Šāpur I, l’uomo che umiliò Roma

Se si chiedesse di elencare i nomi dei grandi nemici di Roma, difficilmente, dopo quelli di Annibale, Giugurta, Mitridate, Vercingetorige, Cleopatra e Arminio, si menzionerebbe anche quello di Šāpur I. Eppure, quest’ultimo fu forse il più grande vincitore dei Romani. La storia antica e la cultura moderna hanno trasmesso e reso familiare re, generali e capi tribali che combatterono e tennero in scacco Roma, ma si trattò comunque di avversari a cui gli stessi Romani avevano potuto rendere l’onore delle armi: infatti, alla fin fine, erano stati tutti inequivocabilmente sconfitti.

Al contrario, la personalità e il carattere di re Šāpur restano come avvolti nella nebbia. La storiografia di III-IV secolo o di poco successiva non sembra aver avuto alcuna intenzione di soffermarsi su una disfatta che non rimase circoscritta a un unico evento bellico. L’intero lungo regno di Šāpur I, durato circa fra il 240 e il 273, rappresentò effettivamente la totale sconfitta dell’Impero romano sotto ogni punto di vista, militare, politico e diplomatico. Insomma, mentre per più di un trentennio il sovrano sassanide mantenne saldamente un potere assoluto e accentratore, in Occidente l’autorità fu esercitata ufficialmente da ben dieci Augusti, senza contare tutti gli usurpatori! E basta questo a dare la misura di quale fra le due compagini godesse di maggiore stabilità politica interna e fosse in grado di portare avanti progetti a lunga scadenza. Il dominio sassanide, dopo Šāpur, sarebbe durato più di quattro secoli, segnando l’ultimo periodo di grande potenza e fioritura della civiltà iranica.

Šāpur a cavallo seguito dai figli Hormizd e Bahram e altri dignitari. Rilievo, roccia calcarea, c. 245. Naqš-e Rajab (Pārs).

Il rivolgimento politico che aveva condotto all’ascesa dei Sassanidi e alla caduta degli Arsacidi, negli anni 223-226, sembra essere stato inteso dagli osservatori romani come uno dei soliti colpi di mano e cambi di vertice del Regno dei Parti. In realtà, si trattò di un evento di vastissima eco geopolitica, che le fonti occidentali sembrano non aver capito affatto. Anche questo fraintendimento è un significativo segno della decadenza dell’Impero romano: nessuna realtà politica, aggressiva o meno, può permettersi il lusso di ignorare i propri avversari, dichiarati o potenziali.

Se piuttosto scarne sono le testimonianze greche e latine sul conto di Šāpur I, le notizie persiane che lo riguardano si fanno decisamente più consistenti e numerose. La fonte principale sul suo regno è la straordinaria iscrizione trilingue (medio-persiano, partico e greco) che Šāpur volle apposta sulle pareti del cosiddetto Kaʿba-ye Zardošt (“Cubo di Zoroastro”); l’epigrafe fu rinvenuta in una serie di campagne di scavo nel 1936-39, a Naqš-e Rostam, nel cuore dell’Impero persiano, presso le tombe dei grandi sovrani achemenidi. Cogliendo l’importanza autocelebrativa del documento Michail Rostovzeff lo ribattezzò Res Gestae Divi Saporis.

Ahurā Mazdā consegna il diadema della regalità ad Ardašir I. Rilievo, roccia calcarea, 226-241. Naqš-e Rajab (Pārs), Necropoli monumentale.

Da questa e da altre fonti iraniche, dunque, si apprende che Šāpur fu un sovrano illuminato, saggio, colto, curioso e aperto alle culture e alle tradizioni straniere. Egli era figlio di Ardašir I e di una «nobildonna Myrōd». Il rilievo di Firuzābād dedicato alla battaglia di Hormozdgan (28 maggio 224) raffigura Šāpur al fianco di suo padre contro re Artabano IV di Partia. Una volta instaurato il dominio sassanide, ritenendolo il più idoneo a regnare tra i suoi figli, nel 240 Ardašir investì Šāpur come suo legittimo successore di fronte all’assemblea dei notabili. La scena dell’investitura compare sui rilievi di Naqš-e Rajab e di Firuzābād, nei quali Šāpur è raffigurato a cavallo nell’atto di ricevere la corona direttamente dalle mani di suo padre.

Dopo un breve periodo di condivisione del regno, Ardašir lasciò tutto il potere al figlio e si ritirò a vita privata. La loro sinarchia è attestata da diverse fonti: un passo dal Codex Manichaicus Coloniensis (V sec.), in cui si riferisce che nel ventiquattresimo anno di Mani, cioè nel 240, Ardašir «sottomise la città di Hatra e il re Šāpur, suo figlio, gli pose sul capo il grande diadema»; una lettera al Senato dell’imperatore Gordiano III, in cui informava di aver allontanato la minaccia «dei re persiani (reges Persarum)» dalla Antiochia di Syria (SHA Gord. 27, 5); ma anche le tarde emissioni monetali di Ardašir, che sul retto lo ritraggono affrontato al giovane principe con la didascalia: «Il divino Šāpur, re dell’Iran, il cui seme proviene dagli dèi»; un coevo rilievo rupestre a Salmās, in Azerbaigian, rappresenta i due sovrani a cavallo con la medesima corona.

Shapur I. Artwork by A. McBribe.

Il tratto più caratteristico ed evidente del nuovo re fu la decisione con cui una volta rimasto solo sul trono proseguì i progetti di suo padre. Gli scrittori orientali offrono un’idea piuttosto vaga delle guerre che Šāpur condusse contro l’Impero romano, facendo riferimento a un’unica campagna che si concluse con la cattura di Valeriano (260). L’iscrizione e i rilievi rupestri di Naqš-e Rostam concordano con le fonti romane sul fatto che le campagne furono in realtà tre. La prima (242-244) avvenne dopo la conquista di Hatra. Il resoconto di Giulio Capitolino nella biografia ufficiale di Gordiano III (SHA Gord. 23, 4; 26, 3-24, 3), integrato da alcuni autori successivi, riferisce che nel 242 l’imperatore mosse contro i Persiani con «una grande armata e moltissimo oro» e svernò ad Antiochia. Di qui combatté e vinse in diversi scontri, scacciò le truppe di Šāpur dalla provincia di Syria, dalle roccaforti di Carrhae e Nisibis e lo sbaragliò a Resaina (od. Ra’s al-‘Ain), costringendolo a restituire tutte le città occupate. Il giovane Gordiano informava il Senato: «Siamo penetrati fino a Nisibis, arriveremo anche a Ctesifonte!». Ma ciò non avvenne. Le fonti romane (Chron. min. 1, 147; Aur. Vict. Caes. 27, 8; Fest. 22; Eutrop. 9, 2; Hier. Chron. 217; Amm. Marc. XXIII 5, 7-8, 17; SHA Gord. 29,1-31,3; [Aur. Vict.] Epit. Caes. 27, 2; Oros. VII 19, 5; Zos. I 18, 2-19, 1; Zon. 12, 18) riportano che il nuovo prefetto del pretorio, Filippo Arabo, ordì alcune trame, al punto da scatenare una rivolta militare e costringere al ritiro dalla campagna. Sulla via del ritorno Gordiano morì, ma le testimonianze sono piuttosto confuse: alcune affermano che il giovane imperatore venne eliminato da Filippo, altre che egli rimase ucciso in Partia; altre ancora che Gordiano fu assassinato in territorio nemico, altre che, disarcionato in battaglia e rottosi un femore, sarebbe morto a causa della ferita. Zosimo (Zos. I 19, 1) riporta che Filippo «stipulò con Šāpur un patto di amicizia sancito da giuramenti», mettendo fine alla guerra e cedendo al nemico l’Armenia e la Mesopotamia.

Dal 1940 è possibile confrontare quanto riferito dalle fonti imperiali con la versione persiana, offerta dallo stesso Šāpur nelle sue Res Gestae: «Proprio quando ci siamo stabiliti sul trono, l’imperatore Gordiano arruolò in tutto l’Impero Romano un esercito tra Goti e Germani e, invasa l’Āsōristān (Assiria), marciò contro l’Ērānšahr e contro di noi. Ai confini dell’Assiria, a Misiḵē, vi fu una grande battaglia campale. E il Cesare Gordiano rimase ucciso, e noi sbaragliammo l’armata romana. Allora i Romani acclamarono Filippo imperatore. Quindi, il Cesare Filippo venne da noi per trattare i termini della pace, dandoci 500.000 denarii per riscattare la vita dei prigionieri, e divenne così  nostro tributario» (RGDS rr. 6-10).

Šāpur a cavallo sopra il corpo esanime di Gordiano III, mentre riceve la sottomissione di Filippo Arabo. Rilievo, pietra calcarea, c. 244. Dārābgerd (od. Kandaq Dahia).

Gli studiosi moderni hanno dimostrato che il resoconto di Šāpur, sebbene viziato, è superiore alla versione romana, che non spiega perché l’imperatore, dopo aver messo in rotta le armate di Šāpur vicino a Nisibis e aver raggiunto le porte di Ctesifonte, avrebbero preferito concludere una «pace vergognosissima». Kettenhofen (1982, 35-36) afferma che «Con ogni probabilità l’orgoglio imperiale romano abbia fatto ricadere su Filippo la responsabilità della sconfitta, per cui Gordiano III fu il primo imperatore romano a perdere la vita in battaglia in territorio nemico. Diversamente, il senso di superiorità dei Sassanidi fu immortalato in diversi rilievi rupestri di Šāpur I, e la vittoria di Misiḵē fu celebrata da un vanaglorioso sovrano come l’unico evento militare nel corso di questa prima campagna». Dopo aver tolto la possibilità ai Romani di nuocere e aver arricchito il tesoro regio esigendo un onerosissimo riscatto, Šāpur estese il protettorato persiano sull’intera Armenia, commemorando il suo trionfo in numerosi rilievi rupestri nel Pārs: tra questi il più famoso è senz’altro quello di Dārābgerd, che mostra il corpo del giovane Gordiano III calpestato dal cavallo del re e questi in atto di ricevere la sottomissione di un altro imperatore (Filippo?). Nonostante l’evidente insuccesso, è curioso che Filippo abbia celebrato la campagna orientale fregiandosi dei titoli di Persicus Maximus e Parthicus Maximus e facendo passare il trattato concluso con il nemico come una pax fundata cum Persis.

Mentre le fonti occidentali sulla seconda campagna di Šāpur (252-256) sono scarse, contraddittorie e ostili, il testo delle sue Res Gestae è piuttosto coerente: «E il Cesare mentì ancora e fece male all’Armenia» (r. 10). Questo esordio potrebbe riferirsi a una rinnovata ingerenza romana nella questione armena e al possibile rifiuto di corrispondere tributi ai Persiani. Verso il 252 Šāpur lanciò una nuova offensiva contro le province orientali dell’Impero romano e occupò numerose città della Mesopotamia, compresa Nisibis (Eutrop. 9, 8; Zos. I 39, 1). Quindi, attaccò la Cappadocia e la Syria, sconfiggendo le forze romane nella battaglia di Barbalissos (od. Qalʿat al-Bālis), sulla riva sinistra dell’Eufrate, ed espugnando la stessa Antiochia (Amm. Marc. XX 11, 11; XXIII 5, 3; SHA Trig. Tyr. 2; Malal. Chron. 12; Orac. Sibyl. XIII 125-130; Liban. XV 16; XXIV 38; LX 2-3). L’iscrizione di Naqš-e Rostam, invece, riferisce: «E annientammo una forza di 60.000 armati a Barbalissos, devastammo la Syria e i suoi dintorni, distruggemmo e depredammo. In questa sola spedizione noi strappammo al controllo dei Romani le seguenti città e fortezze: Anatha e i suoi sobborghi, […] Birtha, Sura, Barbalissos, Hierapolis, Beroea, Chalcis, Apamea, Rhephania, Zeugma, Ourima, Gindaros, Armenaza, Seleucia, Antiochia, Cyrrhus, Alexandretta, Nicopolis, Sinzara, Chamath, Ariste, Dichor, Doliche, Dura Europos, Circesium, Germanicia, Batnae, Chanar, e in Cappadocia, Satala, Domana, Artangil, Souisa, e Phreata per un totale di 37 città con i loro sobborghi».

Dura Europos (od. Salhiyah, Siria, Deir el-Zor). Mura collassate nell’assedio del 256.

Le testimonianze pervenute riferiscono che negli anni 253-256 Šāpur aveva condotto diverse offensive con l’obiettivo di colpire soprattutto Antiochia, metropoli particolarmente ricca e prestigiosa. Durante la prima fase della seconda campagna il sovrano sassanide aveva dovuto affrontare dei torbidi in Armenia: re Cosroe II, volendo vendicare la morte del parente, re Artabano IV, aveva invaso l’Assiria, minacciando i confini settentrionali dell’Ērānšahr. Fatto assassinare con un tradimento l’avversario e occupato il regno caucasico, Šāpur installò suo figlio Hormizd-Ardašir come “Grande re degli Armeni”; inoltre, assoggettò la Georgia, riducendola a satrapia e ponendola sotto il governatorato di un funzionario di alto rango, il bidaxš. Avuta ragione sulle armate romane a Barbalissos, Šāpur poté condurre una vasta offensiva contro le province romane, saccheggiando, devastando e deportando numerosi prigionieri.

Ripetute scaramucce fra le forze persiane e quelle romane rinnovarono le ostilità nel 260. Le Res Gestae Divi Saporis riferiscono così della terza campagna di Šāpur contro l’Impero: «Durante la terza invasione, noi marciammo contro Edessa e Carrhae e le ponemmo sotto assedio, tanto da costringere il Cesare Valeriano a condurre il suo esercito contro di noi. Egli era alla testa di una forza di 70.000 armati provenienti dalle province di Germania, Raetia, Noricum, Dacia, Pannonia, Moesia, Thracia, Bithynia, Asia, Pamphilia, Isauria, Lycaonia, Galatia, Lycia, Cilicia, Cappadocia, Phrygia, Syria, Phoenicia, Iudaea, Arabia, Mauretania, Lydia e Mesopotamia» (rr. 19-23).

P. Licinio Valeriano. Antoniniano, Antiochia, c. 253-255. AR 3,80 g. Recto: Imp(erator) C(aesar) P. Lic(inius) Valerianus Aug(ustus). Busto radiato, drappeggiato e corazzato dell’imperatore, voltato a destra.

Zosimo (Zos. I 36) riferisce che Valeriano, com’ebbe appreso dell’offensiva persiana, «si recò di persona da Antiochia sino in Cappadocia e, colpite soltanto le città durante il suo passaggio, tornò indietro. Ma quando la peste si abbatté sull’esercito, falcidiandone la maggior parte, Šāpur con un’incursione sottomise tutto l’Oriente. Valeriano, per debolezza e mollezza di vita, non se la sentì di porre rimedio a una situazione che si era fatta tanto grave e, volendo mettere fine alla guerra con donativi in denaro, inviò un’ambasceria a Šāpur, che la rimandò indietro senza aver concluso nulla, e chiese di incontrarsi con l’imperatore per discutere ciò che riteneva necessario». A questo punto, le fonti romane divergono su quanto accadde a Valeriano: mentre Eutropio (9, 7), Festo (23) e Aurelio Vittore (Caes. 32, 5), concordemente, narrano che l’imperatore fu catturato dai soldati nemici dopo essere stato vinto in una grande battaglia campale, Zosimo riferisce che Valeriano, recandosi all’incontro richiesto dal sovrano sassanide, fu fatto prigioniero a tradimento: «Valeriano, accettate le richieste senza nemmeno riflettere, mentre si recava presso Šāpur con decisione avventata, insieme a pochi uomini, improvvisamente cadde prigioniero dei nemici. Catturato, morì tra i Persiani, disonorando assai gravemente il nome romano presso i posteri».

L’iscrizione di Šāpur, invece, riferisce chiaramente che «ci fu una grande battaglia a metà strada tra Carrhae ed Edessa fra noi e il Cesare Valeriano e noi lo catturammo, facendolo prigioniero con le nostre mani, insieme ad altri generali dell’armata romana, al prefetto del pretorio, alcuni senatori e ufficiali. Tutti costoro caddero nelle nostre mani e li deportammo in Pārs» (rr. 24-26).

La cattura dell’imperatore e dei suoi lasciò l’Oriente romano alla mercé del re persiano: «Noi allora bruciammo, devastammo e saccheggiammo la Syria, la Cilicia e la Cappadocia», sottraendo al controllo nemico ben trentasei città e fortezze (rr. 26-34). Come ha osservato l’ufficiale e storico militare britannico sir Percy Sykes (1921, I 401): «Few if any events in history have produced a greater morale effect than the capture of a Roman Emperor by the monarch of a young dynasty. The impression of the time must have been overwhelming, and the news must have resounded like a thunderclap throughout Europe and Asia». Con ogni probabilità gli autori di parte imperiale preferirono attribuire «la più grande umiliazione dei Romani» alla diffusione di una pestilenza e al tradimento degli alleati, affermando che l’«anziano imperatore» fosse stato ingannato da Šāpur durante i negoziati per un armistizio piuttosto che confermare l’onta della cattura di Valeriano in battaglia.

Shapur and the Surrender of Valerian. Artwork by A. McBribe.

Šāpur volle celebrare il successo delle sue imprese con iscrizioni, come quella a Naqš-e Rostam, e numerosi rilievi rupestri. A Bišāpur uno di questi monumenti propone una scena assai simile a quella di Dārābgerd: il re vincitore è raffigurato a cavallo in atto di ricevere da Ahurā Mazdā la corona, simbolo della regalità, mentre sotto il suo destriero giace esangue Gordiano e prostrato dinanzi a lui compare l’imperatore Filippo. Un altro grande rilievo di Bišāpur ripropone lo stesso tema, ma al posto di Filippo accanto al re si mostra Valeriano, tenuto saldamente per un polso dal vincitore. Infine, un cammeo in sardonice, conservato al Cabinet des Medailles di Parigi, raffigura Šāpūr e Valeriano che si affrontano a cavallo: l’imperatore romano avanza al galoppo contro il nemico con la spada sguainata, mentre il sovrano sassanide si limita ad afferrare il polso dell’avversario, bloccandolo saldamente. A ogni modo, tutte le rappresentazioni persiane dell’evento da una parte celebrano la supremazia di Šāpūr, dall’altra, però, raffigurano il prigioniero completamente integrato nel suo ruolo di Cesare, smentendo così quelle fonti, soprattutto di parte cristiana, che volevano fosse stato maltrattato e, infine, barbaramente ucciso ([Aur. Vict.] Epit. Caes. XXXII, 5-6; Oros. VII 3-4; Lactan. mort. pers. 5).

Il trionfo di Šāpur accrebbe indubbiamente il prestigio dell’Impero sasanide, confermando pienamente la sua posizione di rivale della compagine romana. Le sue incursioni privarono il nemico di risorse, mentre rimpinguavano e arricchivano il proprio tesoro. I numerosi prigionieri deportati, tra militari e civili, per lo più artigiani e operai qualificati, contribuirono a rivitalizzare i centri urbani dell’Impero persiano. Ciò è dichiarato dallo stesso sovrano nelle sue Res Gestae: «E insieme al bottino abbiamo portato via degli uomini dall’Impero romano, cioè degli Anērān; abbiamo insediato costoro nel nostro regno in Pārs, Parthia, Ḵuzestān e Āsōristān, suddividendoli satrapia per satrapia» (rr. 35-36). Pare che l’integrazione di tanti elementi stranieri sotto il proprio regno abbia indotto Šāpur a riformulare il proprio titolo reale in Šāhān Šāh ī Ērān ud Anērān (“Re dei re degli Iranici e dei non-iranici”). D’altra parte, molti di quei prigionieri erano cristiani e, non sottoposti a persecuzioni, riuscirono a prosperare e a fare proseliti nel Ḵuzestān e in altre satrapie orientali, costruendo persino chiese, monasteri e vescovati. I nuovi sudditi, inoltre, diffusero il greco e il siriaco e portarono con sé diverse conoscenze scientifiche, soprattutto opere astronomiche, poi tradotte anche in pahlavi, la lingua parlata dai Sassanidi.

Il lungo regno di Šāpur fu un periodo senza precedenti di rinnovamento urbano: la località di Misiḵē (Ērāq) fu rifondata con il nome di Pērōz-Šāpūr (“Vittoria di Šāpūr”) e divenne uno dei più importanti centri militari (anbār) dell’Impero persiano; Abaršahr in Khorāsān divenne Nišāpur (“Šāpūr è l’eccelso”); così l’antica Susa fu ribattezzata Hormazd-Ardašir in onore del principe reale. Il sovrano fondò la città di Gondêšâpur, in Ḵuzestān, sul sito di un antico abitato noto come Bēṯ Lapaṭ, servendosi di manodopera antiochena. Altri prigionieri dall’Impero romano furono impiegati per la fondazione di Bišāpur, in Fārs, la cui pianta e i cui edifici tradiscono le origini dei suoi costruttori. In una grotta fra i Monti Zagros a 6 km a sud di questa metropoli fu scolpita in pietra calcarea una statua colossale di Šāpūr, alta 6, 7 m.

Šāpūr I. Statua colossale, stalagmite, calcare, III secolo. Kazerun (Pārs), Grotta di Šāpūr.jpg

La grandiosità dei monumenti con le loro scene di vittoria, i simboli del potere e della regalità, di popoli sottomessi dovette colpire i nuovi sudditi di Šāpūr. Eppure, è difficile provare a immaginare l’impressione di questi prigionieri di fronte a scene assolutamente simili a quelle a cui erano già abituati in patria – anche se, naturalmente, di segno opposto. Ancora più forte dovette essere verosimilmente l’impatto sui sudditi persiani e orientali, che si trovavano di nuovo ad assaporare dopo tanti secoli, vittorie degne dei grandi e mitici sovrani del passato. Non è infatti un caso che Šāpūr avesse scelto per illustrare le sue imprese anche luoghi come Naqš-e Rostam, che ospitavano i sepolcri degli antichi dinasti achemenidi. Nonostante l’evidente salto cronologico, le differenze etniche e culturali, i Sassanidi si sentivano i degni eredi del grande Impero persiano e, come tali, celebrarono le loro vittorie sui Romani.

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Al servizio del Re dei Re

di A. FREDIANI, Le grandi battaglie dell’antica Grecia. Dalle guerre persiane alla conquista macedone, da Maratona a Cheronea, i più significativi scontri terrestri e navali di un impero mancato, Roma 2005, pp. 54-82.

I Greci hanno avuto un altro grande nemico, oltre che loro stessi, nell’età arcaica dell’Ellade, in Asia, e segnatamente in Iran, c’erano alcune tribù nomadi di Parsumaš che si barcamenavano, senza grandi risultati, per rimanere fuori dalla sfera di controllo dell’Impero assiro. Tutte le loro tribù finirono conquistate nel corso del IX secolo a.C. dal re assiro Salmanassar II, mentre nel secolo seguente una parte di esse finì sotto i Medi.
Per sfuggire alla morsa, alcuni gruppi di Parsumaš emigrarono verso il lago d’Aral o alla volta del Meridione, dove presero accordi con il Regno dell’Elam e, come avrebbero fatto i popoli barbari con l’Impero romano oltre un millennio dopo, fornirono la loro temibile cavalleria in cambio di terre entro cui stanziarsi. Scelsero la valle del Choaspes, l’attuale Karkheh, dove uno dei loro capi, Achemene, in breve tempo si ricavò un piccolo regno, con capitale Pasargade.

Mappa dell’Impero persiano achemenide (500 a.C. ca.).

L’espansione del modesto dominio proseguì per gran parte del VII secolo a.C., durante il quale perfino una parte dell’Elam finì sotto il controllo dei Parsumaš, divisi in più regni gravitanti nella zona dell’Aršan, prima che gli Assiri di Assurbanipal ne frenassero le ambizioni annettendo l’Elam. Il resto della regione se la prese Ciassare, il fondatore dell’Impero dei Medi e il responsabile della scomparsa di quello assiro.
Con l’avvento al trono di Ciro II, detto il Grande, nato nel 580 a.C., i Persiani – a questo punto della vicenda possiamo chiamarli così – erano pronti per un salto di qualità che li avrebbe portati, in pochi decenni, a costituire un impero più grande di quelli che si erano spartiti l’Asia nei secoli precedenti. Alla metà del VI secolo Ciro sconfisse il re Astiage e, in un triennio, si impadronì dell’intera Media, per poi rivolgere le proprie attenzioni alla Lidia di Creso, che a quel tempo inglobava nei propri domini le città costiere di matrice greca nell’Asia Minore. Il re divenuto famoso per la propria ricchezza dovette subire prima la sconfitta in battaglia, poi l’assedio e la caduta della sua capitale, Sardi, prima di trascorrere il resto della propria esistenza come consigliere del conquistatore (anche se qualcuno afferma che morì sul rogo).

Bassorilievo di Ciro II il Grande.

Di fronte alla minacciosa ascesa di Ciro, che con la caduta della Lidia si era impossessato dell’intera Asia Minore, si formò una coalizione anti-persiana, di cui entrò a far parte perfino Sparta, che il re non aveva mai neanche sentito nominare. Il membro più a portata di mano, il regno di Babilonia, non fu però in grado di opporre alcuna resistenza all’invasione del nuovo astro asiatico, che si impossessò anche dei contigui territori siriaci. La sua morte in battaglia nel 528 a.C. contro gli Sciti del nord-est – anche se Senofonte afferma che morì nel proprio letto – gli impedì di procedere anche all’annessione dell’Egitto; ma era stato in grado di costituire un impero nell’arco di soli dodici anni.
Ci pensò il figlio Cambise, che fece in tempo ad annettere il paese dei faraoni prima di morire, sette anni dopo la sua ascesa al trono, secondo una delle tante versioni trafitto dalla sua stessa spada fuoriuscita dal fodero rotto, mentre montava a cavallo. Il suo contributo, tuttavia, aveva permesso all’Impero persiano di portare a quattro i regni di grande rilievo nella storia dell’Antichità inglobati dai Persiani (Babilonia, Lidia, Media ed Egitto), legittimando l’aspirazione dei sovrani persiani a chiamarsi «Re dei re» o «Grande Re»: il loro Impero si estendeva ormai dall’Indo all’Egeo, e al Nilo inferiore, ed era necessario che il successore di Cambise rallentasse il ritmo delle conquiste per dare un’organizzazione a quella spaventosa estensione territoriale.

Bassorilievo raffigurante due soldati persiani. Palazzo di Apadana, Persepoli.

Il titanico compito se lo assunse Dario I, il figlio del satrapo di Ircania e Partia, un altro che si fece soprannominare “il Grande”; questi pervenne sul trono in forza della sua decisione più che per legittimità dinastica, dopo un paio di guerre intestine durante le quali, secondo le cronache, uccise un usurpatore che si proclamava figlio di Ciro, combatté diciannove battaglie e sconfisse nove re ribelli. Dario completò la conquista delle estremi propaggini orientali dell’Impero, annettendo i territori oltre l’Indo e le tribù dei Saka nell’Asia centrale, entrambe regioni che gli offrirono ampie possibilità di ingaggiare mercenari per il suo esercito; poi si concentrò a conferire una solida struttura amministrativa al regno. Lo divise in venti distretti con a capo i rispettivi satrapi (xšaθrapāvā, letteralmente «protettori del regno»), governatori provenienti dalle famiglie di più alto lignaggio, soprattutto persiane, nominati dal re pressoché a vita, con funzioni sia civili sia militari, e i cui territori erano tenuti a pagare un tributo e a fornire una leva per il servizio in guerra.
Con questa divisione in governatorati dotati di ampia autonomia, Dario prendeva atto del carattere prettamente feudale della società che governava: una società tripartita in azata, i “nobili”, bandaka, i “sudditi”, e mariaka, ovvero gli “schiavi”. Tutti, a parte questi ultimi, erano obbligati a compiere il servizio militare e a rimanere a disposizione dell’armata nazionale persiana anche dopo il congedo, perlomeno fino al cinquantesimo anno di età. I Persiani, ma anche i Medi, monopolizzavano i quadri ufficiali a tutti i livelli, perfino nei contingenti non iranici.

Dario, re dei Persiani, concede udienza a un dignitario (in atto di proskýnesis). Rilievo, granito, inizi V sec. a.C. dalla Scalinata settentrionale di Apadana. Tehran, Museo Nazionale.

Un bambino non incontrava il padre fino all’età di cinque anni – fino ad allora veniva allevato in un gineceo – a partire dai quali, e fino ai venti, era addestrato a cavalcare e a tirare con l’arco; dopodiché, entrava a far parte di compagnie da 50 uomini al comando di un giovane esponente della nobiltà.
Il sistema di inquadramento degli effettivi era rigidamente decimale, almeno sulla carta. Le divisioni, dette baivarabam, erano di 10.000 uomini, al comando di un baivarapatiš; i reggimenti, detti hazarabam, di mille effettivi, al comando di un hazarapatiš e suddivisi in unità da 100, definite sabatam, a loro volte suddivise in reparti da dieci, i dathabam. I comandanti delle successive unità disponevano di due vice ciascuno, che guidava la metà del reparto. Il baivarabam più celebre era quello personale del re, gli Amrtaka, ovvero gli “Immortali“, cosiddetti, secondo Erodoto, perché si trattava di un corpo mantenuto invariabilmente con gli effettivi al completo.
Erano gli arcieri il punto di forza delle armate persiane: nugoli di frecce tirate con maestria e perizia per mezzo dei magnifici archi compositi di derivazione scitica, ricavati dall’accostamento di due pezzi ondulati di legno o corno, uniti al centro, scompaginavano le falangi avversarie prima che la cavalleria caricasse. Gli sparabara, come venivano chiamati i componenti delle unità di fanteria dotate di arco, agivano al riparo di grossi scudi – gli spara, appunto, costituiti da cuoio indurito, nel quale erano innestate cannucce di vimini poste verticalmente quando era ancora flessibile –, sostenuti da un altro combattente, e si schieravano in fila, nell’ordine di nove ogni dathapatiš.

Gli sparabara persiani in azione, secondo la ricostruzione grafica di G. Rava.

Nel loro equipaggiamento, oltre all’arco, naturalmente, risaltava il caratteristico gorytós, una sorta di rinforzo lungo la coscia sinistra, quella portata in avanti per il caricamento, mentre i portatori di scudo disponevano di una scimitarra. In progresso di tempo, gli stessi arcieri vennero dotati di un piccolo scudo di legno o di cuoio con bordo di metallo, detto taka, più o meno della grandezza di un pélta, ma con il bordo superiore tagliato a mezzaluna, allo scopo di difendersi nel corpo a corpo una volta che l’avanzata della falange era riuscita a penetrare la cortina di spara. Il loro abbigliamento consisteva in una corta tunica stretta alla vita da una fascia annodata, pantaloni, e un cappello quasi “a bombetta” senza bordi.
Ve n’erano tuttavia anche montati, di arcieri, secondo la tradizione iranica: indossavano solo una tunica e delle brache imbottite. L’arco, peraltro, era appannaggio anche dei portastendardo, che si contraddistinguevano per una pelle di lupo posta sulla testa e sulle spalle, una tunica estremamente intarsiata per renderli distinguibili, una corta gonna e dei pantaloni aderenti e stretti alle caviglie.

Arcieri erano anche, ai tempi di Dario il Grande, gli stessi Immortali, così come vengono raffigurati nei fregi residui dei palazzi imperiali, nei quali notiamo, tra le altre cose, la barba e i capelli accuratamente lavorati a trecce, costume diffuso fra i Persiani. Si rileva nelle figure una fascia arrotolata di color giallo, avvolta intorno alla fronte, tempie e nuca, lasciando scoperta la sommità del capo; ma è probabile che in guerra i guerrieri usassero il classico copricapo iranico, un modello con lunghi lembi laterali piuttosto diffuso tra i popoli asiatici, e in particolare tra i contingenti di arcieri nonché tra i cavalieri, denominato tiara, o kyribasia; pare che si ricavasse tagliando su misura la pelle di qualche piccolo animale, e spuntandone le gambe; i risvolti potevano essere utilizzati a mo’ di sciarpa durante le marce per difendersi dal vento e dalla polvere, o in combattimento come protezione. Un’ampia tunica di colore cremisi, blu, giallo o bianco nascondevano un corsaletto a scaglie metalliche.

Bassorilievo di due Immortali reali, dal Palazzo di Dario I, a Susa. Paris, Musée du Louvre.

L’altra arma che vediamo raffigurata è la lancia, di cui erano dotati tutti i corpi d’élite persiani (lo stesso Dario era stato un lanciere reale di Cambise), contraddistinta da un pomo argentato – dorato per gli ufficiali – nella parte opposta alla punta. L’arma secondaria era costituita da una corta daga contrassegnata da un’elsa decorata con due teste di leone divergenti.
Possiamo affermare, con ragionevole sicurezza, che l’esercito persiano fu il primo della Storia ad adottare una certa uniformità nelle divise, dai più alti gradi ai corpi speciali, alla truppa; pare anzi che gli stessi satrapi provvedessero ad equipaggiare i soldati alle loro dipendenze, e quelli che dimostravano maggior gusto e solerzia venivano premiati dal Gran Re in persona il quale, dal canto suo, conservava in magazzini centralizzati tutto ciò che distribuiva ai corpi speciali. Le figure degli Immortali indossano ampie toghe intarsiate con i simboli e i colori dei rispettivi reggimenti, lunghe fino alla caviglia, lasciano intravedere dei pantaloni e delle scarpe chiuse gialle, collane e braccialetti dorati.
Probabilmente il reggimento d’élite degli Immortali, costituito dai lancieri reali, procedeva e seguiva il carro del sovrano durante la marcia, poggiando la lancia sulla spalla destra con la punta rivolta verso il basso, e costituiva la sua guardia del corpo in ogni occasione. Sul mezzo possiamo figurarci il Gran Re vestito di una corta tunica intarsiata, di pantaloni, scarpe, un copricapo cilindrico di color giallo e con uno scettro dorato con pomello. Accanto a lui, si trovava il suo gran ciambellano, un eunuco che curava il cerimoniale e gli affari di corte.
I lancieri reali erano reclutati tra la nobiltà, mentre gli altri reggimenti degli Immortali pescavano anche altrove, sebbene sempre tra Persiani e Medi; probabilmente, erano gli unici autorizzati a vestire indumenti con i colori del sovrano. Il tipico lanciere reale raffigurato nei rilevi di Persepoli, sulla tomba di Artaserse III, indossa una lunga tunica di porpora con una banda bianca al centro, e dei pantaloni dello stesso colore. Il copricapo, cilindrico, è blu, e dispone del caratteristico scudo ovale denominato dagli archeologi “dypilon” – dal sito di Atene nel quale vennero rintracciati vasi sui quale era raffigurato – , con due cerchi ritagliati lateralmente; probabilmente, l’attrezzo era rivestito di pelle seccata di gazzella.
Anche i satrapi avevano un reggimento a loro disposizione come guardia del corpo, denominato arštibara, al comando di un hazarapatiš, cui veniva affidata la sicurezza della satrapia, di concerto con le truppe mercenarie. Le roccaforti erano sotto il comando dei didapatiš, che dipendevano invece direttamente dal re, il quale si garantiva in questo modo una divisione dei poteri militari che limitava la concentrazione degli stessi nelle mani di un governatore.

Corpi della fanteria persiana (da sinistra a destra: un thanvabara, uno sparabara, un arštibara e un takabara). Illustrazione di R. Scollins.

Sulla fanteria persiana, alla quale veniva data scarsa rilevanza, in generale non si sa molto. Possiamo basarci principalmente su un frammento di un vaso attico conservato al Louvre, nel quale vediamo raffigurato un soldato con uno scudo a mezzaluna crescente, decisamente più grande del pélta, e un’ascia. il copricapo sembra di cuoio o di pelle ed evidenzia un accentuato paraorecchie, mentre una corta tunica senza maniche ricopre un camiciotto a maniche lunghe e sovrasta i pantaloni. In progresso di tempo le influenze greche si fecero sentire, soprattutto nello scudo, che divenne sempre più simile all’hóplon, e nella lancia, che accentuò la sua lunghezza. Per quanto riguarda gli ufficiali, possiamo dire che avevano un turbante in testa e che erano dotati, almeno loro, di una corazza di lino trapuntato, con tunica stretta in vita da una fascia annodata, e pantaloni.
Tuttavia, tra le leve del grande impero se ne vedevano di tutti i colori. I Persiani utilizzarono per le loro invasioni della Grecia anche gli Etiopi della Nubia, principalmente come marinai insieme ai Saka dell’Amu Darya, sebbene, dopo la disfatta di Salamina, li abbiano smobilitati per impiegarli come fanteria leggera sul fronte terrestre. Nei vasi greci li vediamo raffigurati con ciò che sembra una corazza di tessuto inspessito da più strati, forse lino, senza maniche, sotto la quale compare una casacca a maniche lunghe; dal bordo inferiore dell’armatura pendono pterugi, cui seguono i pantaloni, ma il tratto distintivo è un mantello che tengono avvolto lungo il braccio a mo’ di scudo. Di Nubiani, ve n’erano però di armati più alla leggera, vestiti di sola pelle di leopardo, con un lungo arco di legno di palma e frecce di canna battuta, con corta lancia di corno di antilope e una clava; in battaglia, solevano dipingersi metà del corpo in rosso vermiglio e passare del gesso sull’altra.

Pittore di Trittolemo. Combattimento fra un oplita e un persiano. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, V sec. a.C. Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Non meno caratteristici erano i combattenti dell’Asia Minore, provenienti da Frigia e Paflagonia, vestiti solo di una corta tunica a canottiera, di stivaletti di cuoio e di un copricapo in vimini rinforzato da scaglie di metallo; il loro equipaggiamento consisteva in uno scudo simile al pélta per forma e dimensioni, una lancia e un paio di giavellotti.
In progresso di tempo, e con il costante deterioramento del sistema di leva interno dell’Impero, l’aliquota dei contingenti mercenari andò aumentando. I re attinsero sia all’interno delle stesse satrapie – come in quelle caucasiche o, più a est, in Ircania e in Battriana – , sia in quei territori ancora liberi ritenuti istituzionalmente una fucina di combattenti di professione. Tali erano, per esempio, la stessa Grecia oppure, in estremo oriente, le regioni del Punjab e del Sind. Molti territori, invece, venivano tenuti in uno stato di blanda soggezione, senza procedere a un’annessione vera e propria, proprio per poterne ricavare contingenti mercenari, come tra i Curdi, i Pisidi, i Misii; in tal modo si evitava l’uniformità con l’esercito nazionale, poiché costoro risultavano più efficaci combattendo con il loro armamento tradizionale.

Combattimento fra Greci e Persiani. Bassorilievo, marmo, fine V secolo a.C. Dal fregio meridionale del Tempio di Atena Nike.

I Greci vedevano questi soldati come peltasti, perché la maggior parte di essi si difendeva con il taka, tanto da essere definiti takabara, “portatori di scudi”, oltre a disporre di una lancia; privi di armatura, essi indossavano un camiciotto, una tunica intarsiata fin sopra il ginocchio e priva di maniche, una calzamaglia e la tiara. Tuttavia i loro compiti erano molto più vicini a quelli di una vera e propria fanteria di linea, e le loro armi più robuste e pesanti. Tra costoro si distinguevano i Licii, menzionati da Erodoto e raffigurati in un rilievo trovato a Konya, armati tutt’altro che alla leggera, con una corazza anatomica dotata di pterugi in vita e spallacci, un elmo con paranaso, paraorecchie e paranuca, alla cui sommità spiccava una cresta rigida, e gambali; il loro peculiare armamento si caratterizzava per uno scudo perfettamente rotondo, più ampio del pélta, per un falcetto in luogo della spada, e per una lancia a due punte, che si potrebbe definire un “bidente”.
Nel complesso, i fanti persiani non valevano granché, e nel IV secolo a.C. si preferì sempre più spesso ingaggiare opliti greci; Ificrate, distintosi per la prima volta in battaglia a soli 18 anni mentre militava nella flotta persiana a Cnido, fu uno dei maggiori comandanti mercenari utilizzati dai Persiani. Ma con il crollo delle sorti spartane dopo Leuttra ci fu un riflusso di combattenti peloponnesiaci, e i Persiani optarono per la creazione di una vera e propria fanteria pesante autoctona; pertanto, equipaggiarono e addestrarono alle tecniche oplitiche 120.000 asiatici, i quali andarono a costituire il corpo dei cardaci che, in verità, non diede gran prova di efficacia durante le guerre macedoni.
Le sempre più frequenti rivolte che contrassegnarono gli ultimi decenni di vita dell’Impero persiano, comunque, resero costante la domanda di soldati da parte dei ricchi satrapi, disposti a spendere grandi cifre per sostenere le proprie ambizioni; dall’altra parte dell’Egeo, d’altronde, le confederazioni che ruotavano intorno alle principali città-stato non sapevano come pagare i loro epílektoi, ovvero le loro truppe permanenti. Per la legge della domanda e dell’offerta, i Greci furono ben lieti, nei pur rari periodi di pace, di prestare i loro contingenti permanenti, costituiti per lo più da peltasti, ai governatori persiani, affinché fossero loro a retribuirli e a tenerli in allenamento.
La cavalleria mercenaria proveniva dalle estreme regioni orientali dell’Impero, tra quei nomadi sciti celebri per la loro efficacia sia come cavalieri leggeri che corazzati. Tra la cavalleria priva di armatura, Erodoto ci segnala i Sagartiani, che combattevano con il lazo, una daga e un’ascia da battaglia, indossavano una corta tunica con i lembi sovrapposti sul davanti e tenuti fermi da una cintura in vita.
Refrattari al dominio persiano, ma fior di combattenti quando erano ingaggiati come mercenari, erano i cavalieri sciti provenienti dalle steppe del Mar Nero. La loro abilità nell’uso dell’arco era leggendaria, anche se nel loro armamento troviamo giavellotti, spade anch’esse piuttosto lunghe, accette. Per quanto concerne l’equipaggiamento difensivo, gli Sciti potevano avere lo scudo o meno, l’elmo o un copricapo di cuoio o di pelle di animale, un’armatura a scaglie o una casacca di cuoio. Nelle raffigurazioni compaiono anche i soli pantaloni con un’armatura a scaglie. Particolarmente temibili erano i Saka dell’Asia orientale, provenienti dall’Indostan settentrionale. Si trattava di cavalieri corazzati in modo assai accentuato, con un’armatura a piastre di metallo sia per l’uomo che per l’animale; bracciali di acciaio ricoprivano il lato esterno dell’avambraccio del combattente, le cui gambe era difese da schinieri divisi in due parti, stinco e coscia, unite insieme sul ginocchio da lacci di cuoio. Il cavaliere utilizzava la lancia per la carica, ma disponeva anche di spada, nonché di arco che, insieme alle frecce, conservava nel classico gorytós.

Cavalleria leggera persiana del IV secolo a.C. Illustrazione di J. Shumate.

Ciascun proprietario terriero al quale il Gran Re aveva affidato i vasti territori che non facevano parte delle circoscrizioni delle città, manteneva una riserva di cavalieri, che metteva a disposizione del sovrano in caso di guerra; gli animali facevano parte dei tributi che i vari territori dell’Impero versavano annualmente al sovrano. Abbiamo una raffigurazione di un nobile anatolico a cavallo, in un dipinto murale in Turchia, vicino Elmali, che mostra una tunica porporata e dei pantaloni, oltre alla tiara e a una lancia. Il cavallo si distingue per un ciuffo ottenuto stringendo la parte sommitale della criniera con un nastrino, alle volte con l’aggiunta di capelli umani. Compare anche una parvenza di sella corazzata, a copertura parziale della coscia.
Non meno di quella mercenaria, anche la cavalleria nazionale persiana costituiva una forza di ragguardevole efficacia. Almeno inizialmente, veniva utilizzata non per lo sfondamento, ma per il tiro da lontano. All’inizio del V secolo a.C. i cavalieri persiani disponevano di un paio di giavellotti e semmai di un arco, di una kopís o di un’ascia. il capo era avvolto in una tiara, il torace da un corsaletto trapuntato rosso sopra una corta tunica marrone e bianca a maniche lunghe, che terminava all’inguine, sopra i pantaloni. La sella era di ottone e i finimenti del cavallo di cuoio, mentre la coda e la criniera erano tenuti insieme da un nastro rosso. col tempo, tuttavia, quella persiana andò sempre più caratterizzandosi come cavalleria pesante, soprattutto nel corso delle endemiche lotte civili del V secolo a.C.; al termine di tale evoluzione, un cavaliere corazzato annoverava nel proprio armamento una lancia, una daga, una mazza, un corsaletto di lino trapuntato forse con borchie di metallo lungo le spalle, forse uno scudo sovente a mezzaluna lavorata, e un arco con almeno 30 frecce nella faretra. Un rilievo rinvenuto in Turchia mostra perfino una protezione per il collo, una sorta di collare rigido, ed esistono anche raffigurazioni su monete di braccia e gambe rivestite di scaglie di ferro. Si conoscono anche selle corazzate, con un pezzo di armatura che partiva dalla sella e proteggeva la gamba, dal bacino al piede. Il capo era ricoperto da un elmo, di cui sono stati ritrovati esemplari in forma conica con sommità appuntita, da una calotta con una cresta in stile greco sulla sommità, o dalla tiara; la cresta era costituita da crine di cavallo disposto a spazzola e da una coda lungo la nuca.

Cavaliere corazzato persiano, epoca achemenide. Illustrazione di J. Burn.

Tra i reparti di cavalleria d’élite, si distinguevano i «congiunti del Re», gli , esponenti della nobiltà che non avevano una vera e propria parentela col sovrano, ma costituivano l’entourage reale e rappresentavano gli amici personali del monarca. Erano pertanto gli unici ad avere il privilegio di scambiare baci con quest’ultimo e di far parte della tavolata del sovrano durante i suoi pasti; a sua volta, il Re testimoniava il suo attaccamento ai propri congiunti onorifici colmandoli di regali, a cominciare dal loro equipaggiamento: una tunica di porpora (kantuš), collana e bracciali, un cavallo dell’allevamento reale, una sella dorata e una daga dorata, detta akinaka, lunga pressappoco quaranta centimetri.
I cavalieri corazzati che costituivano la guardia del corpo di Ciro il Giovane, al cui servizio si pose Senofonte, erano equipaggiati secondo uno stile che tradiva evidenti influenze greche. Due pettorali di lino rivestiti con scaglie di bronzo, sul dorso e sul petto, erano tenuti insieme dagli spallacci e terminavano alla vita con gli pterugi; l’avambraccio sinistro, privo di scudo, era avvolto in una protezione di cuoio. L’elmo aveva solo i paragnatidi, oltre alla calotta, ma alla sommità si dipartiva un piumacchio con crine di cavallo. Le gambe erano protette da gambali a scaglie di bronzo, che le rivestivano fino all’inguine, mentre il piede non disponeva di alcuna protezione se non di una calzatura in cuoio. Le armi offensive consistevano in due giavellotti, detti pálta, e in una kopís. Anche il cavallo disponeva di almeno una piastra metallica appesa al collo e d una sul muso, e la stessa sella era corazzata con dischi di bronzo. Attaccavano solitamente in colonna, con una forza di penetrazione straordinaria, e si possono prefigurare davvero come i primi esempi di cavalleria catafratta, quei “carri armati” dell’Antichità che tanto avrebbero messo in difficoltà i Romani al tempo dei Persiani Sassanidi.