di un altro pittore sempre del IV secolo a.C., Cidia, rappresentante gli Argonauti e pagata centocinquantaquattomila sesterzi, fece costruire un tempietto (Plinio, XXXV 130); e sempre Ortensio nel 55 a.C. dissuase Pompeo e Crasso, promotori di una lex sumptuaria, dall’aprire una contraddizione tra la proposta e il loro tenore di vita (Cassio Dione, XXXIX 37, 2). Infine, nella villa tuscolana di M. Emilio Scauro furono portati tutti gli oggetti rimasti della decorazione del teatro provvisorio – perché destinato a durare un solo mese – montato nel 58 a.C. durante la sua edilità, nel quale esibì tremila statue di bronzo tra trecentosessanta colonne di una scena a tre piani, stoffe attaliche, dipinti e altri arredi; e quando gli schiavi in rivolta la bruciarono, se ne andarono in fumo trenta milioni di sesterzi (Plinio, XXXVI 115-116); plausibile che diversi quadri fossero stati da lui comprati a Sicione, la patria della pittura, costretta a vendere all’asta tutte le tabulae del patrimonio pubblico per riscattare un debito (Plinio, XXXV 127).
Un esemplare dalla coppia dei “Corridori”. Statua, bronzo, II-I secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Frattanto, mentre le residenze brillavano sempre più dei colori delle tabulae greche, che succedeva alla Repubblica? Si stava perdendo, proprio come un dipinto antico, di cui non ci si preoccupava di ravvivare né le tinte originarie né il disegno né le linee di contorno (Cicerone, De re publica, V 1).
Per il proprio Tusculanum l’Arpinate allestì delle installazioni battezzate con nomi greci evocativi dell’universo del ginnasio, tra cui uno xystus (quest’ultimo nell’accezione romana un ambulacro scoperto, mentre secondo la denominazione greca era un portico per le esercitazioni degli atleti durante l’inverno: Vitruvio, VI 7, 5), il Lyceum con annessa biblioteca e, su una terrazza più bassa, l’Academia: le ultime due dovevano consistere in peristili, lunghi porticati con un vasto giardino, ben adatti per lo svolgimento di conversazioni filosofiche e letterarie. Si delinea insomma il quadro quasi di una villa philosopha a rimprovero dell’insania di altre ville, per parafrasare le parole dello stesso Cicerone relative a quella del fratello Quinto a Laterium, non priva però di piacevoli abbellimenti, come le statue di palliati che tra gli intercolumni sembravano fare i giardinieri e vendere l’edera sparsa ovunque dal decoratore del giardino (ad Quintum fratrem, III 21, 5: 54 a.C.). Al desiderio del recupero dei simboli della tradizione culturale greca contribuì anche l’amore di Cicerone per Atene – la Grecia allo stato puro –, dove ebbe modo di risiedere per sei mesi durante un viaggio d’istruzione del 78-79 a.C., come dimostra il suo progetto di realizzarvi poi qualche monumentum, tanto da proporre la costruzione di un propylon per l’Accademia (ad Atticum, VI 1, 26); e siccome i suoi posti un tempo frequentati da illustri e ammirati ingegni costituivano dei luoghi di memoria colmi di una vis admonitionis stimolante la loro imitazione e non una pretta curiosità antiquaria, se ne comprende il perché dell’evocativo e virtuale “trapianto” all’interno degli spazi romani, dove si poteva persino “imitare” la letteratura. Infatti, nel De oratore di Cicerone composto nel 55 a.C. e ambientato nel Tusculanum di L. Licinio Crasso, gli interlocutori si siedono sotto un platano per imitare l’atteggiamento di Socrate nel Fedro di Platone, sdraiato sull’erba sotto un albero per pronunciare le parole ispirate da un dio, con la differenza, non da poco, che nel nuovo scenario romano era ormai possibile godere del comfort di sedili e cuscini (I 7, 28); e nel Brutus (24), terminato nel 46 a.C., i protagonisti conversano in un praticello propter Platonis statuam, forse all’interno di un peristilio nella casa sul Palatino di Cicerone.
L’Arpinate preme su Pomponio Attico (ad Atticum, I 5, 7; I 6, 2) perché gli procuri, oltre a una biblioteca, anche degli ornamenti scultorei adatti per diversi ambienti: desidera degli ornamenta da ginnasio (gymnasióde: l’espressione può includere statue tanto di atleti quanto di divinità o eroi); si rallegra al solo pensiero di ricevere quanto prima delle erme in marmo pentelico con teste di bronzo; pretende statue conformi: al luogo (ginnasio e xystus), alla sua passione e al gusto (elegantia) di Attico; ammette così di esser preso da un tale studius (passione) da meritare quasi una nota di biasimo (I 8, 2); attende con ansia i signa di Megara, pagati ventiquattromilaquattrocento sesterzi a un certo L. Cincio, e le erme e richiede altre cose che ad Attico appaiono il più possibile idonee per l’Accademia (I 9, 2); ordina la spedizione per nave delle sue statue e delle erme di Eracle e lo prega di nuovo di trovargli qualcosa di adeguato a una palestra e a un ginnasio, nonché dei bassorilievi da includere nell’intonaco dell’atrio secondario e due puteali con figure (I 10, 3); prova piacere a leggere quel che l’amico scrive su una Hermathena, ornamento a puntino per l’Accademia, perché, se Hermes si addice a tutti i ginnasi, Minerva, dea della sapienza, dà particolare lustro al suo impianto, e dice poi che gli sarà grato se riuscirà ad adornare quel luogo anche con altri pezzi in grande quantità (I 4, 3); e l’erma non solo riesce a delectare Cicerone, ma trova anche una collocazione sì adeguata che l’intero ginnasio sembra trasformarsi in un dono votivo (anáthema) in onore di quella dea (I 1, 5) con la quale egli intrattiene un rapporto strettissimo (è, infatti, la consigliera delle sue decisioni: Pro domo sua, 144) e che richiama l’Accademia di Atene, contenente appunto un santuario di Atena; la struttura si ammanta dunque di un’aurea religiosa, altra scappatoia per addolcire la contraddizione tra un modello di vita improntato alla salvaguardia, per quanto non ottusa, del mos maiorum e l’esigenza di vivere all’altezza del proprio rango sociale.
Athena Promachos. Statua, marmo bianco, I secolo a.C. dal tablinium della Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Per riepilogare, Cicerone, benché non privo di un entusiasmo di cui quasi si vergogna, non è “maniaco” come Verre, delega le scelte all’amico, dei soggetti si interessa in modo generico ed è piuttosto sensibile alla loro capacità, in congruità con l’ambiente, di creare una determinata atmosfera; reclama non capolavori di artisti celebri ma l’acquisto del più ampio numero possibile di opere (quam plurima: ad Atticum, I 8, 2) e a buon prezzo (I 3, 2). Queste, in definitiva, le virtuose ricette per procurarsi un’“arte ambientale” al servizio di aspirazioni culturali e per evitare ogni senso di colpa.
E in caso di infrazione della regola della conformità al contesto? Cicerone si seccava. Difatti, in una sua lettera del 46 a.C. (?) all’amico M. Fabio Gallo, al cui gusto di uomo in omni iudicio elegantissimus era solito affidarsi (ad familiares, 7, 23), rende conto di un affare infelice. Costui gli aveva acquistato a un prezzo esagerato da un certo C. Avianio Evandro quattro-cinque statue di piccole proporzioni, ritenute degne del suo gusto e in grado di delectare, tra cui delle baccanti carine (pulchellae); quanto ad Avianio Evandro, deve essere lo stesso scultore – e toreuta – assai attivo ad Atene negli anni cinquanta; di lì si trasferì al seguito di Antonio ad Alessandria (36 a.C.) e fu poi portato a Roma sotto Augusto nel 30 a.C.; e nel tempio di Apollo del Palatino gli fu affidato il restauro della testa di una statua di Diana scolpita da Timoteo (Plinio, XXXVI 32). A ogni modo, l’Arpinate si lamenta del paragone istituito a sproposito da Gallo con un gruppo di muse di Metello (venduto sub hasta?), che comunque non avrebbe mai considerato confacente a tanto prezzo – anche se appropriato per una biblioteca –, mentre le baccanti non costituivano un soggetto conforme alla propria casa, tanto più visto il suo vezzo di comprare statue per la palestra ad similitudinem gymnasiorum; egli, oltretutto, le baccanti le conosceva benissimo e le aveva spesso viste ad Atene, per cui, se le avesse desiderate per davvero, non avrebbe mancato di istruirlo in merito. In aggiunta, Cicerone deplora anche un altro acquisto, una statua di Marte, poco adatta per un fautore della pace come lui, mentre invece si dichiara disponibile a prendere un trapezophorum qualora Gallo, deciso a tenerselo, avesse cambiato idea. Transazione del tutto sballata pertanto, ma il ritardo nel pagamento lasciava aperto un minimo spiraglio per scaricare il gruppetto delle sgradite sculture a Damasippo (lo stesso interlocutore di Orazio nelle Satyrae, 2, 3, commerciante d’arte divenuto insanis a forza di acquistare vecchie statue) o a uno come lui.
Ora, sebbene a Cicerone le baccanti non piacessero, esse di fatto rientravano nell’offerta tesa a soddisfare la famelica domanda dei soggetti dionisiaci destinati a un frequente impiego “decorativo” nei giardini delle ville romane a partire dall’epoca tardo-repubblicana, mentre Dioniso e satiri scarseggiavano invece nelle dimore di Delo.
Dioniso. Erma, bronzo, 80 a.C. ca. dal relitto di Mahdia. Alaoui, Musée Nationale.
Ad esempio, nella Casa del Fauno di Pompei dal tardo II secolo a.C. sul bordo dell’impluvio dell’atrio principale danzava la statuetta di bronzo di un satiro, mentre l’incontro erotico sempre di un satiro con una menade era inscenato su un emblema musivo del cubicolo 28. Del carico commerciale del relitto di Mahdia (Tunisia), nell’insieme ben esemplificativo delle richieste degli acquirenti romani a cavallo tra il II e il I secolo a.C., faceva parte sì di un’erma, in bronzo, ma di Dioniso, firmata sull’attacco del braccio destro da Boeto di Calcedonia, scultore e toreuta della prima metà del II secolo a.C., peraltro già usata e trasportata quindi per un riutilizzo.
Vale poi la pena di menzionare un complesso di sculture di modulo inferiore al vero da un villa di Fianello Sabino nel Lazio, per lo più riferibili al periodo tra il II e il I secolo a.C.: in virtù del materiale, in prevalenza marmo “grechetto” – forse pario – , se ne è postulata la provenienza quasi in un’unica fornitura da una o più botteghe di Delo, attivissime proprio in tale periodo anche nella produzione dei bronzi, attribuzione congetturabile anche per i diversi triclinia aerata dal relitto di Mahdia – e il Gaio Eio delle Verrine è stato identificato con un C. Heius T. f. Libo, magister di un collegio religioso attestato nell’isola. Tra i rinvenimenti di Fianello Sabino spicca una statuetta di menade con pelle di pantera in atto di incedere (anch’essa pulchella?) forse parte di un unico corteo dionisiaco assieme a un sileno e a una danzatrice acefala. Lo stesso nucleo, testimone in chiave formale di un ampio spettro di scelte adattate ai temi, contiene anche ornamenti più in linea con un ambiente “ginnasiale” e perciò con i gusti di Cicerone: un giovane lottatore, un altro fanciullo impegnato forse in una performance sportiva e un Eracle con clava; inoltre, una piccola doppia erma barbata, con il volto di Demostene ancora riconoscibile (abbinato a Eschine?), riporta alla mente la presenza di una imago in bronzo del grande oratore attico insieme alle immagini degli antenati nella villa di Tusculum di M. Giunio Bruto (De oratore, 31, 110). Infine, sempre da Fianello Sabino derivano altri manufatti marmorei, tra cui sei rari esemplari di lussuose lucerne a forma di corona a otto fiammelle, le quali, affini per la peculiare forma a tipologie in uso in santuari, potevano spargere un’aria sacrale: un po’ alla maniera dei candelabri in marmo, altra categoria di manufatti “inventata” per il mercato romano, della quale, non a caso, sempre il relitto di Mahdia conteneva almeno cinque esemplari prodotti in serie all’interno di atelier ateniese del II –I secolo a.C., e un po’ anche alla maniera degli altarini del sacrarium di Eio.
Un satiro e una ninfa. Mosaico pavimentale dal cubiculum 28 della Casa del Fauno a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Immagini attinenti al tiaso dionisiaco e al mondo della palestra abbondano anche tra i tanti reperti scultorei da diversi ambienti nella Villa dei Papiri di Ercolano, inquadrabili tra il terzo quarto del I secolo a.C. e, in numero minore, gli ultimi anni di vita del complesso: senza comporre un “programma” leggibile in termini troppo rigidi, tra di essi, caratterizzati da una forte eterogeneità dei modelli formali, si annoverano repliche di originali greci e creazioni ex novo, affiancate con pari dignità; e non manca neppure Atena, sotto forma di una promachos in marmo pentelico, dal cosiddetto tablinium, secondo un tipo arcaizzante elaborato proprio nel I secolo a.C. e trasmesso anche dai frammenti di un altro esemplare dall’area dell’acropoli di Atene. Siccome alla formazione di ogni collezione, per quanto nell’insieme standardizzata, dovette contribuire anche qualche scelta più personalizzata, è concepibile che Cicerone non sarebbe stato troppo interessato a quei ritratti dei sovrani ellenistici esposti in gran copia nella Villa dei Papiri accanto ai volti di filosofi e poeti, attraverso i quali il proprietario poté mirare quasi alla ricreazione di una corte dinastica e all’associazione con grandi personaggi carismatici del passato, modelli di riferimento per i protagonisti della vita pubblica e militare dell’ultima generazione della Repubblica. Di certo i ritratti greci vennero amati non tanto per le loro qualità artistiche quanto piuttosto per la fama dei personaggi: sintomatico il comportamento nel 56 a.C. di Catone Uticense in missione a Cipro per annettere l’isola a Roma e confiscare i beni di Tolomeo, in quanto si astenne dal vendere una sola statua, quella del fondatore della scuola stoica, Zenone, non perché sedotto dal bronzo o dall’arte, ma perché immagine di un filosofo (Plinio, XXXIV 92).
È inappurabile se l’ornamento del Tusculanum, come non escludibile, prevedesse repliche di celebri originali greci; ma si può stabilire a quali grandi scultori andasse la preferenza di Cicerone grazie a plurimi brani che instaurano delle analogie tra retorica e arti visive, sempre con la dovuta premessa: queste ultime sono mediocres, di ordine minore. Egli ama quindi il ristretto canone degli artisti del V secolo a.C., del calibro di Policleto e Fidia, scelta scontata perché la loro eccellenza fu comunemente riconosciuta nell’antichità: secondo una visione storico-artistica già tardo-ellenistica, di impostazione classicistica, le statue del primo, almeno a suo parere, risultavano iam plane perfecta perché perfezionarono un processo di progressivo avvicinamento alla veritas, avviato sin dall’inizio del V secolo a.C. (Brutus, 70; con tale brano si imparenta poi un più articolato passo di Quintiliano – XII 10, 7-9 – , che attinge alla medesima fonte greca); e il secondo viene elogiato in quanto nello scolpire lo Zeus di Olimpia o l’Atena del Partenone ebbe insita nella mente una perfetta immagine di bellezza in grado di indirizzare la sua mano nell’attuazione concreta (De oratore, II 8-9), evidente riflesso di un’altra teoria estetica, quella della phantasia, sottintendente una visione idealistica del processo creativo, stavolta non limitato alla mimesi della natura, ed elaborata forse già nel II-I secolo a.C. sulla base di spunti platonici, aristotelici o stoici.
Dinasta ellenistico (forse Eumene II di Pergamo). Busto, bronzo, II-I secolo a.C. dalla Villa dei Papiri, Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Cicerone ha idee ancora più chiare nel campo della pittura, l’arte che più riesce a dilettarlo (ad familiares, VI 23, 3). I gusti sono tanti: poiché un criterio per un giudizio assoluto non v’è, qualcuno ama le pitture rozze e qualcuno quelle più nitide, vivaci e piene di luce (De oratore, XI 36); ma nel De oratore (III 25, 98) il protagonista, Crasso, rileva come le pitture nuove che appaiono più brillanti (floridiora) per pulchritudo e varietas dei colori, attirino sì al primo sguardo, ma senza saper dilettare a lungo, mentre si rivela forte l’attrazione del colore rozzo e antiquato delle tabulae antiche. In sostanza, nella pittura – e non solo – conviene il senso della misura (De oratore, XXII 73). Tra i pittori greci Cicerone loda i grandi nomi del V secolo a.C., Zeusi, Polignoto, Timante e le formae e i liniamenta di coloro che usarono un sistema tetracromatico (a quattro colori), mentre vede la piena maturità coincidente con la fase finale del IV secolo a.C. (Ezione, Nicomaco, Protogene, Apelle: Brutus, 70). Indubbio è che il suo Tusculanum, pur senza poter ostentare tabulae greche originali al pari delle ville “rivali”, poté almeno vantare una pittura romana di argomento storico immortalante uno dei suoi precedenti proprietari, Silla, in atto di ricevere la corona ossidionale da parte dell’esercito nella sua funzione di legato contro i Marsi, episodio occorso nel 149 a.C. (Plinio, XXII 12).
Chiunque sia solo un poco “umano” non può non conoscere l’eccellenza di Prassitele, asserisce Varrone in un brano riportato da Aulo Gellio in Noctes Atticae (XIII 17), il quale spiega come “umano” significhi qui l’essere dotato di una certa cultura e dottrina, consistenti anche nella conoscenza, dai libri e dalla storia, di chi fosse Prassitele, e come l’humanitas implichi un’educazione nelle arti liberali; e con l’humanitas di Varrone dovette armonizzarsi anche il possesso di un’opera in marmo Gli amorini alati in atto di giocare con una leonessa di uno scultore da lui tanto stimato e attivo nella prima metà del I secolo a.C., Arcesilao, familiaris probabilmente di M. Licinio Lucullo (Plinio, XXXVI 41). Chissà, forse anche questo tema “rococò”, il cui schema è rappresentato su tre quadretti musivi, di cui uno da Anzio del I secolo a.C., non sarebbe stato molto apprezzato da Cicerone, ma non era questo il punto; piuttosto era da stolti provare uno smodato piacere per statue, quadri, argenterie cesellate, vasi corinzi e magnifici palazzi. Così, nel figurarsi uno dei sedicenti principes civitatis come inebetito davanti a un quadro di Ezione o ad una statua di Policleto, egli afferma (Paradoxa stoicorum, V 2, 36-38): «anche senza porre la domanda di come e da dove ti sia procurato tali capolavori, quando ti vedo fermo a gridare lodi e ad ammirarli, ti considero un servo di tali quisquilie, amabili sì, ma riducibili a trastulli da ragazzi (oblectamenta puerorum)».
Ciononostante, egli stesso deve alla fine confessare di avere «occhi eruditi», perché nessuno ormai poteva più sfuggire al processo di acculturazione visiva prodotto dall’appropriazione e dalla diffusione delle opere greche: niente di male, a patto però di non farsene troppo abbindolare.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.