Clistene e la fondazione della democrazia

Un mutamento di regime verso forme che non somigliassero a quelle dell’aristocrazia vigente ad Atene prima di Pisistrato e dominante nel mondo ellenico, un cambiamento insomma verso regimi politici radicalmente nuovi, non fu certo gradito a Sparta. Ma gli Alcmeonidi, rientrati grazie all’aiuto lacedemone, posero presto mano a una radicale e grandiosa riforma delle istituzioni cittadine. Le notizie principali su Clistene, figlio di Megacle, rampollo dell’illustre γένος, e sulla sua opera provengono in massima parte da Erodoto e dalla Costituzione degli Ateniesi (Ἀθηναίων πολιτεία) di Aristotele. Dopo la cacciata del Pisistratide Ippia, in Atene presero a contrastarsi gruppi guidati da Clistene e Isagora, dei quali quest’ultimo fu designato arconte per l’anno 508/7. Clistene reagì all’elezione del rivale appoggiandosi al δῆμος, il «popolo», che la politica pisistratide aveva fortemente valorizzato come forza sociale: secondo Erodoto (V 66), l’Alcmeonide τὸν δῆμον προσεταιρίζεται («associò il popolo alla propria eteria»), cioè ne fece uno dei protagonisti del confronto politico, fino ad allora dominato dai membri delle casate aristocratiche, e poté così ottenere la base di consenso necessaria per dar corso ai propri progetti, che sarebbero stati all’origine della democrazia ateniese.

L’aspetto fondamentale dell’opera riformatrice di Clistene consistette in una nuova geografia e geometria dei rapporti politici, ripartendo la popolazione attica su base territoriale, secondo una rigorosa impostazione decimale. Al posto delle quattro tribù (φυλαί) genetiche ioniche, egli ne introdusse dieci con un forte legame sul territorio, che presero il nome da eroi locali – indicati, secondo la tradizione – nientemeno che dall’oracolo di Delfi: Acamantide, Eantide, Antiochide, Cecropide, Eretteide, Egeide, Ippotontide, Leontide, Eneide, Pandionide. L’appartenenza alla tribù non dipendeva più dal rapporto personale o gentilizio tra i suoi membri, ma dalla loro residenza. In Attica, infatti, era disperso un gran numero di centri diversi, detti δῆμοι, ovvero piccole comunità di villaggio (cfr. Strab. IX C. 396, che ne contò 174): una delle novità della riforma clistenica fu quella di aver trasformato queste realtà preesistenti in cellule vitali della struttura politica ateniese.

Anna Christoforidis, Clistene, statista greco e padre della democrazia. Busto, marmo, 2004. Columbus, Ohio Statehouse.

Della precedente ripartizione filetica tuttavia permase l’articolazione in tre sezioni: ogni tribù (φυλή) comprendeva tre trittìe (τριττύες). I processi di astrazione e di livellamento, espressi da questa operazione politica, cozzavano naturalmente contro le antiche strutture, basate su rapporti familiari e interessi di consorterie locali. Così, dei vecchi gruppi politici rimase una traccia, ma non più come basi di distinti gruppi di pressione con interessi economici definiti: la nuova ripartizione divenne, con lieve modifica, il quadro geografico per la costruzione del territorio di ciascuna tribù, su un totale di trenta circoscrizioni territoriali ancora tratte, rispettivamente, una dalla zona costiera (παραλία), una dall’entroterra (μεσόγαια) e una dalla città (ἄστυ). Al vecchio frazionamento politico-territoriale, dunque, si sostituì una rappresentazione del territorio secondo fasce che, in astratto, possono essere considerate concentriche, estendendosi dal centro urbano all’interno e alla costa. Ovviamente, com’era sempre nel mondo greco, la costruzione, pur sì carica di valori di astrazione, non era mai totalmente astratta, ma conosceva adattamenti alle reali condizioni del territorio e delle sue singole parti. Il principio era quello di immettere nella nuova base della struttura comunitaria, fondendole nella medesima tribù, frazioni che un tempo avevano fatto blocco con altre località confinanti, spesso in lotta per il potere, il che di fatto equivaleva alla contrapposizione fra consorterie locali capeggiate dalle grandi famiglie (γένη). Ora, invece, con Clistene, ogni tribù conteneva di tutto: la residenza in un determinato demo definiva il cittadino insieme alla sua paternità, al punto che l’onomastica ateniese prevedeva l’indicazione del nome personale, del patronimico e del demotico (i.e. «Temistocle, figlio di Neocle, del demo Frearrio»).

Il nuovo assetto costituzionale impresso da Clistene previde accanto al centro urbano, sempre più sviluppantesi, con funzioni politiche, sociali ed economiche nel corso del V secolo, un’altra componente essenziale: la campagna, il territorio con la sua autonomia locale; oltre ai demi (ciascuno guidato dal suo demarco), il legislatore mantenne le antiche fratrie (φρατρίαι), con funzioni di stato civile, e le vecchie naucrarie (ναυκραρίαι), con funzioni modificate e ridotte.

L’Attica e la Beozia [Funke 2001, 16].

Una delle parole d’ordine della riforma clistenica fu «mescolare», rendere impossibile o inutile la ricerca delle origini familiari, classificare ciascuno secondo il demo, che, attraverso lo strumento intermedio della tribù, costituiva il quadro organizzativo fondamentale della πόλις: perciò, gli organi di governo e le varie istituzioni dovevano rispettare proporzionalmente, e secondo una rotazione, tale organizzazione (Aristot. Athen. Pol. 20-21). Così, ogni tribù doveva fornire un congruo reggimento di opliti (τάξις), guidato dal tassiarco (ταξίαρχος), e uno stratego (στρατηγός); la data di introduzione del collegio dei dieci strateghi è incerta, ma è noto che essi erano in origine eletti uno per tribù e che solo in seguito furono designati tra tutti i cittadini, senza rispettare la divisione clistenica. Fu istituito un consiglio (βουλή) dei Cinquecento, i cui membri erano sorteggiati in numero di cinquanta per ciascuna tribù: questo organo consultivo, costituito da cittadini di età superiore ai trent’anni, sedeva in permanenza, diviso in gruppi di cinquanta, detti πρυτάνεις (antico titolo per «principe»), nelle dieci parti (πρυτανεῖαι, «turni») in cui era suddiviso l’anno amministrativo attico: questo, che andava dal 1° Ecatombeone al 30 Sciforione, cominciava con il primo novilunio dopo il solstizio d’estate; ogni πρυτανεῖα di ciascuna tribù durava 35 o 36 giorni nell’anno di dodici mesi, oppure 38 o 39 giorni nell’anno con un mese intercalare. Ogni giorno un membro diverso del gruppo dei cinquanta assumeva la presidenza del turno con la carica di ἐπιστάτης: tutti costoro, comunque, erano puntualmente sorteggiati per assicurare la necessaria rotazione e il rispetto istituzionale delle regole; perciò, non era possibile essere stati buleuti più di due volte nella vita. La funzione principale della βουλή era quella «probuleumatica», che consisteva nel preparare e introdurre i lavori, ovvero l’ordine del giorno (πρόγραμμα), dell’assemblea: quest’ultima, detta ἐκκλησία, era aperta a tutti i cittadini di età superiore ai vent’anni e, a quest’epoca, si svolgeva in via ordinaria una volta per pritania, tre in via straordinaria (Aristot. Athen. Pol. 43, 3-6).

Anche il collegio degli arconti fu riformato: da questo momento essi furono eletti uno per tribù, mentre la decima forniva il segretario (γραμματεύς) del collegio.

Pittore Brygos. Scena di votazione con ψῆφοι (gettoni) presieduta da Atena. Pittura vascolare su una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490 a.C. Malibu, J. Paul Getty Museum.

Non furono abolite nella costituzione clistenica le distinzioni censitarie presenti nella precedente riforma di Solone e in parte anche prima. L’opera di unificazione, redistribuzione e astrazione compiuta da Clistene era diretta contro le spinte corporative di interessi locali, espressi o difesi dall’aristocrazia regionale, non contro il principio dell’efficacia politica della condizione economica e del censo, come parametri generali. Permase, dunque, la distinzione in pentacosiomedimmi, cavalieri, zeugiti e teti; e come le massime cariche, come l’arcontato, erano ancora eleggibili e non sorteggiabili (almeno fino al 487 a.C.), il peso del censo si fece sentire nelle scelte operate dai cittadini.

La riforma di Clistene rivela la preoccupazione di realizzare la piena integrazione della cittadinanza ateniese in un sistema nuovo rispetto a quello tradizionale, in grado di realizzare la «mescolanza» di vari elementi (Aristot. Athen. Pol. 21, 2), spezzando i vincoli clientelari che costituivano la base del potere delle grandi famiglie aristocratiche. Se si riflette sul passo aristotelico che ricorda la divisione dell’Attica, all’epoca dell’ascesa di Pisistrato, in aree geografiche abitate da una popolazione accomunata da interessi economici e strettamente legata a rapporti clientelari, si comprende bene come le nuove tribù clisteniche, create artificialmente, potessero contribuire a ridurre il peso politico dei grandi casati. Certo, gli aristocrati conservarono una serie di privilegi: un ruolo politico significativo fu assicurato loro dalla permanenza del consiglio dell’Areopago, dalla limitazione all’accesso alle magistrature per le prime due classi di censo e dal mantenimento del loro carattere elettivo, nonché l’accesso riservato ad alcuni sacerdozi. Alle più antiche strutture di tipo genetico, quali le fratrie, fu lasciato un ruolo di controllo della parentela legale e quindi sulla legittimità di nascita, presupposto della cittadinanza (πολιτεία), che spettava a quest’epoca a chi era figlio di padre cittadino. Si noti, comunque, che era il demo, non la fratria, a certificare la condizione di cittadinanza davanti alla comunità tutta (Aristot. Athen. Pol. 42).

Il defunto e la sua famiglia. Rilievo su stele funeraria, marmo bianco, c. 375-350 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

La democrazia clistenica si iscriveva fondamentalmente in una nozione dicotomica del campo delle possibilità politiche, benché, per le strutture che proponeva, costituisse la strada verso sviluppi futuri: il nemico da debellare rimaneva la tirannide, ovvero l’emersione di un uomo forte dall’interno stesso dell’aristocrazia e della carriera oplitica, capace di instaurare forme di potere personale, centralizzato e autoritario. Combattendo la tirannide, la nuova costituzione arginava al tempo stesso le ambizioni e i tentativi di prevaricazione dei gruppi nobiliari. Secondo Aristotele (Athen. Pol. 22, 1), dunque, fu Clistene a escogitare e a istituire un sistema preventivo contro il pericolo della tirannide, l’ostracismo. Questa procedura, molto semplice e democratica, consisteva nel designare, con un voto espresso a maggioranza da almeno 6.000 persone, un individuo ritenuto pericoloso e sovversivo; il voto era espresso, se l’assemblea lo riteneva opportuno, una volta all’anno, durante l’ottava pritania, scrivendo il nome del sospettato su un coccio (ὄστρακον). Il personaggio indiziato, che riceveva il maggior numero di denunce, veniva allontanato dalla città per dieci anni, durante i quali subiva una diminuzione di diritti (ἀτιμία) di carattere parziale: perdeva cioè i diritti politici, mantenendo invece quelli civili (matrimonio, patria potestà, proprietà).

L’agorà di Atene ha restituito un gran numero di ὄστρακα, recanti i nomi di diversi personaggi accusati di ostracismo (una trentina circa), talora con le motivazioni del voto (l’accusa di essere amici dei tiranni o, in seguito, dei Persiani). L’istituzione di questa procedura intendeva, allontanando uomini politici che si rendevano sospetti al popolo, evitare l’instaurazione di una nuova tirannide e favorire l’allentamento delle tensioni politiche: applicata per la prima volta nel 487 circa contro Ipparco di Carmo, parente dei Pisistratidi, e poi per tutto il V secolo, fu molto imitata anche in altre realtà del mondo greco (ad Argo, Megara, Mileto e a Siracusa, dov’era detta “petalismo”). È probabile che l’utilizzo regolare dell’ostracismo abbia contribuito ad assicurare ad Atene una certa stabilità, evitandole fratture civili (στάσεις), che caratterizzarono invece altre città, anche democratiche. Tale stabilità, inoltre, va collegata anche con il fatto che in Atene la democrazia non nacque da una rivoluzione violenta e dalla sopraffazione di una parte sull’altra, ma da una riforma accettata da tutte le parti in causa.

Θεμιστοκλής Νεοκλέους (“Temistocle, figlio di Neocle”). Ostrakon, c. 482 a.C. Atene, Museo dell’Antica Agorà.

A partire da Erodoto (VI 131, 1), Clistene entrò nella tradizione storica come «colui che istituì la democrazia per gli Ateniesi» (τὴν δημοκρατίην Ἀθηναίοισι καταστήσας); così per Aristotele (Athen. Pol. 20, 1) egli fu «colui che consegnò la cittadinanza al popolo» (ἀποδιδοὺς τῷ πλήθει τὴν πολιτείαν). Questo giudizio trova sicuro riscontro nel fatto che, a livello formale, la riforma clistenica assicurò a tutti i cittadini ateniesi il godimento dell’ἰσονομία, l’uguaglianza dei diritti, e l’ἰσηγορία, l’uguaglianza di parola, garantendo a tutti, senza discriminazioni di nascita e di censo, la possibilità di prendere parte agli organi di carattere deliberativo (βουλή ed ἐκκλησία) e giudiziario (il tribunale popolare, ἡλιαία).

Alla luce di quanto si è detto, appare comprensibile che la nascita della democrazia trovasse subito degli oppositori, e che essa presenti una gestazione assai laboriosa, di cui non è facile definire tutti gli aspetti cronologici, soprattutto quando ci si allontani dalle fonti. Clistene doveva aver già elaborato gran parte della sua riforma costituzionale, quando gli si oppose la fazione aristocratica più conservatrice, guidata da Isagora, che trovava inaccettabile il progetto di inserimento del δῆμος nella vita politica. Gli oppositori del legislatore, spalleggiati da re Cleomene I di Sparta, cercarono di abbattere la neonata democrazia: il primo scontro fu vinto da Isagora grazie alla potenza delle armi lacedemoni, che nel 508/7 gli assicurarono l’arcontato; allora, settecento case di partigiani della democrazia furono bandite, compresa quella degli Alcmeonidi. Ma il tentativo di sciogliere d’autorità la βουλή dei Cinquecento nel 507/6 fu respinto dagli Ateniesi, che costrinsero Isagora e Cleomene, assediati insieme ai loro sull’Acropoli, a desistere e richiamarono Clistene e gli altri fuoriusciti. Fu allora che il legislatore, assunto l’arcontato, poté completare e rendere definitiva l’opera di rinnovamento (Hdt. V 66, 1; 70-76; Aristot. Athen. Pol. 20, 1; Marmor Parium, FGrHist 239 A 46; Schol. in Aristoph. Lysis. 273).

Iscrizione della «Legge contro la tirannide». Personificazione di Democrazia che incorona Demos (bassorilievo). Rilievo, marmo, c. 337-376 a.C. da Atene. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Dal 506 gravi minacce si addensarono sul capo della neonata democrazia ateniese. Un nuovo attacco di Cleomene, che intendeva insediare Isagora come tiranno, finì con una ritirata dovuta ai dissensi tra il Lacedemone e l’altro re, Demarato, e alla defezione dei Corinzi; la contemporanea offensiva di Beoti e Calcidesi con l’invasione dell’Attica fu respinta con successo, in seguito al quale Atene insediò sul territorio di Calcide una cleruchia (κληρουχία), una colonia militare di 4.000 cittadini, mantenuti con le rendite fondiarie degli aristocratici locali (i cosiddetti Ippoboti). Più tardi, nel 500, Cleomene tentò nuovamente, in accordo con i Tessali, di abbattere la democrazia ateniese, restaurando il regime di Ippia, ma il piano fallì nuovamente a causa dell’opposizione dei Corinzi. Erodoto (V 78) collegò la crescita della potenza ateniese, messa in evidenza da questi successi, con l’istituzione della democrazia: l’ἰσηγορία, affermava, è un bene prezioso, per difendere il quale l’uomo libero si mobilità con un entusiasmo inedito a chi si trova in stato di servitù (cfr. IG I² 394; Diod. X 24; Paus. I 28, 2; Anth. Pal. VI 343).

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Πρῶτοι εὑρεταί: dèi, eroi, uomini

trad. it. a cura di F. Cerato di L. Zhmud, The Origin of the History of Science in Classical Antiquity, Berlin-New York 2006, 23-29.

In linea teorica, uno studio sulle origini della Scienza nel mondo antico dovrebbe partire dal momento in cui Storia e Scienza si sono incontrate per la prima volta, ovvero da una rassegna delle scoperte scientifiche avvenute nel passato. Il punto, tuttavia, è che tali resoconti erano ignoti prima della seconda metà del IV secolo a.C., mentre gli sporadici accenni che gli storici (primo tra tutti Erodoto) fecero delle acquisizioni scientifiche non appartenevano tanto alla storiografia quanto all’eurematografia. Ma questo non è l’unico motivo per considerare l’eurematografia – genere assolutamente non scientifico e che ben poco ha da offrire alla ricerca storica – come uno dei prototipi della divulgazione scientifica. Ciononostante, essa ha sollevato la questione di come si originano e si trasmettono le conoscenze e le capacità pratiche molto prima della comparsa della storia della scienza, e le varie soluzioni risalgono ai suoi albori. Ecco perché le origini dell’interesse verso i πρῶτοι εὑρεταί, comune ad entrambi i generi, possono essere ricondotte a questo materiale “primitivo”.

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L’interesse per il passato è un elemento insito, in varia misura, in tutte le società umane, comprese quelle pre-letterate. Le sue manifestazioni nell’antichità sono state assai varie, ma nel complesso si sono inserite dagli interpreti nella tipologia, ormai da tempo elaborata, del folklore e dei primissimi generi letterari. Tra quelli folcloristici vanno citati innanzitutto i miti cosmogonici ed eziologici, e quindi l’epica eroica, che in molte culture, anche se non in tutte, divenne il primo genere letterario. Un altro filone, assai precoce e significativo, è quello della cronaca storica, caratteristico, per esempio, della civiltà cinese e, in misura minore, di quella giudaica. Naturalmente l’elenco dei generi non esaurirebbe la varietà di interrogativi che gli antichi si posero sul loro passato, ma semplicemente ridurrebbe la presente analisi a una serie di temi definiti che hanno suscitato un interesse costante e hanno portato alla formazione di generi specifici. Perciò, un mito cosmogonico rispondeva alla domanda sull’origine dell’universo, un mito eziologico spiegava l’origine di particolari aspetti di una civiltà, ovvero un mestiere o un prodotto importante in una determinata cultura, come la birra a Sumer o il vino in Grecia. L’epica eroica e, più tardi, la cronaca, raccontavano cose ancora più rilevanti: le imprese gloriose degli antenati.

Pittore Antifonte. Un artigiano decora un elmo (particolare). Pittura vascolare su cratere attico a figure rosse, c. 480 a.C.

L’antica Grecia, la cui storia letteraria e culturale inizia con l’epica omerica ed esiodea, manifesta le medesime tendenze. L’Iliade racconta le gesta eroiche degli Achei e dei Troiani, la Teogonia, con il suo peculiare approccio “genealogico”, descrive l’origine del mondo abitato dagli dèi e dagli uomini. Ma l’interesse verso il passato che caratterizza l’epica arcaica non è identico a quello storiografico strictu sensu: il primo si accontenta delle leggende sugli dèi e sugli eroi; il secondo, orientato principalmente agli uomini e alle loro imprese, cerca di spiegare il presente collegandolo al passato. Nonostante l’unicità delle epopee omeriche ed esiodee, esse hanno ben poco che faccia pensare che i loro autori avessero un interesse propriamente storico. È naturale, quindi, non trovare né in Omero né in Esiodo alcuna traccia di una tradizione sui πρῶτοι εὑρεταί e le relative invenzioni (Erren 1981; Schneider 1989).

La prima testimonianza superstite sui πρῶτοι εὑρεταί si trova in un frammento della Foronide, un poema epico del VII secolo dedicato alle gesta di Foroneo e ad altre leggende dell’Argolide arcaica (Schol. Apoll. Rhod. I, 1129-1131b). Tra l’altro, in esso si parla anche dei Dattili Idei (Δάκτυλοι Ἰδαῖοι), creature mitiche che prendevano il nome dalla catena montuosa dell’Ida in Troade (Hemberg 1952).

Pittore della fonderia. Un fabbro e il suo servo alla fornace. Pittura vascolare a una κύλιξ attica a figure rosse, c. 490-480 a.C. da Vulci. Berlin, Antikensammlung.

In origine, questi Dattili erano rappresentati come fabbri-nani, ma nella Foronide assunsero una forma del tutto diversa. Innanzitutto, l’aedo li considerava dei maghi frigi (γόητες Ἰδαῖοι, / Φρύγες ἄνδρες), i primi ad aver inventato il mestiere di fabbro (οἳ πρῶτοι τέχνηις πολυμήτιος Ἡφαίστοιο / εὗρον). Sebbene la questione del πρῶτος εὑρετής sia di per sé nuova ([Hes.] F 282 M-W, Rzach 1912, Schwartz 1960), essa viene applicata al materiale tradizionale, pur in qualche modo rimaneggiato: dagli antichissimi fabbri-nani, dunque, i Dattili dell’Ida si trasformarono stregoni, scopritori dell’arte patrocinata da Efesto. In seguito, tale funzione sarebbe stata attribuita al medesimo dio, considerato egli stesso il “primo inventore” (secondo uno schema abbastanza consolidato). Ma l’autore della Foronide, pur ritenendo che la metallurgia costituisse «l’arte dell’astuto Efesto», ne riferì la scoperta a degli “esperti stranieri” (frigi, appunto), dotati comunque di qualità soprannaturali. La tecnologia del metallo fu così trasferita dalla sfera divina all’ambito umano, per quanto curiosa e insolita fosse la comunità in questione, e assegnata a una civiltà limitrofa a quella greca (Hemberg 1950, Dasen 1993).

Interpretando questa testimonianza secondo il metodo della razionalizzazione evemeristica del mito, vi si potrebbe ravvisare una reminiscenza della storia reale, ossia di come la metallurgia del ferro, scoperta dagli Ittiti, si sia diffusa dall’Asia Minore alla Grecia. Sarebbe comunque infondato supporre che l’autore della Foronide, attivo ad Argo all’inizio del VII secolo, abbia sentito parlare di questa storia o si sia interessato ad essa. Le prime ricerche dei πρῶτοι εὑρεταί si concentravano, notoriamente, non tanto sulla loro identità e sul loro retroterra storico, quanto sui risultati tecnici e culturali in quanto tali (Thraede 1962; Thraede 1962a): «X scoprì Y» è una formula tipica dell’eurematografia, che riporta semplicemente il nome dell’inventore e, in rarissimi casi, la sua provenienza. Il momento della scoperta non è quasi mai registrato, né tanto meno le circostanze, mentre lo scopritore stesso risulta ben lungi dall’essere una figura concreta. Nella tradizione eurematografica, pervenuta attraverso i cataloghi delle scoperte di epoca imperiale, gli dèi-artefici (Atena, Apollo, Demetra, Efesto) e gli eroi culturali (Trittolemo, Palamede, Dedalo, ecc.) sono stati pressoché accostati agli altri due grandi categorie: i personaggi realmente esistiti (Fidone, Stesicoro, Talete, ecc.) e le città greche e le nazioni barbariche.

Pittore Antimene. Incontro fra Dioniso ed Efesto sulla strada per l’Olimpo. Pittura vascolare su anfora attica a figure nere, c. 520 a.C. Baltimore, Walters Art Museum.

Che il passaggio dell’eurematografia dalla mitografia alla narrazione di eventi reali sia avvenuto gradualmente, ma sia rimasto essenzialmente incompiuto, non sorprende. La storiografia greca, rappresentata da Ecateo di Mileto, Erodoto di Alicarnasso ed Ellanico di Lesbo, seguì lo stesso percorso. In assenza di testimonianze scritte e di metodi adeguati all’analisi delle fonti, l’eurematografia (così come la storiografia) avrebbe potuto diventare “storica” unicamente rivolgendosi agli avvenimenti recenti o contemporanei. Quando si cercava di “ricostruire” il passato remoto così come era stato registrato, all’occorrenza, dalla tradizione orale, si ricorreva alle combinazioni più fantasiose: «Quanto più arbitraria era la prima supposizione, tanto maggiori erano le possibilità che venisse accolta come vera» (Thraede 1962a).

Di conseguenza, il significato delle testimonianze sui Dattili Idei non sta nell’indicare i reali inventori della lavorazione dei metalli; anzi, oltre a marcare il terminus ante quem del periodo in cui si manifestò l’interesse per i πρῶτοι εὑρεταί, il racconto contiene in nuce due importanti tendenze che si sarebbero sviluppate in seguito: innanzitutto, la graduale e incompleta sostituzione degli dèi con figure semi-divine o eroiche e poi con persone; in secondo luogo, la propensione dei Greci ad attribuire le invenzioni, comprese le proprie, ai vicini orientali. Non si trattò di un fenomeno uniforme; talvolta le grandi innovazioni furono attribuite a personaggi alterni. A seconda della mentalità del pubblico, delle peculiarità di ogni singola opera, degli scopi e delle attitudini dell’autore e, non da ultimo, del carattere dell’invenzione stessa, di volta in volta figure diverse erano poste in primo piano (cfr. Hec. FGrHist 1 F 20, Andron. FGrHist 10 F 9, Scam. FGrHist 476 F 3). Un personaggio di una tradizione più antica, che era finito in secondo piano, poteva riapparire accanto agli inventori più recenti. Se l’eurematografia registra, nel complesso, poche scoperte “umane” rispetto a quelle associate a divinità ed eroi, ciò è dovuto alla naturale inclinazione a riferire gli inizi della civiltà all’aiuto divino e all’oscurità e all’anonimato dei veri inventori del passato. Bisogna anche tener conto della propensione, propria della letteratura epidittica, a onorare gli artefici divini, attribuendo loro il maggior numero possibile di acquisizioni; nei tardi cataloghi delle scoperte, tale tendenza portava ad attribuire la stessa invenzione a diversi dèi ed eroi, di solito senza mettere in atto alcun tentativo di far combaciare le versioni che si escludevano a vicenda (Thraede 1962, Cole 1966).

Diego Velázquez, La fucina di Vulcano. Olio su tela, 1630. Madrid, Museo del Prado.

Dalla fine del V secolo in poi, la letteratura tecnica che si occupava prima della storia della poesia e della musica e poi di quella della filosofia, della scienza e della medicina ridimensionò al minimo la componente divina ed eroica delle scoperte. Mentre la storia della musica, in particolare quella delle sue prime fasi, proponeva ancora i nomi di Orfeo, Museo o Marsia, le storie della filosofia, dell’astronomia e della geometria includevano solo personaggi storici realmente esistiti. Da questo punto di vista, in effetti, la storiografia peripatetica si rivela ancor più rigorosa di molte opere simili del XVII e persino del XVIII secolo, con resoconti sull’astronomia inizianti con Atlante, Urano e altre figure mitologiche. Certo, nell’antichità la storicità della trattazione dipendeva non tanto dal momento in cui una determinata opera era stata composta, quanto dal suo genere. L’autore di un encomio, di un inno, di una tragedia o di un trattato Sulle scoperte (Περὶ εὑρημάτων) raramente si sarebbe preoccupato dell’attendibilità delle informazioni riportate. In ambiti come la dossografia o la storia della scienza, di solito gli autori evitavano di riprodurre storie palesemente inventate, sebbene riprendessero trovate altrui.

C’è un’altra ragione per cui la sequenza “dei : eroi : uomini” non era rigorosamente lineare. In Omero ed Esiodo e, naturalmente, prima di loro, gli dèi greci erano rappresentati non come i primi scopritori, ma come «donatori di beni», patroni di mestieri che avevano insegnato agli uomini (cfr. Od. VI 232-234, ἀνὴρ / ἴδρις, ὃν Ἥφαιστος δέδαεν καὶ Παλλὰς Ἀθήνη / τέχνην παντοίην, «… un artefice esperto, che Pallade Atena ed Efesto iniziarono ai segreti dell’arte»; cfr. Od. XX 72): essi divennero πρῶτοι εὑρεταί solo dopo che la fama degli inventori umani si era ormai diffusa in tutto il mondo ellenico. La curiosità nei confronti dei primi scopritori in senso assoluto, cioè di coloro che avevano inventato la metallurgia, l’agricoltura, la scrittura o la musica, si risvegliò man mano, stimolata dalla crescente attenzione per le innovazioni in quanto tali e per la questione della priorità nella loro realizzazione. Sebbene il rapido sviluppo sociale e culturale della Grecia tra IX e VII secolo a.C. abbia portato a molte scoperte in tutte gli ambiti della vita, occorse un certo lasso di tempo perché l’interesse specifico nei loro confronti sorgesse e si affermasse. A giudicare dalle testimonianze pervenute, i veri creatori di innovazioni tecniche e culturali – inventori, poeti, musicisti, pittori, scultori – si imposero all’attenzione pubblica soltanto all’inizio del VII secolo.

Pittore Nicone. Un poeta con barbiton. Pittura vascolare da un λήκυθος attico a figure rosse, c. 460-450 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

A tal proposito, è significativo un frammento di uno dei primi lirici, Alcmane, in cui egli professa la propria ammirazione per coloro che l’hanno preceduto, che «insegnarono agli uomini suoni meravigliosi, dolci e nuovi» (Alcm. F 4. I, 4-6 Page, σαυ]μαστὰ δ᾿ ἀνθ[ρώποισ(ι)]… / γαρύματα μαλσακὰ̣ … / νεόχμ᾿ ἔδειξαν). Il lessico di questo frammento, e in particolare l’espressione ἀνθ[ρώποισ(ι)]… / ἔδειξαν, è molto vicino a quello utilizzato nella tradizione sui πρῶτοι εὑρεταί (Davies 1986), benché il motivo del primo scopritore sia qui solo implicito. Sebbene i poeti antichi avessero proposto sonorità inedite, Alcmane doveva avere in mente la loro originalità relativa piuttosto che quella assoluta: i concetti di πρῶτοι e εὗρον, però, mancavano ancora. In un altro frammento, invece, compare l’espressione ϝέπη τάδε καὶ μέλος Ἀλκμὰν εὗρε (Alcm. F 39 Page), con la quale il poeta sembra rivendicare per sé lo status di “primo scopritore”. L’Inno omerico a Ermes (Hom. Hymn. IV 24-61) attribuisce al dio l’invenzione della lira a sette corde, sebbene, al tempo in cui fu composto, esistesse una leggenda che conferiva il merito della scoperta a Terpandro (Schmid, Stählin 1974, Janko 1982) e il dio non fosse comunemente associato alla musica (Pind. F 125 Snell).

La graduale trasformazione degli dèi in primi scopritori è confermata dall’Inno omerico ad Afrodite (Hom. Hymn. V 12-15): qui Atena è indicata come colei che per prima insegnò (πρώτη… ἐδίδαξε) agli artigiani l’arte di fabbricare carri e carrozze e alle ancelle quella dei lavori domestici (probabilmente la tessitura); benché πρώτη, il merito della dea non era tanto l’invenzione dei mestieri, quanto la loro divulgazione agli uomini (Hom. Hymn. XX 2-3, Solon. F 13, 49, Pind. Ol. VIII 50-51, Orph. H. F 178-179 Kern). Se, in seguito, le città greche rinomate per le loro attività artigianali furono accreditate dell’invenzione di cose precedentemente considerate sotto il patrocinio divino (DK 88 B 1, 10, 12, Pind. Ol. XIII 18, cfr. Hdt. I 23), ciò non significa affatto che in origine il πρῶτος εὑρετής fosse stato elaborato sul materiale mitologico e applicato solo agli dèi (Schol. in Oppian. halieutica I 78).

Noël Coypel, Apollo e Mercurio. Olio su tela, 1688. Château de Versailles.

Dal momento che la letteratura greca prima del VI secolo è costituita solo da generi poetici, naturalmente sono meglio note le vicende degli innovatori della musica e della poesia. Quando Glauco di Reggio (fine del V secolo) tentò nel suo Περὶ τῶν ἀρχαίων ποιητῶν τε καὶ μουσικῶν (Sugli antichi poeti e musicisti, cfr. [Plut.] De musica IV 1132e; VII 1133f) una delle prime sistemazioni dell’arte greca, raccontò soprattutto chi aveva inventato cosa, chi aveva preso in prestito cosa da chi, ecc. Eppure, la tradizione orale ed epigrafica conservatasi fino a tempi successivi dimostra che si registravano pure le invenzioni in altri settori. Per esempio, il tiranno argivo Fidone (prima metà del VII secolo), ritenuto l’inventore di un avanzato sistema di pesi e misure, i cosiddetti Φειδών[ε]ια μέτρα (Hdt. VI 127, Her. Pont. F 152, Aristot. Pol. 1310b, 19-20, Ephor. FGrHist 70 F 115, 176), superò in fama l’eroe Palamede (cfr. Senof. 21 B 4, Hdt. I 94); così Aminocle di Corinto, inventore della trireme, fu invitato a costruire navi a Samo intorno alla metà del VII secolo, o forse anche prima (cfr. Thuc. I 13, 3). Dagli inizi del VII secolo, vasai, ceramografi e scultori cominciarono a firmare le loro opere (Jeffery 1990, Philipp 1968, Walter-Karydi 1999), al punto da essere ritenuti i πρῶτοι εὑρεταί nella propria arte (Thraede 1962a). Per esempio, Butade di Sicione (VII secolo), il leggendario inventore della ceroplastica, le cui opere, firmate e dedicate al tempio, si conservarono a Corinto fino all’epoca ellenistica (Robert 1897, Fuchs, Floren 1987); Glauco di Chio (inizi VI secolo), un rinomato artigiano, che Erodoto identificò come l’inventore della saldatura del ferro (σιδήρου κόλλησις), realizzò e firmò un cratere d’argento, che più tardi il re lidio Aliatte dedicò a Delfi (Hdt. I 25, cfr. Paus. X 2-3); Mandrocle di Samo, l’architetto che progettò il ponte sul Bosforo per la spedizione di Dario contro gli Sciti (513 a.C.), ritornato in patria, investì parte della sua generosa ricompensa per commissionare un quadro del ponte, che dedicò al tempio di Hera e lo corredò con un epigramma menzionante il suo nome (Hdt. IV 87-89).

Queste testimonianze, seppur parziali, di età arcaica attestano che la ricerca dei πρῶτοι εὑρεταί rifletteva una controversia sulla loro precedenza temporale – questione tipica della cultura greca. Allo stesso modo, le vicende dei primi scopritori riflettono il problema della priorità di ogni genere di innovazione sociale, culturale e tecnica – un aspetto molto più ampio affrontato sia dall’eurematografia sia dalla storiografia scientifica.

Carpentiere all’opera (dettaglio). Affresco, ante 79, dalla casa dei Vettii, Pompei.

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Riferimenti bibliografici:

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Dasen 1993 = V. Dasen, Dwarfs in Ancient Egypt and Greece, Oxford 1993.

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Erren 1981 = M. Erren, Die Geschichte der Technik bei Hesiod, in. W. Marg, G. Kurz, D. Müller, W. Nicolai (eds.), Gnomosyne. Menschliches Denken und Handeln in der frühgriechischen Literatur. Festschrift für Walter Marg zum 70. Geburtstag, München 1981, 155-166.

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Thraede 1962a = K. Thraede, s.v. Erfinder II, RLAC 5 (1962), 1191-1278.

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Zhmud 2001 = L. Zhmud, Πρῶτοι εὑρεταί – Götter oder Menschen?, ANR 11 (2001), 9-21.

Esiodo

di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. 1. Dalle origini al V secolo a.C., Messina-Firenze 2004, 267-279.

1. Una vita per la poesia

Gli antichi erano incerti sulla cronologia di Esiodo, il primo poeta greco che abbia una fisionomia decisamente storica e non leggendaria. Alcuni, come Eforo di Cuma (nato intorno al 390 a.C.), lo considerarono anteriore a Omero; altri, come Senofane (vissuto intorno al 545 a.C.), posteriore; Erodoto (Hdt. II 53), il quale attingeva a fonti locali antichissime, sosteneva che Omero ed Esiodo fossero vissuti entrambi quattro secoli prima di lui, e cioè verso l’850 a.C., e stabilirono i fondamenti della religione dei Greci, nonché una precisa dottrina sugli dèi, assegnando a essi nomi e prerogative e referendo notizie sulla loro origine e sul loro aspetto esteriore. Ma le indicazioni più attendibili sono probabilmente quelle che si possono ricavare dall’opera stessa del poeta, tenendo conto delle notizie autobiografiche che egli stesso fornisce, del quadro sociale e politico della Beozia, quale il poeta lo descrive, oltre che dell’influenza della lingua omerica, evidente nei suoi poemi. In base a tutti questi elementi, è possibile ritenere che Esiodo sia di circa un secolo più recente di Omero e che sia vissuto intorno al 750 a.C.

Pittore di Esiodo. Musa che accorda due κιθάραι. Pittura vascolare da una coppa attica a fondo bianco, 470-460 a.C. c. da Eretria. Paris, Musée du Louvre.

Oltre che per la sua indiscutibile storicità, Esiodo si distingue da Omero anche per il fatto di aver rivelato, per primo nella letteratura occidentale, il proprio nome, posto come una σφραγίς (“sigillo”) all’inizio di uno dei suoi poemi, la Teogonia, violando in questo modo il rigoroso anonimato tipico dei cantori epici, che nascondevano la propria identità nel racconto oggettivo delle gesta eroiche. Dai brani autobiografici contenuti nelle opere maggiori si apprende che il padre del poeta, nativo della colonia eolica di Cuma in Asia Minore, dopo aver esercitato senza successo il commercio, per evitare di finire in miseria, si era trasferito in Beozia, una regione aspra e isolata, le cui uniche risorse erano l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, vivendo in un oscuro villaggio di contadini, nei pressi del monte Elicona: Ascra, definita dallo stesso Esiodo χεῖμα κακῇ, θέρει ἀργαλέῃ, οὐδέ ποτ’ ἐσθλῇ («d’inverno cattiva, aspra d’estate, piacevole mai», Op. 640).

La scelta di questo borgo fu probabilmente determinata dalle affinità culturali della Beozia con l’Eolide d’Asia, oltre che dalla sua vicinanza al monte Elicona, ritenuto dimora delle Muse, e alla città di Tespie, sede del loro culto. Esiodo e suo fratello minore, Perse, crebbero in questo mondo agreste e solitario, dai lunghi e gelidi inverni e dalle estati aride e ardenti, aiutando il padre nel lavoro dei campi. Proprio a Esiodo, che da ragazzo pascolava il bestiame paterno alle pendici boscose dell’Elicona, apparvero le Muse; com’egli narra ampiamente nel proemio della Teogonia (Th. 22-34), si trattò di una vera e propria investitura poetica, dato che le dee gli offrirono un ramo d’alloro e gli insegnarono la divina arte del canto che celebra il passato e il futuro. Questa straordinaria esperienza (sogno? suggestione? rapimento estatico?) fu decisiva per il giovane; venuto a conoscenza della poesia epica forse dagli Omeridi, giunti, nel loro costante errare, anche in Beozia, egli decise di usare il loro stesso metro, l’esametro, per cantare argomenti ben diversi dalle gesta degli eroi: la dura e tenace attività quotidiana con la quale gli uomini strappavano alla terra i mezzi per sopravvivere e l’insieme delle credenze religiose che rispettava e che aveva imparato a conoscere da varie fonti. Fattosi dunque rapsodo di professione, Esiodo compose le Opere e giorni e la Teogonia.

Pittore della Chimera. Sirena barbata. Pittura vascolare da un piatto corinzio, dalla Beozia. 580-579 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Quando il padre del poeta morì, i due figli avrebbero potuto godere di una certa agiatezza, grazie all’eredità toccata loro. Ma Perse dilapidò in poco tempo i suoi beni; e con la complicità di giudici corrotti, riuscì a ottenere anche una parte delle terre toccate al fratello. Non contento neanche di ciò, intentò al poeta una nuova causa, cercando di spogliarlo anche di quanto restava. Questa lite fornì a Esiodo lo spunto occasionale per il suo poema, le Opere e giorni, in cui volle esaltare, in un’ottica altamente morale e religiosa, l’origine e il fine del lavoro umano, voluto da Zeus e destinato a essere la fonte di una ricchezza misurata e onesta, l’unica a cui gli dèi accordino stabilità e lunga durata.

L’attività poetica di Esiodo non mancò di riservargli significative gratificazioni; egli stesso menziona l’unica occasione in cui viaggiò per mare (Op. 654-659):

ἔνθα δ’ ἐγὼν ἐπ’ ἄεθλα δαΐφρονος Ἀμφιδάμαντος

Χαλκίδα [τ’] εἰσεπέρησα· τὰ δὲ προπεφραδμένα πολλὰ

ἄεθλ’ ἔθεσαν παῖδες μεγαλήτορες· ἔνθα μέ φημι

ὕμνῳ νικήσαντα φέρειν τρίποδ’ ὠτώεντα.

τὸν μὲν ἐγὼ Μούσῃσ’ Ἑλικωνιάδεσσ’ ἀνέθηκα

ἔνθα με τὸ πρῶτον λιγυρῆς ἐπέβησαν ἀοιδῆς.

Io allora per i giochi funebri in onore del prode Anfidamante

andai per mare fino a Calcide; molti premi in palio

avevano posto i figli di quell’uomo magnanimo; là ti dico

con un inno io vinsi e riportai un tripode orecchiuto,

e lo consacrai alle Muse Eliconie,

dove per la prima volta mi iniziarono al canto armonioso.

Apollo ed Ercole si contendono il Tripode delfico. Bassorilievo, marmo, I-II sec. d.C. Baltimore, Walters Art Museum.

Si recò a Calcide nell’Eubea, attraversato il braccio di mare chiamato Euripo, per partecipare, con un inno, all’agone poetico tenutosi durante i giochi funebri in onore di Anfidamante, un cittadino in vista, caduto in una battaglia navale durante la guerra tra Calcide ed Eretria per il dominio della pianura del fiume Lelanto. Di questo episodio parla anche Plutarco (Sept. 153f) e, sebbene la datazione dell’evento rimanga incerta (forse fra il 730 e il 700 a.C.), la cronologia del conflitto consentirebbe di collocare la vita di Esiodo approssimativamente tra l’VIII e il VII secolo:

ἀκούομεν γὰρ ὅτι καὶ πρὸς τὰς Ἀμφιδάμαντος ταφὰς εἰς Χαλκίδα τῶν τότε σοφῶν οἱ δοκιμώτατοι ποιηταὶ συνῆλθον ἦν δ᾽ ὁ Ἀμφιδάμας ἀνὴρ πολεμικός, καὶ πολλὰ πράγματα παρασχὼν Ἐρετριεῦσιν ἐν ταῖς περὶ Ληλάντου μάχαις ἔπεσεν.

Sentiamo dire infatti che anche ai funerali di Anfidamante si riunirono a Calcide, tra i sapienti del tempo, i poeti più illustri; Anfidamante era un uomo di guerra che, dopo aver causato molti guai agli Eretriesi, cadde negli scontri per il Lelanto.

Del tutto leggendaria è invece la notizia di una gara poetica fra Omero ed Esiodo, confluita nel cosiddetto Certamen Homeri et Hesiodi, una composizione piuttosto singolare; in essa, il pubblico avrebbe assegnato la vittoria a Esiodo, dimostrando di preferire la celebrazione del lavoro agricolo, duro, ma sereno e pacifico, a quella delle sanguinose opere di guerra. Prive di fondamento sono le informazioni sulla morte del poeta (riscontrabili nel lessico Suda e nelle epitomi del bizantino Giovanni Tzetze), dalle quali si può dedurre, come sola notizia attendibile, che la sua tomba, oggetto di venerazione per gli abitanti di Ascra, fu trasferita nel IV secolo a.C. a Orcomeno, dopo la distruzione del “natio borgo selvaggio” di Esiodo a opera dei Tespiesi.

Pittore di Amasis. Sileni che vendemmiano e preparano il vino. Pittura vascolare da un’anfora a campana attica a figure nere, 540-430 a.C. c. Würzburg, Martin von Wagner Museum.

2. La Teogonia

Con la Teogonia (Θεογονία), composta in esametri, Esiodo si propose per primo l’arduo compito di organizzare il grande numero delle figure divine e dei loro miti, inquadrandoli in uno schema che si richiamava ai “cataloghi” di stampo omerico (cfr., per esempio, il “catalogo delle navi” di Iliade II). Le motivazioni di fondo, alla base dell’ispirazione, derivarono al poeta da un’eccezionale capacità di considerare il mondo e di domandarsi come fosse divenuto quello che era; dare una risposta a questo quesito, per un uomo dell’VIII secolo a.C., non poteva che equivalere a immaginare un complesso di atti, di manifestazioni, di interventi in un mondo di dèi, ciascuno dei quali, con il suo proprio modo di essere e di agire dava esistenza e ragion d’essere agli elementi della natura. In questo modo, il vastissimo patrimonio di storie sacre, libere per loro stessa natura da troppo vincolanti nessi logici e cronologici, fu sistemato attraverso il criterio delle genealogie in un insieme ordinato, fondato sulle categorie logiche di causa ed effetto e di successione nel tempo. In conseguenza di ciò, il mito perse, in buona parte, la sua originaria natura, indipendente da precise connotazioni spaziali e temporali, per assumere caratteristiche di narrazione ordinata e ben comprensibile, e si orientò anche verso quel processo di sempre più completa razionalizzazione, che avrebbe di lì a poco caratterizzato gli esordi del pensiero filosofico.

La Teogonia di Esiodo, dunque, rappresenta un’interpretazione sistematica del mondo fisico e metafisico, ma, nonostante sia un’opera sugli dèi, essa non è un testo religioso: l’autore infatti non manifesta alcun sentimento di pietà o di venerazione particolare per le divinità di cui parla, tranne che per le Muse, sue protettrici.

Pyxis attica a figure rosse. Opera attribuita al pittore Esiodo. Il pastore Tamiri e le Muse, 460-450 a.C. ca. Boston, Museum of Fine Arts.

Il poema si apre con un’invocazione alle Muse che dimorano sull’Elicona, il monte poco distante da Ascra. Le divine fanciulle apparvero al poeta che stava pascolando gli armenti, esortandolo a celebrare la stirpe degli immortali; Esiodo si affrettò a obbedire e cominciò la sua opera, narrando proprio la nascita delle Muse e indicando per primo i loro nomi e i loro attributi (vv. 1-115).

Dopo il proemio, il poeta descrive il Caos primordiale; questo non era disordine, confusione o mescolanza, ma un immenso spazio vuoto, un’enorme voragine, un baratro (χάος < χαίνω < χάσκω, “aprirsi”, “spalancarsi”). Da esso nacquero Eros, Gea, Erebo e Notte; quest’ultima produsse i suoi contrari, l’Etere luminoso e il Giorno, mentre da Gea ebbero origine Urano, i Monti e Ponto. A questo punto intervenne Eros, che, con la sua potenza, diede inizio alla serie degli accoppiamenti e delle generazioni. Dall’unione di Urano e Gea nacquero le sette coppie di Titani (occupanti i pianeti che devano nome ai giorni della settimana), il più giovane dei quali fu Crono. Dopo i Titani vennero alla luce i Ciclopi e i giganti Centimani. Ma Urano temeva l’immensa forza dei propri figli e, perciò, appena nati, li ricacciava tutti nell’ampio ventre della madre (vv. 116-160).

Secondo il racconto esiodeo, dunque, esistevano divinità molto antiche, la cui nascita si sottraeva a qualsiasi tentativo di individuazione cronologica; ma esistevano entità soprannaturali anche più recenti, che da quelle erano derivate attraverso complicati intrecci genealogici: nessuna di loro, insomma, esisteva da sempre, ma era immortale.

Soffocata dai figli che non potevano più uscire dal suo grembo, Gea produsse dalle sue stesse viscere l’acciaio e ne fabbricò una grande falce; poi chiese l’aiuto di Crono, il più giovane e astuto tra i Titani. Quest’ultimo attese il momento in cui Urano stava per congiungersi alla madre e lo evirò. Il membro reciso cadde nel mare e formò una schiuma bianca (ἀφρός), da cui nacque una fanciulla bellissima, Afrodite, la dea dell’amore. Crono prese allora il posto del padre e, unendosi alla titanide Rea, generò con lei molti figli. Tuttavia, poiché temeva che qualcuno di loro potesse detronizzarlo come lui aveva fatto con il padre, li inghiottì tutti appena nati (vv. 161-467).

Pittore di Nausicaa (attribuito). Rea e Crono. Pittura vascolare da una πελίκη attica a figure rosse, c. 460-450 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

Rea era profondamente addolorata per la sorte dei suoi figli. Così, quando si accorse di essere incinta per l’ennesima volta, decise di salvare l’ultimo nato. Al momento del parto si nascose e dopo, avvolta nelle fasce una pietra, la consegnò a Crono, perché la inghiottisse. Il neonato salvato dalla madre era Zeus; egli fu nascosto, con la complicità di Gea, in una caverna del monte Ida, sull’isola di Creta. Qui fu allevato dalle Ninfe e, una volta divenuto adulto, si vendicò del padre, costringendolo a rigettare i figli che aveva divorato e che vivevano ancora dentro di lui, poiché appartenevano alla stirpe degli immortali. Fra loro c’erano Ade, a cui Zeus assegnò l’oltretomba, e Poseidone, che divenne signore della terra e dei mari. In questo modo, Zeus stabilì il suo regno, destinato a durare in eterno e al quale sono subordinati sia gli dèi sia i mortali (vv. 468-506).

Ma la conquista del potere divino non fu senza difficoltà; Zeus incontrò l’opposizione degli altri Titani che tentarono di spodestarlo. Ne scaturì un’immane lotta, detta appunto Titanomachia. Gli dèi, che presero sede sull’Olimpo, furono aiutati dai Centimani e dai Ciclopi, che fabbricarono loro le armi necessarie a combattere gli smisurati zii. Dopo aver assegnato agli altri fratelli le loro prerogative e i poteri, Zeus instaurò la propria definitiva signoria sull’universo. Successivamente, il dio contrasse una serie interminabile di relazioni amorose, da cui gli nacquero le maggiori divinità olimpiche, come Apollo, Artemide, Efesto, Ares, Dioniso, Hermes, ma anche eroi e altri semidei. Atena, invece, uscì armata direttamente dalla testa del padre e divenne la sua figlia prediletta (vv. 507-960). A questo punto, Esiodo inizia il catalogo delle dee, che concepirono figli da uomini mortali, a cui segue un’invocazione alle Muse, perché cantino le donne mortali che generarono dei semidei da unioni divine; in questo modo la conclusione della Teogonia si allaccia al Catalogo delle donne (vv. 961-1022).

Pittore di Atena. Eracle e Atlante. Pittura vascolare da una λήκυθος attica a figure nere, fine VI-inizi V secolo a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

3. Le Opere e giorni

Le Opere e giorni (Ἔργα καὶ ἡμέραι) è un poema in esametri che deve il titolo al suo contenuto; infatti, nella prima parte il poeta descrive le attività degli uomini e, nella seconda, i giorni favorevoli e sfavorevoli per eseguire i vari lavori campestri. Sull’autenticità di quest’ultima sezione sono stati avanzati dei dubbi; si pensa infatti che l’epilogo del poema abbia subito un rimaneggiamento e che il calendario dei giorni abbia sostituito un finale originario. In conseguenza di ciò, anche il titolo dell’opera, che in origine doveva essere solo Opere, sarebbe stato modificato nella forma attuale.

Il contenuto del poema, sul cui interesse biografico si è già detto, si presenta come una singolare mescolanza di tradizione e di innovazione, ben visibile anche nel linguaggio. Esso, da un lato, è strettamente connesso a quello dell’ἔπος omerico, anche se con qualche elemento eolico e beotico; dall’altro, presenta caratteristiche ben diverse, che si evidenziano soprattutto nell’uso di termini particolari, ricollegabili sia alla tradizione popolare, sia al linguaggio misterioso degli oracoli; e forse, riconducibili anche a tradizioni autoctone molto antiche, addirittura pre-omeriche. Peculiarità tipica di questo linguaggio è l’indicare le cose non direttamente con il loro nome, ma con una specie di descrizione-definizione: così la chiocciola è la «porta-casa» (φερέοικος), il ladro, il «dorme di giorno» (ἡμερόκοιτος), il polpo, il «senz’ossa» (ἀνόστεος), la mano, la «cinque-rami» (πέντοζος).

Altra interessante caratteristica del poema è la coesistenza, in esso, di racconti mitici accanto a descrizioni realistiche della vita e dell’attività umana e a consigli ed esortazioni di carattere morale.

L’opera si apre con un proemio caratterizzato da aspetti tradizionali e innovativi al tempo stesso. Contiene infatti l’invocazione alle Muse, tipica della poesia aedica; però, mentre il poeta epico indicava subito dopo in modo conciso ma esauriente l’oggetto del suo canto e lo sviluppava poi coerenza (l’ira di Achille, l’ingegno multiforme di Odisseo), Esiodo chiede alle Muse di celebrare Zeus, loro padre, ma tratta poi dell’esistenza umana, con le sue miserie, i suoi dolori, le ingiustizie. Tuttavia, la figura del dio supremo come garante e difensore della giustizia appare in sottofondo, come una costante presenza su cui si basa il messaggio morale di tutto il poema. Inoltre, se l’esaltazione di Zeus presente nel proemio può richiamare la tradizione innologica, nella quale il nome della divinità era seguito dall’elenco dei suoi attributi e delle sue prerogative, la successiva introduzione di un elemento autobiografico è senz’altro innovativa: Esiodo invoca infatti l’aiuto di Zeus, affinché il dio lo assista nel non facile compito di impartire al fratello Perse i precetti morali su cui dovrà fondare la propria esistenza (vv. 1-10).

Pittore di Klügmann. Una Musa che legge. Pittura vascolare su λήκυθος attico a figure rosse, 435-425 a.C. ca., dalla Beozia. Paris, Musée du Louvre.

Per esortare il fratello alla giustizia, Esiodo gli narra la leggenda delle due Contese (ἔριδες), delle quali l’una è cattiva e odiata da tutti, perché suscita fra gli uomini guerra e discordia; l’altra, invece, nata per prima, è buona e può identificarsi con lo spirito di emulazione, che ispira all’uomo una sana competitività e lo spinge così a migliorarsi. La breve narrazione mitica si conclude con un’apostrofe a Perse, il quale già una volta era andato contro la giustizia, ad accontentarsi della sua parte e a non ricadere più nell’errore commesso, tendando di appropriarsi anche dei beni del fratello, defraudandolo con la complicità di giudici «divoratori di doni», δωροφάγοι (vv. 11-41).

Dopo gli ammonimenti al fratello, Esiodo narra il mito di Pandora: intende così spiegare perché gli uomini siano sottoposti per volontà di Zeus a quella dura necessità del lavoro alla quale Perse vorrebbe sottrarsi, anche a costo di violare la giustizia. Zeus, volendo punire il titano Prometeo, che aveva rubato il fuoco divino per donarlo agli umani, ordinò a Efesto di plasmare una bellissima figura, alla quale tutti gli altri dèi fecero dono delle grazie più seducenti, dandole però anche una mente subdola e ingannatrice. Hermes, poi, la chiamò Pandora, Πανδώρα (“dono di tutti”); la condusse da Epimeteo (Ἐπιμηθεύς, “Colui che pensa dopo”), il fratello sciocco di Prometeo e gliela offrì da parte di tutti gli Olimpi. Prometeo aveva ammonito il fratello a non accettare nessun dono che venisse da Zeus, ma Epimeteo s’invaghì immediatamente di Pandora e volle farla sua. Esisteva sulla Terra un orcio ben chiuso, nel quale si trovavano malattie, vecchiaia, morte e ogni genere di sciagure; e non appena Pandora lo vide, fu presa dall’irresistibile curiosità di sapere che cosa contenesse. Perciò ne alzò il coperchio e tutti i mali si sparsero fra gli umani, che fino ad allora ne erano stati immuni. Così l’esistenza divenne per loro un cumulo di sofferenze e di miserie, a cui non è dato sottrarsi, perché nessun mortale può sfuggire al destino (vv. 42-90).

Dopo essersi soffermato a descrivere con dolente realismo la dura esistenza che Zeus ha inesorabilmente prescritto agli uomini, Esiodo rievoca le quattro ere che hanno preceduto quella attuale. La prima fu l’età dell’oro, felice, serena, allietata da un’eterna primavera, nella quale anche la morte, senza dolore e simile a un sonno soave, non suscitava alcuno spavento. Poi venne l’età dell’argento, durante la quale gli uomini, dopo la nascita, rimanevano bambini per cent’anni, ignari di ogni male. Ma una volta superato questo periodo, diventavano sfrontati, violenti e rifiutavano agli dèi ogni forma di rispetto e di culto. Perciò, Zeus li annientò, sprofondandoli nelle viscere della terra. L’età successiva fu quella del bronzo, in cui gli uomini furono guerrieri terribili e crudeli, avidi solo di lotte e di sangue: finirono perciò con lo sterminarsi a vicenda, scomparendo così dalla faccia della terra. Zeus allora creò la nobile stirpe dei semidei, chiamati anche “eroi”, che fu la generazione precedente a quella che ora abita la Terra. La loro stirpe, assetata di gloria, perì nelle guerre di Tebe e di Troia, e lasciò posto alla quinta generazione, quella del ferro, oppressa da fatiche e miserie d’ogni tipo, tanto che il poeta dichiara apertamente che non avrebbe mai voluto appartenere a essa, ma essere morto prima o nato più tardi. Anche questa generazione è destinata a essere annientata da Zeus e quella che seguirà, sarà caratterizzata dal disprezzo di ogni legge umana e divina; allora Aἰδώς (la “Coscienza”) e Nέμεσις (il “Rispetto”) abbandoneranno definitivamente la Terra, lasciando gli esseri umani sprofondati nel male e in balia di se stessi (vv. 106-201).

Poeta greco (forse Esiodo). Testa, marmo, copia romana I secolo a.C.

Il triste quadro dell’età del ferro, dominata dalla violenza e dalla sopraffazione, senza più alcun freno morale, suggerisce al poeta lo sconsolato apologo dello sparviero e dell’usignolo. Uno sparviero aveva catturato un usignolo e lo teneva serrato fra gli artigli; e mentre quello si lamentava pietosamente, il crudele rapace esclamò: «Che hai da frignare? Ormai sei preda di uno molto più forte di te! Per quanto melodioso possa essere il tuo canto, verrai dove ti porterò io, che deciderò a mio piacere se divorarti o lasciarti libero! Stolto è chi pensa di resistere a qualcuno di più forte di lui!». Dalla dura ma lucida morale dell’apologo, Esiodo trae ancora una volta spunto per rinnovare a Perse il consiglio di onorare la giustizia, perché solo nell’assoluto rispetto di essa uomini e città possono avere una vita felice, sotto lo sguardo onnisciente di Zeus. I malvagi, invece, non devono illudersi di sfuggire alla punizione che li attende: infatti, ogni volta che una legge viene violata e l’ordine infranto, Dike, la vergine figlia di Zeus, se ne lamenta con l’onnipotente padre, che interviene a restaurare l’equilibrio; solo nel rispetto di esso, gli uomini possono prosperare e sono felici, per quanto è concesso ai mortali di esserlo (vv. 202-285).

Di qui fino alla conclusione del poema, la trattazione esiodea verte principalmente, in modo più coerente, sul lavoro dei campi, in rapporto al trascorrere delle stagioni. Si hanno così le descrizioni dell’autunno, dell’inverno, della primavera, dell’estate e della vendemmia, accompagnate ciascuna da precisi ed esaurienti consigli tecnici, con un fine evidentemente didascalico. Poi Esiodo si abbandona ancora all’autobiografismo, rievocando la sua unica esperienza di navigazione e la vittoria ottenuta con un inno nei giochi funebri di Anfidamante. Il poema si conclude con una nuova serie di consigli a Perse; con questi, il poeta intende far capire al fratello e a tutti gli uomini la profonda eticità di un’esistenza fondata sul lavoro e sull’accettazione consapevole delle sacre leggi della giustizia (vv. 286-828).

4. I nuovi valori etico-sociali in Esiodo

Esiodo non è, in assoluto, il primo poeta greco a trattare il tema del lavoro umano, poiché anche l’épos omerico offre numerose informazioni in proposito, soprattutto nell’Odissea, in cui si possono ravvisare situazioni e personaggi apparentemente vicini a quelli descritti nell’opera di Esiodo. Ciononostante, la società omerica, chiusa in un rigido classismo, ha il suo vertice nell’aristocrazia guerriera, che determina ed esprime anche i valori etici dominanti; e in questa classe, l’idea del lavoro è generalmente associata a quella dell’appartenenza a una condizione umile o addirittura servile. In Esiodo, il discorso appare completamente diverso e opposto a questa morale di casta. Quando il poeta afferma che il lavoro non arreca vergogna e che l’unica cosa vergognosa è starsene in ozio (Op. 311-313, ἔργον δ’ οὐδὲν ὄνειδος, ἀεργίη δέ τ’ ὄνειδος. / εἰ δέ κεν ἐργάζῃ, τάχα σε ζηλώσει ἀεργὸς / πλουτεῦντα· πλούτῳ δ’ ἀρετὴ καὶ κῦδος ὀπηδεῖ, «Il lavoro non è vergogna, vergogna è l’inerzia. / Se lavorerai, ben presto il pigro invidierà la tua ricchezza; / e alla ricchezza si accompagnano valore e fama»), egli intende sottolineare la profonda eticità del suo pensiero: non lavorare significa dare spazio all’inerzia (ἀεργίη), che genera tracotanza e discordia e distrugge la giustizia, perché viene meno al disegno di Zeus, che ha voluto che gli uomini ricavassero il loro sostentamento dalla dura e costante fatica. Se la pigrizia dell’uomo suscita lo sdegno degli dèi, essa non manca di suscitare anche il giusto risentimento di coloro per i quali il lavoro è una forma di vita morale, un’ἀρετή, che si contrappone a quella del guerriero. nell’ottica della società in cui Esiodo è vissuto, l’uomo valente (ἐσθλός) è colui che si procura la ricchezza (ὄλβος, πλοῦτος) non solo con i ricchi doni ottenuti da altri o con il bottino di guerra, ma con il proprio lavoro (ἔργον), conquistandosi la fama (κύδος) grazie alla propria onestà.

Pittore anonimo. Aratura e semina dei campi. Pittura vascolare su una coppa attica a figure nere, c. 530 a.C. Paris, Musée du Louvre.

Naturalmente la vita dei campi possiede anche una propria religiosità e riti propri, che non si esaltano nello splendore di cerimoniali solenni, ma che testimoniano comunque il continuo e consapevole rapporto fra uomo e divinità. Quando la gru lancia il suo grido caratteristico, il contadino si accinge alla semina, invocando Zeus Ctonio e Demetra, perché il grano che affida alla terra dia buon frutto (Op. 465 ss.) e gli sia evitato di soffrire la fame nel cuore di un rigido inverno. Da parte loro, gli dèi non mancano di dimostrarsi benevoli verso chi è giusto e pio e gli permettono anche di accumulare un’onesta ricchezza. Anche da questo punto di vista, Esiodo testimonia una significativa innovazione delle concezioni socio-economiche del suo tempo: nel mondo omerico la ricchezza del signore era rappresentata dalla proprietà terriera e dagli allevamenti, di cui egli si limitava a godere i proventi, frutto delle fatiche altrui. I beni del re guerriero si accrescevano con il bottino, con il riscatto dei prigionieri o con il guadagno della loro vendita come servi, con il saccheggio o con la pirateria. A ciò si aggiungevano i premi delle gare e i doni degli ospiti. Tuttavia, questi oggetti, anche se preziosi, non rappresentavano tanto un valore materiale (cioè commerciale), quanto piuttosto un ambito segno di prestigio sociale: accuratamente conservati fra i cimeli di famiglia, destinati a tramandarsi in eredità di generazione in generazione, essi venivano esibiti e ostentati con orgoglio, in omaggio alla convinzione che la ricchezza dovesse essere mostrata per testimoniare il rango di chi la possedeva. In Esiodo, la ricchezza si acquisisce e si mantiene soprattutto con il lavoro, e fra le attività produttive, l’agricoltura in specie è foriera di benessere.

Al secondo posto viene il commercio (ἐμπορίη), che però è anch’esso strettamente legato al lavoro agricolo e che consiste, per lo più, nello smercio delle derrate alimentari. Questo non significa che Esiodo non avesse nozione di un commercio a più ampio raggio, che si realizzava soprattutto grazie alla navigazione: il tempo in cui il poeta visse (tra la metà dell’VIII e del VII secolo a.C.), caratterizzato dal vasto movimento della seconda colonizzazione, non permetteva certo di ignorare questa attività, in conseguenza della quale stava nascendo e prosperando una nuova classe sociale. Esiodo dimostra di non trascurare questo nuovo aspetto dell’economia ellenica e, pur conservando al riguardo un atteggiamento prudente, non ne disconosce i vantaggi, così come non manca di considerarne i pericoli (Op. 619 ss.), con l’equilibrio di chi, assistendo al rapido sviluppo di un’attività inedita, non vorrebbe però che quella tradizionale venisse dimenticata. Anche il commercio può dare naturalmente ricchezza; l’importante è che l’uomo si attenga sempre a criteri di misura e giustizia, senza offendere Zeus né Dike. Se lo facesse, tutto quello che ha accumulato andrebbe in breve tempo distrutto: l’eccesso, infatti, porta fatalmente alla prevaricazione, violando l’equilibrio universale (κόσμος) di cui il Cronide è principio e difensore; ogniqualvolta esso sia infranto dallo spirito di trasgressione (ἀκοσμία) che caratterizza la natura degli umani, il dio supremo interviene per restaurarlo, punendo i colpevoli con inflessibile giustizia.

Anche il mondo divino ebbe un tempo il suo momento di disordine e di violenza, prima dell’avvento di Zeus e degli dèi Olimpi; allora, le divinità non avrebbero potuto porsi come esempio di comportamento per l’umanità. Ma dopo che Zeus ebbe instaurato nel suo regno l’ordine e l’equilibrio, l’uomo ha acquistato un modello da cui non può né deve discostarsi, se non vuole ripiombare in un χάος analogo a quello primordiale. In questo modo, il κόσμος divino, prima noto soltanto come argomento di miti, diviene la base morale della vita associata degli uomini, che trae da esso credibilità e universalità.

5. La poesia di Esiodo

L’opera esiodea, talvolta sottovalutata nel suo valore poetico, influì sulla cultura greca posteriore non tanto dal punto di vista formale e linguistico (come accadde invece con Omero), quanto per la sua eticità severa e profondamente sentita, solida radice di tutta la morale arcaica. La visione esistenziale del poeta, fondata su una religiosità autentica, sul rispetto della giustizia, ma anche sulla realistica e dolente consapevolezza della tendenza umana alla trasgressione, offrì spunti essenziali alla grande poesia tragica del V secolo, dopo essere stata la base del pensiero politico di Solone.

D’altro canto, la viva e sensibile osservazione della vita agreste e del paesaggio in cui essa si svolgeva, portò talvolta Esiodo a raggiungere momenti altissimi di poesia della natura. Si consideri, per esempio, la descrizione dell’ardente estate mediterranea, con il suo assetato paesaggio, in cui brillano, come vivide macchie di colore, i fiori violetti e spinosi del cardo (Op. 582-584):

Ἦμος δὲ σκόλυμός τ’ ἀνθεῖ καὶ ἠχέτα τέττιξ

δενδρέῳ ἐφεζόμενος λιγυρὴν καταχεύετ’ ἀοιδὴν

πυκνὸν ὑπὸ πτερύγων, θέρεος καματώδεος ὥρῃ.

Quando fiorisce il cardo e la cicala canora

posata sull’albero, battendo fittamente le ali,

spande il suo stridulo canto, nei giorni spossanti d’estate.

Capra (Amaltea). Testa (dettaglio), bronzo, 120-100 a.C. ca. Cleveland, Museum of Art.

Dopo le calde giornate dell’estate, la stagione di Demetra, l’apparire della costellazione di Orione indica il sopraggiungere dell’autunno, il tempo di Dioniso. È il momento di pensare a riporre il raccolto, a conservare il foraggio per gli animali, ad affrontare la fatica gioiosa della vendemmia (Op. 597-617):

– Δμωσὶ δ’ ἐποτρύνειν Δημήτερος ἱερὸν ἀκτὴν

δινέμεν, εὖτ’ ἂν πρῶτα φανῇ σθένος Ὠρίωνος,

χώρῳ ἐν εὐαεῖ καὶ ἐυτροχάλῳ ἐν ἀλωῇ.

μέτρῳ δ’ εὖ κομίσασθαι ἐν ἄγγεσιν· αὐτὰρ ἐπὴν δὴ

πάντα βίον κατάθηαι ἐπάρμενον ἔνδοθι οἴκου,

θῆτά τ’ ἄοικον ποιεῖσθαι καὶ ἄτεκνον ἔριθον

δίζησθαι κέλομαι· χαλεπὴ δ’ ὑπόπορτις ἔριθος·

καὶ κύνα καρχαρόδοντα κομεῖν, μὴ φείδεο σίτου,

μή ποτέ σ’ ἡμερόκοιτος ἀνὴρ ἀπὸ χρήμαθ’ ἕληται.

χόρτον δ’ ἐσκομίσαι καὶ συρφετόν, ὄφρα τοι εἴη

βουσὶ καὶ ἡμιόνοισιν ἐπηετανόν. αὐτὰρ ἔπειτα

δμῶας ἀναψῦξαι φίλα γούνατα καὶ βόε λῦσαι.

– Εὖτ’ ἂν δ’ Ὠρίων καὶ Σείριος ἐς μέσον ἔλθῃ

οὐρανόν, Ἀρκτοῦρον δὲ ἴδῃ ῥοδοδάκτυλος Ἠώς,

ὦ Πέρση, τότε πάντας ἀποδρέπεν οἴκαδε βότρυς,

δεῖξαι δ’ ἠελίῳ δέκα τ’ ἤματα καὶ δέκα νύκτας,

πέντε δὲ συσκιάσαι, ἕκτῳ δ’ εἰς ἄγγε’ ἀφύσσαι

δῶρα Διωνύσου πολυγηθέος. αὐτὰρ ἐπὴν δὴ

Πληιάδες θ’ Ὑάδες τε τό τε σθένος Ὠρίωνος

δύνωσιν, τότ’ ἔπειτ’ ἀρότου μεμνημένος εἶναι

ὡραίου· πλειὼν δὲ κατὰ χθονὸς ἄρμενος εἴη.

Ordina ai suoi servi di battere in cerchio il sacro frumento

di Demetra, non appena compare la forza di Orione,

in un luogo ben ventilato, sull’aia perfettamente circolare.

Dopo averlo misurato, riponilo con cura nei recipienti; quando poi

avrai sistemato dentro casa, dopo averlo raccolto, tutto il vitto necessario

ti consiglio di procurarti un servo senza famiglia o una serva

senza figli; una serva con un lattante al seno è un fastidio;

e di nutrire un cane dai denti aguzzi; non risparmiare sul suo cibo,

affinché un ladro, un “dormigiorno”, non ti derubi dei beni.

Poi, riponi foraggio e paglia, affinché tu ne abbia

in abbondanza per i buoi e i muli. Dopo, lascia che i servi

riposino le loro ginocchia e sciogli i buoi.

Quando Orione e Sirio avranno raggiunto il centro della volta

celeste e l’Aurora dalle rosee dita potrà scorgere Arturo,

allora, o Perse, cogli tutti i grappoli e portali in casa:

esponili al sole dieci giorni e dieci notti

e per cinque tienili all’ombra; al sesto, raccogli nei recipienti

i doni di Dioniso apportatore di gioia. Ma in seguito, quando

le Pleiadi e le Iadi e la forza di Orione

saranno tramontate, allora pensa all’aratura

al momento opportuno; e che il grano sotterra dia buon frutto.

Nelle Opere e giorni, in ogni periodo dell’anno, le occupazioni agricole sono indicate e scandite dal sorgere e dal tramontare delle costellazioni: quelle dell’autunno sono Orione, Sirio, le Pleiadi, le Iadi. Tutti questi astri, già ricordati anche da Omero (il lungo viaggio di Odisseo non ha altra guida se non la loro presenza o la loro assenza nel cielo notturno), sono personaggi mitologici mutati in stelle, secondo una trasformazione, detta καταστερισμός. Orione era un cacciatore gigantesco, figlio di Poseidone: siccome aveva tentato di usare violenza ad Artemide, la dea si era vendicata inviando contro di lui un enorme scorpione, che lo uccise pungendolo a un piede. Dopo la sua morte, egli e il suo cane Sirio furono trasformati negli astri che portano il loro nome: entrambi compaiono in cielo nel momento più caldo dell’estate, nei giorni detti appunti della “canicola”, spesso malsani e causa di febbri e malattie (da ricordare, a questo proposito, la similitudine fra l’apparizione di Achille, splendente nelle sue armi, e il funesto brillare di Sirio, in Il. XXII 25-32). Entrambe le costellazioni di Orione e di Sirio rimangono visibili fino al sopraggiungere dell’autunno, quando, secondo il mito, il sorgere dello Scorpione costringe Orione alla fuga. È il momento in cui scompaiono dal cielo anche le Pleiadi e le Iadi, figlie del titano Atlante, mutate in stelle quando il loro padre fu condannato da Zeus a sostenere per sempre sulle sue fortissime spalle la volta del cielo. La loro sparizione segnala l’approssimarsi della stagione più inclemente dell’anno ed è perciò necessario che le messi e il frutto della vendemmia siano accuratamente riposti. Così il brano, che si è aperto con il nome di Demetra, si chiude con quello di Dioniso, il dio del vino e della gioia che da esso deriva.

Pittore di Pan. Un cacciatore e il suo cane. Pittura vascolare da una λήκυθος attica a figure rosse, c. 470 a.C. Boston, Museum of Fine Arts.

Tuttavia, accanto a questa manifestazione di religiosità, tipica della poesia esiodea, si accompagna un palese richiamo ad aspetti più duri e realistici della vita agreste. Salvaguardare i prodotti della terra è necessario alla sopravvivenza tanto quanto averli coltivati e raccolti; pertanto, essi devono essere difesi dai ladri e affidati alla custodia di chi non ha nessun altro impegno, nemmeno affettivo. Di qui, il consiglio di servirsi di «un servo senza famiglia» e di un feroce cane da guardia, robusto, aggressivo e nutrito senza risparmio. Può apparire sconcertante per la sensibilità di oggi che il poeta esorti il fratello a non lesinare cibo per il cane, dopo aver affermato brutalmente che una serva che allatta «è sempre un fastidio», ma l’ottica del poeta è improntata a un realismo ben lontano dallo spirito dell’idillio campestre. L’uomo dell’antichità era pienamente consapevole dell’aspra lotta quotidiana per la sopravvivenza, i sentimenti erano quasi sempre destinati ad avere la peggio e lo ammetteva senza ipocrisie.

Di grande efficacia poetica è anche il passo in cui Esiodo descrive i rigidi giorni invernali, che, per questa loro natura, accomunano tutte le creature nella sofferenza (Op. 504-528):

– Μῆνα δὲ Ληναιῶνα, κάκ’ ἤματα, βουδόρα πάντα,

τοῦτον ἀλεύασθαι καὶ πηγάδας, αἵ τ’ ἐπὶ γαῖαν

πνεύσαντος Βορέαο δυσηλεγέες τελέθουσιν,

ὅς τε διὰ Θρῄκης ἱπποτρόφου εὐρέι πόντῳ

ἐμπνεύσας ὤρινε, μέμυκε δὲ γαῖα καὶ ὕλη·

πολλὰς δὲ δρῦς ὑψικόμους ἐλάτας τε παχείας

οὔρεος ἐν βήσσῃς πιλνᾷ χθονὶ πουλυβοτείρῃ

ἐμπίπτων, καὶ πᾶσα βοᾷ τότε νήριτος ὕλη·

θῆρες δὲ φρίσσουσ’, οὐρὰς δ’ ὑπὸ μέζε’ ἔθεντο·

τῶν καὶ λάχνῃ δέρμα κατάσκιον· ἀλλά νυ καὶ τῶν

ψυχρὸς ἐὼν διάησι δασυστέρνων περ ἐόντων·

καί τε διὰ ῥινοῦ βοὸς ἔρχεται οὐδέ μιν ἴσχει,

καί τε δι’ αἶγα ἄησι τανύτριχα· πώεα δ’ οὔτι,

οὕνεκ’ ἐπηεταναὶ τρίχες αὐτῶν, οὐ διάησι

ἲς ἀνέμου Βορέω· τροχαλὸν δὲ γέροντα τίθησιν

καὶ διὰ παρθενικῆς ἁπαλόχροος οὐ διάησιν,

ἥ τε δόμων ἔντοσθε φίλῃ παρὰ μητέρι μίμνει,

οὔπω ἔργα ἰδυῖα πολυχρύσου Ἀφροδίτης,

εὖ τε λοεσσαμένη τέρενα χρόα καὶ λίπ’ ἐλαίῳ

χρισαμένη μυχίη καταλέξεται ἔνδοθι οἴκου,

ἤματι χειμερίῳ, ὅτ’ ἀνόστεος ὃν πόδα τένδει

ἔν τ’ ἀπύρῳ οἴκῳ καὶ ἤθεσι λευγαλέοισιν·

οὐ γάρ οἱ ἠέλιος δείκνυ νομὸν ὁρμηθῆναι,

ἀλλ’ ἐπὶ κυανέων ἀνδρῶν δῆμόν τε πόλιν τε

στρωφᾶται, βράδιον δὲ Πανελλήνεσσι φαείνει.

Ma il mese di Leneone, giorni terribili, ciascuno dei quali

uccide un bue, sfuggilo, e così pure le sue lunghe gelate

che appaiono sulla terra quando soffia Borea,

che, attraverso la Tracia nutrice di cavalli, si scaglia sull’ampio mare,

scatenandone la furia; e mugghiano la terra e i boschi;

a decine esso stronca nelle forre dei monti le querce dalle alte chiome

e gli imponenti abeti, quando s’abbatte sulla fertile terra

e allora leva un grido tutta l’immensa foresta.

Gli animali rabbrividiscono e infilano la coda fra le zampe,

anche quelli la cui pelle è coperta da un fitto vello; il vento

gelido li penetra, benché abbiano il corpo coperto dalla pelliccia;

passa anche attraverso il cuoio del bue, che non riesce a fermarlo;

raggiunge anche la capra dal folto pelo; ma la violenza

del vento Borea non raggiunge le pecore, grazie alla loro lana

abbondante; però, piega in due, come un cerchio, il dorso del vecchio.

Esso non raggiunge neppure la fanciulla dalla tenera pelle,

ancora ignara delle opere dell’aurea Afrodite,

che se ne sta chiusa in casa presso la cara madre;

dopo aver lavato il corpo delicato e averlo unto con denso olio,

si stende per dormire, ben riparato all’interno della casa

nei giorni invernali, quando il polpo, il “senz’ossa”, si succhia

un tentacolo, nella sua tana senza fuoco in un triste ritiro;

infatti, il sole non gli mostra del cibo su cui gettarsi,

ma compie il suo giro al disotto del popolo e della città

degli uomini neri e appare più tardi a tutti gli Elleni.

Pittore di Brygos. Una donna intenta a cardare la lana. Pittura vascolare da una λήκυθος attica a figure rosse, 480-470 a.C. c. Boston, Museum of Fine Arts.

Il mese di Leneone, che prendeva nome dalla celebrazione delle Lenee, festività in onore di Dioniso, era detto anche Poseideone e coincideva con il periodo più freddo dell’anno, fra gennaio e febbraio. Nel descriverlo, Esiodo si sofferma in primo luogo sulla caratteristica peggiore di questa stagione: le violente bufere di vento, che, nel cuore dell’inverno, infuriavano sul mare e spazzavano la campagna beotica, facendo strage di alberi e costringendo tutte le creature a cercare disperatamente un riparo contro il gelo pungente. Al drammatico realismo rappresentativo della grandiosa scena di tempesta, in cui la natura si mostra nel suo aspetto più ostile, contribuisce la potente intensità di connotazione uditiva determinata dall’originale catacresi di verbi come μυκάομαι (“muggire”) e βοάω (“gridare”), usati ai vv. 508 e 511 per indicare il cupo suono del vento nelle gole montane e lo schianto degli alberi spezzati. Si assiste così al capovolgimento dell’applicazione di questa figura retorica rispetto a Omero, che si serviva spesso di immagini visive e uditive desunte dal mondo naturale per indicare la violenza delle battaglie o l’aggressività dei guerrieri, mentre Esiodo attribuisce qui comportamenti umani agli elementi naturali. Subito dopo, l’attenzione del poeta si rivolge alle creature costrette a subire il morso crudele dell’inverno, rifiutando un τόπος largamente diffuso, secondo cui la natura si sarebbe mostrata più clemente verso le fiere che nei confronti del genere umano, fornendo ai primi un folto pelame per difendersi dal freddo e lasciando invece l’uomo nudo e vulnerabile. Agli occhi di Esiodo, umani e animali soffrono allo stesso modo, con qualche rara eccezione; al suo attendo spirito di osservazione il comportamento delle creature selvatiche (θῆρες, v. 512) e quello degli animali domestici, come capre e buoi, offre lo spunto per quadri di rara incisività descrittiva, a cui l’uso dell’antitesi conferisce una particolare efficacia. Così, all’immagine delle pecore difese dal loro folto manto lanoso si contrappone quella del vecchio ripiegato su se stesso nel tentativo di ripararsi dalla violenza delle raffiche; con la descrizione della fanciulletta ben riparata insieme alla madre nelle stanze più interne della casa, contrasta il surreale squallore della «tana senza fuoco» del polpo, il «senz’ossa», che, non potendo uscire in cerca di prede nel mare tempestoso, cerca di ingannare la fame succhiando uno dei suoi stessi tentacoli. Il sole, in questi giorni, è scomparso dall’Ellade e compie il suo corso nella terra remota degli «uomini neri» (ἐπὶ κυανέων ἀνδρῶν δῆμόν), in una lontananza che rievoca toni di fiaba, forse simili a quelli dei racconti che la fanciulla poco prima descritta ascolta dalla «cara madre», prima di abbandonarsi tranquillamente al sonno nella sua stanza calda e ben protetta.

La grandezza poetica di Esiodo è confermata dal fatto che, circa un secolo più tardi, un grande poeta lirico, Alceo, gli sarebbe stato debitore per la descrizione dell’estate, ripresa, in tempi più recenti, da Carducci, D’Annunzio e Montale. Tuttavia, se questi poeti furono colpiti dall’efficacia rappresentativa dei suoi versi, furono soprattutto Teocrito e Virgilio a comprendere appieno la profondità della sua opera, nutrita da vive e forti qualità umane. Ispirato dal senso della natura, dalla fatica, ma anche dalla bellezza e dalla religiosità della vita dei campi, Esiodo seppe sviluppare nei suoi versi un’acuta meditazione sulla condizione universale dell’uomo, resa talvolta cupa da una nota di amaro pessimismo; ma anche una visione così sconsolata trova un saldo sostegno etico e il conforto della propria infelicità nella sicura consapevolezza degli altissimi valori che l’umanità può esprimere da sé e nel costante arricchimento ricavato dal rapporto con gli altri.

Due donne (forse Demetra e Kore). Statuetta, terracotta, IV sec. a.C. da Tanagra. London, British Museum.

6. La poesia didascalica: una forma di epica

Nei tempi in cui la tradizione orale prevaleva ancora su quella scritta, l’esametro fu usato anche per la composizione di opere didascaliche, destinate cioè a trasmettere insegnamenti e precetti. Si riteneva infatti che l’uso del verso, scandito secondo un ritmo preciso e sempre uguale, favorisse l’apprendimento mnemonico in modo duraturo e più rapido della prosa. Poiché la poesia didascalica si serviva dell’ἔπος (questo è il termine con cui si indicava l’esametro), essa non fu considerata in Grecia un genere letterario autonomo, ma una forma di epica. Esiodo, Empedocle, Parmenide e molti altri, la usarono per la trattazione di argomenti di genere vario, storico, filosofico, tecnico e morale, prima che, in pieno V secolo a.C., la prosa prendesse in questo campo il sopravvento sulla poesia.

Dopo un lungo periodo di declino, l’epica didascalica ricomparve in età ellenistica, con autori come Arato di Soli (315-240 a.C. circa), che si occupò di meteorologia in un grande poema, intitolato Phaenomena, e Nicandro di Colofone (vissuto nel III secolo a.C.), autore di due opere riguardanti gli animali velenosi di vario tipo, dai rettili agli insetti, e la cura contro i loro morsi o punture. Il successo dell’epica didascalica fu notevole anche nel mondo latino: basterà ricordare che al I secolo a.C. appartengono il De rerum natura di Tito Lucrezio Caro, la massima voce dell’Epicureismo latino, e le Georgiche di Publio Virgilio Marone, ispirate oltre che ad Arato e allo stesso Lucrezio, anche all’opera di Esiodo, il più antico poeta didascalico. Cicerone (De finibus IV 4, 10) affermava che questo genere letterario dev’essere considerato come una forma di ars, in cui poeta e destinatario svolgono rispettivamente i ruoli di magister e discipulus; il primo guida il secondo nello studio e nell’apprendimento della res, cioè dell’argomento, del contenuto specifico dell’opera, come la filosofia, l’astronomia, l’agricoltura, la medicina o altro, sviluppato e reso più piacevole poetarum more (“secondo l’uso dei poeti”), che è poi quello di miscere utili dulci (“unire l’utile al dilettevole”), servendosi di tutti gli abbellimenti resi possibili dalla poesia.

Pittore di Achille. Una Musa che suona la lira. Pittura vascolare da un λήκυθος attico con sfondo bianco, 440-430 a.C. ca.

7. Il proemio delle Opere e giorni

Nel corso delle diverse epoche, i canoni della poesia didascalica furono stabiliti dai vari autori prendendo come punto di riferimento gli Ἔργα καὶ ἡμέραι di Esiodo e strutturando le proprie opere secondo uno schema fisso, che prevedeva un proemio, uno o più appelli al destinatario e una serie di digressioni. In particolare, il proemio del poema didascalico si differenziava nettamente da quello epico tradizionale per la sua soggettività; infatti, mentre l’aedo si considerava un puro strumento della Musa ispiratrice, il poeta didascalico rivendicava per sé la scelta degli argomenti e i modi della loro interpretazione ed esposizione. Nel breve prologo delle Opere e giorni, Esiodo esordisce con un’invocazione alle Muse che sembrerebbe in perfetta armonia con la tradizione omerica; ma negli ultimi versi, egli identifica il suo destinatario, il fratello Perse, con il quale erano sorti dei dissapori a proposito della divisione del lascito paterno, ed esprime il proposito dichiaratamente educativo, di annunciare a Perse parole di verità, perché impari a vivere secondo le norme di giustizia, che devono regolare i rapporti fra gli uomini e che sono state sancite dallo stesso Zeus:

Μοῦσαι Πιερίηθεν ἀοιδῇσι κλείουσαι,

δεῦτε Δί’ ἐννέπετε, σφέτερον πατέρ’ ὑμνείουσαι.

ὅν τε διὰ βροτοὶ ἄνδρες ὁμῶς ἄφατοί τε φατοί τε,

ῥητοί τ’ ἄρρητοί τε Διὸς μεγάλοιο ἕκητι.

ῥέα μὲν γὰρ βριάει, ῥέα δὲ βριάοντα χαλέπτει,

ῥεῖα δ’ ἀρίζηλον μινύθει καὶ ἄδηλον ἀέξει,

ῥεῖα δέ τ’ ἰθύνει σκολιὸν καὶ ἀγήνορα κάρφει

Ζεὺς ὑψιβρεμέτης, ὃς ὑπέρτατα δώματα ναίει.

κλῦθι ἰδὼν ἀίων τε, δίκῃ δ’ ἴθυνε θέμιστας

τύνη· ἐγὼ δέ κε Πέρσῃ ἐτήτυμα μυθησαίμην.

O Muse della Pieria, che concedete gloria con il canto,

qua, cantate Zeus, inneggiando il padre vostro,

con l’aiuto del quale gli uomini mortali sono oscuri o famosi,

conosciuti o sconosciuti per volontà del possente Zeus.

Facilmente, infatti, egli rende forti, facilmente abbatte il forte,

facilmente umilia il superbo ed esalta l’umile,

facilmente raddrizza chi è storto e piega l’orgoglioso,

Zeus altitonante, che abita eccelse dimore.

Dammi ascolto, guardando e udendo, e con giustizia raddrizza

le sentenze; io voglio dire a Perse parole di verità.

Gustave Moreau, Esiodo e le Muse. Olio su tela, 1860. Paris, Musée Gustave Moreau.

Il testo è caratterizzato da una raffinata elaborazione retorica, a partire dalla scelta di collocare, alla fine di versi consecutivi, parole che terminano con elementi vocalici analoghi se non identici (vv. 1-2: κλείουσαι / ὑμνείουσαι; vv. 5-6: χαλέπτει / ἀέξει; vv. 7-8: κάρφει / ναίει).

Oltre a questi casi di omoteleuto, tra le figure retoriche si segnalano:

  • il poliptoto, nel nome di Zeus (Δί’, v. 2; Διὸς, v. 4; Ζεὺς, v. 8) e nel verbo ἰθύνω (ἰθύνει, v. 7; ἴθυνε, v. 9);
  • l’anastrofe (ὅν τε διὰ, con nesso relativo, v. 3);
  • la variatio nell’espressione del complemento di causa Διὸς μεγάλοιο ἕκητι (v. 4), rispetto a ὅν τε διὰ del verso precedente;
  • l’anafora interna dell’avverbio ῥέα (“facilmente”, v. 5) e quella iniziale del suo equivalente ῥεῖα (vv. 6-7);
  • la figura etimologica βριάει… βριάοντα (v. 5).

Particolarmente accurata è la disposizione delle parole, spesso funzionale al contenuto dei versi. Ai vv. 3-4, che presentano entrambi Zeus come artefice del destino degli umani, a βροτοὶ ἄνδρες si accompagnano due coppie di aggettivi sinonimici, secondo una disposizione chiastica (ἄφατοί τε φατοί τε, / ῥητοί τ’ ἄρρητοί τε). Gli aggettivi che compongono ciascuna coppia compaiono nella forma positiva e negativa (quest’ultima ottenuta con il prefisso ἀ- privativo) e derivano dalla medesima radice, rispettivamente φη-/φα- e ϝερ-.

Ai vv. 5-6, costituiti da brevi frasi che alludono al potere di Zeus di innalzare oppure di umiliare la condizione umana, si nota il parallelismo nella disposizione delle forme verbali e dei rispettivi complementi oggetto (ῥέα μὲν γὰρ βριάει, ῥέα δὲ βριάοντα χαλέπτει, / ῥεῖα δ’ ἀρίζηλον μινύθει καὶ ἄδηλον ἀέξει), che risulta invece chiastica al verso successivo (ἰθύνει σκολιὸν / ἀγήνορα κάρφει, v. 7).

La particolare successione degli elementi nei due brevi enunciati dei vv. 9-10 (δίκῃ δ’ ἴθυνε θέμιστας / τύνη· ἐγὼ δέ κε Πέρσῃ ἐτήτυμα μυθησαίμην) fa sì che i due soggetti (τύνη ed ἐγὼ) si trovino in posizione ravvicinata, conferendo speciale rilievo ai ruoli concomitanti di Zeus, garante della giustizia, e di Esiodo, poeta-educatore. Il proemio termina ribadendo la funzione dei protagonisti del rapporto educativo: Zeus, che dà le direttive, e il poeta, che le recepisce e le trasmette. A essi si aggiunge l’allievo, nel caso specifico Perse, fratello di Esiodo, ma, idealmente, qualunque essere umano.

Senofonte

di I. Bɪᴏɴᴅɪ, Storia e antologia della letteratura greca. 2.B. La prosa e le forme di poesia, Messina-Firenze 2004, 131-140.

1. La vita

Notizie biografiche | Senofonte, figlio di Grillo, nacque fra il 430 e il 426 a.C. da una famiglia agiata, nel demo attico di Erchia, a una quindicina di chilometri da Atene. Educato secondo l’uso aristocratico, raggiunta l’età per imbracciare le armi, egli militò nei cavalieri (ἱππεῖς); ciò probabilmente influì anche sulle sue successive posizioni politiche, sempre conservatrici, tanto che negli ultimi anni della guerra peloponnesiaca Senofonte non nascose le proprie tendenze filo-spartane. Come molti altri giovani di posizione sociale elevata, anch’egli frequentò Socrate; benché non molto interessato alla speculazione filosofica, nutrì grande ammirazione, stima e rispetto per le qualità umane e morali del maestro, difendendolo sempre dalle accuse che gli furono rivolte. L’avvenimento più importante della vita di Senofonte si verificò nel 401, poco dopo la capitolazione di Atene (404), in un momento assai critico per la vita politica della sua città, quando un suo amico, il beota Prosseno, aggregato a un contingente di mercenari ellenici che Ciro il Giovane, fratello minore del Gran Re Artaserse II, stava raccogliendo per muovergli guerra e detronizzarlo, lo invitò a unirsi a quell’impresa. Senofonte allora chiese consiglio a Socrate; in realtà, egli aveva già deciso in cuor suo il da farsi, approfittando della fortunata opportunità di allontanarsi da Atene, anche perché, dopo la restaurazione democratica di Trasibulo, Senofonte, filo-oligarchico e filo-lacedemone, non era più ben visto in città. Infatti, poco dopo l’inizio dell’impresa persiana, egli fu raggiunto dalla condanna all’esilio, con un bando che sarebbe stato revocato solo nel 370.

Reduce dell’avventurosa spedizione, che ci concluse con la morte di Ciro sul campo a Cunassa e con la ritirata dei 10.000 mercenari, che Senofonte avrebbe raccontato poi nell’Anabasi, egli scelse come sua nuova sede la stessa Sparta; qui strinse amicizia profonda e personale con re Agesilao II, del quale avrebbe composto in seguito un’encomiastica biografia e insieme con il quale, nel 394, partecipò alla battaglia di Coronea. Dagli Spartiati Senofonte ebbe in dono una tenuta a Scillunte, una piccola città dell’Elide, nel Peloponneso nord-occidentale, dove visse per un lungo periodo (quindici o vent’anni), in piena tranquillità, dedicandosi all’agricoltura, alla caccia e forse anche alla scrittura. Proprio in quegli anni si possono infatti collocare la stesura dell’Anabasi e della Ciropedia, quella di alcuni opuscoli, come la già ricordata biografia di Agesilao, oltre che l’abbozzo di una parte delle Elleniche.

Nel 371 il disastroso esito dello scontro a Leuttra pose fine all’egemonia lacedemone sulla Grecia e segnò l’inizio di quella di Tebe; di fronte al comune pericolo, Sparta e Atene si allearono e il bando di esilio che era stato comminato a Senofonte fu revocato. In questa rischiosa situazione, i rapporti con la madrepatria migliorarono, tanto che Senofonte inviò i suoi due figli, Grillo e Diodoro, a combattere a Mantinea, nel 362. Il primo, che cadde in battaglia dopo aver ferito mortalmente il comandante tebano Epaminonda, ebbe dalla città onori solenni. Negli anni fra il 365 e il 355, Senofonte si dedicò anche al completamento delle Elleniche e alla composizione di altri scritti, l’ultimo dei quali è un breve trattato di economia, sulle entrate ateniesi (Πόροι, le Entrate). Non si conosce con esattezza l’anno della scomparsa di Senofonte, ma è probabile che le Entrate siano state la sua ultima fatica e che lui sia spirato di li a poco, tra il 354 e il 350 a.C., forse a Corinto.

Hugo Haerdtl, Senofonte. Statua, marmo austriaco, 1899. Wien, Parlamentsgebäude.

2. Le opere

Un autore dai molteplici interessi | Senofonte fu autore di numerose opere, a testimonianza dei suoi molteplici interessi, che spaziavano dalla storiografia alla trattatistica di argomento diverso. Tuttavia, come spesso accade ai poligrafi, egli non sempre approfondì adeguatamente i vari temi affrontati, ma i suoi meriti di scrittore sono innegabili, così come il pregio di aver offerto numerosi spunti per generi letterari inediti, ripresi e sviluppati poi pienamente in età ellenistica. Poiché non è possibile stabilire con certezza una cronologia delle opere senofontee, per una maggiore sistematicità, esse possono essere suddivise per argomenti: scritti di carattere storiografico, politico e biografico; opere “socratiche”, che hanno per oggetto la figura del maestro e i suoi insegnamenti; scritti minori, di carattere tecnico. Così, al primo gruppo appartengono l’Anabasi, le Elleniche, la Ciropedia, la Costituzione degli Spartani, l’Agesilao e lo Ierone; al secondo, l’Apologia di Socrate, i Memorabili di Socrate, il Simposio e l’Economico; all’ultimo, l’Ipparchico, il Trattato sull’ippica, il Cinegetico e le Entrate.

Senofonte. Busto, marmo. Berlin, Staatliche Museen.

3. Opere storiche, politiche e biografiche

L’Anabasi | L’Anabasi (Ἀνάβασις), o Spedizione di Ciro, è il racconto delle peripezie di un corpo di mercenari greci in marcia attraverso l’Impero achemenide, al servizio di Ciro il Giovane, contro il fratello Artaserse II. Propriamente, il titolo, che significa «marcia verso l’interno», si adatta bene solo al primo libro, che descrive l’avanzata dell’esercito fino a Babilonia; gli altri sei libri (forse la divisione in sette libri non è dovuta all’autore ma ai grammatici alessandrini) narrano invece la difficile ritirata dei Greci verso la costa, dopo che Ciro fu sconfitto dal fratello e ucciso in battaglia a Cunassa, nel settembre 401.

Appoggiato dalla madre Parisatide, donna oltremodo decisa e crudele, Ciro aveva raccolto un numeroso esercito nel quale figurava un contingente di circa 14.000 mercenari ellenici; il 6 marzo 401, il principe ribelle mosse da Sardi, capitale della satrapia di Lidia, e attraverso la Frigia, la Licaonia, la Cappadocia, la Cilicia e la Siria, giunse all’Eufrate. Seguendo il corso del grande fiume, l’armata entrò nella regione di Babilonia e là, il 3 settembre dello stesso anno, si scontrò presso la località di Cunassa con l’esercito di Artaserse, immensamente superiore di numero. Ciro cadde in battaglia; ma il contingente greco, vittorioso nel suo settore, sfondò lo schieramento nemico e avanzò ancor più nell’interno, ignaro della sorte del principe. Informati poi della sua morte e resisi conto della gravità della situazione, i Greci non si persero d’animo e iniziarono la ritirata verso la costa. Inizia qui la fase più drammatica dell’avventura in mezzo a innumerevoli pericoli: il tradimento del satrapo Tissaferne, il quale, fingendosi amico dei Greci, invita i loro strateghi a colloquio e, dopo averli fatti arrestare a tradimento, li fa decapitare; la scarsa conoscenza del territorio, abitato da popolazioni dai costumi ancora primitivi e feroci; la fame e il freddo, che sorprendono gli Elleni sui monti dell’Armenia; il deterioramento dei rapporti all’interno del gruppo, in cui i disagi e il continuo rischio della vita cominciano a far prevalere la legge del più forte; il profondo scoramento, che sembra aver ragione anche dei più energici, fino a quando, l’8 febbraio del 400, essi giungono sulla cima del monte Teche, un picco della catena dei monti Eussini (forse l’od. Kolat-Dagh), dalla quale scorgono il mare. A questo punto, Senofonte, che aveva preso parte all’impresa ούτε στρατηγός ούτε λοχαγός ούτε στρατιώτης («né stratego, né locago, né soldato»), ma come semplice osservatore, acquistando però sempre maggiore autorità nel corso della spedizione, riconsegna gli sparuti resti dell’armata greca al comandante spartano Tibrone, che aveva ricevuto l’incarico di impegnare i superstiti nella lotta contro Tissaferne.

A un’analisi che voglia tener conto più dei risultati raggiunti che delle intenzioni dell’autore, l’Analisi appare non tanto un’opera storica, quanto un libro di memorie, un diario minuzioso, ricco di spunti autobiografici e di attenzione per un ambiante etnografico molto diverso da quello ellenico; manca però, al di là dell’attenta cronaca, una vera e propria indagine critica, che ricerchi le cause profonde degli avvenimenti narrati. Tuttavia, nonostante questo limite, è difficile sottrarsi al fascino di un’opera in cui il narratore è al tempo stesso protagonista e cronista della sua impresa, anche se Senofonte, per dare un’idea di un maggior distacco, usò la tecnica del racconto in terza persona e fece pubblicare l’opera sotto lo pseudonimo di Temistogene di Siracusa. Nel corso del racconto, le sue vicende si intrecciano con quelle di altri personaggi, che di volta in volta emergono nella vicenda e balzano dinanzi agli occhi del lettore con incisiva vitalità, analizzati con umano interesse e con profondità psicologica, come lo spartano Clearco, duro e aggressivo, mercenario e combattente per vocazione, perché la guerra è la sola attività adatta al suo carattere violento e crudele:

Infatti, era capace più di chiunque altro di provvedere che il suo esercito avesse viveri a disposizione e di procurarli; ma era anche capace di inculcare nei presenti l’idea che a Clearco bisognasse obbedire. Questo otteneva con durezza e, difatti, aveva un aspetto truce e voce aspra. Applicava le punizioni con inflessibilità e talvolta con rabbia, tanto che, in certi casi, se ne pentiva. Però puniva con ferma deliberazione, perché era convinto che un esercito senza punizioni non valesse nulla; anzi, raccontavano che era solito dire che un soldato deve temere più il proprio comandante che il nemico […][1].

Suo degno compare, il tessalo Menone, divorato dall’ambizione, avido di potere e di denaro e totalmente privo di qualunque scrupolo morale:

Era evidente che Menone il Tessalo era dominato da una fortissima brama di ricchezza, che desiderava comandare per prendere di più e che desiderava essere onorato per guadagnare di più; voleva diventare amico dei più potenti per non dover scontare la pena, qualora commettesse soprusi. Per realizzare i propri desideri, era convinto che la via più breve fosse quella di spergiurare, mentire e ingannare, e la schiettezza e la sincerità per lui erano la stessa cosa che la stupidità[2].

In contrapposizione a questi due, la natura onesta di Prosseno il Beota, l’amico di Senofonte, un intellettuale affascinato da sogni di eroismo e di gloria, ma non sostenuto da un’adeguata energia e totalmente privo dell’aggressività necessaria per sopravvivere in un ambiente come quello di cui era entrato volontariamente a far parte:

Prosseno il Beota, fin da ragazzo, desiderava diventare un uomo capace di compiere grandi imprese […], ma per quanto appassionatamente aspirasse a tutto ciò, era chiaro d’altra parte che non sarebbe stato disposto a raggiungere alcuno di questi obiettivi a scapito della giustizia, ma sentiva suo dovere il conseguirli operando secondo giustizia e rettitudine, senza compromessi. Quindi, sapeva dare ordini alla gente perbene, ma era incapace di infondere soggezione o paura nei soldati […][3].

Fra gli altri personaggi di rilievo che militano dalla parte di Artaserse, il subdolo Tissaferne, satrapo persiano responsabile di aver scatenato l’odio fra i fratelli Ciro e Artaserse con le sue delazioni, sempre pronto ad agire con perfidia e tradimento; per contrasto, il fedelissimo Artapate, dignitario di Ciro e suo amico, che non sopporta di sopravvivere al suo signore e si taglia la gola sul cadavere di lui, dopo la sconfitta di Cunassa. E infine, lo stesso Senofonte-personaggio, di cui Senofonte-autore non trascura i pensieri, le speranze, le paure, il comportamento, sempre sostenuto da una riflessiva determinazione, in cui alcuni studiosi hanno voluto cogliere una punta di compiaciuta autoesaltazione, tanto che è stata avanzata l’ipotesi che Senofonte abbia deciso di scrivere l’Anabasi per controbattere l’opera di Sofaineto di Stinfalo, il quale, aggregato anch’egli alla spedizione, narrò le sue avventure in un’Anabasi di Ciro, in cui si minimizzava il comportamento di Senofonte durante la ritirata.

Personaggi e episodi si inquadrano in uno scenario esotico, descritto con tale efficacia da divenire esso stesso protagonista: l’immensa piana dell’Eufrate, così diversa dal paesaggio greco, nella sua sconfinata uniformità «piatta come il mare»; gli aspri picchi dell’Armenia, con il gelido vento del nord che intirizzisce e uccide; un paesaggio ostile e desolato, che fa da sfondo alla disperazione degli Elleni, così come la vista del mare dall’alto monte Teche dà luogo a un esaltante coinvolgimento emotivo di tutti i soldati.

Da queste caratteristiche ha avuto origine il successo dell’Anabasi, l’archetipo di un genere narrativo destinato a grande fortuna nella letteratura classica e moderna, quello del diario di guerra; in esso trovano posto i Commentarii di Cesare, ma anche Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, come pure le opere di numerosi scrittori del Neorealismo italiano, da Levi a Rigoni Stern.

I Diecimila di Senofonte. Illustrazione di Y. Lee.

Le Elleniche | Le Elleniche (Ἑλληνικά), o Storia greca, contengono, in sette libri, gli avvenimenti occorsi in Grecia dal 411 (battaglia di Cizico) al 362 a.C. (battaglia di Mantinea), un periodo difficile e complesso, durante il quale le città greche furono impegnate in una lotta senza quartiere che terminò con un distruttivo logoramento reciproco, e che segnò la fine della civiltà della πόλις, aprendo la strada all’egemonia macedone. Con quest’opera, Senofonte si propose di riprende la narrazione di Tucidide dal punto esatto in cui il grande storico l’aveva lasciata; infatti, l’esordio del primo libro immette il lettore di colpo in medias res, senza alcuna forma di introduzione o di proemio, tanto che, per comprendere bene il senso del racconto, è necessario ricollegarsi alle parole conclusive delle Storie tucididee. Anche la suddivisione degli avvenimenti segue lo schema annalistico del precedente e il racconto è caratterizzato da uno stile piuttosto impersonale, che, proseguendo per tutto il libro primo e parte del secondo (per l’esattezza, II 3, 10), si conclude con la presa di Samo da parte di Lisandro nel 404, subito seguita dall’instaurazione del regime dei Trenta. I capitoli che seguono, e poi i libri successivi, presentano invece caratteri assai diversi: l’ordine cronologico annalistico viene abbandonato, lo stile si fa più disteso e descrittivo, ricco di digressioni, con ampio spazio dedicato all’analisi psicologica dei personaggi, secondo una tecnica narrativa che ricorda quella dell’Analisi. Circa la marcata diversità fra questa parte dell’opera e quella iniziale si possono fare solo ipotesi. Probabilmente Senofonte venne in possesso del materiale raccolto da Tucidide per l’ultima parte della sua opera; perciò potrebbe averlo utilizzato mantenendone intatte sia le caratteristiche stilistiche, ben diverse dalle proprie, che la partizione cronologica. Questa teoria è suffragata, anche se non dimostrata, da una testimonianza di Diogene Laerzio (II 57), il quale afferma che Senofonte, pur avendo avuto l’occasione di appropriarsi degli “appunti” di Tucidide, li pubblicò e li rese noti. Un’altra spiegazione potrebbe essere che fra la prima e la seconda parte delle Elleniche sia trascorso un periodo di tempo piuttosto lungo; l’opera, iniziata subito dopo il 404, con il piano di completare quella di Tucidide, sarebbe stata condotta a termine da Senofonte negli anni della maturità, durante il soggiorno a Scillunte. Altri studiosi pensano a una redazione avvenuta addirittura in tre tempi: la parte centrale, da II 3, 10, fino ai primi capitoli del libro quinto, sarebbe stata composta per prima; subito dopo, Senofonte si sarebbe dedicato a raccordare la propria narrazione a quella tucididea e, infine, forse tra il 358 e il 355, avrebbe portato a termine l’opera, utilizzando il materiale raccolto negli anni precedenti.

Certo è che nella parte centrale dell’opera compaiono in modo più evidente i pregi e i difetti dello stile senofonteo; accanto all’abilità di rappresentare con drammatica efficacia personaggi e scene, come la cinica arroganza di Crizia e l’arresto e la condanna a morte di Teramene, o il rientro in patria di Alcibiade, si nota un utilizzo non molto rigoroso delle fonti e una certa confusione nella cronologia, perché, narrando i fatti in base alla loro importanza e non secondo la naturale successione, talvolta lo scrittore si è visto costretto a tornare indietro, ad aggiungere particolari, a scapito della chiarezza e dell’ordine. Interessante è invece il modo con cui Senofonte si serve del discorso diretto; mentre Tucidide preferisce considerare le parole dei personaggi come premessa e giustificazione delle loro azioni, e perciò colloca i discorsi nella parte del racconto più adatta a dare il massimo risalto a questa loro funzione, Senofonte se ne serve soprattutto come mezzo di approfondimento psicologico dei personaggi, con una più ampia varietà di toni e di sfumature, anche perché, almeno in parte, essi si fondavano sul ricordo diretto dell’autore. Tuttavia, quanto di personale compare nel testo e nell’ideologia delle Elleniche non contribuisce alla loro imparzialità; l’ammirazione di Senofonte per Agesilao, la simpatia per i Lacedemoni e il loro sistema politico lo hanno indotto a giudizi non sempre obiettivi, e a osservazioni dettate più dal sentimento che dal raziocinio. Lo dimostra il fatto che, quando Senofonte tenta di motivare concettualmente un evento storico, lo fa ricorrendo a un motivo religioso (Hell. V 4, 1), come quando afferma che la rovina dell’egemonia spartana fu dovuta alla collera degli dèi perché i Lacedemoni avevano violato il giuramento di rispettare l’autonomia delle città greche. Il rigoroso spirito critico di Tucidide e il suo pragmatismo appaiono ben lontani, ma nonostante questi limiti, l’opera di Senofonte rimane una delle più importanti su questo fondamentale periodo della storia greca.

Stele funeraria degli opliti Chairedemos e Lykeas. Marmo pario, 420 a.C. ca. da Salamina. Pireo, Museo Archeologico Nazionale.

La Ciropedia | La Ciropedia (Κύρου παιδεία), considerata spesso il capolavoro di Senofonte per accuratezza stilistica, fu scritta probabilmente verso il 360 e benché il titolo significhi propriamente «educazione di Ciro», l’opera contiene, in otto libri, l’intera biografia di Ciro il Grande, fondatore dell’Impero persiano, limitando al primo libro il racconto della sua educazione. Anche presso i suoi connazionali, le notizie storiche su questo personaggio dovettero mescolarsi ben presto con la leggenda; per esempio, un racconto largamente diffuso presso i Persiani, e riportato anche da Erodoto, narrava che il re dei Medi, Astiage, era sta avvertito da un sogno premonitore, secondo cui un bambino nato da sua figlia Mandane lo avrebbe spodestato. Perciò, la diede in sposa a un persiano di basso rango, Cambise; non contento di ciò, quando seppe che dall’unione era nato un figlio maschio, ordinò di abbandonarlo in una foresta. Ma il piccolo Ciro fu raccolto e allevato da alcuni pastori e, in seguito, riconosciuto da suo nonno. Un simile racconto, che ha tutte le caratteristiche della favola (si notino le analogie con le origini dei grandi fondatori delle civiltà antiche!), dimostra come la figura del monarca orientale fosse divenuta ben presto protagonista di vicende accettate senza alcuna preoccupazione di veridicità storica, non solo dal suo popolo, ma anche da scrittori greci come Antistene e Ctesia, a cui Senofonte attinse con molta libertà.

Può darsi che il progetto di raccontare la storia di Ciro il Grande sia stato suggerito a Senofonte dall’aver conosciuto di persona il suo lontano discendente, Ciro il Giovane, figlio di Dario II, per il quale nutrì molta ammirazione; ma lo scopo che l’autore si prefisse fu soprattutto quella di restituire un’immagine del monarca ideale, moralmente perfetto e altamente consapevole della propria missione. Senofonte immaginò così un personaggio nel quale il valore militare, l’autorità e il senso della giustizia degni di un Gran Re si fondevano con le più nobili qualità umane, come il rispetto per gli dèi e il sentimento profondo dell’onore e dell’amicizia. Per creare una figura simile, lo scrittore ateniese ebbe presenti le qualità di due uomini che aveva ben conosciuto e sinceramente stimato, Socrate e Agesilao. Ma proprio perché Ciro riassume in sé, al massimo grado, le virtù dell’uno e dell’altro, risulta un personaggio letterario, troppo perfetto e idealizzato per essere esistito davvero. Del resto, che Senofonte non si preoccupasse troppo dell’attendibilità storica, lo dimostra anche il modo con cui descrive la forma di governo realizzata da Ciro, un miscuglio di elementi che l’autore ha desunto da quelle costituzioni a lui contemporanee e che riteneva meglio organizzate e più vantaggiose per gli uomini. Inoltre, benché sia noto che Ciro il Grande morì in battaglia, combattendo contro i Massageti, Senofonte non esitò a sostituire questa fine cruenta con un sereno trapasso in tarda età, accompagnato da dotte dissertazioni sull’immortalità dell’anima e da nobili consigli morali impartiti a familiari e amici: una vera morte “socratica”!

Tuttavia, nonostante questa voluta distanza dalla realtà storica, la Ciropedia ha un valore indicativo da non trascurare; in un periodo di drammatici rivolgimenti storici in cui i Greci cercavano di raggiungere una soluzione politica fondata sulla concordia delle varie città sotto l’egemonia morale e culturale di Atene, come avrebbe voluto, per esempio, Isocrate, Senofonte progettò la realizzazione del proprio governo ideale non in una πόλις ellenica, bensì in una monarchia universale, in cui popoli assai diversi fra loro erano tenuti insieme dall’autorità di un sovrano illuminato, precorrendo così una soluzione storica che si sarebbe verificata sotto la monarchia macedone e, più ancora, in quella dei diadochi in epoca ellenistica.

Interessante è anche l’attenzione dello storico per l’educazione a cui erano sottoposti, dai sette anni in poi, i giovani persiani di nobili natali. Con questa parte dell’opera, Senofonte si inserì nel dibattito sulla pedagogia politica, che era stata il principale obiettivo dei sofisti. Ma, mentre questi ultimi si disinteressavano degli aspetti etici del problema (quelli stessi che, invece, erano assolutamente inderogabili per Socrate), ritenendo che la prima qualità del politico fossero le sue capacità dialettiche e la sua forza di persuasione, Senofonte pose a fondamento dell’educazione persiana una solida base etica, costituita dal continuo e severo esercizio della giustizia, unita a una dura disciplina militare, piuttosto simile a quella spartana, per la quale egli non nascose mai la propria ammirazione.

Un altro aspetto non trascurabile della Ciropedia, anzi, forse il più importante, è il suo valore letterario, che permette di considerarla molto simile a un romanzo, il primo romanzo storico della letteratura occidentale, costruito su un’elaborata struttura narratologica. Sull’asse principale della vicenda, costituita dalla biografia di Ciro, si innestano numerose e ampie digressioni, autonome e complete rispetto al nucleo centrale. Fra le più belle, la tragica storia di Gobria, un vecchio principe assiro, animato da un disperato desiderio di vendetta verso il suo sovrano, che gli ha ucciso l’unico figlio per invidia e gelosia, e quella di Pantea e Abradata, patetica e drammatica avventura di amore e morte, vero romanzo nel romanzo. Questi e numerosi altri racconti di più breve respiro trovano spazio nel contesto della vicenda principale, dominata dalla figura di Ciro, che rappresenta anche, in tanta varietà di avvenimenti, l’elemento di unità, sempre presente e sempre coerente con se stesso, dalla lieta infanzia alla pensosa nobiltà della morte.

Combattimento fra Greci e Persiani. Bassorilievo, marmo, fine V secolo a.C. Dal fregio meridionale del Tempio di Atena Nike.

La Costituzione degli Spartani | La Costituzione degli Spartani (Λακεδαιμονίων πολιτεία) delinea nei suoi tratti essenziali il sistema di governo e la vita politica di Sparta, fondati da Licurgo, uno dei più famosi fra gli antichi legislatori, ma a proposito del quale la critica moderna ha avanzato qualche riserva, considerando leggendarie molte delle notizie pervenute su di lui. Secondo Senofonte, che non nutriva alcun dubbio sulla storicità del personaggio e della sua opera, la costituzione lacedemone, diversa da quella di tutte le altre realtà elleniche, fu fonte di benessere, concordia, prestigio politico e gloria militare per gli Spartani, finché essi vi si attennero con rigore. Ma quando permisero che la sua autorità fosse a poco a poco sminuita dall’ambizione e dalla bramosia di ricchezza, conobbero anch’essi la vergogna della decadenza, com’era accaduto agli Ateniesi e ai Persiani. Infatti, le pessimistiche conclusioni di quest’opuscolo hanno lo stesso tono delle ultime pagine della Ciropedia, in cui Senofonte descrive con amarezza la decadenza dell’Impero persiano, degenerato nella mollezza e nella corruzione, dopo il felice regno di Ciro il Grande.

Merry-Joseph Blondel, Licurgo di Sparta. Olio su tela, 1828. Amiens, Musée de Picardie

L’Agesilao | Questa breve biografia del re spartano Agesilao II (Ἀγησίλαος), scritta dopo la sua morte, avvenuta nel 360 a.C., ha carattere decisamente encomiastico. Senofonte, che lo aveva conosciuto di persona, ne era diventato amico e aveva militato ai suoi ordini, volle metterne in risalto le grandissime virtù militari e le eccezionali qualità umane, idealizzandole secondo canoni retorici, ma tentando, al tempo stesso, di mantenersi abbastanza fedele alla realtà storica. Degna di nota è anche la tecnica di cui Senofonte si servì per dare risalto alle doti del suo eroe; infatti i pregi di Agesilao risultano ancor più evidenti grazie al continuo confronto con i difetti di qualche altro personaggio, come il satrapo Tissaferne o il re Artaserse o, più semplicemente, con quelli della maggior parte degli uomini.

L’«Olpe Chigi». Particolare: due falangi oplitiche che si affrontano. Pittura vascolare da un olpe tardo-corinzio a figure nere e policrome. 630 a.C. ca., da Veio. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Lo Ierone | Quest’opuscolo, redatto in forma dialogica, prende spunto dagli aneddoti che si raccontavano sull’amicizia fra Ierone (Ἱέρων), tiranno di Siracusa, e il poeta Simonide di Ceo, suo ospite, e svolge, attraverso una serie di τόποι, il ben noto tema dell’infelicità e della solitudine di chi detiene un potere assoluto. Senofonte immagina che i due discutano sulla condizione del tiranno, confrontata con quella dell’uomo comune. Ierone afferma di non meravigliarsi se gli ignoranti invidiano i tiranni e li credano felici per la potenza e la ricchezza; lo stupisce però che una persona intelligente e colta come Simonide possa cadere nello stesso equivoco. I due prendono allora in considerazione vari fattori, sui quali, secondo l’opinione comune, si fonda la felicità umana: la patria, l’amore dei familiari, della moglie, dei figli, l’amicizia, la stima dei concittadini, la simpatia disinteressata degli altri e l’amara conclusione di Ierone è che sotto nessuno di questi aspetti il tiranno può dirsi più fortunato della gente comune. Ma Simonide, la cui benevola ironia assomiglia molto a quella di Socrate, lo consola dicendogli che anche un monarca assoluto può essere benvoluto e felice, quando governa con giustizia e saggezza, avendo sempre di mira il benessere dei suoi sudditi.

James Barry, L’incoronazione dei vincitori a Olimpia. Olio su tela, 1777-1784 c.

4. Le opere socratiche

L’Apologia di Socrate | Con l’Apologia, che porta lo stesso titolo del ben più celebre dialogo platonico, Senofonte intese tramandare l’orazione che il maestro pronunciò in propria difesa davanti ai giudici. Purtroppo, grava su questo opuscolo, forse la più giovanile delle opere senofontee, il confronto con l’ampiezza e la profondità di pensiero del testo platonico, a cui risulta assai inferiore. La figura di Socrate, così come emerge dalle poche pagine di Senofonte, è quella di uomo stanco e demoralizzato, che avverte il peso dell’età e si preoccupa di ribattere le accuse con argomentazioni che, in verità, non appaiono molto stringenti, e che si concludono con una profezia di sventura per il figlio di Anito. Tuttavia, lo spirito con cui l’opera è redatta è quello di una schietta ammirazione per Socrate, cosa che fa pensare che essa sia stata scritta in contrapposizione al libello antisocratico del sofista Policrate, che circolava fra il 395 e il 390. Alcuni concetti presenti in questa apologia sono poi stati sviluppati più ampiamente nei primi capitoli dei Memorabili.

Socrate. Busto, copia romana in marmo, II sec. d.C. Toulouse, Musée Saint-Raymond.

I Memorabili di Socrate | Anche quest’opera, suddivisa in quattro libri, si inserisce nel filone della letteratura nata in difesa di Socrate, contro libelli che ne diffamavano la memoria, sostenendo che il suo insegnamento aveva un peso importante nel discutibile comportamento politico di alcuni suoi discepoli, come Crizia e Alcibiade. Come già nell’Apologia, Senofonte non si cura di approfondire gli aspetti filosofici del pensiero socratico, ma difende con energia e convinzione l’onestà, la correttezza morale e la profonda religiosità del maestro, domandandosi come sia stato possibile diffondere sul suo conto calunnie tanto infamanti. A proposito del contenuto dei Memorabili, è stato notato che i primi due capitoli del primo libro sembrano costituire una parte a sé per il loro carattere strettamente apologetico, mentre il rimanente dell’opera ha un andamento piuttosto narrativo e descrittivo, e rievoca numerosi episodi, dai quali si ricava un ritratto di Socrate vivace e umanissimo, che testimonia la simpatia e l’affetto del suo antico discepolo. Questa diversità ha fatto supporre che l’opera sia stata composta in due periodi diversi: i primi capitoli intorno al 390, a poca distanza dalla morte di Socrate, per difenderne la memoria, il resto assai più tardi. L’ipotesi più probabile è che il primo progetto di Senofonte riguardasse solo la difesa di Socrate contro le diffamazioni di cui si è detto; poi, forse negli ultimi anni di vita, dopo il ritorno temporaneo ad Atene, l’autore ampliò il nucleo primitivo con i molti ricordi che aveva del suo maestro, scegliendo, secondo il suo gusto, quelli che meglio si adattavano a una descrizione vivace e piacevole. Si venne così delineando un profilo di Socrate che, pur lontanissimo dalla profondità morale del ritratto che ne fa Platone, nella sostanza non è però in contrasto con esso. Questa parte dell’opera mostra chiaramente l’impronta stilistica di Senofonte maturo: lo stile è discorsivo, brillante, con una certa tendenza alla digressione, la più famosa delle quali è quella che racconta il mito di Eracle al bivio, desunto da Prodico.

Il Simposio | Alla vena agile e descrittiva di Senofonte si adatta particolarmente bene il soggetto di quest’opera, scritta fra il 365 e il 362, e omonima del dialogo platonico. In essa si descrive un banchetto, offerto dal ricco ateniese Callia per festeggiare il suo favorito, Autolico, vincitore di una gara di pancrazio alle Panatenee. Gli argomenti trattati dai convitati sono consoni alla gaia atmosfera del convito; Socrate discute sull’amore, sia dei sensi che dello spirito, con una superficiale giocondità che contrasta con la serena profondità del dialogo platonico. Degna di nota la conclusione, in cui si descrive una rappresentazione mimica, molto vivace e realistica, dell’incontro fra Dioniso e Arianna, testimoniando così che il mimo come genere di spettacolo era in uso ben prima dell’Ellenismo.

Pittore Nicia. Simposiasti intenti al gioco del kottabos e ragazza che suona l’aulos. Pittura vascolare da un cratere a campana attico a figure rosse, 420 a.C. ca.

L’Economico | Quest’opera, uno dei più pregevoli documenti della prosa di Senofonte, si colloca, per il suo contenuto, in una posizione intermedia fra gli scritti “socratici” e quelli di carattere tecnico.

Interessante è anche per la sua struttura narratologica, il meta-racconto (cioè un racconto inserito in un altro che gli fa da cornice, come il Fedone di Platone). Socrate e il giovane Critobulo conversano sull’amministrazione domestica; ma quasi subito il filosofo afferma di voler riferire al giovane un lungo colloquio avuto con Iscomaco, un ricco e affabile proprietario terriero, che gli ha dato molte utili indicazioni sulla coltivazione e sull’amministrazione delle proprietà fondiarie. In questa parte dell’opera traspare l’esperienza in materia che l’autore aveva accumulato durante il lungo soggiorno a Scillunte, e anche il suo apprezzamento per l’agricoltura, considerata un’attività produttiva e rasserenante, utile al corpo e allo spirito, educativa e adatta a un uomo libero, più di qualunque mestiere artigiano. Ma il brano più interessante è quello che delinea, con le loro caratteristiche e i loro compiti ben distinti e separati, le figure dei due coniugi proprietari del podere. Poiché la natura ha dato all’uomo la forza fisica, la capacità di sopportare i disagi, il coraggio e lo spirito d’iniziativa, e alla donna invece la timidezza, il pudore, il senso della maternità e l’attaccamento alla casa, è necessario che entrambi collaborino, integrandosi a vicenda, per il benessere comune. Questo è lo scopo del matrimonio e su di esso si fonda l’armonia fra l’uomo e la donna: come l’ape regina sovrintende all’alveare e alle sue componenti, è lei che dovrà occuparsi della gestione della casa e della servitù con operosa attenzione, oltre a curarsi, naturalmente, del marito e dei figli che verranno. Si è ancora lontani da una condizione di pari dignità fra coniugi, perché in questa coppia così affiatata il marito appare come l’educatore della moglie, e le dà consigli perfino su come vestirsi e adornarsi, esortandola a evitare trucchi e cosmetici e a mostrarsi nel suo aspetto più naturale. Inoltre, anche per quanto riguarda la fedeltà coniugale, mentre è escluso in assoluto che la donna possa venir meno a questo principio, il marito si limita a garantirle quella posizione di preminenza che le deriva, nella casa, dalla sua posizione di sposa legittima, riservandosi, per il resto, la più completa libertà.

Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Ms. Strozzi 51 (metà XV sec.), f. 3r. Dedica a papa Niccolò V nella traduzione latina dell’Economico di Senofonte a opera di Lampugnino Birago.

5. Le opere tecniche

L’Ipparchico, Sull’ippica e il Cinegetico | Il primo di questi tre opuscoli tecnici (l’ultimo, il Cinegetico, presenta qualche dubbio di attribuzione) trae spunto dalla diretta esperienza di Senofonte come cavaliere; è infatti un trattatello che riguarda i compiti dell’ἵππαρχος («comandante di cavalleria»), verso il quale l’autore è prodigo di consigli sul modo di disporre i cavalieri in battaglia, su come evitare gli agguati e le insidie del nemico e su come disporre i propri uomini affinché facciano bella figura nelle feste e nelle parate. Tutte queste esortazioni sono rivolte a un giovane cavaliere, in cui alcuni hanno voluto identificare uno dei figli dello scrittore.

Strettamente complementare a questo è il trattato Sull’ippica, che contiene le modalità su come formale un efficiente corpo di cavalleria ateniese, accompagnate da istruzioni sulle qualità dei cavalli, sul modo di allevarli e addestrarli. Lo stesso Senofonte mise in evidenza lo stretto rapporto dell’Ipparchico con quest’opera, rimandando direttamente a essa (Eq. 12, 14) per la trattazione dei compiti dell’ipparco. Oltre che alla propria esperienza, l’autore attinse anche all’opera di un altro esperto nel settore, Simone, di cui sono giunti i frammenti del trattato Sull’aspetto e sulla selezione dei cavalli.

Cavallo e stalliere etiope. Stele funeraria, marmo pentelico, IV-I sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il Cinegetico, invece, riguarda la caccia e l’allevamento, l’addestramento e le caratteristiche dei cani adatti all’attività venatoria, che Senofonte considerava uno svago signorile, ma anche un allenamento molto utile per prepararsi alle fatiche della guerra. Vivacemente descrittiva, e degna delle migliori capacità narrative di Senofonte, la scena della caccia alla lepre (Cyn. 5).

Le Entrate | Qualche parola a sé merita questo libello di carattere molto specifico, che riguarda le fonti della ricchezza pubblica (i πόροι, appunto) di Atene. Scritto sicuramente dopo il 355, perché si accenna all’abbandono del santuario di Delfi da parte dei Focesi, che avvenne in quell’anno, esso dimostra una solida e approfondita conoscenza dei problemi economici della città, con qualche suggerimento per restaurare le finanze pubbliche ormai quasi del tutto esaurite. Interessante, pur nell’aridità della trattazione, il piano di risanamento proposto dall’autore, che si fonda soprattutto su un’adeguata organizzazione dello sfruttamento delle risorse minerarie (cave di marmo e miniere d’argento) con l’uso di manodopera servile, dato che la sconfitta di Atene, la decadenza del suo impero commerciale e l’insuccesso della seconda Lega navale avevano molto impoverito le sue tradizionali risorse economiche. In questo quadro l’agricoltura, che pure Senofonte apprezzava molto, passa un po’ in secondo piano, mentre viene dato forte risalto alla necessità di una pace duratura che, dopo il crollo dei sogni egemonici, permetta l’esecuzione pratica di un piano di lavoro teso a eliminare, da Atene e dal resto della Grecia, situazioni di malcontento causato dall’estrema indigenza, in cui Senofonte coglieva, con acuta concretezza, un perenne rischio di instabilità per la πολιτεία.

Pittore Evergide. Un cane laconico che si spulcia. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 500 a.C. ca. Oxford, Ashmolean Museum.

6. La fortuna di Senofonte

Il giudizio degli antichi e dei moderni | La fortuna di Senofonte fu notevole in tutta l’antichità, soprattutto per le qualità stilistiche e per la purezza del linguaggio (Dɪᴏɢ. II 57, lo definì Ἀττικὴ Μοῦσα, «musa attica»). Questi pregi, però, si rivelano più nelle strutture sintattiche che nel lessico, un attico elegante e colto, ma non privo di forme doriche e ioniche, con caratteri che preludono alla κοινή διάλεκτος, la lingua dell’Ellenismo. Già noto fra i contemporanei, l’autore fu apprezzato fino all’età bizantina; ammirato dagli Stoici, trovò un diretto imitatore in Arriano di Nicomedia (95-175 d.C.), che, nella sua Anabasi di Alessandro (I 12, 3), affermò di considerarsi «un nuovo Senofonte».

Nel mondo romano, lo scrittore fu assai stimato da Catone il Vecchio, da Sallustio, da Cesare e da Cicerone, che lo definì melle dulcior, mentre Quintiliano ne lodò la iucunditatem inadfectatam, «lo stile semplice e gradevole» (Inst. X 1, 82). In età moderna, piuttosto che essere valutato per lo stile, per i contenuti, o come fonte storica, Senofonte fu ritenuto l’archetipo dei generi letterari largamente diffusi, come la biografia, il diario di guerra, il romanzo storico.

Pittore Eufronio. Giovinetto a cavallo; scritta ΛΕΑΓΡΟ[Σ] ΚΑ[Λ]ΟΣ («Leagro è bello»). Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 510-500 a.C. da Vulci, München, Staatliche Antikensammlungen.

7. La novità di Senofonte

Un profilo diverso di uomo e di scrittore | Le varie e avventurose vicende della vita di Senofonte e la sua poliedrica attività di scrittore lo distinguono notevolmente dagli altri personaggi del suo tempo, mettendo in luce caratteristiche che, se da un lato appaiono ancora tradizionali, dall’altro fanno intuire una mentalità aperta più verso il futuro che verso il passato. Gli ideali politici, per esempio, appaiono dominati dall’orgoglio di classe e dal rifiuto della democrazia, che Senofonte riteneva responsabile della decadenza di Atene; a questo regime egli contrapponeva l’arcaica severità della costituzione spartana, non mancando di osservare, però, che nemmeno la città laconica aveva saputo salvarsi dal declino, iniziato appunto quando l’antico rigore aveva cominciato ad attenuarsi. Se ci si limitasse a queste osservazioni, Senofonte apparirebbe come un rigido conservatore, una specie di “vecchio oligarca”; in realtà, la tendenza a dare un amaro risalto ai difetti attuali delle due più grandi città elleniche, i cui aspetti positivi appartenevano a un passato ormai definitivamente concluso, fa intuire in lui un’apertura nuova, volta al superamento dei confini ormai troppo angusti della πόλις. Ciò trova conferma, come si è già accennato, all’ammirazione per il personaggio di Ciro il Grande e per una forma di governo che valica tradizioni e barriere nazionali, per unire popoli di costumi, lingue e tradizioni profondamente diversi, eppure capaci di coesistere sotto la guida illuminata di un unico sovrano, anticipando l’ottica che sarebbe stata propria di Alessandro il Macedone.

La passione per la caccia, per le armi e per i cavalli, altro aspetto essenziale del carattere di Senofonte, testimonia la sua educazione aristocratica, secondo uno schema anch’esso appartenente al passato; ma lo spirito di avventura che dominò tutta la sua esistenza è invece un segno dei tempi nuovi. Se è vero che il viaggiare fu un aspetto tipico della stirpe ellenica, tanto che, da questo punto di vista, si è soliti identificare l’uomo greco con Odisseo, è però altrettanto vero che, nella maggior parte dei casi, questa tendenza fu dovuta a motivi pratici di espansione, commercio, conoscenza o semplice curiosità, e si concluse di solito con un ritorno alla madrepatria, o comunque alla Grecia, considerata superiore a qualunque altra nazione; soprattutto negli Ateniesi, l’attaccamento alla patria fu sempre un sentimento fortemente radicato. Eppure, Senofonte avvertì in misura minore questa limitante caratteristica; benché la sua partenza da Atene avesse anche un motivo contingente nella situazione politica della città, poco favorevole in quel momento a posizioni conservatrici, la decisione di Senofonte scaturì soprattutto dal desiderio di conoscere Ciro il Giovane (un barbaro, secondo l’ottica ateniese), di seguirlo in un paese sconosciuto, non certo per la bramosia di denaro e di potere che dominavano Menone o per sfogare la propria innata aggressività, come Clearco, ma per venire a contatto con una realtà diversa dalla propria e per confrontarsi con essa, con uno spirito di cosmopolitismo che prelude a quello tipico dell’età ellenistica.


[1] Xᴇɴ. An. II 6, 8-10: ἱκανὸς μὲν γὰρ ὥς τις καὶ ἄλλος φροντίζειν ἦν ὅπως ἔχοι ἡ στρατιὰ αὐτῷ τὰ ἐπιτήδεια καὶ παρασκευάζειν ταῦτα, ἱκανὸς δὲ καὶ ἐμποιῆσαι τοῖς παροῦσιν ὡς πειστέον εἴη Κλεάρχῳ. τοῦτο δ’ ἐποίει ἐκ τοῦ χαλεπὸς εἶναι· καὶ γὰρ ὁρᾶν στυγνὸς ἦν καὶ τῇ φωνῇ τραχύς, ἐκόλαζέ τε ἰσχυρῶς, καὶ ὀργῇ ἐνίοτε, ὡς καὶ αὐτῷ μεταμέλειν ἔσθ’ ὅτε. καὶ γνώμῃ δ’ ἐκόλαζεν· ἀκολάστου γὰρ στρατεύματος οὐδὲν ἡγεῖτο ὄφελος εἶναι, ἀλλὰ καὶ λέγειν αὐτὸν ἔφασαν ὡς δέοι τὸν στρατιώτην φοβεῖσθαι μᾶλλον τὸν ἄρχοντα ἢ τοὺς πολεμίους

[2] Xᴇɴ. An. II 6, 21-23: Μένων δὲ ὁ Θετταλὸς δῆλος ἦν ἐπιθυμῶν μὲν πλουτεῖν ἰσχυρῶς, ἐπιθυμῶν δὲ ἄρχειν, ὅπως πλείω λαμβάνοι, ἐπιθυμῶν δὲ τιμᾶσθαι, ἵνα πλείω κερδαίνοι· φίλος τε ἐβούλετο εἶναι τοῖς μέγιστα δυναμένοις, ἵνα ἀδικῶν μὴ διδοίη δίκην. ἐπὶ δὲ τὸ κατεργάζεσθαι ὧν ἐπιθυμοίη συντομωτάτην ᾤετο ὁδὸν εἶναι διὰ τοῦ ἐπιορκεῖν τε καὶ ψεύδεσθαι καὶ ἐξαπατᾶν, τὸ δ’ ἁπλοῦν καὶ ἀληθὲς τὸ αὐτὸ τῷ ἠλιθίῳ εἶναι.

[3] Xᴇɴ. An. II 6, 16-19: Πρόξενος δὲ ὁ Βοιώτιος εὐθὺς μὲν μειράκιον ὢν ἐπεθύμει γενέσθαι ἀνὴρ τὰ μεγάλα πράττειν ἱκανός· […] τοσούτων δ’ ἐπιθυμῶν σφόδρα ἔνδηλον αὖ καὶ τοῦτο εἶχεν, ὅτι τούτων οὐδὲν ἂν θέλοι κτᾶσθαι μετὰ ἀδικίας, ἀλλὰ σὺν τῷ δικαίῳ καὶ καλῷ ᾤετο δεῖν τούτων τυγχάνειν, ἄνευ δὲ τούτων μή. ἄρχειν δὲ καλῶν μὲν καὶ ἀγαθῶν δυνατὸς ἦν· οὐ μέντοι οὔτ’ αἰδῶ τοῖς στρατιώταις ἑαυτοῦ οὔτε φόβον ἱκανὸς ἐμποιῆσαι.

La civiltà micenea

di BEARZOT C., Manuale di storia greca, Bologna 20112, pp. 15-19.

Diversamente che a Creta, in Grecia il passaggio dal Bronzo Antico al Bronzo Medio, intorno al 2000 a.C., reca tracce di profondi sconvolgimenti: molti villaggi sono distrutti, altri vengono abbandonati; scompaiono le fortificazioni; la casa ad abside semicircolare sostituisce gli edifici di struttura più complessa; scompaiono i magazzini; si generalizza la tomba individuale del tipo «a cista» (sepoltura individuale o collettiva costituita da una cassa, generalmente rettangolare, di lastre di pietra infisse nel terreno) e i corredi, già modesti, quasi scompaiono; compare una ceramica lavorata al tornio di colore grigio uniforme e a superficie liscia, detta «minia»; viene introdotto il cavallo domestico.

Questi cambiamenti sono stati attribuiti all’arrivo di popolazioni parlanti lingue indoeuropee, tra cui un proto-greco; tuttavia, rivolgimenti interni ed evoluzione locale possono spiegare altrettanto bene alcuni mutamenti, tanto più che, come è stato sottolineato, è difficile collegare elementi della cultura materiale con un preciso gruppo linguistico ed etnico. L’interpretazione dei pur significativi cambiamenti intervenuti al passaggio epocale al Bronzo Medio tende quindi a privilegiare (in questo caso come in quello del transito all’Età del Ferro, con la frattura del secolo XI e della cosiddetta «invasione dorica») processi evolutivi di lunga durata rispetto all’idea di un’invasione violenta e massiccia. Il carattere graduale della transizione induce a pensare più probabilmente a infiltrazioni, più che a vere e proprie invasioni, di genti parlanti una lingua greca, che si sovrapposero a un sostrato etnico e linguistico precedente in un momento e con modalità difficili da stabilire per noi: ciò sembra trovare conferma nella tradizione storiografica antica, che mostra coscienza che la civiltà greca era nata da una mescolanza di elementi autoctoni (come i Pelasgi di cui parla Erodoto I, 56-58) e di elementi sopraggiunti in seguito attraverso migrazioni.

Micene, la «porta dei Leoni» (dettaglio) nelle mura, Tardo Elladico III, XIII sec. a.C.

In ogni caso, anche la Grecia del Bronzo Medio, afflitta da gravi turbolenze, non sembra regredire a forme di completo isolamento: sono attestate relazioni con Creta e con l’ambiente insulare, con l’Anatolia, il Levante e addirittura con alcune aree dell’Europa continentale. Anche se della civiltà micenea sono oggi particolarmente valorizzate, senza escludere apporti esterni, le radici continentali, queste relazioni non furono prive di influenza sulle trasformazioni che, nella seconda metà del XVIII secolo (1750-1700 a.C.), si verificarono in Grecia portando alla nascita della civiltà micenea.

Lo sviluppo di quest’ultima mosse dall’Argolide e dalla Messenia, per investire poi altre aree regionali come la Laconia, l’Attica e la Beozia. In Argolide, in particolare, sorsero nel corso del XVIII secolo (1800-1700 a.C.) diversi centri nuovi, come Argo, Tirinto, Midea, Micene. E a partire dalla prima metà del secolo successivo (1700-1650 a.C.), quest’ultima assunse un’eccezionale importanza, come risulta dai ricchissimi corredi delle tombe cosiddette «a pozzo» (sepoltura a cui si accede attraverso un’imboccatura a pozzo, appunto, verticale o orizzontale), proprie di una élite aristocratica di guerrieri che sembrava volersi distinguere dal resto della popolazione, cui erano riservate tombe più povere, del tipo «a fossa» (scavate direttamente nel terreno e di forma generalmente quadrangolare) o «a cista». Particolarmente importanti sono, a Micene, le tombe «a pozzo» dei cosiddetti circoli A e B: il primo, scoperto da Heinrich Schliemann nel 1876 e comprendente sei grandi tombe databili tra il 1570 e il 1500 a.C., giustifica pienamente, con i suoi corredi comprendenti fra l’altro la «maschera di Agamennone», la definizione omerica di Micene come «ricca d’oro»; il secondo, venuto alla luce nel 1952 e più antico, comprende ventiquattro tombe «a fossa», su un arco di tempo che va dal 1650 al 1550 a.C.

I ritrovamenti sono di varia provenienza: materie preziose come oro, argento, elettro (una lega di oro e argento), ambra vengono importate dall’Egitto, dall’Asia Minore, dai Carpazi (soprattutto l’oro), dall’Inghilterra sud-occidentale (ambra lavorata); l’influenza cretese nei manufatti di oreficeria (le maschere d’oro di Micene, le tazze d’oro di Vaphiò in Laconia) risulta preponderante, anche perché Creta fungeva da ponte per il commercio con l’Egitto e l’Oriente; ma una funzione importante era svolta anche dagli empori occidentali (Isole Eolie, golfo di Napoli) e del Mar Nero fino alla Georgia, l’antica Colchide famosa per i suoi giacimenti aurei.

Protome di leone. Rhyton, oro martellato, Periodo Elladico recente I (XVI secolo a.C.), dalla tomba IV del Circolo A (Micene). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

L’eccezionale importanza dei reperti di Micene giustifica l’uso del nome di «micenea» per la civiltà che fiorì a partire dall’Argolide in tutta la Grecia continentale; ma sviluppi del tutto analoghi troviamo anche nel resto del Peloponneso, in Messenia (Tirinto e Pilo), in Attica (Atene ed Eleusi) e in Beozia (Orcomeno). L’ascesa improvvisa dei primi Micenei, con la loro grande ricchezza, si colloca in un periodo che corrisponde alla seconda fase palaziale cretese. Per spiegare le origini di tale ascesa, molto discussa, sono state formulate diverse ipotesi. Le ricche sepolture del tumulo A di Micene sarebbero, secondo alcuni, l’esito di incursioni a Creta, da dove sarebbero stati portati materie prime e artigiani, oppure dalla massiccia invasione di genti indoeuropee; ma altri tendono a privilegiare l’idea di uno sviluppo interno, come nel caso della civiltà minoica (introduzione della «triade mediterranea» e, di conseguenza, aumento della popolazione e sviluppo della metallurgia, dell’artigianato e delle forme di comunicazione). Eventuali apporti esterni potrebbero essere legati al ruolo di intermediazione della Grecia continentale tra il commercio marittimo gestito dai palazzi cretesi e il commercio terrestre verso l’Europa continentale (probabilmente i Micenei rifornivano l’Egeo di stagno e oro).

Tra il XVI e la prima metà del XV secolo (1600-1450 a.C.) si sviluppò l’organizzazione di comunità micenee in vaste aree della Grecia meridionale e centrale. I reperti più significativi sono costituiti da tombe, di tipo a tholos (camera circolare preceduta da un corridoio d’accesso) e con ricchi corredi, come la tomba dei Leoni e la cosiddetta «tomba di Egisto», che nel XVI secolo (1600-1500 a.C.) presero il posto, a Micene, delle tombe «a pozzo» del circolo A; si è discusso se si trattasse di comunità a conduzione monarchica oppure oligarchica, come sembra piuttosto far pensare l’alto numero di tombe monumentali. Il ritrovamento di sigilli suggerisce, anche in assenza di tavolette, lo sviluppo di procedure amministrative di tipo palaziale. In questo periodo l’influenza minoica appare sempre notevole, soprattutto in ambito religioso: tanto che, prima della decifrazione della Lineare B, che ha fornito le prove dell’autonomia della religione micenea, si tendeva a parlare di una religione minoico-micenea. In realtà, molte divinità del futuro Olimpo greco, come Zeus, Era, Atena, Artemide, Ares, Dioniso, erano già note presso i Micenei; fra esse, un ruolo particolare avevano le divinità femminili (le Potniai) e Poseidone; ora la pubblicazione delle tavolette di Tebe ha mostrato l’importanza, nella Beozia micenea, del culto di Demetra e Core.

Piet de Jong, Ricostruzione dell’interno della sala del trono del Palazzo di Nestore a Pilo.

Nel corso del XV secolo (1500-1400 a.C.) iniziò l’espansione micenea nell’Egeo. Allo sviluppo di centri come Micene, Pilo e Tebe faceva riscontro l’inserimento a Rodi e a Creta, dove l’arrivo dei Micenei è testimoniato dall’archivio di tavolette scritte in Lineare B di Cnosso e dalla ricostruzione del palazzetto di Haghia Triada secondo modelli continentali (l’epoca della conquista micenea corrisponde al periodo neopalaziale della civiltà minoica, che va dal 1450 al 1380 a.C.). A Cipro, in Asia Minore e in Egitto i Micenei sostituirono la loro presenza a quella cretese: accanto ai Keftiu, nei testi egiziani comparvero, dunque, i Tanaja (= Danai?), poi la menzione dei Keftiu venne sostituita da quella degli uomini provenienti dalle «isole in mezzo al mare». In Occidente, ceramica micenea è stata trovata nel Basso Tirreno (isole Eolie, isole del Golfo di Napoli) e nel mar Ionio, dove probabilmente i Micenei cercavano risorse metallifere; i ritrovamenti di ambra baltica a Micene attestano rapporti, almeno mediati, con le zone di origine della materia prima; tuttavia, i ritrovamenti di manufatti di tipo miceneo in Europa sono troppo sporadici per giungere a conclusioni sicure. Nel XIV-XIII secolo (1400-1200 a.C.) la cultura micenea, con lo sviluppo dell’architettura palaziale, giunse ormai al suo apogeo a Micene, Tirinto, Pilo, Atene, Tebe, Orcomeno. Con la conquista di Creta, la cui civiltà declinò dopo la distruzione, nel 1380 a.C. circa, del palazzo di Cnosso, i Micenei subentrarono nella gestione delle rotte commerciali del Mediterraneo orientale. Fu questo il momento della massima espansione della ceramica micenea in Oriente, che preludeva alla sua diffusione anche nel Mediterraneo occidentale.

Sillabario con i segni della Lineare B.

I palazzi micenei, come quelli minoici, del resto, costituivano il centro del potere, della vita religiosa, dell’amministrazione, dell’economia e delle forze militari. Le nostre informazioni sulle strutture della società micenea derivano dalle tavolette, soprattutto quelle di Pilo e di Cnosso. La documentazione che esse offrono è limitata, perché i documenti che ci sono stati conservati (quelle cotte nell’incendio dei palazzi) rappresentano solo una piccola parte degli archivi e riguardano una documentazione mensile o al massimo annuale. Si tratta di registrazioni amministrative, relative a persone legate al palazzo, a razioni di grano o di olio, ad affitti di terreni, alla riscossione dei tributi, alle offerte votive per i santuari, a oggetti e materiali vari (lana, lino, metalli, ecc.). La scrittura, la già ricordata Lineare B, proveniva certamente da Creta, in quanto rappresentava l’adattamento della Lineare A a un dialetto greco; essa fu decifrata nel 1952 da Michael Ventris e John Chadwick.

Caccia al cinghiale. Frammento di affresco parietale, periodo miceneo tardo, XIV-XIII sec. a.C., da Tirinto. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Rispetto ai modelli minoici, si nota la tendenza a collocare gli insediamenti in luoghi ben difendibili, sopraelevati, e a fortificarli: il timore di attacchi esterni era dunque ben presente ai Micenei rispetto ai Cretesi. Il cuore del palazzo, il megaron, in cui si trovava il focolare, era la struttura di rappresentanza del signore, il wanax (wa-na-ka); una struttura analoga, ma secondaria, era riservata al lawagetas (ra-wa-ke-ta), un capo militare il cui nome è collegato con quello del popolo in armi, lawos / laos (ra-wo). Sia il wanax che il lawagetas erano assegnatari di una porzione di terra, il temenos (te-me-no); sotto di loro vi erano altri funzionari assegnatari di terreni, i telestaí (te-ra-ta); sembra che fosse presente anche una aristocrazia di capi militari, «compagni» del re, gli hepetai (e-qe-ta). La base produttiva era garantita da personale dipendente, che comprendeva il damos (da-mo: popolazione residente nelle singole unità territoriali e nei villaggi, che pagava le tasse ed era dotata di una certa autonomia) e i servi o douloi(do-e-ro), ampiamente attestati. La produzione agricola (grano, olio e vino, soprattutto) e l’allevamento (con produzione di lana e di miele) erano controllati rigidamente dal palazzo, così come l’industria tessile (che produceva in abbondanza anche lino) e metallurgica.

Il palazzo fungeva da centro di un sistema economico di tipo ridistributivo, che amministrava un territorio statale ampio, in cui erano integrati principati e regni più piccoli. Le nostre informazioni migliori riguardano Pilo, caso in cui tavolette e reperti archeologici forniscono una serie di dati: il regno di Pilo doveva essere suddiviso in due province, a loro volta divise in otto distretti guidati da un koreter (ko-re-te), che rappresentava il potere centrale. In altri casi le fonti sono lacunose o assenti, ma è comunque possibile tracciare una specie di carta politica della Grecia micenea, comprendente l’Argolide, divisa in due regni – Micene e Tirinto; la Messenia (Pilo); l’Attica (Atene); la Beozia, anch’essa suddivisa in due potentati (Tebe e Orcomeno); la Tessaglia (Iolco). Il controllo del territorio appare più ampio che nel caso dei palazzi minoici: è stato sottolineato che ci troviamo di fronte al primo esempio di una politica a vasto raggio in Grecia, come del resto anche Tucidide mostra di sapere quando, nella cosiddetta «archeologia» (la breve storia della Grecia arcaica tracciata all’inizio delle sue Storie, in I 2-29), parla di un accrescimento della potenza greca sotto il dominio di Agamennone, segnalato dalla capacità di operare interventi comuni fuori dalla Grecia vera e propria, come la guerra di Troia (I 8, 3 ss.).

La «Panoplia di Dendra». Bronzo e avorio, Tardo Elladico IIA-B (XV secolo a.C. ca.), da Dendra (Argolide). Nafplion, Museo Archeologico.

Nel XIV-XIII secolo (che, come si è detto, fu l’epoca di massimo sviluppo della civiltà micenea) i Micenei si proiettarono verso l’esterno, creando progressivamente relazioni complesse e articolate, in modo sempre più sistematico, fino a raggiungere un’area geografica vastissima. Tali relazioni variavano dai contatti occasionali agli scambi sistematici di materie prime e manufatti (documentati nei due sensi sul piano archeologico), fino a forme di interscambio culturale più o meno incidenti sulle comunità locali.

In Asia Minore, dove si giunse, sulla costa, alla totale sovrapposizione della presenza micenea a quella minoica, rari appaiono invece i ritrovamenti nell’interno, in area ittita. In ogni caso, l’ipotesi dell’identificazione degli abitanti della terra denominata Akhiyawa nei testi ittiti fra il tardo XV e la fine del XIII secolo (1400-1200 a.C. ca.) con gli «Achei», quindi probabilmente con gli Achei della Grecia continentale o con gruppi di Micenei stanziati nell’Egeo orientale, pur non potendo essere rigorosamente provata, va ritenuta molto probabile. I testi in questione identificano con Akhiyawa un’entità geografica occidentale rispetto agli Ittiti, politicamente indipendente e dedita ad attività marinare; inoltre, le citazioni ittite sono concentrate in un’epoca che corrisponde alla massima potenza micenea, caratterizzata da intense relazioni con il Mediterraneo orientale.

Ben testimoniate sul piano archeologico sono le relazioni con Cipro (che offre una documentazione micenea ricchissima, dovuta ad attività intense di scambio) e l’area siro-palestinese, l’Egitto e la Libia; contatti con l’Occidente risultano a proposito della Sicilia e dell’Italia meridionale (Puglia, Basilicata, Calabria); vi sono indizi per includere nelle aree di navigazione micenea la Sardegna e la stessa penisola iberica. La complessità delle vie commerciali battute dai Micenei è attestata da relitti di navi contenenti lingotti di rame e di stagno e materiali provenienti da regioni diverse (Mesopotamia, Siria, Cipro, Africa), nonché ambra, spezie e derrate varie.

Testa di figura femminile. Stucco dipinto, Periodo Elladico recente IIIB (1250 a.C. ca.), da Micene. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

L’esigenza principale che spinse i Micenei sulle vie del mare è, ancora una volta, la necessità di reperire metalli, materiali preziosi come avorio e ambra, tessuti pregiati, legname per le navi, in cambio dei quali la produzione micenea offriva olio, vino, manufatti di bronzo e di ceramica, tessuti di lana e di lino. Se l’idea di un vero e proprio «impero coloniale» miceneo è stata ridimensionata dalle più recenti ricerche, che hanno rilevato l’assenza di abitati di fondazione e cultura esclusivamente micenee, certo l’estensione delle rotte commerciali e la costituzione di una rete di empori resta indicativa di una grande capacità, da parte della civiltà micenea, di espandere la propria influenza e di interagire con altri soggetti nell’ambito del bacino del Mediterraneo, costruendo una significativa unità culturale.

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Bibliografia

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